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Gian Canio Elefante

PREGHIERA DEL RISVEGLIO PREGHIERA PER IL MAL DI TESTA SECONDO MISTERO GAUDIOSO
 IL ROSARIO DEL PASTORE   IL SEGRETO DELLA NONNA A TE CHE VAI,
SIA LUCE!
  IL LOMBRICO DEL BASENTO I RUDERI DI CASTELVECCHIO SAPER PARLARE
AVE, DOLCE MARIA DI NAZARETH!

VACANZE
DAL BRENTA ALL'OSPEDALE
 

per contattare l'autore... g.canyon@tin.it
 ritorno a "Accademia di Talia"

 

   PREGHIERA DEL RISVEGLIO

 

Gli occhi che riapro al nuovo giorno,
Gesù,
cerchino la Tua luce,
trovino Te nelle creature quest'oggi.

Le mie orecchie ascoltino la Tua Voce:
sia, questa, guida sicura
per il giorno nuovo,
per la vita intera.

La mia lingua proclami la Tua lode,
annunzi ai fratelli il Tuo Amore,
sia eco nel mondo dei Tuo Vangelo.

Il mio cuore ami Te,
si riempia di Te.
A braccia aperte io vengo a Te,
Gesù,
che a me vieni a braccia aperte.

[pubblicata su "Evangelizzare"]


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   PREGHIERA PER IL MAL DI TESTA

 

O Capo Insanguinato di Gesù,
sii Tu conforto al capo mio dolente;
gli occhi miei appesantiti a Te solleva,
col Sangue Tuo il mio dolor rigenera
e alla Tua la mia passione associa.

L'insofferenza
dalla bocca e dal cuore allontana.
Lenisci la mia pena:
se Tu vuoi, passi...

ma, Ti prego,
mai passi da me la Tua immagine
e la volontà di soffrire
e morire
e ... vivere
con Te.

10 maggio 1987


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   SECONDO MISTERO GAUDIOSO
    LA VISITA DI MARIA SS. A SUA CUGINA, S. ELISABETTA

 

Meno male che noi cattolici abbiamo due grandi risorse: il Tabernacolo ed il Rosario.

Senza queste due autentiche ricchezze, non so se tanti di noi, me compreso, anzi in prima fila, potrebbero definirsi autentici cristiani e cattolici.

Questa mattina sono uscito di casa arrabbiatissimo e furioso contro i muratori che, lasciati soli per pochi minuti, me ne hanno combinata una grossa quanto la casa che mi stanno ristrutturando.

Sono uscito con l'intento di andare altrove, di levarmi da questa e da tutte le altre cose che in questi ultimi tempi proprio non vanno e che mi rendono la vita piuttosto difficile e pesante.

Le varie difficoltà: di salute, di diversi componenti della famiglia, economiche, dovute ai tanti impegni finanziari assunti, di disagio, per inaccettabili situazioni create da chi fa una politica soggettiva, esercitandone il potere in modo arrogante e dispotico… tutte queste difficoltà si sono ingigantite nella mia mente ed hanno reso pesante ed incerto il mio passo verso… non so nemmeno dove.

E mi son ritrovato lì, proprio lì dove sempre vado quando, esacerbato e stanco non so più dove andare, dal momento che tutte le altre mete, per ovvi motivi, diventano secondarie. Lì, nella cappella della chiesta del convento di San Francesco, davanti al tabernacolo solitario, abbandonato. E lì, in tanta solitudine, mi sono abbandonato… a Lui.

A Lui, per l'ennesima volta ho raccontato le mie pene, le mie disavventure; ho presentate a Lui le mie lamentele, le mie proteste. Gli ho chiesto aiuto e conforto; Gli ho chiesto consiglio, forza, coraggio.

Col rosario in mano ho pregato e atteso, implorando risposta, quella risposta che, comunque, non pensavo che veramente fosse così a portata di mano. La stessa preghiera si è fatta risposta. Gradatamente, come per incanto, dal turbine dei miei pensieri mi sono ritrovato nel gaudio di un colloquio di amore con una Voce che mi diceva:

"Nel secondo mistero gaudioso
trovi le risposte alle tue domande e la soluzione per tutti i tuoi problemi.
Trovi la Vergine Maria Tabernacolo vivente,
umile, dimenticata dal mondo, come questo Tabernacolo,
la Sua fede, la Sua accettazione, il Suo abbandono alla volontà di Dio,
la Sua noncuranza del mondo esteriore.
Contempla la Sua carità verso la congiunta Elisabetta,
che la porta ad affrontare sacrifici enormi,
senza nemmeno aver fatto prima valere le sue segrete ragioni
verso il Suo Giuseppe e verso il mondo…

Umiltà, Fede, abbandono in Dio,
timore, tremore… gioia!

Gioia per essere in Dio,
per essere da Lui prediletta!
Gioia, Gioia senza fine
per possedere e portare nel proprio grembo
il Suo Figlio!
Gioia senza fine, che sfocia nel MAGNIFICAT
e canta nei secoli la Gloria di Dio.

Contempla: Gioia, Carità, …servizio!
Accettazione, Fede, Abbandono…
Carità, Servizio, Gioia!

Contempla, contempla Maria,
nel Suo viaggio di ritorno a Nazareth!
Ha creduto, accettato,
Ha amato, ha servito,
ha gioito, ha magnificato il Suo Signore!

…con timore, con tremore, con Gioia,
con Fede!

Ed ora si incammina, serena,
verso la nascita,
verso la vita,
verso la morte del Suo Figlio
… e Sua!
. . . . . . . .
………... già crede nella Resurrezione!"


San Miniato, 4 Giugno 2001


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   IL ROSARIO DEL PASTORE

 

     Ho raccontato alla mia nipotina una storia che la mia nonna mi aveva, a sua volta, narrato quando io ero bambino. A Marta è piaciuta moltissimo; in me ha suscitato emozioni vecchie e nuove. Ascoltatela.

