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Voltolino Fontani

Antologica di Voltolino Fontani
(1920-1976)
alla Goldonetta di Livorno

Voltolino Fontani
il Grande Innovatore

Aggiornamento
Personaggi del Cenacolo della Valle Benedetta: Voltolino Fontani


Due opere dell'Artista [ "San Francesco e il poverello" e "Traslazione di Cristo" ] sono presenti nella Chiesa di San Giovanni Gualberto, sede del CENACOLO DI VALLE BENEDETTA

Antologica di Voltolino Fontani (1920-1976)
alla Goldonetta di Livorno

Anticipò l'arte nucleare di Dalì e rinnovò il linguaggio della Livorno post-macchiaiola.
Dal 10 marzo al 21 aprile omaggio al pittore "dark"
che aprì una scuola di pittura in un negozio di bare.

di Ursula Galli - 21 febbraio 2002   

 LIVORNO - Anticipò Salvador Dalì, nella denuncia del pericolo nucleare e nella plasticità della forma, ideò il movimento Eaista "Era atomica 1948" e contestò chi lo considerava troppo influenzato dalle teste lunghe di Modì, producendo fanciulle malinconiche con le teste allungate e schiacciate come dischi volanti.
Ironico, battagliero, innovativo: in tre aggettivi Voltolino Fontani (1920-1976) artista di Livorno al quale la città natia dedica dal 10 marzo al 21 aprile alla "Goldonetta" una mostra antologica, promossa dalle gallerie Goldoni e Athena, sotto il patronato della presidenza della Repubblica e con il patrocinio del Comune labronico.
Il percorso scientifico della mostra è curato da Francesca Cagianelli (che si occuperà anche del catalogo, edito da "O. Debatte") e da Giacomo Romano.
In mostra oltre 85 opere e decine di disegni per riscoprire e far comprendere il percorso artistico e figurativo di questo pittore dal nome di un uccello trampoliere, che faceva a botte con la stessa facilità con cui dipingeva. Fontani spezzò il conformismo dell'arte livornese post-macchiaiola e un giorno, si racconta, aprì una scuola di pittura per giovani in un negozio di bare (sarà stato un caso o un modo per evidenziare che la pittura tradizionale era morta?).
Allievo prediletto di Beppe Guzzi e fondatore dell'Accademia intitolata ad Amedeo Modigliani, Voltolino Fontani è passato dal periodo detto"dell'espressionismo psicologico o dell'ineluttabile" (1937 - 1942) al periodo esista (1943 - 1952), infine al periodo del linguaggio nucleare cui si affiancano un approfondimento della pittura informale e una forte scomposizione del naturalismo in senso onirico (1953 - 1976).
A Livorno Fontani ha diretto l'Accademia di Belle Arti "Trossi Uberti".
Ha partecipato a mostre nazionali ed internazionali, comprese le Biennali, le Quadriennali Romane (dove una sua opera, la "Capra nera" piacque più dei quadri di Carrà) e conseguito premi nazionali. Sue opere figurano a Bruxelles, nella collezione Van Geluwe insieme a opere di Picasso, Costant Permeke e Jean Brusselmans, in varie collezioni d'Italia, Brasile, Venezuela, Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Germania.
     

 

 
 

Voltolino Fontani, il Grande Innovatore
Tavola-rotonda e presentazione della monografia

