RECENSIONI

a cura di Michele De Felice

 

Porcupine tree/ In Absentia

 

Mi trovo alla Ricordi. Sto cercando qualcosa di progressive, tanto per cambiare. Una rapida occhiata alla misera offerta che purtroppo si trova ovunque, quando si cerca musica progressiva, ed ecco che mi soffermo sulla lettera P-S. Due interessanti nomi, che già conosco molto bene, attirano la mia attenzione, e sono Porcupine Tree e Spock's Beard con i rispettivi lavori "In Absentia" e "Feel Euphoria". Seppure all'inizio mi lasci attirare dallo stupendo art-work dei progsters americani, alla fine opto per il lavoro del porcospino inglese.

 

Quando il lettore cd inizia a emanare i primi ruggiti di "Blackest eyes" non ho ancora tirato fuori il libretto, c'è però ancora del prezioso tempo per assimilare un riff bellissimo, distorto e delicato, tutto sul mi basso abbassato di un tono, il che  rende cupo e a tratti lancinante il suono emesso dalla chitarra. Esterefatto da tale apertura, così arrogante e spavalda, premo il tasto rewind per prepararmi all'intro vocale, ed ecco che quando i tumulti sonori dispiegati da chitarra e batteria placano la loro ira, si apre una melodia celestiale ed una voce da lontano che rassicura: "A mother sings a lullaby to a child".

 

Steven Wilson, leader della band, sarà anche una persona arrogante ed autocompiaciuta ma ci troviamo di fronte comunque ad un grande musicista, compositore ed arrangiatore.  Un talento che, dietro a quegli occhialini da professore, nasconde un colorato narcisismo e una consapevolezza dei propri mezzi unici solo ai grandi nomi della musica. In Absentia è la definitiva consacrazione di una band pressochè sconosciuta in terra madre,  ma che in Italia e soprattutto a Roma si è ritagliata un' importante fetta di pubblico.

 Non stiamo parlando di un progressive esageratamente tecnico, nè di un trip psichedelico, ma piuttosto di un rock d'atmosfera tinto di colori diversi, dove un ruolo chiave è ceduto alle tastiere di un geniale Richard Barbieri. Non possono mancare influenze pinkfloydiane come in "Gravity eyelids", o gli echi progressivi nella magnifica "The sound of muzak" e "Wedding Nails". I Porcupine Tree sanno fare musica, passano con disinvoltura da brani più soft a brani  più potenti, vedi l'ottima "Strip the soul", alternano pezzi in cui si liberano da schemi progressivi (The creator has a mastertape, Lips of ashes) ad altri racchiusi  nel modus componendi tipico del genere, il tutto pervaso da una glaciale malinconia di fondo che si risolve ora in rabbia, ora in rassegnazione.

 

Ma proprio dove non si ha il sentore di un passato che detta regole i Porcupine tree esprimono al meglio le proprie qualità innovative. La semi acustica "Trains", dagli accordi solari, nella sua semplicità ha il gusto di una bellissima ballata rock, fatta con emozione, senza orpelli, ricamata solo di contagiosa voglia di vivere. Non ha davvero punti deboli il disco. Mantiene una linea equilibrata; a brani più squisitamente ricercati, vedi la struggente "3" con l'incalzante e oscuro giro di basso a dettar legge, contrappone melodie soffuse come nella finale "Collapse the light into Earth".

 

Un album indimenticabile che non lascia scampo. Nella sua struttura contaminata, nel suo essere immediato e sfuggevole, nella sua forma malleabile, nella sua viscerale emotività, si eleva senza motivo e possibilità di negazione a capolavoro.

 

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