Viveva ad Albano di Lucania un pastore giovane, di nome Vito-Rocco, molto buono, ma anche molto solitario. La sua unica compagnia erano le pecore e il cane, con cui trascorreva tutto il suo tempo, tutti i santi giorni. Non era andato a scuola e quindi non sapeva né leggere né scrivere. La sua vita trascorreva tutta nell'attenzione alle pecore, immerso nella natura, in compagnia del cane, con cui aveva una grande intesa e con cui parlava e giocava molto.

Gradiva molto la compagnia di qualche passante e quando gli capitava di vederne qualcuno gli andava incontro con il cane e, se poteva, si intratteneva volentieri.

Una mattina vide avvicinarsi da molto lontano due persone che viaggiavano a piedi; non si distingueva se fossero uomini o donne, ma, poi, con l'avvicinarsi, li vide bene: erano due uomini, due frati cappuccini, con la barba e vestiti con il saio marrone. Uno portava una bisaccia a tracolla e l'altro un fagotto, forse un pacchetto di libri, sotto il braccio. Quello con la bisaccia era più vecchio e zoppicava alquanto, per cui a fatica stava dietro al suo compagno.

Il cane corse loro incontro, abbaiando; Vito Rocco, ordinando al cane di star buono, corse anche lui, incuriosito dell'inaspettato incontro. Venivano dalla stazione, dove erano scesi dal treno, e andavano al paese dal parroco, al quale il frate più giovane, che era il Superiore, doveva parlare:
-"Quanto dista il paese da qui?"
-"Sono tre chilometri, ma è tutta salita", rispose il pastore.
-"Sarà meglio che tu mi aspetti qui… con quel piede" disse il Superiore al frate con la   bisaccia, "cercherò di far presto e fra due ore riprenderemo il treno per Napoli".

Detto fatto. Il Superiore andò in paese e frate 'bisaccia' rimase con Vito Rocco.
Fu una mattinata indimenticabile per il pastore. Abituato com'era a star sempre solo, avere per alcune ore la compagnia di una persona e per di più non una persona qualsiasi, ma un frate, fu un evento eccezionale.

Conosceva solo sommariamente il parroco del paese, che vedeva molto di rado, e di frati ne conosceva appena l'esistenza, senza sapere niente di loro.

Frate 'bisaccia' gli fece diverse domande e poi gli parlò a lungo dei frati, del suo convento a Napoli, della sua vita di frate questuante e soprattutto della sua vita religiosa, facendo così a Vito Rocco una utile informazione religiosa. Questi era avido di sapere, di conoscere quanto a lui non era stato concesso dalla vita.

Il frate si rese conto che l'istruzione religiosa del pastore era povera e lacunosa e gli fece un ripasso dei principi fondamentali della fede cristiana. Gli parlò di Dio, della Passione di Gesù Cristo, della Madonna, dei santi, in modo particolare di San Francesco. Parlò della necessità di praticare la fede e, mentre accettava di buon grado un po' di colazione da Vito Rocco, gli parlò della preghiera e della necessità, per noi cristiani, di pregare sempre sempre.

La vita del pastore, nonostante presentasse difficoltà di partecipazione alle pratiche religiose nella chiesa, si prestava molto bene alla preghiera continua e al colloquio con Dio e con la Madonna, i Quali sempre si rivelano ai cuori semplici, nella bellezza del creato.

-"Vedi -disse il frate, traendo dalla bisaccia uno strano oggetto, mai visto dal pastore- questa è una corona del Rosario. E' la preghiera più bella, che si possa fare alla Madonna. E' … un girotondo di preghiere alla Madonna. Te la dono e tu non smettere mai di pregare, quando sei solo dietro alle tue pecore. La Madonna ti aiuterà sempre e ti starà vicino!".

In quello stesso istante, il Padre Superiore, di ritorno chiamò da lontano: -"Fratello, andiamo subito alla stazione. Il treno arriva fra pochi minuti".

L'ubbidienza gli imponeva di partire. Il frate raccolse la bisaccia, salutò frettolosamente il pastore e si incamminò senza indugio.

Vito Rocco, amareggiato per l'immediata partenza, rimase senza parole, salutò a monosillabi col rosario in mano e, mentre frate bisaccia si allontanava, ebbe appena la forza di dire:
 -"…ma il Rosario … io non lo so dire".
-"Intanto prega con le preghiere che sai. Quando ritorno te lo insegnerò", rispose il frate, che, nel frattempo, si ricongiungeva al Superiore.

Vito Rocco, accanto al suo cane, rimase a guardare; fischiò alle pecore, le richiamò, guardò il treno che spariva nella valle e rimase col Rosario in mano.

* * *

Tutto il resto del giorno, Vito Rocco rimase col Rosario in mano. Ne contò e ricontò i grani, guardò il piccolo crocifisso nella parte terminale; pregò molte volte con quelle poche preghiere che sapeva a memoria, ma, alla fine si accorse che una domanda continua gli balzava alla mente: ... ma il Rosario come si dice?

Ci pensò la notte, mentre passava in rassegna tutte le belle cose che aveva sentite da frate 'bisaccia'; ci pensò il giorno dopo, e nei giorni seguenti. Un giorno ne parlò con un pastore amico, con cui si incontrava ogni tanto, ma questi non capì il suo problema e, in modo irrisorio, gli domandò:      -"…mica vorrai farti frate…?"

Gli veniva in mente quanto gli aveva detto il frate: "E' … un girotondo di preghiere alla Madonna" e pensava: forse bisogna fare davvero un girotondo. Io il girotondo posso farlo con le pecore.

E quel giorno ci volle provare, nell'ora in cui le pecore, dopo aver mangiato, si raggruppavano per la siesta. Tentò di raggruppare le pecore per gruppi di dieci, vi intercalò tra gruppo e gruppo il montone o una pecora più grande delle altre e, come San Francesco parlava agli uccelli, così cercò di parlare alle sue pecore, dicendo:
-"Orsù, mie care amiche, facciamo riverenza
  alla Madre di Dio, l'Onnipotenza!"

