1. L'11 dicembre 2002 il Papa Giovanni Paolo
Il con terribili parole ha riproposto un tema che è al
centro della riflessione teologica contemporanea, ben prima di
Auschwitz, il silenzio di Dio dinanzi agli orrori del mondo.
"Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada; se
percorro la città, ecco gli orrori della fame. Perché
Dio ci hai colpito, non c'è rimedio per noi?" Dopo
avere citato le parole del profeta Geremia, davanti alle rovine
del tempio di Salomone, il Papa, richiamandosi espressamente
allo scenario del Medio Oriente, aggiunge: "C'è una
tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio che non si rivela
più, e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato
dall'agire dell'umanità. Dio, roccia di salvezza, si allontana
quando l'uomo l'abbandona, lo rifiuta."
Il Papa ha parlato, certo, anch'egli da profeta apocalittico,
nel linguaggio fatto di metafore, ma anche nel contenuto: quello
costantemente volto a svelare, nell'antico e nel nuovo testamento,
la via indicata al popolo di Dio, di fronte all'impero, al dominio
del male che unisce dialetticamente da un lato l'orrore della
morte sia per spada o per guerra, sia per fame, per sfruttamento,
per ingiustizia; dall'altro il rifiuto e l'abbandono di Dio.
Profezie talvolta dirette ad incoraggiare il popolo a resistere,
talvolta disperate, quasi rassegnate di fronte al silenzio di
Dio.
Un parlare con le categorie astratte del linguaggio religioso,
che tuttavia, pur nella sua suggestione, forse non favorisce
l'univoca e generale comprensione di quanto dovrebbe giungere
alla mente e al cuore di tutti; ed anzi, con la sua genericità
ed astrattezza, sembra agevolare, in chi è il massimo
corresponsabile della "colpa", la fuga dal pentimento
e dalla richiesta di perdono davanti al popolo, e ostacolare,
in chi ne è vittima, la capacità di comprenderla,
denunciarla e combatterla. Un silenzio, quello di Dio, che dovendo
essere interpretato, lascia adito ad accentuazioni differenti
secondo che lo si limiti a Dio; che lo si imputi a chi opera
il male, che lo si estenda alla Chiesa. Marcature che, sullo
stesso tema del silenzio di Dio, hanno contrassegnato l'intera
storia della teologia, tanto ne coinvolgono il centro, l'idea
stessa di Dio, il significato del suo Regno, il senso ultimo
della vita, la collocazione della salvezza.
2. Come interpretare il silenzio di Dio? Esso
è, certo, segno del disgusto che Egli prova davanti al
male, ma anche di quanto poco bene è operato da chi deve
essere testimone di Cristo ed appare, a causa di ciò,
in una qualche misura corresponsabile. Col superamento del confine
ultimo oltre il quale c'è l' "Ira Dei", si è
rotto il disequilibrio patologico accettabile, se mai esso sia
ammissibile, tra bene e male, ed è quindi necessario capire
la specificità e straordinarietà del male che lo
ha determinato, fare la diagnosi dell'eziologia, analizzandone
molto bene non solo le forme moderne, i meccanismi nuovi del
suo dominio, ma anche le concause che lo hanno agevolato.
La nuova struttura del capitale finanziario, le sue dinamiche
eversive di ogni regola, di ogni codice anche morale, i suoi
strumenti di potere, la nuova ideologia del mercato globale,
la nuova cultura dietro cui si maschera quanto concorre a massimizzare
il profitto e a farlo ritenere invincibile; la nuova forma dell'impero
che oggi, più che mai, appare ovunque dominare per la
sua esclusività, dimensione e capacità espansiva,
per la sua forza pervasiva, seducente e violenta, il moderno
volto di "mammona", metafora evangelica del male, pare
aver vinto, non trovare più resistenza alcuna nella coscienza
degli uomini di buona volontà. Infatti, se per la quantità,
qualità e velocità dei suoi effetti tragici - la
guerra, appunto, non solo quella del medio oriente che tocca
più da vicino la c.d. terra santa (non è per questo
anche la più scandalosa?), ma tutte le guerre dimenticate
(il silenzio della cattiva coscienza dell'uomo!), come ha detto
il Papa, le infinite forme del diniego della dignità dell'uomo,
del suo ridurlo a mezzo, persino a schiavo, la fame, le malattie,
le tante ancelle della povertà (l'analfabetismo, la dittatura,
ecc.), il loro insieme, dunque, quale abisso del crescente affronto
alla dignità dell'uomo, volto tragico di una realtà
nuova, quella del mercato globale - -il male pare aver superato
ogni limite, quello oltre il quale Dio stesso ha cessato ogni
dialogo con gli uomini.
