Voltolino Fontani, il Grande
Innovatore
Tavola-rotonda e presentazione
della monografia
di Fosco Monti
LIVORNO
- Molto pubblico alla «Goldonetta» per la tavola
rotonda voluta dal comitato promotore della mostra di Voltolino
Fontani. Occasione, anche, per la presentazione della monografia
edita dalla «O.Debatte». Relatori: Prof. Bruno Corà,
direttore del Museo Pecci, dottoressa Francesca Cagianelli, curatrice,
prof. Sira Borgiotti, presidente «Gruppo Labronico»,
amm. Giuseppe Lertora, comandante Accademia Navale, Adila Fontani,
figlia dell'artista, Michele Pierleoni, promotore, dottor Giacomo
Romano, moderatore. Esce sicuramente ingigantita la figura di
questo artista che, anche a detta di Corà, porterà
ad una sua valutazione anche in ambito internazionale. Per la
sua riqualificazione linguistica, per il suo coraggio: tanto
da paragonarlo, nel dopoguerra, a innovatori di grande genio
quali Burri, Fontana, D'Orazio. Dice Corà: «Fontani,
un contemporaneo che sta per essere storicizzato, un artista
di grande valenza drammatica». Ha perorato inoltre di fare
un «sistema», una «rete», di respiro
europeo, a cui si dedichi anche Livorno (così come è
già per Firenze, Prato, Pistoia ed altre realtà
toscane) per affrontare al meglio, strutturalmente, la difficoltà
di far digerire, oggi, l'Arte Contemporanea, che tanti meriti
ha per una lettura verace del mondo attuale. «Fontani -
ha detto - ebbe una intuizione secondo gli universali valori
della pittura e della poesia, rifuggendo da ogni orpello e sovrastruttura
decorativa». Pierleoni «vede» Fontani nell'ottica
dei grandi artisti «riqualificati» che la mostra
«Continuità» a Palazzo Fabroni ed a Palazzo
Strozzi ha evidenziato.
La figlia Adila ha «riscoperto», con la mostra, un'altra
dimensione del padre. Il vescovo Ablondi ha inviato un messaggio
con il quale dà testimonianza della febbrile tensione
dell'artista, intento a compiere, nei locali del Cenacolo della
Valle Benedetta, quel grande capolavoro che è «La
Deposizione di Cristo», uno dei «pezzi forti»
della mostra. Molto appassionata la concione di Sira Borgiotti.
«Voltolino - ha detto - era l'emblema del coraggio e Livorno
deve menare gran vanto per questo artista che lo onora».
L'ammiraglio Lertora ha trattato l'ispirazione marinaresca in
tante opere di Fontani: l'opera «Relitti» ed altre
evocano la tragedia delle intuizioni dell'Eaismo. Il colto intervento
della Cagianelli, un'analisi scientifica vera e propria, è
stata una lezione di critica d'arte. Ha fatto un richiamo ai
«vageri» vianeschi, nella loro allucinante umanità;
all'Eaismo come «credo», come consapevole strumento.
Una mostra, insomma, «che ci voleva». Per noi, una
bellissima mostra, tanto da suggerirla ad un potenziale visitatore
forestiero come «giornata memorabile» quando fosse
suggellata anche da una passeggiata salmastrosa sul lungomare
di Ardenza, sito stupendo che tanto piaceva a Voltolino. |
Personaggi del Cenacolo della
Valle Benedetta: Voltolino Fontani
di Umberto Morgiano
"Sentirsi grandi vuol
dire esserlo almeno un poco" così diceva spesso Voltolino
Fontani, alludendo sarcasticamente all'alto, e fondato, concetto
che aveva della propria pittura.
E' un paradosso, certo: se fosse vero, a Livorno ci sarebbero
decine di pittori "un poco" grandi, posto che tanti
si sentono tali.
E' un paradosso, tuttavia, che serve a comprendere meglio la
figura di Voltolino, con il suo gusto della battuta, delle affermazioni
perentorie corrette da un umorismo amaro e sardonico.
La sua personalità è stata così complessa,
poliedrica (un aggettivo che gli piaceva), che diventa difficile
tentare di restituirla, sia pure in un veloce bozzetto: si ha
timore di falsarla, di renderla incomprensibile a chi non lo
ha conosciuto.
Della sua pittura, ha parlato già sulla Canaviglia Piero
Caprile nel 1976. Ma Voltolino Fontani, oltre che grande pittore,
era dotato di tante capacità, proteiformi (altro aggettivo
che gli piaceva): suonava il piano ed aveva anche composto alcuni
pezzi; scriveva poesie, sempre con misura ed equilibrio, e articoli
acutissimi per i giornali; aveva persino un forte intuito matematico,
come dirò più avanti.