Pregò ad alta voce le poche preghiere che conosceva e continuò, rivolgendosi al primo gruppo, quello degli agnellini:

-"Giro girotondo …
  salta tu che sei piccino,
  salta tu che sei piccino
  …..
  salta tu che sei piccino!

  Ed ora che c'è il fosso,
  salta tu che sei più grosso!",

rivolgendosi al montone che separava il primo gruppo dal secondo, e scorrendo ad ogni salto un grano del Rosario che stringeva nella mano sinistra, mentre con la destra dirigeva e spingeva la pecora di turno. Pregava ad alta voce, parlava ancora alle pecore, invitandole ad onorare la Vergine e passava all'altro gruppo con frasi analoghe, che sgorgavano dal suo cuore e dalla sua mente, privo com'era di istruzione, ma certamente un po' poeta.

Alla fine della corona, dopo aver diretto con fatica i cinque gruppi delle pecore, baciando il crocifisso, esclamò:

-"Per onorar la Madre di Dio,
  ballate voi, che ballo anch'io!"

e con il cane, con gioia, si mescolò alle pecore.

     Nei giorni successivi, in modo graduale, perfezionò il suo girotondo-rosario. Le pecore gradatamente riuscivano ad ubbidire anche un po' di più, il cane gli dava un valido aiuto e Vito Rocco era felice, perché, come aveva detto frate Bisaccia, gli sembrava di avere la Madonna accanto. La sentiva, gli sembrava di parlare e ne ascoltava le risposte. Sentiva davvero una gioia immensa.

Il tempo e la bella stagione passarono in fretta, ma la vita del nostro amico e delle sue pecore era sempre bella e piena di significati, vissuti da Vito Rocco molto intensamente. Il suo giro-rosario era diventato uno scopo di vita, perché in questo modo onorava la Madre di Dio.

Nemmeno più tanto si domandava quale fosse il modo di dire il Rosario, fino al giorno in cui, una mattina di sole, dopo giorni di pioggia alluvionale, mentre cominciava a pregare il suo Rosario, vide laggiù nella valle oltre fiume, si … vide due uomini, due frati, frate Bisaccia e il Superiore, e corse, corse, preceduto dal cane.

Correva e gridava: -"Frate, Frate Bisaccia, finalmente! Insegnami il Rosario!"

Correva, affannosamente correva! Finalmente era arrivato! Correva, correva e non si accorse, né lui né il suo cane, che lo precedeva, che erano arrivati sul fiume in piena, tanto in piena che aveva pareggiato gli argini, e lui e il cane erano passati, di corsa, camminandovi sopra, come Gesù che aveva camminato sulle acque.

-"Frate Bisaccia, Superiore, vi prego: insegnatemi il Rosario. Io so solo fare il 'girotondo' con le pecore! Vi prego, non andate via, insegnatemi il Rosario!"

I due frati immobili, ammutoliti, esterrefatti, si inginocchiarono e, con le mani giunte, balbettarono:
-
"No, non noi a te, … tu, tu … insegnaci il tuo GIROTONDO!"

San Miniato, 11 agosto 2001


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   IL SEGRETO DELLA NONNA

Le parole e gli insegnamenti dei genitori sono regole basilari e fuori d'ogni discussione, ma le parole della nonna sono un aiuto valido e importante per la vita e, in alcuni casi, rimangono un autentico tesoro, da custodire gelosamente, come nel caso della nonna Giuseppina.

La nonna Giuseppina mi voleva un gran bene e me lo dimostrava sempre, in ogni occasione, anche nei minimi particolari; mi difendeva continuamente da tutte le forzature e imposizioni che venivano da mia madre, costretta dalla vita ad essere necessariamente dura ed autoritaria, o da altri parenti, duri ed autoritari per presunzione. Lei mi difendeva, con dolcezza, con amore, e mentre m'induceva ad ubbidire alla mamma, mi confortava e mi diceva cose che ancora oggi io ricordo bene ed apprezzo come regole di vita.

La povertà austera delle famiglie lucane e la durezza di vita, alla fine della prima metà del Novecento, con tutte le conseguenze della guerra mondiale, non permettevano alla cara nonna di essere con me generosa, come avrebbe voluto essere, ma generosa lo era e tanto. Mi serbava un uovo, quando l'aveva, un fico, alcune mandorle o un po' di formaggio e tante tante buone parole, che mi confortavano della mancanza del babbo, rapitomi dalla guerra, e di tutte le privazioni della vita, della serietà di mia madre, molto buona, ma sola e triste, sempre nella necessità.

Riposa a Jano la nonna, nell'ultimo piccolo loculo in alto a destra, accanto al proposto di quel piccolo borgo; lì all'inizi degli anni cinquanta necessità la riportò a trasmigrare, insieme alla famiglia, mentre altra necessità aveva portato me lontano, in collegio, ove mancavano e la nonna e la mamma.
In quel piccolo loculo la nonna ha portato e nascosto un segreto, un segreto per gli altri, per me un tesoro, una pagina di quel suo vangelo che, entrato allora nel mio cuore, sempre di più mi si manifesta ogni volta che, intimamente, ascolto la nonna.

Bontà e ubbidienza, generosità e amore erano il suo dire e il suo fare, e lo insegnava ai nipoti, a me che più degli altri ascoltavo.
"Non dimenticare mai la bontà e l'ubbidienza, - mi ripeté, quando la salutai per andare in collegio, - sii sempre onesto e bravo e diventerai un uomo, e la sera (me lo aveva ripetuto già tante volte!) non dimenticare mai di dire la preghiera a San Giuseppe! Ti proteggerà in vita e ti assicurerà la buona morte".

