Henning Köhler

Il miracolo di essere bambini*

 

 

* Il presente testo si basa su una conferenza che ho tenuto alla Società Montessori in Austria nel 1998.

 

In veste di difensore dei bambini cosiddetti difficili o con disturbi nel comportamento ho viaggiato molto negli ultimi dieci anni tenendo conferenze e seminari; da venti anni svolgo la mia professione in questo ambito e ho notato che quando si cerca di proporre nuove visioni sull’argomento, non sempre si ha un buon riscontro. Innanzitutto, prima di parlare brevemente del mio ambito di lavoro, vorrei esprimere un’ipotesi, sperando che essa diventi man mano più chiara e comprensibile nel corso della mia relazione. Si tratta di un’ipotesi molto semplice; alcuni di voi, forse, la troveranno evidente, altri la riterranno alquanto discutibile. Io affermo che nel momento in cui un uomo viene al mondo, quando un uomo nasce, è conformato in modo tale da non avere nulla di maligno né esteriormente né interiormente. Una definizione del termine “maligno”, che potrebbe, forse, accontentare un po’ tutti, è l’impulso alla ‘distruttività’. Un uomo è distruttivo quando, invece di esprimere le proprie capacità e forze in una qualsivoglia maniera costruttiva per la vita comune e nel rapporto con gli altri, si trova nella situazione, per un motivo qualsiasi, di fare uso delle sue capacità e forze recando danno agli altri. Quando ciò avviene, ovvero, quando un individuo più tardi, forse già nell’età scolastica oppure da ragazzo, usa le sue forze e i talenti a sfavore del suo prossimo, allora questo significa che non gli è stato possibile impiegare le proprie forze e capacità in modo determinante fino a quel momento (oppure che ne aveva avuto l’occasione ma essa è andata perduta): non gli è stato possibile utilizzare le proprie capacità in modo proficuo per la vita sociale degli uomini. Un indizio riguardo all’autenticità di quest’ipotesi può essere l’osservazione di un fatto reale, e ogni pedagogo attento se ne sarà già accorto. Non c’è niente di cui un bambino, o meglio, ogni bambino vada più fiero della gratitudine di un adulto, gratitudine rispetto a qualcosa che il bambino ha creato nella sua interiorità più intima e ha poi offerto in dono. In nessun’altra circostanza possiamo vedere in modo così elementare e straordinario come ‘cresce’ un bambino; esso non ‘cresce’ nel senso di riempirsi di autocompiacimento o nel senso di diventare vanitoso ma cresce veramente nella sua personalità. Quando si presenta una situazione in cui un bambino trova l’occasione di offrire ad un altro qualcosa che ha creato da solo, qualcosa che ha realizzato con le proprie forze, la sua personalità ne viene immediatamente rafforzata. In quell’istante potremmo avere la sensazione che, nell’arco di qualche minuto, il bambino compia un vero e proprio ‘salto evolutivo’. Ciò avviene quando il bambino sente che la persona che gli sta dinnanzi prova autentica gratitudine e non si crea quell’atmosfera di critiche in cui il maestro ad esempio afferma che il dipinto è bello, ma che il bambino avrebbe potuto disegnare le figure degli adulti in maniera più precisa. Quando non subentra l’atteggiamento critico e quando il bambino sperimenta che viene valorizzato il suo gesto fondamentale di essersi impegnato creando qualcosa di bello per un altra persona e di regalare la sua creazione, allora possiamo avere l’impressione che il bambino compia un vero e proprio salto nella sua evoluzione. In una tale atmosfera è come se i bambini si innalzassero interiormente.

Sono veramente vicini alla loro essenza, al loro sé. Quindi, io penso che ciò che avvertiamo in queste situazioni e ciò che i bambini stessi ci indicano, ci mostri una profonda verità; noi stasera vogliamo avvicinarci ad essa illuminandola da vari punti di vista.

 

Nel senso più lato vogliamo domandarci in cosa consiste una vita ‘significativa’, ossia ‘ricca di senso’, e cosa dovremmo fare dal punto di vista pedagogico per creare un ambiente in cui i bambini possano diventare sempre più consapevoli riguardo al mondo e a loro stessi e possano sperimentare il loro sviluppo come una vita, appunto, ricca di senso. Si parla molto di ‘armonia’. Si dice spesso che un bambino debba crescere in modo sano e possibilmente lontano dai conflitti. Non vorrei offendere nessuno ribadendo che a volte ho l’impressione che le persone abbiano un concetto alquanto indefinito di armonia, salute, benessere dell’anima e del corpo e della sensazione di essere soddisfatti con sé stessi e il mondo; tali aspetti vengono spesso considerati obiettivi da raggiungere senza affrontarli con spirito critico. Quando invece indaghiamo più da vicino e prendiamo come esempio le biografie di persone che hanno evidentemente vissuto una vita ricca, piena di senso e, forse, tempestosa ma creativa, allora possiamo vedere che queste persone non erano affatto equilibrate durante la loro infanzia e giovinezza!

 

Non possiamo trovare dunque la risposta alla nostra ricerca del ‘senso’, che a mio avviso è quella fondamentale, quando escogitiamo misure di tipo pedagogico o terapeutico che rendono l’uomo “contento di se stesso e del suo pane bianco” come dice James Hillmann. Tuttavia, prima di continuare su questo percorso vorrei dire qualcosa sull’ambito di lavoro che forma la base per queste esposizioni.

 

Io lavoro in un centro medico, in tedesco “Therapeutikum”, e vi spiegherò meglio di cosa si tratta: è un centro per cure e terapie ambulatoriali presso il quale medici, psicologi e terapeuti con svariate specializzazioni lavorano insieme per aiutare bambini, ragazzi ed adulti che si trovano in ogni sorta di crisi di vita o in situazioni dolorose. Abbiamo fondato questo centro medico esattamente 12 anni fa nella Germania del sud e io lavoro al suo interno insieme ad una serie di collaboratori nell’ambito della terapia infantile e giovanile. Le nostre competenze riguardano tutte quelle situazioni in cui l’intervento di un medico e la somministrazione di farmaci non vengono ancora ritenuti necessari; interveniamo anche quando non abbiamo ancora l’impressione che il bambino debba essere ricoverato e assistito a tempo pieno, che debba essere strappato dal suo contesto di vita e portato velocemente in una clinica o un istituto. Inoltre ci impegniamo per quei bambini che rischiano una patologia anticipata o precoce. Vorrei aggiungere che questo aspetto mi preoccupa molto e sempre di più. Al giorno d’oggi è molto diffuso il ‘vizio’ di giudicare i bambini che non si comportano o sviluppano come ci si aspetta e di attribuire loro certi concetti diagnostici che invece riguardano malattie. Bisogna tenere conto di questa tendenza attuale e guardarla molto attentamente; penso che tutte le persone che cercano nuove prospettive nel campo della pedagogia e della terapia dovremmo opporre resistenza. Quest’attuale tendenza è sconvolgente e allarmante. Il motto è: ‘patologizzazione’ del bambino singolare, che non corrisponde alla media! Siccome sempre più bambini non si comportano secondo la norma, dal punto di vista della psicologia dello sviluppo (qui le cause possono essere molteplici), sempre più bambini vengono trattati come “casi patologici” ed essi debbono affrontare il loro percorso di vita con l’impronta del ‘disturbo della personalità’. Non è certo un aspetto trascurabile. Noi riteniamo che sia nostro compito aiutare più casi possibili, genitori, insegnanti, maestri d’asilo, educatori ed anche i medici eventualmente coinvolti, indicando loro un punto di vista diverso. Questo è per noi un compito molto importante. Posso anche assicurarvi che il compito di creare una base per gli interventi di pedagogia curativa vera e propria è estenuante e, a volte, anche deprimente. Ciò nonostante, è necessario tentare. Vorrei dire anche qualcosa in merito a questo nuovo sguardo, alla possibilità di una visione del comportamento infantile ‘divergente’, ovvero, che ‘devia’.

 

Dalle mie parole avrete intuito che non credo che un bambino che ci crea dei problemi e che ci pone davanti a dei problemi in senso pedagogico, debba necessariamente avere qualcosa di sbagliato, ossia, qualcosa che abbia a che fare in qualche modo con una mancanza dovuta all’educazione oppure con un disturbo nel comportamento. Anzi, credo che in molti casi, in cui si valuta troppo velocemente che debba esserci una mancanza di fondo nell’educazione oppure un disturbo nel comportamento, si instauri un circolo vizioso; credo che in molti casi proprio questa supposizione, e tutto ciò che ne consegue, conduca a processi che portano alla malattia.

