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Massimiliano Pantano

 ci scrive:  

" mi chiamo Massimiliano, ho 23 anni e sono un marinaio. Mi piace scrivere, disegnare, modellare ecc. Sono alla continua ricerca di persone che sappiano condividere il gusto del bello e la forza della creatività. voglio premettere che non sono né uno scrittore, né un pittore poiché non ho le basi e gli studi per esserlo. Sono soltanto un perito chimico che fa il radarista in Marina che non riesce ad imporsi per quello che è realmente. Attenzione!! Non sono un frustrato. Comunque attendo se ne avrai voglia un tuo pensiero, commento o critica su alcuni lavori quali un racconto e un disegno. ciao e a presto. (mi piacerebbe tanto collaborare con qualcuno e contribuire a qualcosa di edificante) "

 e ci manda due sue opere:
   
 

 senza titolo
   

  wake up dead man

  ritorno a "Accademia di Talia"


senza titolo

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wake up dead man

   

"Talvolta mi capita di scrutare il palmo bianco delle mani: i solchi simili a trincee mi rivelano storie di vita e di morte…..".   
Mi chiamo Guido, ho trentatré anni e sono uno scrittore al suo secondo romanzo, a mio parere il più importante dal punto di vista professionale per un giovane scrittore che aspira al successo. Prossimo all'epilogo, da diversi giorni non riuscivo a metter su nemmeno un paragrafo, mi sentivo incartato come un merluzzo fatto al cartoccio: un muro di gomma invisibile si era alzato tra il cervello, sede della creatività, e gli organi periferici. Un giorno, spazientito mi alzai dalla scrivania, in collera con me stesso, e raggiunsi la stanza da letto che un tempo fu dei miei genitori. I raggi del sole, filtrati dal morbido panneggio di lino ricamato, pittavano le bianche pareti con piccoli e graziosi souvenir d'ambra fusa. Estrassi dal comò la rivoltella, che per qualche sinistra ragione risultava ancora custodita da mio padre, indossai l'impermeabile e uscii defilato dall'appartamento.
Con la lentezza tipica di una sequenza alla moviola: la pistola che stringevo saldamente in pugno scivolò via dritta nel fiume, dove presto scomparve inghiottita dalle torbide acque. Mi accasciai ai piedi del parapetto, poggiai il viso sulle mani aperte e scoppiai in lacrime, mentre un tuono esplose illuminando a giorno il plumbeo cielo, coperto da una fitta maglia di nuvole nere cariche di veleno. Sollevai il capo ed un alito di vento, caldo come scirocco, ripose le salse lacrime nel grembo della terra: sentii le gote incendiarsi con indicibile violenza e la gola, seccatasi, cominciò a farmi male. Accusai pure un terribile senso di nausea, come se qualcuno avesse ficcato, misteriosamente, le sue enormi dita in gola e stesse rovistando nella mia anima.
Non ero solo in quel posto, notai una strana presenza: distinsi, in lontananza, un corpo di donna muoversi fra le gelide acque.
Eravamo in pieno inverno e in più imperava un grosso divieto, nero su giallo, che vietava la balneazione, più che un fiume pareva una fogna, una cloaca a cielo aperto maleodorante come la latrina di una stazione di provincia. La luna illuminava la sua pelle liscia con precise pennellate di bianco zinco, strappata all'oscurità apprezzai le aristocratiche fattezze: le sottili labbra vermiglie, il seno generoso come ciliegio fiorito, il ventre piatto. S'immerse nelle letee acque e venne a galla con in mano la rivoltella che avevo perso accidentalmente poco prima. Un senso di vuoto mi cinse il petto togliendomi per un attimo il respiro, dopodiché urlai a squarciagola intimandola di gettare via l'arma. Senza indugiare ancora mi tuffai disperato nel fiume, afferrai la pistola adagiata sotto una spessa coltre di fango putrescente e mi sentii subito sollevato. Di lei, però, nessuna traccia, svanita nel nulla come bolla di sapone. Rimasi immobile, con l'acqua alle ginocchia, fissando la lucida arma sghignazzante che presto divenne il centro di un vortice dove tutto ruotava attorno ad essa: la notte, le stelle, gli alberi e la sfiorita luna. Erano le cinque del mattino, quando, rannicchiato nel grande e comodo letto, con mia gran sorpresa, accanto a me giaceva la tenera Alice. La camera era avvolta da una luce purpurea tendente alla viola ed un nastro luminoso, che faceva capolino dalle imposte mal chiuse, rendeva cangiante il colore del mobilio, voltata di spalle mostrava la schiena nuda ricamata di sole. Alice, sordomuta dalla nascita, aveva vaporosi capelli vermigli, lunghe dita affusolate di porcellana bianca e la pelle profumata di un'intensa fragranza di muschio selvatico. La sua sensualità non aveva nulla da invidiare alle donne ritratte da Schiele o Toulose-Lautrec, anzi, sembrava una loro creazione: bella e misteriosa. Indugiai sotto il bianco cuscino, annaffiato da rivoli ramati dalla testa di Alice districatisi, dove spesso nascondeva gli slip ed ebbi un sussulto quando i polpastrelli sfiorarono un oggetto duro e gelido.
