Lucio Piermarini

(Pediatra dei Servizi Consultoriali, ASL 4, Regione Umbria)

 

Autosvezzamento

 

Un certo giorno sul far del mattino, che volevano

fargli tettare una delle sue vacche (perché non

ebbe mai altre nutrici, siccome dice la storia), egli

si liberò un braccio dai legacci che lo tenevano

fisso alla culla, e ti prende la detta vacca un po’

sopra il garretto, e le mangiò tutte e due le mam-melle

e metà del ventre, col fegato e tutti i rognoni.

F. Rabelais, Gargantua e Pantagruel

 

 

Che cos’è l’autosvezzamento? Non è esattamente quel che fece Pantagruel a una delle sue quattromilaseicento vacche nutrici ma, fatte le debite proporzioni (Pantagruel era un gigante) e trasferito il tutto in epoca post-moderna, qualcosa di molto simile. Fino a oggi, ovviamente nell’ambito di un rapporto della famiglia con i servizi sanitari, la decisione di iniziare lo svezzamento e

le sue modalità sono sempre state affidate al pe-diatra. Si tratta invece ora di affidare la decisione di quando iniziare a mangiare qualcosa di diverso dal latte, nonché cosa e quanto, proprio al bambino. 

 

 

Le ragioni del dubbio

Si comincia a dubitare di una procedura quando non ottiene ciò che si prefigge, quando crea problemi, quando è troppo complicata da realizzare. Nel caso dello svezzamento, quanto a raggiungi-mento dell’obiettivo principale, il successo è quasi incredibile: prima o poi tutti i bambini si svezzano. Quello che però dovrebbe sembrare altrettanto incredibile è l’eccessiva frequenza di difficoltà nel-l’avvio, il rifiuto di numerosi cibi anche essenziali, il non rispetto delle dosi raccomandate. Eppure, adattarsi a un’alimentazione diversa dal latte materno è una condizione indispensabile per la so-pravvivenza, e non farebbe prevedere simili osta-coli. Senza contare l’impegno professionale del pe-diatra, che è qualitativamente e quantitativamente

elevato. Nel tentativo di migliorare l’intervento possiamo, come sempre ormai facciamo, scandagliare la let-teratura, cercando le evidenze. Personalmente, ma non sono un abile internauta, non ho trovato lavori o esperienze che comprovassero l’utilità e l’innocuità del modello di svezzamento attuale: inizio in un momento arbitrariamente deciso da altri, con alimenti decisi da altri, in quantità decise da altri. In effetti le indicazioni che abbiamo sempre seguito, io stesso per decenni, derivavano da autorevoli raccomandazioni lette su trattati, come si dice, "onorati dal tempo"; o dall’imitazione del collega anziano di reparto; o dal plagio della ricetta del cattedratico di moda. Le differenze erano solo apparenti. In fondo si prescrivevano più o meno gli stessi alimenti, possibilmente omogeneizzati o, meglio, liofilizzati: il colpo d’ala poteva essere passare dal vitello al pollo e prosciutto, o dalla crema di riso al mais e tapioca. Il gregge seguiva il pastore per pigrizia e per convenienza. Come epoca di inizio si toccò il fondo rapidamente negli anni Settanta, arrivando ai due mesi di vita, sull’onda di una criminale delegittimazione del latte

materno; si è poi risaliti, lentamente, mese dopo mese, agli attuali sei. La precocità esasperata dei due-tre mesi obbligò, oltre all’impiego di alimenti speciali, alla massima attenzione nella gradualità dell’introduzione dei vari cibi, nella consapevolezza di un inevitabile aumento del rischio di allergie e di danni intestinali. Vale a dire che, sapendo di far male, si stava più attenti, ma ci si provava comunque.

Se proprio non si poteva spendere per le ver-dure liofilizzate, si poteva rischiare con quelle fresche, ma che fossero, per carità, patata e carota: elemento questo, forse per una sua intrinseca magica scientificità, su cui tutti concordavano, e concordano tuttora. Summa di tutte le mistificazioni, si cacciava il sale dal brodo e lo si faceva rientrare dal parmigiano. Devo dire che, già allora, ascoltandomi mentre con fare molto professionale recitavo le classiche ricette dello svezzamento, mi dibattevo tra il timore di apparire ridicolo e la vergogna di stare ingannando, con una (non) scienza che sapevo di non avere, una donna che non poteva non avere un’esperienza culinaria superiore alla mia (del tutto inesistente) e che, con patetica serietà o forse con ben celata ironia, alla fine mi chiedeva se aggiungere una foglia di bietola avrebbe fatto male al bambino.