di Fosco Monti

LIVORNO - Molto pubblico alla «Goldonetta» per la tavola rotonda voluta dal comitato promotore della mostra di Voltolino Fontani. Occasione, anche, per la presentazione della monografia edita dalla «O.Debatte». Relatori: Prof. Bruno Corà, direttore del Museo Pecci, dottoressa Francesca Cagianelli, curatrice, prof. Sira Borgiotti, presidente «Gruppo Labronico», amm. Giuseppe Lertora, comandante Accademia Navale, Adila Fontani, figlia dell'artista, Michele Pierleoni, promotore, dottor Giacomo Romano, moderatore. Esce sicuramente ingigantita la figura di questo artista che, anche a detta di Corà, porterà ad una sua valutazione anche in ambito internazionale. Per la sua riqualificazione linguistica, per il suo coraggio: tanto da paragonarlo, nel dopoguerra, a innovatori di grande genio quali Burri, Fontana, D'Orazio. Dice Corà: «Fontani, un contemporaneo che sta per essere storicizzato, un artista di grande valenza drammatica». Ha perorato inoltre di fare un «sistema», una «rete», di respiro europeo, a cui si dedichi anche Livorno (così come è già per Firenze, Prato, Pistoia ed altre realtà toscane) per affrontare al meglio, strutturalmente, la difficoltà di far digerire, oggi, l'Arte Contemporanea, che tanti meriti ha per una lettura verace del mondo attuale. «Fontani - ha detto - ebbe una intuizione secondo gli universali valori della pittura e della poesia, rifuggendo da ogni orpello e sovrastruttura decorativa». Pierleoni «vede» Fontani nell'ottica dei grandi artisti «riqualificati» che la mostra «Continuità» a Palazzo Fabroni ed a Palazzo Strozzi ha evidenziato.
La figlia Adila ha «riscoperto», con la mostra, un'altra dimensione del padre. Il vescovo Ablondi ha inviato un messaggio con il quale dà testimonianza della febbrile tensione dell'artista, intento a compiere, nei locali del Cenacolo della Valle Benedetta, quel grande capolavoro che è «La Deposizione di Cristo», uno dei «pezzi forti» della mostra. Molto appassionata la concione di Sira Borgiotti. «Voltolino - ha detto - era l'emblema del coraggio e Livorno deve menare gran vanto per questo artista che lo onora». L'ammiraglio Lertora ha trattato l'ispirazione marinaresca in tante opere di Fontani: l'opera «Relitti» ed altre evocano la tragedia delle intuizioni dell'Eaismo. Il colto intervento della Cagianelli, un'analisi scientifica vera e propria, è stata una lezione di critica d'arte. Ha fatto un richiamo ai «vageri» vianeschi, nella loro allucinante umanità; all'Eaismo come «credo», come consapevole strumento. Una mostra, insomma, «che ci voleva». Per noi, una bellissima mostra, tanto da suggerirla ad un potenziale visitatore forestiero come «giornata memorabile» quando fosse suggellata anche da una passeggiata salmastrosa sul lungomare di Ardenza, sito stupendo che tanto piaceva a Voltolino.

 

 

 