Quella della preghiera era una raccomandazione continua; la preghiera a San Giuseppe, e in particolare quella della buona morte, era la sua prerogativa. L'aveva praticata e insegnata nelle brulle terre lucane e la continuò in Toscana, nelle piagge di Jano, dove alla fine di una vita laboriosa, per lei avvenne l'incontro e l'abbraccio con la Buona Sorella Morte.

Quale risposta alla sua preghiera, per lei quell'abbraccio avvenne proprio la notte precedente la festa del Santo Patrono. Aveva ripetuto, alla nipotina di turno, la sua lezione di preghiera, molto particolare in quel giorno, perché era la vigilia della festa; pregò la preghiera della buona morte, rinserrò il suo segreto nel cuore, incrociò le braccia sul petto e si addormentò beata, ignara dell'abbraccio che la protegge ancora.

Ritorno sovente al cimitero di Jano.
La nonna mi parla ancora e mi ripete tutte le cose belle di un tempo.
Io ascolto, prego, stringo forte nel cuore il suo dono, il suo tesoro, per non perderlo mai, come fa lei, con le braccia incrociate sul petto.


San Miniato, 5 novembre 2001


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   A TE CHE VAI, SIA LUCE!

Un giorno, nel corso di una lunga passeggiata in un bosco, sul tronco di un albero tagliato di fresco incisi con il mio temperino questo messaggio:

<<...A TE CHE VAI, SIA LUCE!>>

Una settimana più tardi, tornai sulla solita strada per bearmi della solitudine e della compagnia del bosco.

Vidi un uomo fermo davanti al tronco del messaggio, assorto e pensoso.
« Buon Giorno! » Gli dissi.
« Buon giorno! - rispose - Senta, secondo Lei, cosa vuol significare "a te che vai, sia luce"? »
Senza saperlo, aveva incontrato la persona più indicata, a cui rivolgere una simile domanda. Eppure, per un attimo, mi ritenni incapace di dare una spiegazione appropriata, titubai, non rivelai la paternità del messaggio, sorrisi, sorrisi con gli occhi più che con le labbra, e dissi:
« Cammina nel bosco! Guarda il cielo! Poi chiudi gli occhi e guarda ancora, guarda dentro di te! La luce che vi troverai, non sarà da meno di quella del cielo! ... Arrivederci e buona giornata! »
« Buona giornata a te - rispose - e ...tanta tanta luce! »

* * * * *

Passò del tempo. Lo incontrai di nuovo quell'uomo, nel corso delle frequenti passeggiate. Diventammo amici.
Programmammo passeggiate comuni. Alternavamo momenti di colloquio con momenti di silenzio, coniugando insieme cordialità, amicizia e riflessione.
Nacque tra noi una stima, un arricchimento reciproco.

Era molto schivo di parlar di sé. Un giorno, finalmente, mi confidò: per problemi di salute, il suo medico gli aveva consigliato di passeggiare molto, di rilassarsi nella campagna e nel verde del bosco.
Era stato agli inizi delle sue passeggiate che egli aveva letto quel messaggio sul tronco ed aveva conosciuto me. Ne aveva ricevuto beneficio ed era grato, per questo, a me e all'ignoto autore del messaggio.
Mi disse anche che quelle passeggiate gli avevano di nuovo insegnato la preghiera e la speranza.

Un giorno non venne all'appuntamento. La sera mi telefonò: « Mi sono sentito male, - disse - il mio male avanza. »
Non venne più. Lo cercai per telefono: era all'ospedale. Andai a trovarlo; si commosse nel vedermi. Si asciugò gli occhi e mi disse: « Sono stato incerto e titubante fino ad ora, ma, nel rivedere te, non lo sono più. Ho deciso! Mi faccio operare. Voglio ritornare a camminare nel bosco. »
Ritornai dopo l'operazione, soffriva molto; mi guardò con i suoi occhi umidi e luminosi, che richiuse dopo avermi stretto la mano.
Dopo pochi giorni, mi giunse una telefonata: « Vieni, vuole vederti! »
Arrivai trafelato. Mio Dio! Quanto aveva sofferto!
Fece capire di voler rimanere un po' solo con me. Con tutte le forze residue mi strinse le mani e, quando fummo soli, con un filo di voce mi disse, sillabando: « …me-ne-va-do! »
Mi trattenni, lo fissai negli occhi e, portandomi al petto le sue mani, che avevano ormai perso ogni forza, gli dissi: « ...A TE CHE VAI, SIA LUCE! »
Quegli occhi s'illuminarono.
Pregai, piansi; piansi, pregai.
E quegli occhi, …così li ricordo, pieni di luce.

San Miniato, 14 luglio 2002


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   IL LOMBRICO DEL BASENTO

[ Madonna della Divina Provvidenza - Firenze ]