Il dubbio della ragione Una volta cominciato a dubitare, se si vuole essere coerenti, bisogna formulare un’alternativa e, per non ricadere nello stesso errore, provarne la bontà. In questo caso tutto è proceduto molto lentamente e inconsapevolmente, senza un reale obiettivo, nel corso di diversi anni, raccogliendo qua e là quegli articoli, non molti, che si occupavano dello svezza-mento, e che, quasi per caso, incontravo nelle poche riviste che scorro abitualmente. Le varie informazioni (le prove, se vogliamo) si sono andate così stratificando, modificando insensibilmente il mio modo di vedere la questione, fino al momento in cui mi sono accorto che quello che andavo raccontando alle mamme cominciava a provocare reazioni comunque vivaci: dal rifiuto (i colleghi) alla perplessità (le mamme), all’entusiasmo (le gestan-ti). Era tempo di riordinare la letteratura disponibile. La letteratura Lo strato più antico è un lavoro del 1934, pubblicato sul New England Journal of Medicine da Clara Davis, che studiò il comportamento alimentare di bambini lasciati liberi di mangiare ciò che volevano, esclusi i cibi "spazzatura", per diversi mesi, senza alcun condizionamento da parte degli adulti. Si dimostrava che i bambini crescevano quantitativamente e qualitativamente nei limiti della norma. Questo nonostante l’irregolarità nella quantità e qualità dei pasti, e la variabilità dei loro gusti da un giorno all’altro. L’Autrice concludeva per l’esistenza di un meccanismo efficace di autoregolazione che portava i bambini ad assumere, alla fine, la giusta quantità dei vari nutrienti. Questo lavoro era citato nella presentazione di un altro studio in cui, seguendo la stessa metodologia con 15 bambini da 26 a 62 mesi, si dimostrava che l’apporto calorico, pur molto differente da pasto a pasto, calcolato da giorno a giorno differiva al massimo del 10%.

Quindi, per quanto riguarda la quantità, possiamo fidarci dei lattanti in fase di svezzamento così come ci fidiamo dei lattanti al seno materno. Tuttavia, i lattanti non sono in grado di procurarsi il cibo da un buffet come i bambini più grandi degli studi citati. Dovremo perciò aspettare che siano in grado di chiedercelo e poi accontentarli. Ed ecco che, pur non essendo in grado di parlare, a partire dai 5-6 mesi il bambino diventa capace di indicare il suo desiderio per il cibo aprendo la bocca e sporgendosi in avanti, così come di indicare disinteresse o sazietà tirandosi indietro e girando la testa. Inoltre, sempre tra i 6 e i 12 mesi, sviluppa la capacità di portarsi il cibo, di appropriate dimensioni (finger foods, cibo "da dita"), direttamente in bocca, mostrando così una crescente autonomia. In questa stessa fase di sviluppo (5-7 mesi di vita) i bambini diventano capaci di inghiottire cibo morbido in virtù della progressiva scomparsa della protrusione riflessa della lingua quando stimolata da qualcosa di solido, come ad esempio un cucchiaio; e anche la velocità con cui i bambini diventano capaci di "processare" efficacemente cibi solidi 

varia con la qualità delle loro abilità motorie: è cioè individuale.

Il dubbio riguardo all’appropriatezza della somministrazione di cibi "domestici" è teoricamente sciolto da tempo. Un riscontro concreto lo troviamo tuttavia in uno studio clinico controllato dove, confrontando cibi domestici e commerciali somministrati a partire sia da 3 che da 6 mesi di vita, si è dimostrato che a 12 mesi tra i due gruppi di bambini non vi era alcuna differenza nella crescita, né nella composizione corporea. Uno studio ancora più vecchio aveva già escluso una possibile correlazione fra i livelli pressori dei bambini nel corso dei primi otto anni di vita e apporto di sodio molto superiore alle razioni raccomandate per una durata di tempo pari a 5 mesi, nel periodo da 3 a 8 mesi di vita, quindi in pieno svezzamento. L’accettazione dei cibi caratteristici della famiglia è inoltre facilitata dal riconoscimento da parte del bambino, negli assaggi che gli vengono concessi, di sapori e aromi da lui conosciuti durante la gravidanza, in

virtù della loro presenza nel liquido amniotico, e nuovamente apprezzati con il latte materno. Numerosi lavori hanno infatti dimostrato definitivamente che la dieta materna modifica il gusto del

latte, che arriva quindi al bambino sempre diverso ogni giorno, abituandolo alla varietà e alle nuove esperienze. In questi lavori sorprende il fatto che l’effetto positivo sull’accettazione del latte materno e dei nuovi cibi in fase di svezzamento sia stato trovato sia con sapori deboli come le carote, sia con sapori forti come l’aglio, spesso accusato di un effetto invece negativo.