Personaggi del Cenacolo della Valle Benedetta: Voltolino Fontani

di Umberto Morgiano

"Sentirsi grandi vuol dire esserlo almeno un poco" così diceva spesso Voltolino Fontani, alludendo sarcasticamente all'alto, e fondato, concetto che aveva della propria pittura.
E' un paradosso, certo: se fosse vero, a Livorno ci sarebbero decine di pittori "un poco" grandi, posto che tanti si sentono tali.
E' un paradosso, tuttavia, che serve a comprendere meglio la figura di Voltolino, con il suo gusto della battuta, delle affermazioni perentorie corrette da un umorismo amaro e sardonico.
La sua personalità è stata così complessa, poliedrica (un aggettivo che gli piaceva), che diventa difficile tentare di restituirla, sia pure in un veloce bozzetto: si ha timore di falsarla, di renderla incomprensibile a chi non lo ha conosciuto.
Della sua pittura, ha parlato già sulla Canaviglia Piero Caprile nel 1976. Ma Voltolino Fontani, oltre che grande pittore, era dotato di tante capacità, proteiformi (altro aggettivo che gli piaceva): suonava il piano ed aveva anche composto alcuni pezzi; scriveva poesie, sempre con misura ed equilibrio, e articoli acutissimi per i giornali; aveva persino un forte intuito matematico, come dirò più avanti.
Era, insomma, una persona di grandissima intelligenza: forse la persona più intelligente che abbia mai conosciuto. E la sua poliedricità era talmente al di sopra delle dilaganti mediocrità pseudo-artistiche, che non mi sentirei davvero di chiamarlo "pittore-poeta-inventore", come tanti amerebbero sentirsi designare, senza avvertire il ridicolo e la presunzione di tutti questi titoli messi insieme.
Lui era soltanto Voltolino Fontani, e questo bastava.
Con il suo protetto Dorino Dori, con Giovanni March e Bruno Miniati, era uno dei più assidui frequentatori del Cenacolo della Valle Benedetta, sin dalle origini, da quando quei nove o dieci amici che si riunivano la domenica alla Valle non si erano ancora dati il nome di "Cenacolo", prendendo un poco in giro se stessi con questa parola roboante.
E Bruno Miniati, come si è già detto in precedente articolo, ci aveva pensato subito a ridimensionarla in "mangiàcolo", "pranzàcolo", "bevàcolo".
Fin dal 1970 Voltolino, amico di Piero e Umberto Monteverde, veniva tutte le domeniche alla Valle, sempre accompagnato dal suo cane Tommy, un cocker mezzo matto e, forse per questo, non gradito in famiglia.
Era un animale nero, ringhioso, affezionatissimo al padrone: pure non mancava di morderlo a sangue, tanto che più volte mi ricordo di aver visto Fontani con segni profondi sulle mani, perché Tommy gli si era "rivoltato". Ma lui gli voleva bene lo stesso, lo perdonava sempre, lo teneva costantemente con sé: di giorno nel suo studio a fianco di Bottega d'Arte, sugli Scali Manzoni, la notte in macchina, perché, come si è detto, in casa non lo volevano.
In quello studiolo, che sarà stato tre metri per due e forse meno, data l'asimmetricità delle pareti, Fontani dipingeva da forzato del pennello; ricordo che teneva contemporaneamente sui cavalletti due o tre tavolette: una pennellata a una, una pennellata alI 'altra. Alcuni dipinti li faceva per vivere, ripetendo frequentemente con poche variazioni, gli stessi soggetti: la casina in campagna, col cipresso, il chierichetto; altri per l'arte, e si trattava per lo più di composizioni che di figurativo avevano poco. Lui le chiamava "Oniriche" e le considerava le sue cose importanti.
Eppure, senza entrare nel merito della sua arte di cose notevoli ne aveva fatte tante, sin da giovanissimo, in un continuo sperimentare e divenire di stili.
Aveva cominciato, appena adolescente, con delle raffigurazioni inquietanti, spesso cimiteriali, di grandi proporzioni; talvolta, da dietro un cipresso stilizzato, faceva capolino un giovane magro e pallido, in giacca e cravatta nere: era l'autoritratto di Voltolino.
Dopo tanti anni di pittura, commerciale o no, aveva poi abbandonato le opere di ampie dimensioni; e ci volle proprio la Valle Benedetta per indurlo a tornare alle origini, con tutto il bagaglio di esperienza e di capacità che nel frattempo, naturalmente, aveva accumulato.
Uno dei primi frequentatori del Cenacolo, infatti, il pittore Renzo Zambini, aveva realizzato un vasto dipinto per la Chiesa della Valle Benedetta, che era stato posto sulla parete laterale destra (per chi guarda l'altare maggiore) del presbiterio: si trattava di "Gesù risorto che appare agli apostoli".
Voltolino si sentì spinto a realizzare un'opera di dimensioni uguali, da collocare sulla parete dirimpetto. Piero Monteverde gli procurò la grande tela, che fu allestita da Alfredo Mainardi e sistemata nel garage di casa Monteverde alla Valle Benedetta.