3. Ma è forse meno importante del conoscere
il male, il saper conoscere noi stessi, il nostro saper fare
il medico?
Poiché il male degli altri chiama in causa sempre la nostra
responsabilità, quella di chi ha il compito di prevenirlo,
neutralizzarlo, combatterlo con la medicina della "spada"
cristiana della verità e dell'amore, non dobbiamo forse
chiederci che cosa, nel nostro operare, abbia agevolato tanto
abominio? Che rapporto hanno, ad esempio, le cause generatrici
del male ed i suoi effetti, l'insieme del suo dominio, col comportamento
di chi vuole essere testimone del bene? Non è utile persino
il chiederci se il semplice stigmatizzare le azioni disgustose,
se i reiterati appelli alla pace o anche il disaccordo netto
e chiaro contro la guerra, non logorino il messaggio? Se in essi
sia frustrante in chi riceva il messaggio la mancanza di "fattibilità"
e di efficacia della testimonianza personale? Perché l'umanità
sappia scegliere Dio e rifiutare Mammona, non occorre forse rivedere
in modo più critico ed esplicito il grado di coerenza
di ogni elemento del sistema affinché ne siano rimosse
le cause di criticità?
I profeti d'Israele non sono mai stati personaggi votati alle
mera esortazione. Il loro richiamo all'Oracolo del Signore era
un modo per affrontare direttamente e in modo esplicito i problemi
cruciali del popolo eletto, per contestare e fustigare i re,
ma anche per costringere alla riflessione autocritica, per mettere
Israele di fronte alle sue responsabilità e indurlo a
scegliere bene la strada da prendere.
Non chiederci se di tanto male non si sia tutti noi cristiani
corresponsabili, significherebbe negare in radice il fondamento
del cristianesimo, sia teologico che etico.
Bisogna amare nello stesso modo e misura Dio, se stessi e il
prossimo, con identico sentire, di intelletto, di cuore, di animo,
e con uno stesso fare (Mt. 23). Amare implica una responsabilità
attiva, quella di operare il bene, che è l'altra faccia
del respingere e combattere il male. Non porsi tale problema,
non cercare di capire "non se", ma "perché,
dove, quando e come" si è stati corresponsabili del
male, significherebbe limitare l'amore di Dio, "operare
a parole", enunciarlo, aspettare di essere coinvolti; in
definitiva, non vedere il male e non combatterlo è dimenticare
che solo i frutti sono parametro e misura della verità
e della giustizia che è conformità alla volontà
di Dio, a quanto rende l'uomo giusto. E quali sarebbero stati
i nostri frutti se Dio è silente per essere disgustato
del male operato dall'intera città, come lo fu per Sodoma
e Gomorra? Possono i pochi giusti salvare la città?
In definitiva, se è vero che nel Nuovo Testamento la responsabilità
è sempre personale, nondimeno di fronte al male dell'intera
società è molto difficile pensare di non esserne
compromessi.
Basta operare il bene, le opere di misericordia, ma non avere
quella sete di giustizia che toglie ossigeno al male, nonostante
che i suoi effetti tragici siano davanti ai nostri occhi e scandalizzino
la nostra coscienza? Amare Dio non vuol dire forse saper vedere
il male, ovunque si nasconda, comunque si mascheri, e quindi
volerlo combattere? Chi opera il male non deve forse essere amorevolmente
spinto al pentimento e alla conversione mediante la riprovazione
generale?
E ancora: cosa significa combattere il sistema del male per una
religione non violenta sapendo che l'impero dei mercanti è
violento? Chi rappresenta l'ecclesia non ha forse il dovere di
proteggere tutto il gregge, anche a costo della vita e ciò
non è tanto più efficace quanto più tutto
il popolo ha coscienza del fine del sacrificio? C'è un
limite oltre il quale l'insufficienza del bene compiuto con le
opere di misericordia rende palese l'enormità, l'insostenibilità
del male altrui come conseguenza della nostra inerzia e tolleranza?
Non c'è forse scandalo nella omissione di controllo o
peggio nella concessione da parte del Sinedrio ai mercanti di
occupare il Tempio? Il tempio non è forse il mondo, la
natura, l'umanità che ha subito, oltre misura, l'offesa
dei mercanti, un'offesa che anche se incruenta suscita in Gesù
l'indignazione e il "rovesciamento" dei loro banchi?
