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Il "silenzio" di Dio

Abbiamo voluto non ignorare il richiamo "profetico" del Papa che, per la sua valenza universale, ci sembra attinente anche al "mondo" di internet; riportiamo, inoltre, tre riflessioni sulle parole del Papa:
la prima di Eugenio Scalfari,
la seconda di Cristiana Maria Dobner,
carmelitana scalza,
e l'ultima di Giovanni Manco
[presente anche nella sezione "Amici"]
   

Cantico: Ger 14,17-21 - Lamento del popolo
in tempo di fame e di guerra
Lodi del venerdì della 3a settimana
(Lett. Ger 14,17.19A.20b-21)

Geremia 14,17-21

1. È un canto amaro e sofferto quello che il profeta Geremia, dal suo orizzonte storico, fa salire fino al cielo (14,17-21). L'abbiamo sentito ora risuonare come invocazione, mentre la Liturgia delle Lodi lo propone nel giorno in cui commemora la morte del Signore, il venerdì. Il contesto da cui sorge questa lamentazione è rappresentato da un flagello che spesso colpisce la terra del Vicino Oriente: la siccità. Ma a questo dramma naturale il profeta ne intreccia un altro non meno terrificante, la tragedia della guerra: "Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada; se percorro la città, ecco gli orrori della fame" (v.18). La descrizione è purtroppo tragicamente attuale in tante regioni del nostro pianeta.

2. Geremia entra in scena col volto rigato di lacrime: il suo è un pianto ininterrotto per "la figlia del suo popolo", cioè per Gerusalemme. Infatti, secondo un simbolo biblico molto noto, la città è raffigurata con un'immagine femminile, "la figlia di Sion". Il profeta partecipa intimamente alla "calamità" e alla "ferita mortale" del suo popolo (v. 17). Spesso le sue parole sono segnate dal dolore e dalle lacrime, perché Israele non si lascia coinvolgere nel messaggio misterioso che la sofferenza porta con sé. In un'altra pagina Geremia esclama: "Se voi non ascolterete, io piangerò in segreto dinanzi alla vostra superbia; il mio occhio si scioglierà in lacrime, perché sarà deportato il gregge del Signore" (13,17).

3. Il motivo dell'invocazione lacerante del profeta è da cercare, come si diceva, in due eventi tragici: la spada e la fame, cioè la guerra e la carestia (cfr Ger 14,18). Siamo, dunque, in una situazione storica travagliata ed è significativo il ritratto del profeta e del sacerdote, i custodi della Parola del Signore, i quali "si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare" (ibid.).
La seconda parte del Cantico (cfr vv. 19-21) non è più un lamento individuale, alla prima persona singolare, ma una supplica collettiva rivolta a Dio: "Perché ci hai colpito, e non c'è rimedio per noi?" (v. 19). Oltre alla spada e alla fame, c'è, infatti, una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio, che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell'agire dell'umanità. Le domande a Lui rivolte si fanno perciò tese ed esplicite in senso tipicamente religioso: "Hai forse rigettato completamente Giuda, oppure ti sei disgustato di Sion?" (v.19). Ormai ci si sente soli e abbandonati, privi di pace, di salvezza, di speranza. Il popolo, lasciato a se stesso, si trova come sperduto e invaso dal terrore.
Non è forse questa solitudine esistenziale la sorgente profonda di tanta insoddisfazione, che cogliamo anche ai giorni nostri? Tanta insicurezza e tante reazioni sconsiderate hanno la loro origine nell'aver abbandonato Dio, roccia di salvezza.