   Non so se ancora ci sarà qualche brava massaia che trascuri la moderna lavatrice e vada a "lavare al fiume", come faceva la mamma negli anni in cui io ero all'età dell'asilo, specie nei giorni dedicati alle pulizie di primavera.
   A distanza di tanto tempo, è sempre vivo in me il ricordo di quella giornata trascorsa al fiume Basento per il grande bucato di primavera, in compagnia della mamma, della nonna e di altre donne, ognuna con i propri panni e tutte disposte al reciproco aiuto.
   Io non ero andato all'asilo perché dovevo badare il fratellino Antonio, che da solo si sarebbe annoiato e sarebbe potuto cadere in acqua.
   Avevamo con noi l'asino della nonna, che era servito per il trasporto dei panni da lavare, e la capra. Questa era la produttrice del nostro latte quotidiano e meritava tutta la nostra attenzione.
   La mamma legò, a debita distanza l'uno dall'altra, i due animali, con delle funi lunghe, in modo da permetter loro di pascolare nel rispettivo raggio, senza intralci, e incaricò me di stare attento che non succedesse loro qualcosa di imprevisto e pericoloso.
   Le donne si sistemarono per lavare, una accanto all'altra dove l'acqua era accessibile, dopo aver disposto, sul bagnasciuga, delle lastre di pietra a mo' di occasionali e stabili lavatoi.
   Ebbi chiare e precise tutte le raccomandazioni della mamma: non entrare e non fare entrare Antonio in acqua, mantenermi sull'asciutto, badare al fratellino, all'asino e alla capra, non allontanarmi, non cadere e non far cadere Antonio.
   Nonostante le tante prescrizioni, la novità della giornata mi affascinava. Il sole, il fiume, tutta quell'acqua che veniva da non si sa dove e andava a perdersi laggiù, oltre quelle montagne...
Mistero!
   Mi tenevo Antonio per mano e feci a lui da cicerone. Perlustrammo la zona, raccogliemmo fiori, giocammo: respirai ossigeno che ancora ora, nel ricordo, mi rinfresca i polmoni.
   Le donne lavarono, cantarono, tesero i panni su stenditoi occasionali, fatti di cespugli, di rami e di funi legate da albero ad albero.
   Quando i panni furono tutti lavati e tesi ad asciugare, il sole era caldo e noi bimbi avevamo tanto appetito, la mamma ci chiamò per il pranzo. Ci sedemmo in cerchio con tutte le donne, ciascuno su una pietra, Antonio ed io fra la mamma e la nonna.
   Mangiammo pane, formaggio e verdure cotte; la nonna aveva portato un po' di salsiccia (quella che piaceva tanto a me!) e ce ne toccò un pezzetto per uno.
   La mamma divise il suo pezzetto tra me ed Antonio; non mangiò nemmeno il pane fresco, per serbarlo per la nostra merenda. Tirò fuori da un fagotto un cantuccio di pane duro, lo bagnò nell'acqua del fiume e lo mangiò con la corteccia del formaggio e con le cicorie amare, che aveva raccolte nelle vicinanze.
   Era triste la mamma, parlava meno di tutte; tuttavia era calma, perché aveva la sua mamma con sé. Il suo dolore era il papà morto in guerra e le sue preoccupazioni eravamo noi cinque: Antonio, io, la sorellina già in collegio e i fratelli maggiori, uno a scuola e l'altro di undici anni, già fuori di casa a pascolar le pecore.
   Finito il pasto, completato con una buona bevuta di acqua del fiume, le altre donne si allontanarono e noi bimbi giocavamo. Fu allora che un accalorato colloquio si animò tra la mamma e la nonna. Sentii mamma che singhiozzava e diceva: "…Ma come faccio, sono cinque … tutti piccoli. …Chi, Chi mi aiuterà?"
   Prima io, poi anche Antonio rimanemmo immobili. Trattenemmo il pianto, non le lacrime, e, non visti, vedemmo. La nonna le si avvicinò, le accarezzò la testa, le disse tante parole che io non capivo, ma che erano senz'altro belle e confortevoli. Disse tante volte: "Sono qua io! Ti aiuterò".
   Poi, decisa e sicura di sé, disse: "Figlia mia, coraggio! Dio provvederà! Alza quella pietra, vedi che c'è sotto".
   Io ed Antonio ci avvicinammo, piano, per vedere.
   Mamma si girò e con le mani sollevò proprio la pietra su cui ero stato seduto io, sul bagnasciuga, durante il pranzo, ma si ritrasse subito.
   "Cosa c'è?" chiese la nonna.
   "C'è un verme lungo", rispose mamma.
   "E' un lombrico, lo immaginavo. Vedi, figlia mia: sai dirmi chi è che pensa a questo verme? E come esso fa a campare?"
   Mamma si asciugò le lacrime, strinse le spalle e guardò il cielo, senza nulla rispondere.
   "Vedi, figlia mia! Eppure questo, che è soltanto un verme, vive. Qualcuno pensa a lui. Chi pensa a lui, penserà anche ai figli tuoi. Non preoccuparti! La Madonna ti aiuterà."
   Io ed Antonio, accanto a mamma, cercavamo di vedere il verme umido e grasso, che ormai si era ritratto e nascosto, quasi completamente, nella terra umida.
   Mamma ci baciò, ci strinse forte. Ci distrasse, si distrasse. Ritornò la gioia.
   La sera, a casa, quando mise a letto me ed Antonio, uno accanto all'altro, ci coprì, ci baciò e disse: "Dormite, cari vermetti miei!"
   Stanco, mi addormentai subito e certamente sognai il fiume e tutta quell'acqua che, senza posa, veniva da non si sa dove e andava a perdersi lontano, oltre quelle montagne...
   …e il lombrico? …chissà se avrà avuto la capacità di sognare?

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*Nota: Il Basento è il fiume che passa da Albano di Lucania, dove io sono nato.

San Miniato, 26 Gennaio 2002


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   I RUDERI DI CASTELVECCHIO