Che cosa sono i banchi se non le banche, di quanto è il
regno della finanza, di mammona? E quanto maggiore è lo
scandalo se l'operato dei mercanti è anche cruento e se
è causa diretta della fame, della malattia, dell'uccisione
del popolo?
Capire perché e come si è comportato il Sinedrio,
quale sia il suo rapporto con i mercanti, è altrettanto
importante del capire chi sono e cosa vogliono i mercanti e quale
sia nel mondo il rapporto tra i mercanti e mendicanti pure così
vicini.
4. L'autocritica è, dunque, la premessa
della critica.
Ogni conoscenza, infatti, è "critica della conoscenza";
e ciò non è innocuo per le conseguenze e dunque
non è indolore per quanti si avventurano su questa strada
con sete di verità e giustizia. C'è sempre un costo
nella problematicità della fede (l'esitazione a non credere)
quando essa viene sacrificata alla dogmaticità dinanzi
alla proibizione di mettere in discussione la situazione storica,
concreta della Chiesa: fede e storia non sono infatti separabili.
Non sono separabili perché non si può amare Dio
senza operare il bene del prossimo, dunque vivendo nel mondo
e nella storia per combattere il male, quello che è sì
negli altri, ma è anche inscindibilmente presente in noi.
Separarli significherebbe interrompere il loro rapporto dialettico,
di comunicazione; ma anche finire per non sapere più dove
e perché si sbaglia e dunque come rimuovere la coscienza
che ogni uomo, ogni cristiano ha del bene e del male, non come
astrazione, ma nel loro farsi.
Chiedersi se vi sia una nostra responsabilità significa
riproporsi alcune domande fondamentali sulla fede in Cristo,
cominciando da quella prima che non ci abbandona mai, anche quando
si è risposto alla chiamata e si è compiuta la
scelta: "Chi dite ch'io sia?" La certezza della risposta
non esclude l'ambiguità, la problematicità, che
la fede in Cristo sia movimento dell'animo, e non dogma.
Premessa teologica dalle innumerevoli conseguenze su diversi
piani - psicologico, metodologico, culturale, ecc. - tutti riconducibili
sostanzialmente al dubbio, alla conoscenza critica che parte
sempre da quella autocritica e solo a questa condizione, di sapersi
coraggiosamente mettere in gioco, si legittima.
Significa, anche, partire dal Concilio Vaticano II, dal percorso
fatto (Dei verbum) - la riscoperta della fede come partecipazione
alla storia e non come fatto dottrinale o teologico; la riscoperta
della parola di Dio e del dialogo col mondo oltre che della liturgia
- e da quello incompiuto (Lumen gentium), con cui si sarebbe
dovuto valorizzare l'immagine comunitaria della Chiesa come popolo
di Dio. Infatti non si è ancora avuta quella renovatio
- riformatio della Chiesa così come voluta da Giovanni
XXIII, quale risposta all'esigenza cristiana di continua conversione
nella via (Odòs) che è per definizioneaperta,
qual è quella del Signore -(LC 25-33: "Se uno viene
da me e non odia suo padre, sua madre, la moglie e i figli, i
fratelli e sorelle e persino la propria vita, non può
essere mio discepolo").
Rispetto alle tante forme ed espressioni di forte legame affettivo
e sociale che creano "strutture chiuse" la Chiesa profetica
deve essere intesa come interrogazione aperta, inclusiva della
coscienza di tutti (e non esclusiva quale è quella strumentale
alla salvezza di pochi singoli) rispetto al fine ultimo della
salvezza comune dell'universale famiglia umana.
5. Le cause riconducibili alla fede della Chiesa
cristiana e alle sue diverse "interpretazioni-concezioni"
che, indebolendo la forza di resistenza al male ne hanno favorito
il dominio distruttivo, concorrendo così a far superare
il limite ancora curabile del male, sono come è ovvio
imputabili alla responsabilità generale dell'intera comunità
nel tempo. Non possono quindi, come già accennato, che
essere ricondotte al sistema interpretativo della fede con cui,
quali che ne siano state le motivazioni umane, la Chiesa si è
rapportata alla realtà della società civile, definendo
così il proprio magistero rispetto al male e alle sue
cause.
Si tratta di capire se e quali deviazioni, di natura od origine
psicologica ed antropologico-culturale vi siano state e possano
aver forzato nel senso sopraddetto (favorendo indirettamente
il male) l'originaria concezione di alcuni temi e concetti fondamentali
della fede; e quindi capire se e cosa fare perché cessi
quanto prima il silenzio di Dio.