4. A questo punto ecco la svolta: il popolo ritorna a Dio e gli rivolge un'intensa preghiera. Riconosce innanzitutto il proprio peccato con una breve ma sentita confessione della colpa: "Riconosciamo, Signore, la nostra iniquità… abbiamo peccato contro di te" (v. 20). Il silenzio di Dio era, dunque, provocato dal rifiuto dell'uomo. Se il popolo si converte e ritorna al Signore, anche Dio si mostrerà disponibile ad andargli incontro per abbracciarlo.
Alla fine il profeta usa due parole fondamentali: il "ricordo" e l'"alleanza" (v. 21). Dio viene invitato dal suo popolo a "ricordarsi", cioè a riprendere il filo della sua benevolenza generosa, manifestata tante volte nel passato con interventi decisivi per salvare Israele. Dio è invitato a ricordarsi che egli si è legato al suo popolo attraverso un'alleanza di fedeltà e di amore. Proprio per questa alleanza il popolo può confidare che il Signore interverrà a liberarlo e a salvarlo. L'impegno da lui assunto, l'onore del suo "nome", il fatto della sua presenza nel tempio, "il trono della sua gloria", spingono Dio - dopo il giudizio per il peccato e il silenzio - ad essere di nuovo vicino al suo popolo per ridargli vita, pace e gioia.
Insieme con gli Israeliti, anche noi possiamo dunque essere certi che il Signore non ci abbandona per sempre ma, dopo ogni prova purificatrice, egli ritorna a far "brillare il suo volto su di noi, a esserci propizio… e a concederci pace", come si dice nella benedizione sacerdotale riferita nel libro dei Numeri (6,25-26).

5. A conclusione, possiamo accostare alla supplica di Geremia una commovente esortazione rivolta ai cristiani di Cartagine da san Cipriano, Vescovo di quella città nel terzo secolo. In tempo di persecuzione, san Cipriano esorta i suoi fedeli a implorare il Signore. Questa implorazione non è identica alla supplica del profeta, perché non contiene una confessione dei peccati, non essendo la persecuzione un castigo per i peccati, ma una partecipazione alla passione di Cristo. Nondimeno si tratta di un'implorazione altrettanto pressante quanto quella di Geremia. "Imploriamo il Signore, dice san Cipriano, sinceri e concordi, senza mai cessare di chiedere e fiduciosi di ottenere. Imploriamolo gemendo e piangendo, come è giusto che implorino coloro che sono posti tra sventurati che piangono e altri che temono le sventure, tra i molti prostrati dal massacro e i pochi che restano in piedi. Chiediamo che ci venga presto restituita la pace, che ci si dia aiuto nei nostri nascondigli e nei pericoli, che si adempia quello che il Signore si degna di mostrare ai suoi servi: la restaurazione della sua Chiesa, la sicurezza della nostra salute eterna, il sereno dopo la pioggia, la luce dopo le tenebre, la quiete della bonaccia dopo le tempeste e i turbini, l'aiuto pietoso del suo amore di padre, le grandezze a noi note della divina maestà" (Epistula 11,8, in: S. Pricoco - M. Simonetti, La preghiera dei cristiani, Milano 2000, pp. 138-139).

Dì loro questa parola:
«I miei occhi stillano lacrime notte e giorno senza cessare,
perché la ferita è grande;
è stata colpita la vergine figlia del mio popolo
da una ferita mortale.
Se esco in campagna, ecco i trafitti di spada;
se entro in città, ecco gli orrori della fame.
Perfino il profeta e il sacerdote
si aggirano per il paese, ma senza comprendere.
Hai rigettato completamente Giuda,
o ti sei nauseato di Sion?
Perché ci hai colpito e non c'è per noi guarigione?
Si sperava la pace, ma non c'è alcun bene;
il tempo della guarigione, ecco invece lo spavento.
Riconosciamo, o Signore, la nostra cattiveria,
l'iniquità dei nostri padri:
sì, abbiamo peccato contro di Te.
Non rigettarci a causa del tuo nome,
non far disprezzare il trono della tua gloria.
Ricordati: non infrangere la tua alleanza con noi.
C'è, forse, tra i vani idoli delle nazioni chi faccia piovere?
O il cielo potrà dare da solo gli acquazzoni?
Non sei forse tu, o Signore, il nostro Dio?
Noi speriamo in Te,
poiché tu hai fatto tutte queste cose!».