Era, insomma, una persona di grandissima intelligenza: forse
la persona più intelligente che abbia mai conosciuto.
E la sua poliedricità era talmente al di sopra delle dilaganti
mediocrità pseudo-artistiche, che non mi sentirei davvero
di chiamarlo "pittore-poeta-inventore", come tanti
amerebbero sentirsi designare, senza avvertire il ridicolo e
la presunzione di tutti questi titoli messi insieme.
Lui era soltanto Voltolino Fontani, e questo bastava.
Con il suo protetto Dorino Dori, con Giovanni March e Bruno Miniati,
era uno dei più assidui frequentatori del Cenacolo della
Valle Benedetta, sin dalle origini, da quando quei nove o dieci
amici che si riunivano la domenica alla Valle non si erano ancora
dati il nome di "Cenacolo", prendendo un poco in giro
se stessi con questa parola roboante.
E Bruno Miniati, come si è già detto in precedente
articolo, ci aveva pensato subito a ridimensionarla in "mangiàcolo",
"pranzàcolo", "bevàcolo".
Fin dal 1970 Voltolino, amico di Piero e Umberto Monteverde,
veniva tutte le domeniche alla Valle, sempre accompagnato dal
suo cane Tommy, un cocker mezzo matto e, forse per questo, non
gradito in famiglia.
Era un animale nero, ringhioso, affezionatissimo al padrone:
pure non mancava di morderlo a sangue, tanto che più volte
mi ricordo di aver visto Fontani con segni profondi sulle mani,
perché Tommy gli si era "rivoltato". Ma lui
gli voleva bene lo stesso, lo perdonava sempre, lo teneva costantemente
con sé: di giorno nel suo studio a fianco di Bottega d'Arte,
sugli Scali Manzoni, la notte in macchina, perché, come
si è detto, in casa non lo volevano.
In quello studiolo, che sarà stato tre metri per due e
forse meno, data l'asimmetricità delle pareti, Fontani
dipingeva da forzato del pennello; ricordo che teneva contemporaneamente
sui cavalletti due o tre tavolette: una pennellata a una, una
pennellata alI 'altra. Alcuni dipinti li faceva per vivere, ripetendo
frequentemente con poche variazioni, gli stessi soggetti: la
casina in campagna, col cipresso, il chierichetto; altri per
l'arte, e si trattava per lo più di composizioni che di
figurativo avevano poco. Lui le chiamava "Oniriche"
e le considerava le sue cose importanti.
Eppure, senza entrare nel merito della sua arte di cose notevoli
ne aveva fatte tante, sin da giovanissimo, in un continuo sperimentare
e divenire di stili.
Aveva cominciato, appena adolescente, con delle raffigurazioni
inquietanti, spesso cimiteriali, di grandi proporzioni; talvolta,
da dietro un cipresso stilizzato, faceva capolino un giovane
magro e pallido, in giacca e cravatta nere: era l'autoritratto
di Voltolino.
Dopo tanti anni di pittura, commerciale o no, aveva poi abbandonato
le opere di ampie dimensioni; e ci volle proprio la Valle Benedetta
per indurlo a tornare alle origini, con tutto il bagaglio di
esperienza e di capacità che nel frattempo, naturalmente,
aveva accumulato.
Uno dei primi frequentatori del Cenacolo, infatti, il pittore
Renzo Zambini, aveva realizzato un vasto dipinto per la Chiesa
della Valle Benedetta, che era stato posto sulla parete laterale
destra (per chi guarda l'altare maggiore) del presbiterio: si
trattava di "Gesù risorto che appare agli apostoli".
Voltolino si sentì spinto a realizzare un'opera di dimensioni
uguali, da collocare sulla parete dirimpetto. Piero Monteverde
gli procurò la grande tela, che fu allestita da Alfredo
Mainardi e sistemata nel garage di casa Monteverde alla Valle
Benedetta.
Nonostante
le proporzioni, metri e metri quadri di superficie da dipingere,
Voltolino completò la sua opera in pochi giorni: prima
tracciò le figure a carboncino, e subito apparve la grandiosità
della concezione, poi applicò i colori ed il dipinto fu
pronto: una "Traslazione di Cristo", dove il Redentore,
morto ed abbandonato tra le braccia di tre figure velate, è
il ritratto premonitore del Fontani morente di qualche anno più
tardi, quando, tormentato dal cancro, soffriva con indicibile
coraggio in ospedale.
Il dipinto di Fontani, insieme a quello di Zambini, fu inaugurato
dal Vescovo di Livorno, Mons. Ablondi, con una memorabile cerimonia,
seguita naturalmente dal solito pranzo al Cenacolo della Valle
Benedetta .