 

Il nostro istituto si chiama “Janusz Korczak”. Fu medico, poeta e pedagogo. In realtà, egli non ha sviluppato alcun teoria, ma ha praticato una pedagogia “narrativa” che racconta e che guarda il bambino in maniera infinitamente amorevole ma anche obiettiva. Ciò che invece ci ha indotti a sceglierlo come “patrono” è stato soprattutto la sua coerenza con cui ha portato fino in fondo, fino alla morte il suo amore per i bambini. […] Inoltre, altri tre aspetti rendono quest’uomo degno di rispetto. I miei collaboratori ed io nutriamo una profonda devozione nei suoi confronti. Il primo aspetto risiede nel suo metodo pedagogico che ha una connotazione decisamente individualistica. Con ciò voglio dire che Korczak non si stancò mai di dire: i bambini nella forma plurale generica non esistono affatto! Tra l’altro, questo fu il motivo per cui egli non elaborò mai una teoria che fosse irremovibile come un edificio. Secondo Korczak esiste un’infanzia, e per ciascun essere vivente essa rappresenta qualcosa di completamente diverso, di speciale, qualcosa di veramente unico ed irripetibile. Non possiamo comprendere i ‘bambini’ in generale, ma solamente il bambino che ci è stato affidato, e solo nel preciso momento in cui lo guardiamo questa caratteristica individualistica mi è molto congeniale; essa rientra perfino nel tema della mia esistenza e la tengo bene a mente nel mio lavoro con i bambini. Quando mi trovo davanti ad un bambino e sono confrontato con la sua sofferenza, cerco di mettere da parte gli schemi fissi, i concetti della norma dal punto di vista della psicologia dello sviluppo, senza per questo gettarli via completamente.

In attimi come questo non mi interessa come ‘dovrebbe essere’ un bambino. In una situazione simile mi interessa soltanto l’uomo che mi sta dinnanzi. Cosa enuncia questa sofferenza? Quali sono i ‘messaggi in codice’ nascosti che posso decifrare con l’aiuto della mia attenzione acuita e costante? Posso forse aiutare il bambino, cercandodi comprendere cosa vuole esprimere con i suoi singolari modi di comportamento? Korczak ha collegato questa visione individualistica al postulato dell’uguaglianza, e in questo egli fu rivoluzionario per i suoi tempi; io aggiungerei che lo è ancora oggi, nonostante nel frattempo molti si ‘riempiano la bocca’ con questi concetti. Come anche Maria Montessori, Korczak sosteneva con vigore che il bambino debba essere equiparato all’adulto: il bambino non deve diventare un essere umano. Esso lo è già, nel senso più completo. Quando Korczak parlava di ‘un bambino’, egli si riferiva anche al neonato nella culla! Un bebè è pienamente ‘uomo’, sia nell’anima che nello spirito! Non si può fare alcuna esclusione!

 

Il secondo aspetto che ho acquisito, come oserei dire, da Korczak, risiede nel motivo del rispetto per il destino. Korczak non ha sviluppato alcun concetto di destino, ovvero, non si è mai espresso

a riguardo. Diceva: il neonato è come un foglio di carta che porta migliaia di piccole iscrizioni geroglifiche e noi non riusciamo ad interpretarne che alcune. A questo punto però egli devia un pochino e si perde in immagini di antenati e sepolcri e infiniti passati di padri e trisavoli. Si nota dunque che la sua capacità di comprensione termina laddove tenta di carpire il concetto del destino, e io penso che questo, probabilmente, accadrebbe a tutti noi. Tuttavia, egli nutriva un rispetto profondo per il destino. Questo sentimento era talmente forte in lui che s’arrischiò di dire: ‘Ogni bambino ha un diritto alla propria morte’. Anche questa è una delle tante espressioni enigmatiche di Korczak e non diede mai alcuna spiegazione in proposito. Abbiamo davanti un argomento per la meditazione. Penso che, particolarmente in quest’affermazione, si esprima il suo rispetto e la sua devozione. Voleva dire: come educatore è necessario portare fino in fondo il proprio compito e chiarirsi su quanto segue: se il destino vuole che un uomo perda la sua vita prematuramente e non muoia tranquillamente di vecchiaia, allora questo è un aspetto che dovremmo rispettare e che non possiamo cambiare; non si dovrebbe mai pensare che l’educatore possa influire su queste cose.

Ogni vita ha la sua misura! Ora vi ho mostrato quant’era radicale Korczak, a volte: il diritto del bambino alla sua stessa morte!

 

Il terzo elemento che emerge dal suo lavoro consiste nell’esigere gratitudine. Korczak era esigente, non pretenzioso veramente, perché non ha mai preteso nulla. Egli chiedeva però: può essere che un educatore non sia grato ad un bambino?

Anche la semplice possibilità che un educatore non mostrasse gratitudine al bambino, a Korczak sembrava del tutto inverosimile. Voi sapete tutti che ci troviamo di fronte a diverse manchevolezze rispetto alla questione della gratitudine espressa da genitori, insegnanti, maestri d’asilo, da noi terapeuti - e qui includo anche me stesso. Per essere sinceri, a volte ci accorgiamo di non nutrire gratitudine nei confronti del bambino e di essere addirittura turbati perché essi non ci sono grati per il nostro impegno nell’educarli. Korczak invece sosteneva: i bambini non debbono esserci grati perché noi li educhiamo! Piuttosto, siamo noi a dover essere grati, perché essi si affidano a noi e riempiono di luce la nostra vita!

 

Un’altra figura importante per il nostro lavoro e per il mio impegno è Rudolf Steiner, il fondatore della pedagogia Waldorf; anche lui mise al centro delle sue considerazioni sulla pedagogia il tema della gratitudine. Egli sosteneva che la gratitudine nei confronti del bambino fosse una ‘regola aurea, fondamentale per l’arte della pedagogia’. Con la sua stessa vita Korczak dimostrò come l’amore ed il rispetto per l’individualità del bambino possono essere portati fino all’ultima conseguenza ed egli lasciò questo suo impegno in eredità ai posteri. Vorrei però segnalare un ulteriore aspetto: nel lavoro di Korczak appare ripetutamente l’ ‘idea dell’infanzia’. Egli sosteneva che l’infanzia fosse qualcosa di universale e non solo un indice di età. Secondo lui è profondamente sbagliato ritenere la pedagogia la scienza del bambino e non la scienza dell’uomo.

 

Torniamo al primo punto del pensiero individualistico nella pedagogia. Rudolf Steiner ha ampliato radicalmente questo pensiero dell’individualità come lo troviamo da Korczak e lo ha portato a compimento. In questo suo lavoro Steiner ha raggiunto dei risultati che sono talmente sbalorditivi che non possiamo semplicemente acquisirli senza esaminarli da vicino. Sono dell’idea che sia necessario valutare senza pregiudizi il pensiero di Steiner, ma che non lo si deve soltanto ‘recitare come fosse una preghiera’. Talvolta, certe persone che come me provengono da un orientamento antroposofico hanno l’abitudine di voler ‘indottrinare’ gli altri pretendendo che le indicazioni di Rudolf Steiner vengano semplicemente accettate, come se si trattasse delle Sacre Scritture. Non sono affatto di questo avviso. Penso invece che bisognerebbe prendere in esame seriamente molti aspetti dell’opera di Rudolf Steiner, anche se possono sembrarci inusuali. Prendiamo, ad esempio, il modo in cui egli ha completato il suo pensiero sull’individualità, constatando con una certa radicalità: “l’individualità esiste veramente a tutti gli effetti oppure non esiste affatto!” Non facciamone dunque un gran mescolone! Siamo chiamati a scegliere! Se esiste veramente un’individualità e se un bambino, quando nasce, è un essere unico e inconfondibile e ne dobbiamo rispettare la sua unicità, allora non può essere vero che esso viene al mondo corne, un ‘foglio bianco’! Queste due premesse non sono compatibili tra di loro. - Ora alcuni, tra sé e sé, penseranno: ma chi, oggi, parla ancora della ‘tabula rasa’? Oggi tutto il mondo parla del programma genetico! Una programmazione non rappresenta però alcuna individualità. Anche qui dobbiamo scegliere.