Oggi, mentre andavo per funghi che peraltro non c'erano, mi sono ritrovato a fare un tuffo nel passato, il che mi ha letteralmente estraniato dagli introvabili funghi e da tutti i problemi contingenti.
Un salto all'indietro nel tempo di circa mille anni, dopo aver attraversato in lungo e in largo il bosco di querce, splendido nella vegetazione autunnale, che riveste di colori meravigliosi le sue foglie, prima di restituirle alla madre terra.
Esso infatti, mentre, dopo un'estate torrida, nega l'insorgere dei sospirati funghi, nasconde anche in se i tesori del tempo e li rivela solo agli audaci, quelli che vanno, quelli che vanno e s'inoltrano nella sua solitudine, nella sua pace.
Nell'immenso bosco della Val d'Elsa, lì dove convergono i confini delle province di Firenze, Pisa e Siena, proprio nel versante senese, un viottolo, lastricato di sassi e ciottoli, per lo più rivestiti di splendido muschio, va ad incrociarsi in altra via pedonale, di poco più larga e visibilmente più battuta e frequentata, che scende giù dalla collina.
Nel piccolo spiazzo formato dall'incrocio dei due sentieri ho notato un cartello:
"RUDERI DI CASTEL VECCHIO DI SAN GIMIGNANO";
altri due piccoli cartelli riportano avvisi e divieti a difesa dell'ambiente. Un terzo, formato da due colonne di dieci/quindici righe ciascuna, riporta in italiano e in inglese una breve storia di Castelvecchio.
Città e presidio militare, forse anteriore agli Etruschi, fiorente e imprendibile già dall'età longobarda e fino a tutto il tredicesimo secolo, ceduta dal Vescovo di Volterra a San Gimignano, ne divenne prima la difesa e il presidio e poi, nel secolo quattordicesimo, col crescere della potenza dei nuovi padroni, ne divenne l'ombra, poi un peso e infine un epicentro di peste, con il conseguente abbandono e la morte.
Non altro a difesa di un tesoro nascosto.
La curiosità mi ha preso; ho dimenticato i funghi. Il cuore e i passi hanno accelerato l'andatura, diretti alla scoperta di qualcosa di cui avevo anche sentito, sia pur vagamente, parlare, ma che proprio non sapevo immaginare.
[ Castelvecchio - Torre del mastio ]L'alto bosco nasconde tutto da lontano, fino a quando non si arriva sul posto. Solo si notano, da una certa distanza, gli imponenti ruderi di una maestosa torre posta all'ingresso della città, a ridosso di quello che fu il ponte levatoio.
Tutto questo è quanto basta per trattenere il respiro ed entrare così in una cinta muraria, interamente protetta dagli alti alberi, con religioso silenzio.
Un silenzio d'obbligo per il visitatore incantato [ Castelvecchio - Cinta muraria ]ed estatico, quale io mi son ritrovato, un silenzio protetto dai chilometri di bosco attraversati per giungere colà e che si è propagato nell'intera vecchia area urbana, lasciando svettare, al di sopra di se, la sola torre d'ingresso e, in fondo, l'antica chiesa di elegante stile romanico, rimasta, ovviamente, senza tetto, ma protetta ancora dal cielo.
Le antiche mura perimetrali, in gran parte ancora in piedi, hanno il carattere della solidità: quelle pietre, legate da malta eterna, danno l'idea della roccia sagomata da sempre per la difesa ... di quel tesoro, che ancora vive tra quelle mura.
In quel maestoso silenzio, ho sentito i miei passi mescolarsi con l'eco dei passi d'un tempo...
Chi sono io, per infrangere l'eco di quei passi?
Come posso violare io, come posso calpestare quel tesoro che gli alberi nascondono e proteggono così gelosamente?
[ Castelvecchio - ruderi di abitazione ]Mi sono rifugiato nella contemplazione, mi sono aggrappato ad essa per non dover fuggire, per fare ammenda.
Mi sono aggrappato alle mura di quelle case, ormai rimaste visibili solo nella pianta topografica, a quelle piccole case, dalle fondamenta solide, che forse eran poca cosa rispetto alle nostre case, ma che furono reggia e decoro, protezione, asilo ed altare per quei forti che ancor ora respirano tra queste piante.
Case ben messe, rinserrate tra le mura, ordinate su vie parallele, che, partendo dalla fortezza d'ingresso, arrivavano alla Chiesa, alta, bella, solenne.

 

[ Castelvecchio - La Chiesa, esterno ]

[ Castelvecchio - La Chiesa, interno ]

[ Castelvecchio - La Chiesa, abside ]

Lì , là, una, due cisterne, e lì quella grande macina di pietra, e lì una seconda macina di pietra, rimasta in quella stanza, in quel mulino...
[ Castelvecchio - macina da mulino ]Chi l'ha scolpita quella grande macina?
Come avrà fatto a rigirarla?
Come?
Sono certo che solo il peso e le impossibilità di trasporto manuale hanno difese queste macine dai predatori d'antico ed esse restano lì, magnifico decoro a quel tesoro sepolto, che però si sente traspirare con lo stormir delle foglie.
Come vorrei, per incanto, rivedere viva questa città nel suo periodo migliore, fiorente, gloriosa, con gente felice, felice pur senza gli agi e le conquiste del tempo!
E come vorrei lenir le ferite e guarire il morbo, che furono causa di abbandono e di morte! Oh, si! Magari con i mezzi dell'era moderna!
E come vorrei prendere il meglio di loro, che noi più non abbiamo, e riunirlo a quanto in noi c'è di buono e fare così un mondo migliore!
Proprio così sogno, anch'io protetto dagli alberi e dal silenzio, finché mi ritrovo davanti la Chiesa.
Piano, vi entro e, inavvertitamente, mi segno col segno di croce.
Oh! Il mio è l'ultimo (e dopo incalcolabile tempo!) di infiniti segni di croce colà tracciati!
Non vi è più, in quel sacro luogo, niente di quanto potesse essere asportato. Solo pietre rimangono, disposte nell'armoniosa originaria forma, oppure cadute, abbattute dal tempo e rimaste lì ad attendere me, che in esse leggo la storia e la fede.

Alzo il capo:
non più alberi che coprono,
ma il cielo per tetto,
alto, azzurro, meraviglioso.
Che splendido tetto!
Accoglie e racchiude in se
tutto il percorso della fede,
degli avi e mia,
e, inavvertitamente,
e... con reiterata fede,
io, sì, io rinnovo, o Divino Signore,
tutte le preci nel tempo qui formulate
e le offro a Te,
per Loro che furon,
per noi che siamo...
...per la Gloria del Tuo Nome,
Signor della Vita e del Tempo!


San Miniato, 14 novembre 2003


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   SAPER PARLARE


Parlare, parlare, parlare...
Esistono diverse regole circa le parole ed il parlare in genere.

-TACERE E' MEGLIO CHE PARLARE...