La possibilità, quindi, che il bambino possa "auto-svezzarsi", e per di più senza farsi del male, non ha i piedi d’argilla. In uno studio osservazionale su 50 bambini allattati al seno il 46% aveva autonomamente iniziato lo svezzamento. Un comportamento simile è stato descritto anche da Brazelton in concomitanza di una fase di sviluppo, tra 5 e 7 mesi, in cui i bambini mostravano un ridotto interesse per il seno.

 

La pratica

Come abbiamo visto, verso i 6 mesi il bambino arriva a sviluppare tutta una serie di competenze motorie e cognitive che, trovandosi più o meno si-stematicamente presente al pasto dei genitori, in posizione di solito seduta, gli permettono di mettere in atto comportamenti complessi che inequivocabilmente suggeriscono ai genitori il suo interesse per ciò che stanno facendo. Non possiamo ancora parlare di desiderio di assaggiare cibo diverso dal latte, perché ovviamente, fino a quel momento, per il bambino mangiare significa succhiare al seno o al biberon. Solo dopo essere stato accontentato, sperimenterà gli effetti di ciò che, mosso dall’istinto, è riuscito a sperimentare. Il bambino allattato al seno in questo senso sarà favorito dal fatto di essere in grado di riconoscere vecchie esperienze gustative, ma anche gli altri, prima o poi, realizzeranno di cosa si tratta. Il bambino così facendo si appropria della cultura gastronomica della sua famiglia e del suo popolo, e a quella tenderà a restare fedele per sempre; non vuole il cibo dei genitori perché è più buono, ma perché è il cibo dei genitori. Se si rispettano le sue prerogative di autoregolazione dell’appetito e non si incorre nell’errore di definire a norma di tabelle il suo fabbisogno alimentare, tutto andrà liscio. Il bambino, tenuto conto che non ha ancora i denti, farà tutto da solo, tranne che cucinarsi i pasti; ma questo la famiglia lo fa già indipendentemente dalla presenza del bambino.

C’è solo un aspetto, di importanza fondamentale, che i genitori devono curare se già non lo fanno: imparare a mangiare correttamente. Ed è questol’unico vero ruolo impegnativo del pediatra (o anche del medico di famiglia) nello svezzamento. Una volta certi di questa competenza della famiglia, non serve altro. D’altra parte, a che pro impegnarsi allo spasimo nella costruzione di una dieta perfetta per il solo bambino, trascurando quella dei genitori? Prima o poi la mamma si stancherà di realizzare quotidianamente due menù distinti e di spendere cifre astronomiche, e il bambino dovrà passare al tipo di alimentazione dei genitori. Saranno le loro abitudini alimentari, buone o cattive che siano, che il bambino si porterà dietro per tutta la vita, e sappiamo quanto questo sia importante per la sua salute futura. Il graduale aumento degli assaggi durante tutti i pasti principali dei genitori porterà a una altrettanto graduale riduzione dell’assunzione di latte, e infine gli assaggi assumeranno la dignità di veri e propri pasti, ormai quantificabili in anticipo. Inoltre, in una situazione in cui è il bambino a chiedere e il genitore a concedere, non si verificherà mai una situazione di alimentazione forzata contro la volontà del bambino, né fallimentari sceneggiate multimediali né cibo lasciato sul piatto a simbolo della sconfitta dei genitori e del pediatra.

 

Conclusioni

Se si rispetta, per garantire l’ottimale sviluppo dell’apparato digerente e la massima protezione da rischi di allergie, la raccomandazione OMS e UNICEF di alimentare i bambini in maniera esclusiva al seno o al poppatoio fino a sei mesi, dopo questa età probabilmente ogni momento è buono per iniziare a soddisfare le loro richieste di assaggiare altri cibi, permettendogli di costruirsi una vera e propria autonomia nutrizionale. Il compito del pediatra sarà quindi quello di tranquillizzare i genitori, timorosi di derogare a norme dietetiche prive di fondamento ma ormai patrimonio popolare, uscendo da quel «gioco delle parti che lo costringe a dare sempre risposte precise anche quando le conoscenze scientifiche non sempre riescono a sorreggerli in questa loro responsabilità».

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Da: "Medico e bambino", n. 7, 2002