 

Steiner sosteneva invece: l’aspetto veramente individuale del bambino è un terzo elemento, che si trova al di là dell’ereditarietà, della conformazione genetica e dell’impronta ambientale, al di là di tutto ciò ma allo stesso tempo strettamente connesso. Egli diceva anche che questo ‘terzo elemento’ dovrà diventare il principale oggetto di ricerca nella scienza della pedagogia e, dell’antropologia in genere; ciò avverrà nella prossima epoca culturale in cui la rappresentazione meramente materialistica dell’uomo verrà sostituita da una rappresentazione spirituale.

La scienza non riesce ancora a vedere questo terzo aspetto. In questo ambito essa si trova ancora agli inizi, così come si trovava agli inizi nella ricerca sulla genetica due o tre secoli fa. Rudolf Steiner affermava che nel bambino, oltre alla conformazione genetica e agli influssi che provengono dall’educazione e dall’ambiente, opera un impulso biografico autonomo e dinamico, ovvero, una motivazione sui generis. Soltanto se teniamo in considerazione quest’aspetto, riusciamo a portare stima al bambino in quanto persona e trattarlo con equità sin dalla nascita, come suggeriva Korczak. Altrimenti, il postulato dell’uguaglianza resta una sorta di dichiarazione d’intenti. Questo concetto richiede ovviamente rispetto per il destino. Esso rende necessario il rispetto per il destino e lo contiene di sua natura (implicando il secondo aspetto che Korczak metteva fortemente in rilievo). Rispetto per il destino significa che il bambino ha diritto ad una vita propria, a cui è connesso anche il diritto alla propria morte, ha diritto ad un suo destino con i suoi alti e bassi; rispetto per il destino significa inoltre che l’uomo abbia l’opportunità di rispettare anche la propria sofferenza, i conflitti che trova e che deve sostenere mentre cerca il tema della propria vita, quando cerca sé stesso. Questo è quanto bisogna chiedersi, esaminare con accuratezza, ed è nettamente in contrasto con quel nebuloso concetto di armonia. Cosa vuole un uomo qui, su questa terra? Cosa gli dice il suo angelo? James Hillmann*, ad esempio, ci esorta a ‘vivificare’ nuovamente il mito dell’angelo come entità che governa il destino. Hillmann è un cosiddetto dissidente della scuola di Jung e attira l’attenzione del pubblico con i suoi libri ricchi di provocazioni e stimoli in cui reclama una nuova concezione dell’uomo. […] E’ proprio uccidendo un uomo che si infrange il ‘diritto alla propria morte’. Korczak intende dire: portate rispetto per la libertà dell’uomo, anche quando egli va incontro a dei pericoli! Quel sapere nascosto che ci conduce nella vita, può anche essere un sapere della propria morte....

 

Ora noi ci occuperemo più del mistero della nascita che della questione della morte. A questo punto vorrei nominare Maria Montessori. Se parlo di lei non è perché essa rappresenta un punto di riferimento e di orientamento per molti qui presenti in questa sala. Maria Montessori mi accompagna da molto tempo. In effetti, quando ci si occupa delle nuove tendenze nella pedagogia e nella terapia, non può essere altrimenti. Nel mio libro (Non esistono bambini ‘difficili’, Verlag Freics Geistesleben) ho incluso appositamente Maria Montessori, riferendomi ad essa e cercando anche di creare un nesso tra il suo pensiero e le idee di Rudolf Steiner. Altri autori hanno fatto la stessa cosa. L’editrice Koesel-Verlag ha pubblicato un libro di Marielle Seitz e Ursula Hallwachs che s’intitola Montessori o Waldorf? che offre un aiuto per orientarsi. In questo testo i due metodi non vengono contrapposti, gli autori tentano bensì di illustrare che stiamo vivendo un cambiamento di paradigmi. Gli uomini non si accontentano più di interpretare la propria storia come un susseguirsi di causalità. Questo modo di vedere non serve assolutamente a scoprire perché siamo qui, cosa dovremmo fare della nostra vita oppure quale è il nostro destino individuale. La psicologia attuale, come viene praticata, è una psicologia deduttiva, secondo cui non siamo altro che un risultato. Il modello secondo cui abbiamo interpretato la nostra vita nel ventesimo secolo si sta dissolvendo. Non ci è stato d’aiuto. Nella maggior parte delle culture del mondo possiamo trovare un mito universale che dice che un bambino giunge su questa terra con una missione, con un destino individuale. Questo mito potrebbe aiutarci a vedere la nostra vita in una luce del tutto nuova. Credo che questo sia, tra l’altro, il motivo per cui lo stesso mito venga compreso immediatamente ‘con il cuore’. Esso soddisfa direttamente una profonda necessità, che invece non viene colmata con la visione genetica o quella ambientale del nostro destino. Hillmann spiega anche che questo ‘mito’ veniva coltivato in molte antiche culture. Prosegue parlando delle conseguenze pedagogiche di questo pensiero e afferma, in particolare, che come educatori siamo tenuti a valutare che esiste una guida del destino, ovvero l’ “angelo”, il “daimon” o il “genio” del bambino, il quale custodisce la conoscenza della “missione”. Hillmann sottolinea che non si riferisce alla dottrina calvinista della predestinazione o a qualcosa del genere. Ciò che lui vuole esprimere assomiglia più all’immagine che avevano i Greci del destino e che essi definivano ‘moira’; essi sostenevano infatti che esiste qualcosa che ci viene ‘assegnato’ e che in questa vita si manifesta come la nostra volontà più intima e propria. Hillmann afferma: ‘Si tratta di un compagno invisibile, il quale non influisce però su ogni movimento oppure su ogni decisione, ( ... ) che, a voce bassa, ci mette in guardia e ci incoraggia e che ci spinge in una certa direzione. La ‘moira’ può manifestarsi come un certo talento o una precisa disposizione, ma anche come disturbo o eventuale stranezza ( ... ). Ciò che noi chiamiamo ostinazione, comportamento ,coercitivo oppure ossessione, dedizione’. Hillmann critica il 1inguaggio negativo che si usa per molte forme di “comportamento”, e a cui ci siamo abituati. ‘In molte culture, cosiddette primitive, gli anziani si occupano subito di un bambino che si comporta in maniera così singolare e lo tengono sotto osservazione. In questo modo si dà spazio alla sua peculiarità, alla sua

unicità e al suo particolare talento’. Così si risaltano la qualità, l’originalità del comportamento e non invece il ‘disturbo’. Possiamo davvero imparare molto da questo esempio! Hillmann conclude le sue considerazioni accennando ai numerosi personaggi famosi e creativi, i quali da bambini erano estremamente ‘insoliti’ e soffrivano perché li si riteneva ‘disturbati’. Quando un bambino si comporta in maniera riluttante e noi non ne vediamo il motivo, quando prende volutamente brutti voti, oppure ‘sogna’ a scuola, allora c’è qualcosa che si esprime in esso che noi non vogliamo riconoscere. Ouesto ‘qualcosa’ rifiuta di adattarsi alla pressione che viene dall’esterno”. Questo è ciò che dice James Hillmann.

Dobbiamo pertanto tenere ben presente che l’epoca attuale esercita una pressione enorme sugli uomini per farli adattare alle circostanze. Questa pressione è così sottile e così ‘normale’ che di solito non la avvertiamo nemmeno più coscientemente. Una delle peculiarità della nostra epoca consiste nel fatto che il genio, l’angelo del bambino (o come vogliamo chiamare quell’entità misteriosa) non riesce ad esprimersi se non come insolenza, ‘pigrizia’, resistenza, ovvero come ‘disturbo’. Anche James Hillmann è dunque un ricercatore che segue la traccia dello ‘spirito che si incarna’. Si tratta della stessa traccia che aveva trovato anche Maria Montessori, grazie alla sua capacità di percezione che vorrei definire ‘intuitiva’. Ella parla ripetutamente del mistero che non dobbiamo ‘violare’, ma che dobbiamo rispettare, o più ancora, venerare. Anche Steiner non si stancava di nominare l’aspetto del mistero. Egli dice che l’essenza del bambino non può essere colta con la semplice ragione, che essa può essere non compresa affatto; possiamo però favorire quest’essenza con la nostra attenzione, circospezione, dedizione. Troviamo quindi la stessa posizione nell’opera di Maria Montessori. La troviamo in Steiner e Korczak. Anche i cosiddetti dissidenti della scienza tradizionale dichiarano sempre più spesso: il destino individuale, unico, esiste! Portategli rispetto, altrimenti non riuscirete mai a comprendere il bambino!