  Con mia grande agitazione tirai fuori la sordida rivoltella: come un'ombra mi seguiva dappertutto, un presagio incombente di morte che a tutte le ore del giorno e della notte corrompeva il mio fragile stato d'animo. Sono debole ad ogni forma di seduzione, ahimè, e la piccola Alice lo sapeva benissimo, presto o tardi sarei finito nella tela di un grosso e famelico ragno.
Un gemito, presto il caldo respiro sul collo, Alice si era appena svegliata a causa della mia agitazione e adesso stava seduta, ritta a fianco a me. Terrorizzata, schizzò via dal letto e cominciò a vestirsi in gran fretta, si mise la maglietta, indossò i pantaloni aderenti, prese la borsetta e andò via. Sprofondai nella disperazione più nera, non provai neppure a fermarla. Rimasi solo, con lo sguardo smarrito, con l'ombra di Alice ancora distesa sulle bianche lenzuola. Non avevo nessuna premura di alzarmi dal letto, distesi il braccio e afferrai l'agenda che stava sul comodino, alla mia destra. Oggi riportava un appuntamento dallo psicanalista, ma non avevo la minima intenzione di sedermi su quella poltrona e soddisfare la sua curiosità morbosa. L'appuntamento, come tutti gli altri del resto, sarebbe stato annullato colpa del mio orgoglio. Decisi di alzarmi solo quando le lenzuola divennero fredde ed ebbi respirato tutto ciò che di Alice restava. Per ingannare il tempo e vincere la noia, rividi un vecchio film, a caso scelsi la pellicola "2001: Odissea nello spazio" di Stanley Kubrick. La sua visione non fece altro che moltiplicare la mia agitazione che si era radicata, come un tumore, in ogni singola cellula del mio corpo: ero agitato, ansioso, prossimo ad una crisi di nervi. Fissai il grande orologio a pendolo, che da qualche tempo non rintoccava più l'ora. Con mio gran stupore mi accorsi che le lancette ruotavano vorticosamente, come impazzite: pareva che il mio sguardo esercitasse su di esso, come un buco nero, uno strano influsso gravitazionale, dopo cominciò lentamente a liquefarsi e simile al
mercurio liquido scivolare via lungo la parete formando sul pavimento a scacchi, neri e bianchi, un piccolo specchio d'acqua argentato dove, sconcertato, non vidi il mio riflesso. Un tonfo sordo, proveniente dalla cucina mi svegliò all'improvviso tranciando di netto i fili che mi legavano alla dimensione del sogno, catapultandomi violentemente nella realtà. Sentivo i piccoli passi farsi sempre più vicini. Cominciai a contarli. Non avevo la minima forza per reagire, la morte mi avrebbe colto con il mio tacito consenso. Tredici passi. Non era né un ladro, né un maniaco, né un animale bensì la dolce e tenera Alice. I bagliori del televisore acceso, illuminavano il suo bel viso e mi domandai quale impulso la rendeva così fredda, così sicura di sé. La stanza era immersa in un silenzio di marmo, tra porcellane variopinte, fiori di plastica e quadri d'autori sconosciuti mentre l'aria, percorsa da un'invisibile tensione, si faceva sempre più rarefatta e irrespirabile. Si sedette dinanzi a me sulla poltrona di velluto nero, infilò la mano nel basso ventre fra i pantaloni aderenti e tirò fuori una pistola. Alzò in aria il dito indice: credo volesse dire che un solo colpo era presente in canna, fece ruotare il tamburo con un gesto nervoso delle dita, simili a sgorbie d'acciaio, e mi poggiò la canna in fronte, dritta in mezzo agli occhi. Una grossa goccia si staccò dalla fronte, imperlata di sudore, arrestandosi sulle folte sopracciglia, senza esitare schiacciò il grilletto. L'aria rimase muta. Fece lo stesso su di sé. Una sirena spiegata cominciò a risuonare nel mio cervello misto ad urla d'agnello e stridori metallici di treni in frenata: la pistola aveva fatto fuoco. Alice cadde supina sul pavimento ed un rivolo di sangue scese lentamente dalla tempia rigandole il lindo viso. Mi avventai su di lei, la strinsi forte tra le braccia e mi baciò sulle labbra protese col suo ultimo sforzo. Il sangue mi attraversò la gola: fui colpito nuovamente da un terribile senso di nausea e di vuoto assieme, una grossa lingua calda e umida, rossa come la pleura, cominciò a pulsarmi in gola. Mi sentii soffocare, quando all'improvviso, mi svegliai in una stanza d'ospedale tra le braccia di Alice che mi baciava con passione. Non riuscivo a capire, la testa mi faceva male e avevo una gran sete. Casualmente il mio sguardo cadde sulla grande cartella metallica, che l'infermiera, ritta di fronte a noi teneva stretta fra le braccia e tutto fu chiaro. Vidi riflessi noi due stretti in un abbraccio, che mi riportò alla mente la tela di Klimt vista al Museum Furangewandte Kunst durante il breve soggiorno viennese, solo allora fui certo del mio ritorno in vita se non ché della mia rinascita.

 "Un'altra vita mi darai che io non conosco, e che non intendo conoscere".
 

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