Una riflessione che, di necessità, riflette il moto dell'animo
di chi scrive, e dunque un punto di vista per definizione opinabile,
schematico, incompleto, quando non apodittico, implicitamente
erroneo data la nostra personale limitatezza dottrinale; ma che
tuttavia nasce (e riflette) dal bisogno di interrogarsi, di cercare
la verità, e di esprimersi come genuino atto d'amore.
Differenze di concezione - quelle che intendiamo cogliere - che
attraversano l'idea di Dio, della fede, del suo regno, della
salvezza, del giudizio finale, della Grazia, della verità;
differenze che sono sempre esistite e che tendono, antropologicamente,
secondo le regole dell'agire umano, ad affermarsi, a consolidarsi,
a divenire "cultura" in ragione della propensione degli
interpreti a vivere e a ricondurre la fede più alle regole
di questo mondo, che a quelle del "cielo"; prima metafora
della radicale alternatività di Dio e della sua legge.
6. La causa prima dell'indebolimento del cristianesimo
come fede operatrice di lotta al male è nella stessa teodicea,
quando si propende a giustificare Dio, la sua giustizia e il
suo operato in rapporto al male più che al bene; ovvero
quando si propende a ricondurre la genesi del male, e quindi
il piano strategico del suo più acuto manifestarsi, al
diavolo, a qualcuno-qualcosa che esiste fuori dall'uomo. Collocare
il bene o il male fuori da noi indebolisce di per sé la
necessità di una nostra continua conversione e di un crescente
impegno positivo a operare; implica una proiezione del nostro
inconscio al potere salvifico trascendente - proprio del pensiero
mitico-magico della condizione puerile dell'uomo - e per contro
non implica un nostro sacrificio personale se non quello di evitare
che il male entri in noi. A differenza dell'azione d'amore che
è solo positiva e che implica un nostro sforzo a favore
dell'altro, di donazione e di perdono, e che induce a curare
dal di dentro i mali del mondo, senza delega a chiunque, Dio
compreso, e senza l'intercessione a potenze e patronati mitico-magici,
il santo protettore, l'angelo custode, ecc.; forme toccanti di
fragilità umana e di ricerca compensatoria del divino
che creano una profonda scissione nel foro interno della nostra
responsabilità.
Appropriarsi di qualcos'altro fuori di noi, divinità,
idee, teorie, fonti sapienziali, pensando che ciò sia
di per sé una garanzia sufficiente a realizzare la "trasformazione
della realtà" come frutto dell'amore, è puerile.
Ciò sposta il centro della fede cristiana, del suo umanesimo
integrale, dal mettersi in gioco col dono e sacrificio personale,
dall'unire agendo il bene, con il sentire costantemente e in
tutto il legame col prossimo, verso il mero desiderio del bene
(buonismo), verso l'affidamento ad altri sia del compito di operare
il bene che di contrastare il male; e dunque verso la difesa
del nostro particolare ed individuale interesse o della nostra
diversità-superiorità; verso la diffidenza e la
sfiducia nel prossimo, tanto maggiore quanto più è
lontano nello spazio e nel tempo; verso la separazione-conflittualità
col diverso (tra fedeli, tra chiese cristiane, tra religioni),
verso la soluzione miracolistica, la grazia ricevuta rispetto
ai tanti bisogni, materiali e non, della vita.
7. Altra causa attiene all'insieme delle categorie
spazio-temporali inerenti il Regno di Dio, la salvezza, il giudizio
finale. Tanto più si è forzata la divisione spaziale,
terra-cielo, qui-aldilà; ovvero quella temporale, ora-fine
dei tempi, quanto più si è allontanato il luogo
e il momento della parusia (inverarsi) del Cristo, dell' operare
sulla sua via, tanto più si è accentuata la stessa
concezione di Dio giudice e quindi quella della remuneratività
del bene che si compie in vita.
Al "qui e ora" (M c 10,30 -Lc. 17,21 ) come manifestazione
della libera, immediata, ma radicale scelta dell'operare il bene
e del rifiutare il male, ogni termine spaziale (cielo) o temporale
(il momento del giudizio) da metafora di una alternatività,
costitutiva della realtà di questo mondo, ha finito per
assumere una connotazione fisica, reale.