 

Quando iniziai a sviluppare il mio pensiero pedagogico ero un seguace di Alexander S. Neill. Il pensiero dell’educazione antiautoritaria mi aveva veramente entusiasmato.

Con il tempo molti aspetti hanno, per così dire, trovato il loro giusto peso, tuttavia vorrei dire qualcosa in difesa di Neill. Spesso sento dire: “E’ stato lo sbaglio del nostro secolo!” (quello trascorso del 900 ndt) o altro ancora. Quel ‘pasticcio’ nel mondo dei bambini che la società moderna e la cultura attuale è stato addirittura attribuito a coloro che intendevano apporre un cambiamento al processo come causa del “pasticcio”. C’è chi dice che l’educazione anti-autoritaria sia responsabile dei numerosi ‘disturbi’/ che molti bambini oggi hanno. E’ una sciocchezza bella e buona. Chi conosce Neill sa che il suo più fervido impegno voleva che l’idea dell’infanzia si affermasse. Con ‘idea’ dell’infanzia intendo un’etica che rispetti incondizionatamente l’individua del bambino; è una questione di principi. Dal punto di vista pedagogico o terapeutico non serve a niente adottare una certa metodica piuttosto di un’altra. Ogni metodo, anche il migliore, si trasforma in una tecnica di produzione per confezionare bambini “a norma”, se non viene invece affiancata da un’etica pedagogica che è al di sopra di ogni conflitto d’interessi. Dal punto di vista etico Neill ha riconosciuto e difeso un elemento incredibilmente importante: l’individualità realmente presente, che deve essere sostenuta fin dalla prima ora.

Il movimento anti-autoritario manifestava delle strane contraddizioni per quanto riguarda le sue premesse antropologiche. Noi dicevamo: l’individualità è la cosa più sacra, essa deve e può svilupparsi in maniera autonoma e non ha bisogno dell’educazione. Fin dal primo secondo il bambino sa cosa vuole nel suo intimo. D’altro canto, ai seminari di politica parlavamo del materialismo dialettico come di una dottrina. Cosa dice il materialismo dialettico? Esso sostiene che l’uomo proviene dal nulla, come un foglio di carta su cui non è stato scritto nulla, e che tutto deriva dall’educazione. […] Vedete, la cosa è andata in frantumi proprio per questa antinomia. Non si poteva portare aventi una tale contraddizione. Anche qui ci trovavamo di fronte a una scelta: il bambino, o è un’individualità che sin dall’inizio deve essere rispettata, oppure è un foglio bianco. Se è un foglio bianco, dobbiamo scriverci. Dobbiamo scrivere secondo l’idea che ci siamo fatti in principio, poiché, altrimenti, non sapremmo cosa scrivere. Se il bambino è un’individualità fin dall’inizio, allora noi dobbiamo cogliere la sua volontà individuale scoprendola, stimolandola, e nell’educazione dobbiamo imparare a plasmare il nostro agire, accrescendo la nostra attenzione ed usando molta sensibilità per intuire gli impulsi individuali del bambino: dovremo agire secondo la situazione, la nostra intuizione e lasciandoci guidare dal bambino stesso. Volevo aggiungere ancora qualcosa riguardo a Neill. Nel dettaglio lo si può criticare quanto si vuole, ma in un punto fondamentale egli ha ragione. Il pedagogo Werner Kuhfuß ha descritto questo punto cruciale con le seguenti parole: “Il fattore più sacro ed intoccabile che caratterizza il rapporto di adulti e bambini è la volontà del bambino!” Non la si deve indebolire facendo pressione, ma deve essere ‘chiamata’ e fortificata con la giusta ‘attrazione’ (contrapposta alla ‘pressione’). Dobbiamo necessariamente partire dal concetto che il bambino viene al mondo con una volontà individuale, con un impulso individuale e biografico che segue una certa direzione. Se riusciamo ad accettare ciò, allora succede che, come afferma Kuhfuß, “ogni attrazione o richiamo, effettuato verso la giusta direzione e con il giusto atteggiamento, arreca forza e rassicurazione. Ogni eventuale pressione, anche se eseguita con il migliore degli intenti, provoca indebolimento”. In quest’occasione lascio ancora una volta la parola a Rudolf Steiner: “Esiste un unico educatore ed è ‘l’uomo-fanciullo’ nei confronti di sé stesso. La pedagogia rappresenta l’arte di dargli l’opportunità di educare sé stesso”.

 

La trascuratezza programmatica (a grandi linee) del bambino, che in alcuni settori dell’ambiente anti-autoritario veniva presentata come la ‘nuova pedagogia’, non fu, naturalmente, la giusta conseguenza. Si trattava di un grave disconoscimento della ‘condition humaine’. Consideriamo la particolare plasticità fisiologica e neurologica dell’uomo (nessun’altra specie è così duttile, plasmabile, aperta ad essere formata ed allo stesso tempo capace di plasmare se stessa) e teniamo conto della sua particolare flessibilità, ossia della capacità di trasformare i suoi schemi comportamentali, di variarli ed addirittura di rivoluzionarli. Soprattutto nel primo stadio del suo divenire l’essere umano ha dunque bisogno di un ambiente protetto e di un sostegno che tiene conto di questa straordinaria ricettività e di questa contraddizione tra capacità plasmatrice e plasticità. Non lo vedevamo nel periodo anti-autoritario. L’essenziale è la caratteristica fondamentale dell’individualità. Non dobbiamo però dimenticare l’aspetto della malleabilità! Ogni impressione ‘si imprime’, anche ciò che non viene percepito attraverso gli occhi, le orecchie, il gusto, l’olfatto ecc. Esistono dei livelli di percezione più sottili. I bambini percepiscono in maniera molto diversa rispetto a noi adulti. Non dobbiamo mai dimenticarlo. Se studiate i diversi livelli di percezione dell’uomo, così come li ha descritti Jean Gebster, il famoso studioso della coscienza, troverete per esempio che certi livelli dello sviluppo umano vengono attribuiti alla cosiddetta coscienza magica e mistica e Gebster elabora anche criteri differenziati a riguardo. Poi egli prosegue con diversi altri livelli fino a raggiungere la coscienza intellettuale-astratta, ovvero ciò che noi oggi definiamo ‘intelligenza’. Ciò che Gebster scrive sulla coscienza magica-mistica, ricorda fortemente i livelli pre-intellettuali della percezione di se stessi e del mondo come la possiamo osservare nei bambini. Questa coscienza magica, che possiamo definire anche sensitiva, ‘chiaro-senziente’, si colloca nei processi della percezione che avvengono completamente al di fuori dell’abituale ambito sensorio e dobbiamo tenerlo ben presente. Dobbiamo quindi presupporre una incredibile finezza, indubbiamente ‘soprasensibile’, nel sentire e nel percepire! Con altre parole: Una pedagogia che si basa su una scienza globale dell’uomo deve tenere conto anche di ciò che avviene negli ‘spazi intermedi’. Quindi, dobbiamo chiederci: cosa pensiamo e in che modo pensiamo nei riguardi del bambino? Come sono i nostri sentimenti rispetto al bambino? I bambini si rendono ben conto di questi fattori! La coscienza magica e sensitiva si interseca con quell’elemento inesprimibile e non espresso che opera tra gli uomini. A questo livello, l’attenzione amorevole è una manifestazione di calore realmente percepibile anche a grandi distanze. Ci si pensa troppo poco. Vi faccio un esempio: avete mai pensato che il modo in cui si svolgono i colloqui nei collegi didattici, alla scuola materna, a scuola, tra i genitori oppure tra genitori e insegnanti abbia un’azione diretta qualitativamente? Lo avete mai considerato un autentico fattore pedagogico? Chi di noi prende in considerazione che i bambini possono entrare in comunicazione con noi in una maniera che supera il nostro modo di ragionare quotidiano? Mi spiego meglio: il modo in cui parliamo di un bambino e lo spirito che vive nei nostri pensieri, sentimenti, colloqui riguardo al bambino formano gia la mezza educazione! Cosa succede dunque quando classifichiamo un bambino definendolo “disturbato” e sviluppiamo il relativo atteggiamento interiore nei suoi confronti? Un tale atteggiamento non rimarrà nascosto al bambino! Esso lo percepisce letteralmente ‘nel sonno’, in maniera molto profonda! Ci possiamo porre la domanda: intorno al bambino, nella sfera spirituale-animica, si crea forse un’atmosfera che lo disprezza e lo valuta in modo negativo oppure c’è o si crea un’atmosfera che possiamo definire dignitosa? Un’atmosfera dignitosa per il bambino si crea, quando ‘ci si intende’ secondo lo spirito dell’amore e del rispetto per comprendere chi è questo par ticolare bambino e come lo si può aiutare ad esprimere la sua individualità. Il clima che si crea invece quando il cosiddetto bambino ‘difficile’ viene umiliato, quasi fosse un ‘portatore di sintomi’ e che deve quindi essere riportato alla misura normale con i più svariati interventi di ‘riparazione’, è puro veleno per l’ambiente di vita! Mi capita spesso di provare stupore per la cecità di coloro che non si accorgono o addirittura non vogliono vedere che molti bambini esposti a questi influssi ‘tossici’ diventano ‘resistenti agli interventi educativi e terapeutici’, come si suole dire, poiché non sono in grado di sopportare la disistima, lo ‘sguardo che disprezza’ come lo ho definito nel mio libro Non esistono i ‘bambini difficili’ (Schmierige Kinder gibt es nicht,Henning KoehIer. Verlag Freies Geistesleben)! Luomo è un essere molto vulnerabile. Pur rispettando il bambino nella sua libertà, dobbiamo offrirgli un ambiente che lo protegga., lo avvolga e lo riscaldi. Dobbiamo creargli uno ‘spazio di protezione’, un ambiente protetto. Questo è un principio fondamentale per l’educazione moderna. Voi tutta sapete che l’eccessiva stimolazione – un termina che oggi viene usato da tutti – rappresenta un grosso problema; dalle mie parole potete intuire che il problema è più vasto di quanto si crede comunemente. Contro la freddezza dei nostri tempi è necessario creare uno spazio di protezione, un ambiente protetto in cui si avverte calore nei rapporti sociali, in cui vige il pensiero gentile ed amichevole e l’interesse reciproco, e ciò ha, come minimo, la stessa importanza di colori belli, bella musica, bei materiali da gioco.