-TACERE SEMPRE, INVECE DI DIRE COSE CHE pROTREBBERO FAR DEL MALE AGLI ALTRI…

-TRA LE MURA DOMESTICHE, INVECE, E' NECESSARIO PARLARE, COMUNICARE SEMPRE: E' NECESSARIO ELIMINARE I MUTISMI, I MANCATI RAPPORTI, CHE ISOLANO E CREANO INCOMPRENSIONI…

-TANTE VOLTE, SAPER ASCOLTARE E' MEGLIO CHE PARLARE; ANZI SAPER ASCOLTARE E' UN AUTENTICO COMUNICARE CON CHI E' TRISTE, E' ISOLATO, E' AFFRANTO DAL DOLORE E DALLE INCO MPRENSIONI ...

- PARLARE PER ESPRIMERE LA PROPRIA OPINIONE, PER DARE UN CONTRIBUTO AL DIALOGO COLLETTIVO, PER CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA PERSONALE E DI TUTTI, E' AUTENTICA CARITA' FRATERNA…

Per questo, mentre invito gli altri a fare altrettanto, mi dichiaro disponibile ad ascoltare e a parlare, convinto come sono che saper ascoltare e saper parlare portano sicuramente a SAPER AMARE.


San Miniato, 22 gennaio 2004


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   AVE, DOLCE MARIA DI NAZARETH!

AVE, DOLCE MARIA DI NAZARETH!
Alla Tua Purezza il mondo s'inchina,
poiché Dio per Primo a Te si chinò.
Unica Tu sei, nel misero mondo,
e cantar Tu puoi le lodi all'Eterno;
Tu Sola sei degna d'accogliere in Te
il Figlio di Dio, fatto Tuo Figlio.

AVE, DOLCE MARIA DI NAZARETH!
Tu, casta sposa dell'Amore Eterno,
con l'umile "SI", sgorgato dal cuore,
rechi nel mondo la Gioia e la Pace.
Bruci d'Amor nel generar l'Amore:
e il freddo mondo e buio riscaldi,
illuminando col Fuoco e la Luce.

AVE, DOLCE MARIA DI NAZARETH!
Il Padre Ti scelse dai secoli eterni,
il Messo Ti porta l'Annunzio Divino,
lo Spirito aleggia e vive con Te,
il Figlio in Te cresce, nasce da Te:
la Luce i pastori e gli Angeli in festa…
il Cielo e la terra si prostrano a Te.

AVE, DOLCE MARIA DI NAZARETH!
Ci resti accanto nel lungo cammino,
ci chiami, ci sproni, ci mostri la via…
Canti all'Eterno le lodi e al Figlio,
vivi l'Amore Divino Incarnato,
porgi le mani a noi figli nel mondo,
e al Cielo Tu porti i cuori imploranti.

AVE, DOLCE MARIA DI NAZARETH!
Ave, o Figlia, e Sposa, e Madre,
che, umile, nel cuore e a Nazareth,
per noi portasti la Trinità beata.
RENDI, TI PREGO, IL CUOR NOSTRO E IL MONDO
NOVELLA NAZARETH D'AMORE E PACE!
Tu, Immacolata, di Dio Madre e…mia!


San Miniato, 8 dicembre 2004


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   VACANZE: DAL BRENTA ALL'OSPEDALE

"Angeli del Cielo, a Voi affido la mia casa e tutto quanto qui lascio incustodito; affido a Voi la mia auto, le vacanze e quanto sarà di me nei prossimi giorni".

[ Dolomiti del Brenta - particolare ]
per vederla ingrandira
cliccare sull'immagone

Questa la preghiera bisbigliata, che iniziai nel chiudere la porta di casa e che terminai mentre mettevo in modo l'auto, già pronta con destinazione Dolomiti del Brenta.
Affidavo ai Celesti Custodi quanto lasciavo incustodito, quanto portavo con me, il viaggio e quelle vacanze, che speravo serene con mia moglie, in luoghi non noti ma certamente belli.
In segreto affidavo loro anche quel malessere fisico, crescente, che avevo avvertito nelle ultime settimane, e che pensavo sparisse nel riposo delle vacanze e nella bellezza del luogo. Fu un viaggio faticoso, accompagnato da pioggia battente, ma alimentato dalla speranza di preannunciato miglioramento e di una serena vacanza.
Il giorno dopo il sole premiò quella speranza e mi allargò gli occhi e il cuore su uno scenario incantevole, quali sono le Dolomiti del Brenta. Tanto che, del tutto incurante della persistente stanchezza e del malessere, arrivai con Marta fino a quota duemila.
La nipote Marta era già, da alcuni giorni con la famiglia, in quel luogo ed aspettava me, suo nonno, per provare l'emozione di una ascensione ad alta quota. Tenni fede al mio impegno ed alle sue aspettative e fu bello veder gareggiare i miei sessantasette anni con i suoi tredici. Meraviglioso fu il consumare un frugalissimo pranzo ad oltre duemila metri, col sapore di pino mugo e di erbe alpine, nel quadro incantevole di montagne e cielo indescrivibili.
Ma … e in segreto, devo confessare: feci la passeggiata in montagna più faticosa della mia vita. L'astenia e quel mio malessere mi sfiancarono, mentre resistevo ad essi solo per non deludere Marta nè la montagna, che ci aspettava. Mentre ridiscendevo a valle, con fatica non inferiore a quella dell'ascesa, ero convinto di essere già stato premiato e dalla montagna e dalla gioia, che avevo visto negli occhi belli di Marta.
"Costi quel che costi…!!!" mi ero detto all'andata e quel costo l'accettai, di buon grado, nei giorni successivi, l'accettai quando interruppi anzitempo la vacanza, per tornare a casa. L'accetto ora, nella corsia dell'ospedale dove mi trovo, per curare quel male sin dall'inizio non valutato abbastanza e per continuare, …si, per continuare la mia vacanza.
Può sembrare un'antitesi, ma la vacanza, che è un distacco dalle occupazioni della vita quotidiana, per un ritempramento fisico e spirituale, può benissimo continuare nella corsia dell'ospedale. Essa è pur sempre vita vera e reale, mentre continua e cresce, anche nella varietà e nel contrasto, sempre impegnando e riempiendo gli attenti occhi, la mente e il cuore.