Se tempo (presente e futuro) e spazio (cielo e terra) - che nel
linguaggio biblico sono metafore di una concezione solo apparentemente
dialettica - sono in realtà simultanei e presenti, oggi
e qui; se cielo-terra sono entrambe manifestazioni di una stessa
condizione di responsabilità, di libera scelta, e se Dio
- il suo nome-essenza, la sua volontà, il suo regno, la
sua verità, l'appello alla sua giustizia - è impegno
nel mondo e non la fuga da esso. Già per Daniele il cielo
non era il luogo dove si attendevano le persone dopo la morte,
bensì una realtà alternativa attivamente impegnata
nella lotta contro il male sulla terra.
Quanto più, invece, il tempo e il luogo del Regno di Dio
sono collocati escatologicamente, come catastrofe cosmica, alla
fine dei tempi, al tempo della fine del mondo, tanto più
il cielo e l'aldilà sono il luogo e tempo cui unicamente
meriti finalizzare le nostre azioni; e tanto meno il mondo e
la vita sono degni di inverare, qui e ora, la "volontà"
di Dio intesa come salvezza di tutti attraverso il suo amore
e quello reciproco tra gli uomini. Anzi la terra diviene dialetticamente
il luogo, la prospettiva del male, della menzogna, dell'ingiustizia,
dell'impero del diavolo. L'ordine naturale non è più
la condizione necessaria ad operare il bene, lo specchio di Dio,
ma ne è l'ostacolo primo e principale, lo specchio del
male antitetico al cielo.
Il male, ma anche la sofferenza del mondo - le guerre, le malattie,
i disastri naturali, ecc. - assumendo una materialità
concreta, terrena, finiscono per appartenere più al disegno
vendicativo o punitivo di Dio che alla naturalità del
mondo e del suo disegno; effetto più di quanto del maligno
entra nell'uomo che di quanto è generato dall'incapacità
dell'uomo di amare, da quanto esce da lui e solo a lui imputabile.
Il rapporto tra presente e futuro è centrale nelle parole
di Gesù. Alla domanda dei quattro discepoli (Mc 13:4)
che vorrebbero sapere di più sui segni e sulle date della
fine, apocalittica ed escatologica, Gesù invita a portare
la propria attenzione non su un avvenire da attendere, di cui
sarebbero spettatori, ma sul presente di cui essere attori.
L'annuncio di Gesù sul presente e sul futuro è
collegato; il futuro è salvezza per quanti sappiano cogliere
il presente come presente di Dio e come l'ora della salvezza;
il futuro di Dio resta, invece, giudizio per colui che non vuole
accogliere l'oggi di Dio. Gesù per questo ci chiede solo
di stare attenti e di vegliare, di apprezzare con tutte le forze
l'ora presente e di non pretendere di calcolare i tempi, di strumentalizzare
col futuro anche la vita, di avere di Dio una concezione di telos
compensatorio. "State in guardia", "vegliate"
sono ammonimenti riferiti non a segni apocalittici di fine del
mondo, ma ai falsi profeti, alle persecuzioni. Non diversamente,
del resto, va letta l'intera Apocalisse di Giovanni. L'unica
certezza (Mc 12, 24-27) non attiene all'aspetto cosmico del giudizio
(veterotestamentario) (15-13, 10-34), ma alla venuta di Gesù
nella gloria, non tanto come parusia finale, ma come salvezza
e realizzazione del regno di Dio da operare fin da ora nella
storia.
8. Il giudizio tra gratuità e remuneratività.
Rispetto all'ottimismo, al coraggio, alla forza del giudizio
che si opera da ora e della vita eterna che è posseduta
già ora nella fede, sappiamo quanto abbia invece finito
per prevalere l'ansia, la paura, il calcolo per un giudizio che
si compie solo nel e per l'aldilà e per ottenere il quale
ci si può salvare anche col pentimento dell'ultima ora.
La rivelazione del mistero (l'escatologia) e l'apocalittica (i
destini ultimi dell'umanità) hanno finito per coincidere
non solo cronologicamente, ma anche in ciò che li ha animati:
la paura del giudizio e della condanna, e persino, in modo ricorrente,
il diffuso senso di tragedia e di catastrofe incombente: basti
pensare ai movimenti religiosi apocalittici millenaristici e
quelli contemporanei, specie statunitensi, che hanno sempre contrapposto,
non a caso, in modo dualistico, lo status attuale della storia
avvertito come male e peccato, ad uno di perfezione, passato
o futuro secondo la scelta del profeta di turno..