 

Un altro aspetto consiste nel favorire la creatività. Nella fase anti-autoritaria eravamo del seguente parere: un bambino diventa creativo da sé ed in ogni situazione di vita, ad eccezione di situazioni estreme di difficoltà, carenze o abbandono. Credevamo che se li avessimo semplicemente lasciati senza intervenire, sarebbe nata da sola la genialità del libero artista. Questa, naturalmente, è una stupidaggine. Basta osservare lo sviluppo infantile e considerare l’aspetto del movimento, guardare attentamente le fasi di integrazione senso-motorie per rendersi conto che il bambino acquisisce una certa facoltà di auto-percezione e un certo dominio sul suo corpo fisico, che gli renderà possibile creare qualcosa, molto lentamente negli anni, attraverso il processo di imitazione. E’ un percorso complesso e pieno di ostacoli. Su questo percorso il bambino vuole, e deve essere accompagnato e favorito. Il supporto non consiste affatto in continui ammonimenti e correzioni […] esso non consiste in esortazioni e divieti (non li si può sempre evitare, ma essi non educano!), ma nel nostro impegno di fare tutto il possibile per invitare ed incoraggiare il bambino all’imitazione. Qui l’imitazione è un elemento centrale. Una volta lessi che Maria Montessori diceva: non l’imitazione è importante ma l’azione libera. Qui non dobbiamo lasciarci confondere. Il concetto dell’imitazione a cui si riferiva Montessori in quel frangente, non è quello che noi stiamo prendendo in considerazione ora. Ciò che giustamente Montessori giudica con un certo scetticismo, è l’imitazione meccanica, obbediente. Mi sto riferendo ad un concetto di imitazione ben preciso, cioè all’attività del bambino di percepire i processi in movimento con l’aiuto della sua volontà creativa e di acquisire ed esprimere questi processi in maniera produttiva. Chi ha a che fare con bambini piccoli sa che essi esprimono una qualità meravigliosa. Dal profondo del suo cuore ogni bambino dice: “Voglio anch’io, voglio anch’io, voglio anch’io”. Ogni bambino sano dice questo. Fare qualcosa insieme agli adulti, eseguendo questo atto attraverso l’imitazione e la creatività, riempie il bambino di profonda soddisfazione. Questa maniera di imitare è straordinariamente importante! Anche qui incontriamo il tema della “zona di protezione pedagogica”. Oggi i bambini vengono esposti a una sovrabbondanza di impressioni che richiedono troppa attenzione e che li confonde […]. Soprattutto nell’ambito del movimento troviamo processi utili e vivificanti, per esempio nell’ambito del linguaggio dei gesti, nell’ambito della danza, delle esercitazioni con il ritmo e nella pantomima. In queste attività i bambini si sentono pienamente compresi e accettati e possono esprimere il loro “essere bambini”. Un bambino seduto davanti al televisore non può imitare proprio niente! Avete forse osservato un bambino quando imita i film televisivi. È così bizzarro! È impossibile. Non si può imitare nemmeno il frullatore o un macinino per il caffé. Quando invece la mamma sbatte le uova con la frusta oppure macina il caffé con il vecchio macinino a manovella, allora sì che c’è qualcosa da imitare! Io parlo di cose semplici. Se è proprio necessario, i bambini riescono anche a imitare una macchina, ma vi inviterei ad osservarli bene. Vedrete una faccenda piuttosto grottesca e frustrante! Ciò che un bambino sperimenta invece nella sua interiorità quando guarda come si muove un cavallo e lo imita interiormente, è qualcosa di “primordiale”, che il bambino “capisce” nel suo intimo. Quando i bambini giocano “a cavallino” – l’avete mai visto? – È sorprendente! I loro movimenti diventano “cavallini”. Lo fanno con un’incredibile bravura. La loro capacità d’imitazione desidera prendere parte, quando ha l’occasione di partecipare comprendendo quant’accade. In casi come questo i bambini compiono le loro prime elementare “prestazioni” creative.

Il bambino vuole manifestare se stesso sin dall’inizio. Egli deve però prima conquistare le capacità necessarie per esprimersi e per manifestare se stesso passo per passo. Noi abbiamo il compito di aiutarlo in questo. Per questo è necessario prendersi cura dei sensi, favorire la creatività, come affermano certi slogan oggigiorno; certe affermazioni debbono però essere messe in pratica secondo i singoli casi. Per questo favorire l’imitazione rappresenta il primo passo per favorire anche la creatività. I deficit nell’ambito dell’imitazione rappresentano un grosso problema al giorno d’oggi.

Molti stati di tristezza e paura che si manifestano nei bambini derivano dalla ‘atrofia’ dell’elemento dell’imitazione durante la prima infanzia.

 

Voi tutti sapete che è necessario che i bambini possano riappropriarsi degli ambiti primari dei sensi. È una vera tragedia che la gran parte dei bambini oggi cresca senza un collegamento con la natura. Ciò che l’uomo ha creato prende il posto della creazione divina e questo rappresenta una profonda rottura per i bambini, se valutiamo che un bambino discende dal mondo spirituale divino sul mondo terreno fisico materiale; lo spostamento dei piani dell’essere che ne consegue non potrebbe essere più brusco. Possiamo solo augurare ai bambini che non vengano del tutto separati dalle qualità delle esperienze in cui sono ancora contenute le forze del creatore, ossia le forze con cui si è formata la creazione del mondo.

Fino a non molto tempo fa infatti si soleva dire che nella roccia, nell’acqua, nel vento, nel fuoco, nel calore e nella luce incontriamo le forze primordiali della creazione che erano scese nel mondo visibile. Se insieme a Maria Montessori e Rudolf Steiner abbiamo il coraggio di immaginare il bambino come un essere che discende sul mondo terreno dalla sfera delle forze della creazione, siamo in grado anche di immaginarci quanto sia brusco e crudele questo spostamento, perché quasi tutto ciò che il bambino incontra in questo mondo, dapprima estraneo, è privo di ogni collegamento con la sfera celeste, da cui si era appena allontanato e che sta ancora salutando. Il bambino vede soltanto macchine. Vede soltanto cemento.