Qui, nella camera dieci, che intimamente mi figuro posizionata ai piedi e nello scenario delle Dolomiti del Brenta, perché queste ancora dominano nel mio subconscio, mi ritrovo nel letto accanto alla finestra e in compagnia di cinque persone allettate, sofferenti, tutti legati da flebo, tubi, tubicini e cateteri. Sono tutti molto anziani.
C'è Adolfo, il burbero idraulico, che conobbi già oltre quaranta anni fa e che nella vita ho sempre salutato con poche parole, per la soggezione che incuteva, fino agli ultimi anni, quando, avvicinandosi agli attuali suoi novantaquattro (anni), con la vista indebolita, cercava conforto in chi incontrava e finalmente godeva di qualche sorriso, che non aveva saputo donare né ricevere negli anni suoi più verdi. Lo riconobbi subito perché, svegliandosi da momentaneo torpore, mentre si lamentava delle sue sofferenze, proruppe nel suo dire abituale, irriverente del Cielo e del tutto ostile con quanto ci fosse di umano.
Alla sua sinistra, accanto a me, c'è il signor Rolando, settantottenne. Sembra gravissimo mentre dorme, ma poi si rivelerà arzillo e arguto, interessatissimo del calcio, ma insofferente di qualsiasi cura, compreso le pasticche, che fa finta di deglutire, ma che, appena l'infermiere si allontana, abitualmente sputa per terra oppure sul mio letto.
Di fronte a me, nel lato opposto della camera, c'è un signore gravissimo; non farò a tempo a conoscerlo bene. Assistito notte e giorno, morirà alle tre della mia seconda notte in ospedale. Unico legame con lui sarà quella mia segreta preghiera, contestuale alla dipartita della sua anima, destinata per i cieli infiniti.
Sarà sostituito, dopo meno di due ore, dal signor Rocco, di novantuno anni; un simpatico ed educato vecchietto, circondato dall'affetto di molti parenti, ma anche attaccatissimo alla giovane badante rumena, sulla quale riversa, compiaciuto, i suoi sguardi affettuosi. Vigile e attento, è ancora capace di sorridere e di augurare a tutti ogni bene, pieno di fiducia e con la speranza di superare il suo male e… tornare a casa.
Alla sua sinistra, di fronte a Rolando, c'è Pierino, di ottantatre anni; sembra in coma, non parla e non risponde mai. Le sue nipoti, vivaci e desiderose di rinvivire a pieno il nonno, lo chiamano, gli parlano gli raccontano, ma lui niente: ha gli occhi chiusi e la bocca ansimante. E' alquanto dispettoso però: solo quando le infermiere chiedono ai familiari di uscire, per esigenze di servizio, l'ho visto una volta svegliarsi completamente, aprire i suoi due grandi occhi e guardarsi attorno e, poiché non ha visto nessuno vicino, ha richiuso gli occhi e si rimesso a dormire. Dormiva anche quando, dopo alcuni giorni, lo hanno dimesso dall'ospedale, ritenuto ormai idoneo a poter essere assistito a domicilio.
Ultimo, alla sinistra di Pierino, nel letto diametralmente opposto al mio, di fronte ad Adolfo, c'è Franco. E' l'unico più giovane di me di ben tre anni. Di lui sono maggiormente preoccupato: è sofferente, respira male, il cuore sempre sotto controllo. E' stato ricoverato per cause simili alle mie: versamento pleurico, liquidi dispersi nei polmoni e in tutto il corpo, perdita di proteine. Nei primi giorni è stato una vera pena; ora, per fortuna, sembra un po' migliorare e si prospetta per lui la trasferta in reparto specializzato a Pisa.
Sono tutti in qualche modo ancorati al letto con tubi, drenaggi, flebo e cateteri i miei compagni di …vacanza nella camera dieci, …e non parlo di tutti gli altri ricoverati nelle altre camere, nel lungo corridoio.
Mi accorgo di essere l'unico ad alzarmi dal letto e ad andare nel bagno autonomamente. Sono l'unico a non avere bisogno del pannolone. Sono talmente autonomo e in forma da essere riuscito, in un momento di relativa calma, a fare un complimento ad Adolfo ed a strappargli un mezzo generoso sorriso…
Qualcuno mi ha perfino detto: "Ma tu non hai mica la faccia da ospedale"
La notte scorsa, svegliato dalle insofferenze di Adolfo e dai lamenti degli altri, mentre andavo nel bagno, Rocco mi ha chiamato con un cenno della mano e mi ha chiesto un fazzoletto. Gliene ho dato uno che egli aveva sul comodino. Tossendo mi ha sorriso e mi ha detto un "Grazie!", che vale una ricompensa, tanto che, per un attimo mi sono sentito utile e felice, anche in questa parte della mia vacanza non programmata.

Oggi, per meglio curare il mio male, sono stato trasferito nel reparto di nefrologia e mi sono subito emozionato: sono finito solo e proprio nella camerina e nel posto in cui stette ricoverata mia madre, alcune settimane prima di morire.
A cena, poi, mi è stato detto: "Lei può camminare, venga a mangiare nel refettorio, seduto al tavolino!". Ho avuto un attimo di titubanza…; mi sono scosso ed autocontrollato: poi sono andato deciso. Il tavolo assegnatomi, davanti alla TV, era nella stessa stanza del vecchio reparto di Medicina e proprio nel posto, dove c'era il letto in cui, diciotto anni fa, moriva mio fratello fra le mie braccia.

Ora, solo, nella pace di questa camerina, accanto a quel refettorio, sento la mamma, il caro fratello e gli amici della camera dieci. Gioiscono con me e rendono perfino bella la mia vacanza, mentre per tutti, congiunti ed amici, ciascuno nella propria dimensione, terrena o eterna, … la vita continua.


San Miniato, 6 settembre 2007


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