Da un lato, l'amore presente e il giudizio già iniziato
in vita, qui e ora, in presenza di Cristo, per il quale non può
che esservi il piacere e la gratuità dell'operare il bene,
e quindi anche l'economia di Dio alternativa a quella del profitto
e della distruzione dell'equilibrio naturale; dall'altro, una
vita finalizzata al premio dell'aldilà in cui surrettiziamente
si consolida una concezione remunerativa del rapporto con Dio,
più omissiva che commissiva, e secondo cui, quindi, la
fuga dal mondo, lo star fuori dal rischio delle tentazioni e
delle contaminazioni con i diversi, faciliterebbe il conseguimento
del premio e a cui consegue l'accettazione fatalistica e rinunciataria
dell'economia dell'uomo.
La concezione remunerativa della legge di Dio - sicuramente più
vicina a quella veterotestamentaria antecedente alla venuta del
figlio e comunque figlia della natura umana - presuppone e implica
allo stesso tempo una serie di corollari, quali, nei rapporti
interpersonali: l'affermarsi della gerarchia costruita a sua
volta sul raffronto del maggior o minor merito, facilmente esteso
a tutto; il formarsi di atteggiamenti consolatori, dell'accontentarsi;
ovvero di atteggiamenti costrittivi, lo faccio perché
sono costretto dalla legge per adempiere al dovere ed evitare
la pena, o calcolatori, sto fermo e zitto perché così
mi considerano più buono. Ovvero, nei rapporti interreligiosi:
la concorrenzialità e il proselitismo tra chi offre di
più e meglio il salvacondotto per la salvezza eterna,
la gara tra i tre paradisi delle tre religioni abramitiche; l'elaborazione
della precettistica, di una casistica comportamentale, già
nota ai rabbini e ai farisei, di quanto serve per ottenere il
premio o evitare la condanna; la mancanza di una cultura di risultato
immediatamente verificabile e misurabile come è il bene
operato dall'amore; il considerare i diritti della libertà
e della giustizia sociale, come categorie a se, autonoma l'un
l'altra, separate ed anzi antagoniste rispetto alla legge del
cuore, e dunque pericolose.
Una concezione cui corrisponde, sul piano della morale laica,
del rapporto tra diritti e doveri, quella del loro carattere
sinallagmatico: ossia, dell'esercizio dei diritti solo se e quando
si siano assunti i propri doveri. Concezione diversa da quella
generata dalla gratuità dell'operare il bene, che estende
il senso del dovere all'azione di difesa dei diritti altrui:
il diritto a non morire di fame, ad essere curati, istruiti.
Quindi non un diritto a compenso del dovere svolto, ma un diritto
che si sente in dovere di propagarlo a quanta più umanità
possibile. Questo sentirsi in dovere di estendere la fruizione
dei diritti distingue il cittadino, consapevole di appartenere
ad una comunità dalla cui sorte egli non può prescindere,
dall'individualista che limita il bene al singolo prossimo e
considera l'intera comunità umana come un ostacolo al
proprio progetto.
9. La Grazia, il Regno dei cieli, Dio.
Nella lunga storia della teologia gli strappi teologici sulla
Grazia, fino alle estremizzazioni giansenistiche, coinvolgenti
i complessi problemi delle forme in cui si esplicita e dei rapporti
con la fede, col peccato, con le opere, con la giustificazione,
riflettono un andamento certo non lineare e univoco se non in
termini molto generali: la Grazia come libero, volontario e amoroso
aiuto di Dio, gratuito cui non corrisponde un merito o un diritto
da parte dell'uomo, strumento dunque di salvazione dal peccato,
di riscatto.
In ogni caso, per quel che qui interessa, si può affermare
che alla gratuità della Grazia divina, del dono più
grande, quello di saper operare il bene di tutti, non può
non corrispondere la gratuità dell'esercizio di questo
"sapere" .un concetto che definisce una "funzione"
più che una forma o un contenuto tipico.
Una funzione, pertanto, contrapposta all'automatismo compensatorio,
contrattuale del rapporto con la divinità, del "do
ut des" - propria delle religioni più primitive -
in forza del quale ciò che si ottiene con la Grazia è
la contropartita di una prestazione umana rivolta al divino,
al Dio e ai suoi tanti tramiti, col culto, col sacrificio, col
comportamento eticamente corretto.
La donazione gratuita è alla base non solo della Grazia,
ma dell'idea e del ruolo di Dio rispetto alla vita e alla storia;
funzione ed idea non riconducibili ad un rapporto di scambio,
e ad una materia di giudizio umano misurabile con la bilancia
e col suo metro di corrispondenza. Un Dio non concepito, dunque,
come controparte di un rapporto contrattuale, come un giudice
dotato di "ufficiale giudiziario" e di carcerieri,
ma col quale invece l'intero rapporto tra merito e colpa si dovrebbe
stemperare nell'incontenibile potenza del dono e del perdono.