[ Fontani mostra "La traslazione di Cristo", ancora in corso d'opera, a un gruppo di amici del Cenacolo ]Nonostante le proporzioni, metri e metri quadri di superficie da dipingere, Voltolino completò la sua opera in pochi giorni: prima tracciò le figure a carboncino, e subito apparve la grandiosità della concezione, poi applicò i colori ed il dipinto fu pronto: una "Traslazione di Cristo", dove il Redentore, morto ed abbandonato tra le braccia di tre figure velate, è il ritratto premonitore del Fontani morente di qualche anno più tardi, quando, tormentato dal cancro, soffriva con indicibile coraggio in ospedale.
Il dipinto di Fontani, insieme a quello di Zambini, fu inaugurato dal Vescovo di Livorno, Mons. Ablondi, con una memorabile cerimonia, seguita naturalmente dal solito pranzo al Cenacolo della Valle Benedetta .
Più tardi, sollecitato dal successo di quella prima opera, Fontani realizzò anche un altro ampio dipinto, "San Francesco e il poverello", che fu collocato in Chiesa, sopra la porta d'ingresso, a sinistra.
Non c'è bisogno di dire che Fontani volle lavorare gratuitamente, per ambedue le opere.
Tutto preso dal fervore di queste creazioni impegnative ed importanti, avrebbe voluto anche realizzare una serie di dipinti da sistemare lungo le pareti del coro; la morte tuttavia non glielo consentì.
Ma non furono soltanto quelle le opere di grandi dimensioni realizzate da Fontani negli ultimi anni; c'è, tra le altre, un dipinto della serie degli "onirici" , di proprietà Monteverde, che per alcuni anni, quando Voltolino era vivo, restò appeso alla parete della stanza dove si tengono le riunioni del Cenacolo. Ogni volta che i commensali si sedevano, egli li interrompeva: "Un momento: prima di mangiare, due minuti di raccoglimento davanti al quadro!". Detto da lui non appariva presuntuoso, mescolato com'era di sarcasmo e ruvida bonarietà; lo considerava veramente uno dei suoi pezzi migliori e, con questa frase, si allacciava certo a quel "sentirsi grandi…" di cui si parlava all'inizio.
Era un uomo ombroso, un po' sospettoso anche, eppure pieno di comunicativa: bastavano poche sue parole per rinfocolare una compagnia sonnacchiosa, come quando, gridando con la sua voce baritonale, diceva: "La parola a…" pronunciando il nome di qualche ospite di indole particolarmente taciturna, che la parola non la prendeva nè l'avrebbe presa mai.
Era anche un uomo dalla generosità unica: non voleva debiti di sorta e ripagava dieci a uno qualsiasi favore ricevuto.
Una volta, e qui si parla del Voltolino matematico, aveva elaborato una teoria secondo la quale non sarebbe quella della luce la velocità più elevata possibile. Nel timore che qualcuno gli togliesse il merito della scoperta, non so quanto fondata, chiese ad un avvocato amico di poter fare un atto notorio, che conferisse certezza alla data e quindi alla priorità dell'idea. Il legale lo condusse in Pretura e l'atto si fece; si trattava di una prestazione professionale veramente modesta che, anche per un cliente qualsiasi, avrebbe comportato una spesa non molto alta. All'avvocato che gli diceva di non voler niente, dati i rapporti di amicizia, Voltolino per il momento non ribatté; ma il giorno stesso gli portò in studio un "onirico" 50x70, che valeva cinque volte la parcella non inviata.
Ombrosità e generosità impulsive, dicevo, da vero livornese. In gioventù, mi hanno raccontato, ebbe un diverbio con un collega pittore e da una parola all'altra, non si sa come, vennero alle mani: Voltolino ebbe la meglio, lasciando l'avversario con la faccia sanguinante. Ma, subito riappacificati, Fontani fece salire il contuso sulla propria bicicletta, in canna, e così pedalando come se nulla fosse accaduto, lo portò in infermeria.
Era senza dubbio un uomo singolare, anche fisicamente, con quell'espressione rude che non ne tradiva a prima vista le finezze; camminava con la testa incassata nelle spalle, che teneva ricurve: ricordo però che, quando si raddrizzava nella persona, appariva di almeno dieci centimetri più alto. E lui ci rideva, guardando l'interlocutore allibito, come a volergli suggerire che altre sorprese, altre preziosità c'erano dietro le apparenze.
Dicevo che era un affezionato frequentatore del Cenacolo: non mancava mai, infatti, neppure quando stava così male da sentire, come confessava "tre spade conficcate nel fianco". Ma non faceva mai pesare la sua sofferenza, sempre restava apparentemente allegro e spiritoso.
Uscito da uno degli ultimi ricoveri in ospedale, nel dicembre del 1975, lo vedemmo con i capelli divenuti grigi in poche settimane. Nel gennaio del 1976 venne per l'ultima volta alla Valle Benedetta e, sul librone riservato ai convitati, tracciò gli ultimi due ritratti, con una padronanza di segno che tradiva appena la sofferenza: un ritratto del pittore Sarino De Domenico ed uno, appena abbozzato, del parroco della Valle, Don Renzo.
Poi seguirono mesi e mesi di agonia, fino all'agosto quando, morto, fu irriconoscibile per chi non lo aveva più rivisto.
Dorino Dori, il bizzarro e timoroso pittore naìf, aveva perso un protettore, gli amici della Valle Benedetta un compagno la cui genialità sarcastica aveva reso per tutti la vita più accettabile.

  da "La Canaviglia" N. 4 Ottobre - Dicembre 1980
U. Bastogi editore Livorno