Questo è solo un accenno allo sfondo spirituale della richiesta di recuperare gli ambiti in cui i bambini possono fare le loro esperienze primarie. Rudolf Steiner sosteneva che l’esperienza archetipica a cui accede un bambino quando, com’è davvero lecito, può sviluppare attivamente se stesso scoprendo il mondo attraverso il tatto, è una “esperienza del divino”. Ora, osservate una volta dei bambini che hanno l’occasione di sperimentare attraverso il senso del tatto oggetti e materiali che possiedono ancora delle qualità. Se

teniamo in mano soltanto e sempre della plastica, allora il nostro tatto ne risente come se fosse la nostra vista che non ha la possibilità di percepire i colori. Come se tutto fosse solamente grigio. Lo stesso accade ad un bambino che giocando sperimenta soltanto la plastica. Al tatto, tutto è uniforme. Dobbiamo dunque far sì che il bambino abbia delle esperienze tattili differenziate e sperimenti le qualità degli elementi, quali il minerale, l’acqua, la sabbia, il legno, ovvero tutto ciò che noi troviamo direttamente nella natura. In questa maniera aiutiamo il bambino a mantenere un po’ di quel collegamento primordiale con il mondo da cui proviene e ad effettuare con dolcezza e senza traumi quel passaggio da un mondo all’altro.

 

Come disse Jean Paul Sartre, l’uomo è condannato alla libertà. Egli è dotato di una straordinaria plasticità fisiologica e neurologica e, naturalmente, animica e spirituale, di una straordinaria flessibilità e ricettività per tutto ciò che vive, a diversi livelli, nell’ambiente che lo circonda. Dobbiamo tenerne conto quando creiamo le condizioni di vita per i bambini, quando sviluppiamo la nostra relazione con essi. I bambini dipendono fondamentalmente dalla possibilità di sviluppare il loro potenziale creativo e questo è strettamente collegato con l’espressione del potenziale dei loro sensi. Chi è in grado di esprimere la propria potenzialità riguardo ai sensi e, di conseguenza, esprimere il proprio potenziale creativo, potrà anche percepire la propria esistenza come “una vita protesa verso un senso” (Viktor Frankl). Nella giovinezza quest’esperienza del senso si manifesta come idealismo, con quell’impeto che vuole rivoluzionare il mondo e che si esprime così: “Io vedo che l’esistenza è imperfetta, ma posso collaborare alla grande opera del futuro!”. Un’indole talmente idealista in un giovane dipende in larga misura dal fatto se da bambino ha avuto l’opportunità di esprimere se stesso, sia riguardo all’organizzazione dei sensi, sia la sua capacità espressiva individuale. In quest’occasione vorrei sottolineare ancora una volta l’importanza di una sana e creativa imitazione (a differenza dell’imitazione da ‘automa’). Nessun altro essere su questa terra possiede un bisogno di comunicare e di porre delle domande così forte come l’uomo. Il bambino giunge su questa terra come un punto interrogativo che ha preso forma: dove sono? Chi siete voi? Cos’è questo? E cos’è quello? E come si chiama questo? E come sono collegati questo e quello? E perché? Queste domande aumentano con l’età. In base a

queste domande potremmo elaborare una vera e propria psicologia evolutiva! Essa potrebbe partire dalla scoperta del mondo attraverso il tatto fino ad arrivare alla questione del senso della vita e al mistero della morte!

 

Questo essere protesi verso l’altro, verso il ‘tu’, ponendo domande rappresenta il fenomeno primordiale. Con esso tutto ha inizio. Il bambino vuole iniziare una relazione e sperimentare, nel calore dello spazio ‘tra noi’, che in questo mondo esiste il bene, la bontà. Vuole sentire che ogni cosa può essere guarita attraverso l’amore. La domanda dei bambini è: andrà tutto a posto? Ogni volta che si rompe qualcosa, qualcosa non va a buon fine, due persone litigano, qualcuno si ammala, i bambini si chiedono: “Andrà tutto a posto?”. Questa domanda esprime più di ogni altra un aspetto fondamentale dell’essenza dell’infanzia, ovvero del miracolo di essere bambini. Andrà tutto a posto? Questa domanda si riferisce alla guarigione. Dobbiamo trovare la giusta risposta a questa domanda. Non possiamo trovarla però negli insegnamenti. La giusta risposta da parte della pedagogia alla domanda centrale “Andrà tutto a posto?” è una questione di comportamento. Come ci comportiamo tra di noi? Come ci rapportiamo con gli oggetti? Questo è ciò che i bambini avvertono con la loro straordinaria sensibilità. Possiamo davvero contare sulla loro predisposizione all’imitazione e sulla loro inclinazione verso il bene, ovvero verso quella nostra cura attenta, serena e disposta ad aiutare! Sarebbe meglio non lavorare tanto in modo didattico!

Impegniamoci piuttosto a creare un ambiente in cui il bambino possa anche sperimentare che esistono i conflitti, così come le incomprensioni, le crisi, i sogni. Tutto ciò fa parte della vita. Ma tutto andrà a posto! Per lo meno tutti faranno del loro meglio affinché tutto vada a posto.

 

Siamo quindi giunti ad un punto in cui dovremmo considerare la questione dell’educazione un argomento che riguarda il sociale, i rapporti tra gli uomini. Vi chiedo dunque di accogliere pienamente questo pensiero e di portarlo nella vostra interiorità, più profondamente possibile. I bambini non sanno che farsene di un concetto di armonia poco convincente e di una ‘facciata’ borghese. Possiamo intervenire sull’educazione in senso terapeutico se ci impegniamo seriamente e lottiamo per delle condizioni che rispettino l’uomo. […]

Il bambino vuole sviluppare ed esprimere se stesso, vuole trovare se stesso nel cambiamento creativo permanente, ma “trovare se stesso” significa andare verso il futuro. Il luogo in cui mi trovo ora non può essere l’obiettivo – tuttavia, chi è in cammino verso se stesso porta già in sé l’obiettivo come forza che lo sprona e gli mostra la direzione. L’uomo si orienta al futuro e ciò significa che si orienta verso il processo della creatività. La questione dell’esistenza diventa una questione di sensatezza: come posso sviluppare me stesso e creare una relazione con il mondo per riconciliarmi con me stesso, ad un certo punto? Questa è una domanda che riguarda sia i uomo creativo che l’uomo sociale: riguarda l’amore e la creatività. Ci troviamo davanti ad un mistero: nel profondo della mia anima posso essere in pace con me stesso soltanto se mi ‘protendo’ verso l’uomo, verso la humanitas, ovvero se tengo conto, sviluppando me stesso, anche dell’aspetto umanitario, misericordioso, della “scultura sociale” (J. Beuys). La moderna ricerca sulla creatività spesso non considera che gli impulsi creativi sono inizialmente impulsi di amore (!), anche se il tema si confronta con la distruttività. Questo è uno degli aspetti della nostra epoca.

 

L’arte deve quindi trovare il suo spazio a scuola e naturalmente anche all’asilo. Ciò deve avvenire

in una misura molto, ma molto maggiore di quanto avviene oggi. Nonostante le inimicizie che mi creo, dico spesso alle persone che operano nelle scuole Waldorf: le lezioni dovrebbero essere “permeate dall’arte”, ma ciò avviene, in verità, soltanto in teoria! Se siamo sinceri dobbiamo ammettere che ci lasciamo costringere troppo dagli eventi. Inoltre, anche nelle nostre scuole si apprende in maniera troppo intellettuale. I bambini di oggi chiedono ed hanno bisogno soprattutto dell’elemento artistico. Se non possono provare ad esercitarsi in tutti i campi dell’arte, né avere scambi, se noi non offriamo loro degli spazi per l’arte, degli spazi per la creatività, se nell’educazione i luoghi d’incontro non sono degli ‘ateliers’, in cui i bambini possano fare degli esperimenti e creare qualcosa di bello con i materiali più impensabili, se tutto ciò non avviene, allora noi, con i nostri metodi educativi, trascuriamo le necessità dei bambini causando paure e depressioni.

 

Non dimentichiamo quindi la questione della individualità personale del bambino. Il bambino è un essere che può essere plasmato con straordinaria facilità, ma possiede anche un impulso primordiale a plasmare e creare, ossia, una motivazione centrale a plasmare e creare; il nostro compito più nobile è appunto confermare questa motivazione ed incoraggiarla.