Funzione e potenza che ristretta a quell'unicità positiva
del medesimo e unitario comandamento dell'amore, vera essenza,
natura e volontà di Dio, che accomuna paritariamente se
stessi e il suo prossimo, l'amore come desiderio d'amore, l'amore
di Dio come desiderio di Dio, forza di uguaglianza, di unione,
di pace e di inclusione, dovrebbe, in verità, ridurre
e ridimensionare i tanti corollari dell'altra impostazione.
I tanti corollari - della vita personale e della storia umana
come parametro quantitativo con cui numericamente commisurare
merito e colpa, premio e punizione, del giudizio finale, personale
ed universale, dell'aldilà, della teologia stessa - quando
siano concepiti ed usati, pur nel loro mistero, come fattori
di disuguaglianza, di divisione, di dominanza, di competitività,
di conflittualità o antagonismo, di esclusione.
I tanti corollari che perdono peso, rilevanza tanto più
il Regno dei Cieli - metafora del nome di Dio altrimenti non
pronunciabile - come campo ed oggetto della sua sovranità,
del suo essere o del suo nome, sarà vissuto come presenza
già esistente in mezzo a noi e non più come promessa,
come realtà già a disposizione nella nostra stessa
persona, solo quando lo si voglia operare contro il male che
è in noi e quindi nel mondo (Mt 6:24; 5;37; 6,19-21; Lc.
9,57-62,22; Mc. 10, 17-22).
Che poi il Regno di Dio sia oggetto anche di attesa futura nell'insegnamento
di Gesù è fuori dubbio; non è oggetto di
disputa nel dibattito esegetico del Vangelo. Ma che in esso e
soprattutto nella sua proiezione della pastorale si debba accentuare
il carattere di realtà presente del regno rispetto a quello
di evento futuro - esigenza importante sia in sé che per
correggere e combattere le implicazioni devianti nella coscienza
diffusa - è altrettanto indubbio. Per tutti questi motivi,
la diversa accentuazione della dimensione soprannaturale della
fede, fino ad oggi prevalente e dominante, per quanto legittima,
col proporci verità di fede come dogmi, rappresentativi
di una interpretazione spesso imposta come unica e quindi costitutiva
della verità da parte di chi si è creduto e si
è proposto come una sorta di inviato di Dio, fa parte
della storia della teologia; ed anzi non ha impedito il suo continuo
mutamento, persino la coesistenza con le concezioni più
diverse, anche quelle talvolta ritenute più o meno eretiche.
Del resto, basti pensare alle recenti opinioni, espresse da parte
delle più alte gerarchie della Chiesa, secondo cui il
Concilio Vaticano II sarebbe stato il frutto diabolico dell'anticristo.
Concezione dogmatica che si è sempre illusa di poter fermare
il tempo o la storia della fede come atto di libertà,
finendo per generare scissioni e dissensi e con ciò con
l'indebolire la forza e l'efficacia dell'unica forza unificante
della fede in Dio e quindi dell'amore e del comune operare il
bene.
Per contro, la diversa accentuazione sul versante del fare e
della intransigenza, se paradossalmente porta a generare maggiormente
interpretazioni e concezioni soggettive, più personalizzate
rispetto anche al grado della propria fede e confacenti alla
propria visione del mondo, è più incline a raffigurare
nella mente e nel cuore di ognuno la diversità personale
e comunitaria (individuale e sociale) della scelta e della condivisione
del Cristo.
Tutto ciò fa parte della doppia natura dell'uomo e della
doppia anima della Chiesa.
10. Dalle opere di misericordia alla politica
della misericordia nella globalizzazione.
Perché la Chiesa di Cristo concorra a far cessare l'ira
Dei, il disgusto di Dio, quanto sarebbe efficace far crescere
la sua teologia secondo un pregnante senso del "qui e ora"
e con essa una concezione della propria funzione e del proprio
ruolo da commisurare al risultato che intende raggiungere: quello
che solo combattendo e vincendo le nuove forme del male, quelle
che nella nuova e diversa realtà del mercato globale,
riaprirebbe il dialogo con Dio.
Se uno crede in Cristo non è più possibile operare
in uno spazio di bene, di opere di misericordia, e in un sistema
di pensiero e di abitudine alla status quo, quando la radicalità
del male attesta la nostra insufficienza.