Più tardi, sollecitato dal successo di quella prima opera,
Fontani realizzò anche un altro ampio dipinto, "San
Francesco e il poverello", che fu collocato in Chiesa, sopra
la porta d'ingresso, a sinistra.
Non c'è bisogno di dire che Fontani volle lavorare gratuitamente,
per ambedue le opere.
Tutto preso dal fervore di queste creazioni impegnative ed importanti,
avrebbe voluto anche realizzare una serie di dipinti da sistemare
lungo le pareti del coro; la morte tuttavia non glielo consentì.
Ma non furono soltanto quelle le opere di grandi dimensioni realizzate
da Fontani negli ultimi anni; c'è, tra le altre, un dipinto
della serie degli "onirici" , di proprietà Monteverde,
che per alcuni anni, quando Voltolino era vivo, restò
appeso alla parete della stanza dove si tengono le riunioni del
Cenacolo. Ogni volta che i commensali si sedevano, egli li interrompeva:
"Un momento: prima di mangiare, due minuti di raccoglimento
davanti al quadro!". Detto da lui non appariva presuntuoso,
mescolato com'era di sarcasmo e ruvida bonarietà; lo considerava
veramente uno dei suoi pezzi migliori e, con questa frase, si
allacciava certo a quel "sentirsi grandi
" di
cui si parlava all'inizio.
Era un uomo ombroso, un po' sospettoso anche, eppure pieno di
comunicativa: bastavano poche sue parole per rinfocolare una
compagnia sonnacchiosa, come quando, gridando con la sua voce
baritonale, diceva: "La parola a
" pronunciando
il nome di qualche ospite di indole particolarmente taciturna,
che la parola non la prendeva nè l'avrebbe presa mai.
Era anche un uomo dalla generosità unica: non voleva debiti
di sorta e ripagava dieci a uno qualsiasi favore ricevuto.
Una volta, e qui si parla del Voltolino matematico, aveva elaborato
una teoria secondo la quale non sarebbe quella della luce la
velocità più elevata possibile. Nel timore che
qualcuno gli togliesse il merito della scoperta, non so quanto
fondata, chiese ad un avvocato amico di poter fare un atto notorio,
che conferisse certezza alla data e quindi alla priorità
dell'idea. Il legale lo condusse in Pretura e l'atto si fece;
si trattava di una prestazione professionale veramente modesta
che, anche per un cliente qualsiasi, avrebbe comportato una spesa
non molto alta. All'avvocato che gli diceva di non voler niente,
dati i rapporti di amicizia, Voltolino per il momento non ribatté;
ma il giorno stesso gli portò in studio un "onirico"
50x70, che valeva cinque volte la parcella non inviata.
Ombrosità e generosità impulsive, dicevo, da vero
livornese. In gioventù, mi hanno raccontato, ebbe un diverbio
con un collega pittore e da una parola all'altra, non si sa come,
vennero alle mani: Voltolino ebbe la meglio, lasciando l'avversario
con la faccia sanguinante. Ma, subito riappacificati, Fontani
fece salire il contuso sulla propria bicicletta, in canna, e
così pedalando come se nulla fosse accaduto, lo portò
in infermeria.
Era senza dubbio un uomo singolare, anche fisicamente, con quell'espressione
rude che non ne tradiva a prima vista le finezze; camminava con
la testa incassata nelle spalle, che teneva ricurve: ricordo
però che, quando si raddrizzava nella persona, appariva
di almeno dieci centimetri più alto. E lui ci rideva,
guardando l'interlocutore allibito, come a volergli suggerire
che altre sorprese, altre preziosità c'erano dietro le
apparenze.
Dicevo che era un affezionato frequentatore del Cenacolo: non
mancava mai, infatti, neppure quando stava così male da
sentire, come confessava "tre spade conficcate nel fianco".
Ma non faceva mai pesare la sua sofferenza, sempre restava apparentemente
allegro e spiritoso.
Uscito da uno degli ultimi ricoveri in ospedale, nel dicembre
del 1975, lo vedemmo con i capelli divenuti grigi in poche settimane.
Nel gennaio del 1976 venne per l'ultima volta alla Valle Benedetta
e, sul librone riservato ai convitati, tracciò gli ultimi
due ritratti, con una padronanza di segno che tradiva appena
la sofferenza: un ritratto del pittore Sarino De Domenico ed
uno, appena abbozzato, del parroco della Valle, Don Renzo.
Poi seguirono mesi e mesi di agonia, fino all'agosto quando,
morto, fu irriconoscibile per chi non lo aveva più rivisto.
Dorino Dori, il bizzarro e timoroso pittore naìf, aveva
perso un protettore, gli amici della Valle Benedetta un compagno
la cui genialità sarcastica aveva reso per tutti la vita
più accettabile. |