 

Robert ha cinque anni e non gioca mai insieme agli altri. Vuole sempre e soltanto parlare, parlare, parlare e soprattutto fare domande. Egli vuole correre, senza però una meta precisa. Gli capita spesso di rompere oggetti. Alla sera ha paura, anche paura di addormentarsi. Talvolta sviluppa uno stato di panico. Non vuole lasciare l’appartamento. Non si può nemmeno aprire una finestra. Dice: “C’è troppo rumore! Là fuori ci sono uomini cattivi!”. Se qualcuno vuole dipingere insieme a lui e gli chiede: “Vorresti dipingere una casa oppure un fiore?” Egli, allora, risponde con una sorta di frase fatta: “Io non ne sono capace, fallo tu!” Preferisce guardare cosa fanno gli altri, soprattutto se gli altri fanno ciò che dice lui. Preferisce essere lo spettatore e il ‘comandante’. Egli è molto attento e interessato, ma ha paura di essere coinvolto nella situazione. Sta sempre incollato alla mamma. Quando è solo con la mamma, può capitare anche, sebbene raramente, che mostri un principio di imitazione, di partecipazione e gioia. Quell’esclamazione (“voglio anch’io” di cui parlavo poc’anzi, quella spontaneità nell’interagire, non compaiono quasi mai. Se vediamo come si muove, come prende in mano le cose, o meglio, come non le prende in mano, allora notiamo che non conosce il suo corpo! Egli non vive nelle sue mani, che invece ‘penzolano’ nel vuoto senza essere quasi utilizzate. Non sa che farsene. Come un fardello porta ‘in giro’ un corpo che gli è quasi estraneo. Urta continuamente contro qualcosa. Lascia cadere continuamente delle cose. Dopo aver bevuto appoggia il bicchiere con una tale forza che il liquido fuoriesce bagnandogli il viso. Tutto si rompe nelle sue mani. La gente lo sgrida: “Hai di nuovo rotto qualcosa!”. Egli è confuso, perché non intendeva rompere niente. Così, con il tempo ciò può renderlo ostinato ed egli rompe veramente delle cose. Anche un bambino di cinque anni può avere una reazione che gli provoca il seguente stato d’animo: “Se tutti mi sgridano di continuo, allora posso anche fare apposta delle stupidaggini!. Se tutti pensano che sono cattivo, allora faccio il cattivo per davvero”. In questo modo una certa intenzionalità si insinua nel suo comportamento maldestro. Viene colto da un impeto distruttivo. Ma cosa sta succedendo a questo bambino?

 

Con quest’esempio ho solo descritto ciò che mi salta subito all’occhio. I genitori vengono da me. Sono preoccupati. Gioco con Roberto per due, tre ore dopo aver posto molte domande ai genitori. Dopo le ore di gioco ci incontriamo nuovamente.

Dovrei formulare la diagnosi. Invece, inizio il colloquio con la seguente domanda: “Secondo voi, cosa c’è di speciale in questo bambino, voglio dire, di particolare in senso positivo? Qual è la qualità che ammirate in vostro figlio?” 1 genitori rimangono in silenzio, impressionati. La madre dice: “Veramente, mi colpisce che è così impacciato”. Rispondo: “La mia domanda si riferiva ai talenti particolari di Robert”.”Oh - talenti - beh, in questo momento non mi viene in mente nulla”. Robert è un bel bambino. Solo dopo alcune direttive ed ulteriori ricerche la madre trova finalmente qualcosa di positivo: “Sa ascoltare in maniera straordinaria. Gli piace molto quando si organizzano momenti di festa dall’atmosfera solenne. A Robert piace sognare. Egli ama la musica. Fiabe - sì, gli piacciono molto. Chiede sempre di raccontargliele, in modo quasi dispotico”. La madre dice: “Dunque, se voglio qualcosa da lui, lui dice: ma poi, mi racconti una storia? Così mi ricatta regolarmente”.

 

Si tratta quindi di un bambino che vaga per il mondo perso nei suoi sogni. Non è capace di ambientarsi né di socializzare attivamente, non gli riesce niente veramente bene. Compie in modo impreciso i passi necessari per il suo sviluppo, senza energia né interesse. D’altro canto, la sua capacità di dedicarsi in maniera sognante ai mondi immaginari, al mondo delle fiabe, ai bei suoni eccetera, è fortemente sviluppata. I genitori non hanno colpa. Non hanno fatto alcun errore grave nell’educazione. La madre ed il padre si comportano entrambi amorevolmente. La vita coniugale non è proprio un nido di serenità e di pace, i genitori litigano a volte, ma trovano anche un’intesa. Sono uniti. Prendono molto sul serio la loro responsabilità come genitori. Robert è figlio unico. La mamma dice che già all’inizio appariva indifeso e stranamente bisognoso di protezione. La madre ed il padre hanno reagito in modo del tutto appropriato: hanno adottato un atteggiamento più protettivo. Chi non avrebbe reagito così? Questo gesto di protezione ha determinato fortemente il loro comportamento nei confronti del bambino. Io penso che sia stato addirittura troppo forte. Questa però non è una critica! Ovviamente, i bambini particolarmente bisognosi di protezione inducono i genitori a mostrare loro una particolare protezione. Per fortuna che questo accade! Naturalmente vi è anche un pericolo. Si può esagerare. Si toglie ogni onere al bambino. Viene curato e riverito quasi fosse malato.

 

Quindi, Robert ha dei disturbi comportamentali? Intanto, fermiamoci ancora ai fenomeni. Dopo

averlo conosciuto meglio, ottengo un’immagine più chiara. Non voglio descrivervi cosa ho notato volta per volta nel dettaglio, ma vi racconterò a cosa sono giunto con le mie osservazioni. Non ci è voluto molto per notare che Robert è troppo poco sicuro nella percezione del proprio corpo. Durante i primi anni di vita ogni bambino deve prima abituarsi, se così si può dire, al proprio corpo fisico, deve sviluppare una chiara percezione della propria dimensione, grandezza e delimitazione, una buona sensazione per la collocazione nello spazio ed una percezione istintiva ma fidata della propria figura. Altrimenti il bambino si sente, come dire, estraneo a se stesso, ma soprattutto, rimane separato dalla realtà. Se questa percezione di se stesso è poco affinata, il bambino tende ad apparire assorto e sognante. In primo luogo, la ‘auto-percezione’ si sviluppa attraverso le molteplici forme di contatto fisico con la madre. Ciò non basta però. Nelle fasi seguenti l’auto-percezione si forma in maniera naturale, quando il bambino scopre il mondo con il tatto, mediante le esperienze visive, le esperienze con la materia, nel contatto con gli elementi e attraverso - non dimentichiamolo - le esperienze di movimento. In questo senso Robert è, per così dire, carente. Osservo anche che la sua percezione della propria temperatura non è affidabile. I piedini sono freddi come il ghiaccio, ma lui non se ne accorge nemmeno. In generale, gli capita spesso di avere sia mani che piedi freddi, ma non ne sembra minimante turbato. Non sembra! Invece, in fondo, lo disturba molto! La sensazione generale della vita ne resta turbata.

 

Ho già accennato al fatto che non sa cosa farsene delle sue mani. Esse pendono verso il basso quasi come una decorazione. Non si fida di esse. Le trascura. Per non fraintenderci: lo “strumento” è intatto. Egli però non vuole fare affidamento su di esse. Dobbiamo 1eggere questi aspetti in modo simbolico. Quando un bambino non si fida delle proprie mani vive con la sensazione di fondo: “Qualunque cosa io inizi, andrà comunque male...”. Questo fenomeno viene chiamato spesso “concetto di inefficienza”. Robert deve imparare ad avere fiducia nelle sue mani! Deve essere sensibilizzato alla percezione più sottile nell’ambito del calore e del tatto; ha bisogno di sostegno per maturare la percezione della propria conformazione. Infine, dal suo modo di camminare, dalla sua postura e dalla sua gestualità si può vedere che deve ancora scoprire la leggerezza, il “ballerino interiore”; egli non conosce ancora quell’esperienza primordiale di libertà e gioia che affiora quando è in grado di assaporare pienamente la seguente sensazione: “il mio corpo obbedisce al ballerino interiore. Segue la mia volontà. È agile e leggero. So quasi volare - comunque sono capace di spiccare un salto, di danzare e di salterellare...”. Robert veramente non saltella o non danza mai. Non lo fa liberamente. Cammina lentamente, leggermente ricurvo, oppure viene assalito da un agitazione spasmodica nel movimento, soprattutto quando è stanco.