Siamo tutti come il giovane ricco che va via con tristezza perché
non vuole lasciare dietro di sé "quello che aveva",
per poter guadagnare il nuovo, il dono totale agli altri. A questo
fine Cristo ha detto in polemica con i farisei di ieri e di oggi
che i comandamenti, le proibizioni non sono sufficienti se non
si rispetta il primo "ama il tuo prossimo come te stesso".
Il discorso della montagna resta la contestazione più
scottante di ogni sistema di autosufficienza. E' necessaria una
metanoia, un cambiamento radicale col prossimo, la cui veridicità
si misura dai risultati. Il culto non è separabile dalla
carità e questa dalla trasformazione della vita sociale.
La Chiesa ha certo superato la posizione astorica, lontana dal
mondo, disimpegnata nella lotta contro l'ingiustizia sociale,
ma la sua liturgia della messa non è ancora comunitaria
con l'intera umanità.
Se l'opera di misericordia, di carità, di aiuto alla povertà
non è alternativa all'azione di lotta alle cause anticristiane
della povertà e del dominio violento sull'uomo, di soddisfacimento
smodato dei bisogni, può risultare alternativo il non
superamento dei residui di etica compensativa e remunerativa
e di fede dogmatica.
Oggi, infatti, il punto dirimente tra una concezione teologica,
metafisica, astorica, ed una misericordiosa incarnata nel mondo
fino all'estremo ultimo dell'abbandono di ogni personale ricchezza,
materiale e non, per donarsi al prossimo bisognoso, va riferito
e misurato rispetto alla capacità di risolvere nella odierna
globalizzazione del mercato il divario crescente tra la condizione
di povertà e di privazione dei diritti della persona nel
terzo-quarto mondo e l' accumulazione di ricchezza e di potere
a favore di pochi che dal punto di vista religioso viene identificato
col mondo occidentale cristiano.
Più ancora: tra la santità di chi vende tutto per
aiutare i poveri, ma che, ciononostante, vive l'incoerenza di
assistere impotente allo scandalo; e la speranza laica del progetto
politico di quanti sentono la necessità di non sottrarsi
alla responsabilità e hanno la capacità culturale
di governare la globalità secondo libertà e giustizia
sociale, che sentono il dovere di estendere a tutti i diritti
fondamentali della persona, ma non hanno la forza della fede
e della carità - l'unica che può garantire la coerenza
del progetto - il silenzio di Dio esige il coraggio della ennesima
conversione del mondo non tollera indugi e la Chiesa non vi può
assistere, certo non neutrale ma inerte rispetto alle sue cause
e alla loro rimozione, pensando "ideologicamente" che
i problemi generati dall'ingiustizia, compresi le guerre di dominio,
si risolvano da soli col tempo, proprio come affermano i teorici
del neoliberismo circa i meriti miracolistici dello sviluppo
del mercato. Non può solo dire: "C'è un rimedio
contro il male: pregate, pregate! Affidate tutto il resto a Dio!"
(messaggio del Papa del maggio 2000). Nel frattempo resta l'olocausto
di popoli, di generazioni, di donne, sia quello che è
frutto dell'ignavia, della tolleranza, dell'incapacità
di cambiare il nostro cuore economico-finanziario e sociale e
quindi il nostro sistema culturale e politico, sia quello che
inconsapevolmente resta tale nonostante l'eroismo di quanti,
come santa Teresa di Calcutta, operano la misericordia.
C'è sempre stata una doppia anima nella Chiesa, ma se
si vuole entrare in dialogo con la società bisogna pagare
il prezzo della perdita della forma originaria e al tempo stesso
non si può non cercare il dialogo.
E' il tema del nesso tra responsabilità personale
e responsabilità sociale collettiva della comunità tutta di cui si è parte,
dei limiti dell'una e dell'altra inscindibilmente connessi nel continuo
passaggio ed alimentarsi dell'uno con l'altro, dell'impossibilità di porre
dei limiti di quantità e di qualità, di quanto costringe la Chiesa di Cristo
ad andare avanti lungo la strada, dove non c'è tempo per la sosta; una
strada che oggi è resa più complessa e ardua, ma anche straordinariamente
più vicina a Cristo, proprio per l'occasione nuova di potersi porre contro
il male a servizio dell'umanità globale. Se Cristo è un punto fermo della
rivelazione, non possiamo non avere anche il senso dell'incompiuto. Il punto
omega in cui confluisce tutta la storia religiosa dell'umanità; la
rivelazione di Cristo è ancora aperta verso una crescita; come dice Giovanni
"non è ancora manifesto quello che saremo". |