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   di Giuliana Parigi

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               Sepalo

Ne avevano paura i miei piccoli compagni; a me affascinava il suo modo quieto e straordinariamente sicuro con cui andava per le vie del paese riconoscendo e salutando tutti, sorridente. Era la sua una figura elegante, quasi aristocratica. Portava sempre qualcosa di bianco.
Interrogavo insistentemente i suoi occhi di un celeste indefinito (con la sicurezza di chi sa che non potrà essere colto in fragrante, la spensieratezza di bambina, la curiosità verso il diverso), occhi chiusi nella loro fissità alle cose del mondo.
Su quale mondo erano affacciati?
Nella sua piccola casa, ordinata quasi maniacalmente, si moveva leggera come farfalla. E vi aleggiava un profumo di borotalco. Che fascino!
Con mia sorella, spesso, giocavamo alla "cechina" e facevamo scoperte incredibili. Le cose, ci sembrava, diventassero animate attraverso le sensazioni delle loro dimensioni, della loro ruvidezza o morbidezza, profumo gradevole o no, sapori impensati….
Poi la "cechina" entrò nella mia vita.

Ad ottobre, gli urli, meglio gli strilli (a me facevano venire in mente quelli dei maiali che macellano!), invadevano la mattina del paese. I primi giorni tutti si affacciavano ad assistere allo "spettacolo" di Aurelia trascinata, a turno, dal padre o dalla madre o dal fratello grande verso la scuola là nella piazzetta.
Poi nessuno ci faceva più caso. E poi tutto finiva. Vinceva lei: a scuola non ci andava.
Restavo sconcertata: non so cosa avrei dato per andare a scuola!!
I familiari di Aurelia non avevano tempo di starle dietro; avevano da accudire una lunga fila di muli; da prendere e distribuire carbone. Dopo una decina di mattine di questa sceneggiata si facevano rilasciare dalla maestra Pallotta un foglio, con tanto di timbro, "nel caso venissero i carabinieri"… ma chi l'aveva mai visti in paese…
E Aurelia finiva in custodia dalla "cechina". Fino al prossimo ottobre.

A scuola me la ritrovai, Aurelia, inaspettatamente, compagna di banco. Io in anticipo di un anno, o quasi, lei in ritardo di due, abbondantemente.
Lei alta, già formosetta, io piccolina e magrolina. Nel primo banco. Insieme perché eravamo "due casi da seguire" .
Ma in capo al primo trimestre ci eravamo trasformate in "due casi eccezionali".
Battevamo tutti; io per la mia smania di imparare e lei per via della "cechina".
Così che, Maddalena (questo il nome della "cechina"), fece il suo ingresso in scuola, come maestra di sostegno si direbbe oggi, lei che aveva fatto solo fino alla terza elementare.
Vi arrivava dopo la ricreazione. Sedeva impettita, ma con una posa morbida quasi languida, in una poltrona di finto cuoio che non so chi aveva portato apposta per lei. Di fronte a noi, ma a debita distanza dalla cattedra.
Interveniva solo quando la maestra la sollecitava, fino ad allora il suo atteggiamento era di un ascolto talmente interessato che ci faceva venir voglia anche a noi di seguire.
Non riesco a ricordarmi la sua voce, ma vedo ancora la sua mano che si alzava a rimettere a posto la frangia come se le impedisse di vedere. Era un gesto di una civetteria unica.
Quando venne in visita l'ispettore, fece sfoggio della sua cultura la maestra Pallotta, presentando la "cechina" come un SEPALO. Noi in coro dicemmo che si chiamava Maddalena. Risero, e la maestra cercò di spiegarci quella storia del sepalo con tanto di latino.
Per noi era una meraviglia vivente e una grande amica.

 
 SEPALO: foglia trasformata che forma il calice dei fiori generalmente verde.
Incrocio dal latino classico sep(arare) e dal latino scientifico (pet)alum.