 

In un caso come questo parliamo di una insufficiente sicurezza di base ossia di un’insicurezza nelle competenze di base per l’auto-percezione. Il bambino non è “disturbato”! Anzi, egli è molto dotato! Dietro a tutta quell’insicurezza si cela un poeta, un incantato re della fantasia, un’anima bella e delicata. Ha qualcosa di vellutato intorno a sé. Quando questo bambino, che adesso è come un po’ ‘sopra alla terra’, appoggerà bene i piedi su questa terra, ci stupiremo di cosa sarà capace! Come possiamo aiutarlo in questo? Diamo un breve sguardo alla terapia del gioco: egli deve essere coinvolto come per caso nell’attività, senza che venga esortato a farlo. Il bambino ha solo cinque anni, ma è già così allergico alle esortazioni che ogni sorta di incitamento non fa che aumentare la sua paura. Bisogna attirarlo al gioco, durante cui non vengono usate frasi come “tu devi”, ma ruoli che il bambino è in grado di accettare senza difficoltà e che rappresentano persone dotate di ben precise competenze. Infatti, Robert dice sempre: “Non ne sono capace!” Vediamo, allora. Io interpreto il fornaio. Robert fa la spesa nella mia bottega. Improvvisamente non c’è più pane da vendere. Io discuto con i clienti invisibili che si lamentano. Con la sua straordinaria immaginazione Robert si immedesima prontamente nella scena. Con questa sua capacità si può lavorare benissimo! I clienti chiedono pagnotte e pasticcini. Ma è tutto esaurito. Il gioco si sviluppa con l’improvvisazione: uno dei miei figli è a casa, ammalato ed è a letto. Non posso fare il pane, perché devo andare da mio figlio. Cosa devo fare? A casa c’è mio figlio ammalato e qui ci sono i clienti arrabbiati. Se non vendo nulla, non guadagno i soldi per comperare la medicina di mio figlio! È una situazione cruciale. Il gioco continua. Dico a Robert (che nel gioco si chiama signor ?chsle): “Peccato che lei non sappia fare il pane, signor ?chsle!”. Una pausa. Mi viene in mente: “Ma ho un amico che sa fare il pane. Abita proprio qui vicino!” Il gioco continua. “Lei potrebbe chiedere al mio amico se sarebbe disposto a fare il pane per me? Devo assolutamente andare a casa dal

mio bambino malato!” A questo punto, in questo momento decisivo, io dico sottovoce: “Tu ora faresti l’amico, va bene?” Robert è d’accordo. Non esita neppure per un istante. La visita dal mio amico avviene in modo lento e cerimonioso. Prendiamo un orsacchiotto. Robert chiede a voce bassa: “Vieni a fare il pane?” Poi assume la parte dell’amico, si siede vicino a me e, assorto, forma torte, pagnotte e biscotti con l’argilla. Se io l’avessi semplicemente esortato “dai, prendiamo un pezzo d’argilla e facciamo qualche bella forma”, non sarebbe successo proprio niente. Come sempre, Robert avrebbe risposto: “Non sono capace! Fallo tu!”.

 

Come vedete, abbiamo a che fare con un bambino che deve essere accompagnato con tutta la dolcezza possibile fin dentro nell’esperienza: “sono capace di fare qualcosa di sensato con le mie mani”. Siamo innanzi ad un bambino che nonostante la sua tenera età è già fortemente inibito, anche perché adesso tutti si aspettano qualcosa da lui e creano una notevole pressione. A questo bambino era stato tolto ogni peso, ogni responsabilità; questo è comprensibile. Ora però ci si aspetta da lui che la smetta finalmente di nascondersi. Innanzi tutto è necessario spianargli la strada con i giochi come ho descritto poc’anzi. Non dobbiamo domandarci se il bambino è ‘disturbato’. Ovviamente questo bambino non è affatto ‘disturbato’. Gli apparecchi meccanici possono avere delle funzioni disturbate, ma non l’uomo. L’uomo possiede delle caratteristiche singolari. Inoltre possiede un destino. Questo bambino non vuole entrare veramente in contatto con la realtà e non l’ha mai voluto sin dall’inizio. Robert non ha ancora detto veramente ‘sì’ alla vita. Ha portato proprio questa riserva dall’altro mondo. Sarei in grado di documentare questa affermazione con un’anamnesi, se ne avessi il tempo.

 

La domanda che dobbiamo porci è la seguente: come mai questo bambino non vuole collegarsi veramente con la realtà? Perché Robert ama le fiabe che fanno sognare? Perché è capace di giocare per conto suo con sassolini e perline, dando un leggero tocco animico a tutte le cose? Come mai ama l’atmosfera suggestiva e sentimentale, mentre non gli piacciono invece l’iniziativa, la decisione, il dovere, l’azione coraggiosa e determinata? Queste sono le domande che dobbiamo porci. Inoltre, dobbiamo porcele nel profondo rispetto per questo bambino che, per un suo destino individuale, intende evitare per più tempo rispetto ad altri bambini una ben precisa dinamica di sviluppo che potrebbe essere definita in senso generale il ‘far parte di questa terra’. Se non lo rispettiamo in ciò ma lo costringiamo a prendere contatto con la realtà usando i più svariati ‘trucchi’ terapeutici, i cosiddetti ‘interventi’, oppure condizionamenti comportamentali, non gli facciamo certamente del bene. Probabilmente potremmo influenzarlo con i nostri ‘interventi’, dato che si tratta di un bambino molto disponibile e delicato. Si sottometterà. Questo modo di rendere ‘arrendevole’ un bambino non rappresenta alcun vero aiuto per il suo essere. Anzi, è una mancanza di rispetto. L’atteggiamento terapeutico -deve comprendere, in prima linea, quanto segue:

Dobbiamo portare rispetto a questo bambino che vuole avvicinarsi ‘cautamente’ alla realtà. Dobbiamo rispettare ed onorare questa sua scelta che rappresenta un aspetto pregevole e bello della sua personalità. Egli vorrebbe restare “nelle vicinanze del cielo”! Chi sa dire questo in modo più profondo? Non abbiamo a che fare con un ‘disturbo’ ma con un talento; che questo talento non sia ‘normale’ non ci dà il permesso di vietarlo al bambino e di strappare il velo intenzionalmente! Tuttavia Robert deve essere incoraggiato a vivere la sua vita, ma non con il martello, come oggi spesso accade, ma in maniera da ‘riscaldarlo’ per la vita, nel vero senso del termine.

Come potremmo muoverci, quindi, in senso terapeutico e pedagogico per ‘riscaldare’ il nostro piccolo principe incantato di ‘fantasia’? Si tratta di valorizzare le sue capacità e condurlo senza costrizioni in fantasiosi giochi di ruoli per sperimentare processi specifici che riguardano soprattutto:l’individualità e la percezione del proprio movimento come fondamentale esperienza dell’autonomia e della libertà; l’ampliamento della sua competenza ad agire, ovvero, l’ampliamento della fiducia nelle proprie mani, proponendogli giochi di scultura e di manipolazione. In tutto ciò è molto importante il dialogo e il relazionarsi con lui. Più avanti Robert verrà inserito in un piccolo gruppo in cui i bambini giocano a ‘fare circo’ ed eseguono piccoli e semplici giochi di prestigio. I genitori riceveranno molti spunti per il quotidiano che riguardano sia l’attività fisica (ad esempio, pediluvi, massaggio dei piedi e successivo indovinello in cui il bambino deve scoprire degli oggetti tastando con i piedini), sia iniziative pratiche in cui il ragazzo verrà coinvolto (ad esempio, fare il pane) e infine delle piccole ‘prove di coraggio’, dosate però in misura ‘omeopatica’. Devo fermarmi a queste indicazioni di carattere generale. L’obiettivo era quello di accennare alla direzione da intraprendere. È importante però che ci intendiamo su un punto: bisogna porre fine alle attività ‘riparazione’ dei bambini! Allo stesso modo deve anche finire la pedagogia normativa che vuole costringere tutti i bambini a rientrare in uno schema di sviluppo ben definito, ma alquanto dubbio. La traduzione di ‘terapia’ è: assistenza ed aiuto. Se la prendiamo alla lettera, anche la pedagogia è sempre terapia. Ogni bambino ha il diritto al proprio percorso. Noi possiamo ‘soltanto’ assisterlo, accompagnarlo e sostenerlo. Non pretendiamo di essere di più. Cosa vuol dire ‘di più’?! Esiste un compito più grande e straordinario di offrire sostegno ad un bambino, affinché possa svelare il suo essere del tutto individuale e proprio e portarlo nel mondo?

 

Tratto da: Henning Köhler, Il miracolo di essere bambini, Alassio, Natura e cultura editrice, 2000

 

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