Ioannes Paulus PP. II
Udienza Generale di Mercoledì, 11 dicembre 2002

   

L'ira di Dio

L'ha evocata un Papa sempre più solo e apocalittico nella udienza dell'11 dicembre. Per ricordare il tema del male che colpisce i giusti e gli innocenti.

di Eugenio Scalfari

Raccontano le cronache che l'11 dicembre scorso, durante un'udienza collettiva di catechesi, cioè d'insegnamento della fede e dei suoi misteri, Papa Wojtyla abbia detto, parafrasando un passo del libro di Geremia: "Dio non si rivela più, sembra nascondersi nel suo cielo, in silenzio, quasi disgustato dalle azioni dell'umanità". A quel punto - hanno riferito concordemente i giornali - un fremito di addolorato stupore ha percorso l'affollata assemblea dei fedeli lì riuniti per ascoltare la parola del Papa.

In mezzo a tante incertezze e ristrettezze della loro vita spirituale e materiale, erano andati a cercar conforto dal Vicario di Cristo e si trovavano invece di fronte alla rivelazione improvvisa quanto inattesa dell'assenza sdegnata e corrucciata del Signore. Non al suo perdono e alla sua misericordia, ma alla sua ira a stento trattenuta e trasformata nel rifiuto di intervenire, di raddrizzare i torti subiti, di castigare gli ingiusti, di confortare i puri di cuore, di opporre insomma lo scudo della Provvidenza alle frecce infuocate del Male.

Nessuno si aspettava che il Vicario parlasse con accento così disperato e profetico. Certo non è la prima volta che Giovanni Paolo II indica i mali del mondo e ne condanna i responsabili con un vigore inusitato per chi siede sulla cattedra di San Pietro e guida non soltanto le anime e le sorti del suo gregge ma anche la complicata trama diplomatica e temporalistica che fa della Chiesa una grande potenza politica oltre che lo strumento intermediario tra le miserie terrene e l'onnipotente trascendenza "che sta nei cieli". Ma mai prima d'ora il Vicario aveva reso pubblica testimonianza del ritiro di Dio dalla scena del mondo.

Nessun Papa - ch'io sappia - l'ha fatto prima di lui. Bisogna andare a qualche grande Santo, a qualche grande Mistico, per trovare affermazioni così disperate e disperanti. Vi si sente, in quelle parole, una passione e un fuoco così intensi da restar sbalorditi dalla potenza interiore emanante da quella figura logorata ma non vinta dagli anni e dalla malattia, che trova la forza di descrivere ai fedeli che cercano speranza un mondo desolato e abbandonato da Dio. Dio non vuole più ascoltare le sue creature, i loro peccati l'hanno allontanato, è diventato sordo alle loro preghiere e muto di fronte alle loro domande.

Debbono dunque essere ben gravi quei peccati perché Dio, parlando attraverso il suo Vicario, manifesti il suo cruccio in termini così estremi; e deve essere totalmente posseduto dalla voce del suo Dio, il Vicario che parla per lui, per dover rivelare un abbandono che priva la stessa Chiesa della sua missione mediatrice che è poi la sola che ne motiva e ne giustifica la presenza storica.

Siamo dunque stati posti di fronte, tutti noi, credenti e non credenti, ad un evento di immensa portata religiosa e culturale, etica e perfino politica.

Ma la reazione dei destinatari di un simile annuncio è stata fin qui debolissima: qualche titolo sui giornali e telegiornali, rari commenti più o meno di maniera, poi più nulla, una coltre di indifferenza ha relegato nell'oblio la testimonianza del Vicario, altre notizie ed altri eventi incalzano e avvincono la fantasia del pubblico, i quiz a premi coinvolgono un uditorio melenso ed elementare, storie di quotidiana violenza si susseguono scacciando la precedente e preparando la successiva, sesso e canzoni, dispute incomprensibili su incomprensibili argomenti e rumore, rumore, rumore... Non doveva esser così la Torre di Babele dove tutti gridavano e nessuno comprendeva nessuno? Non è diventato così questo nostro presente senza più memoria del passato e senza più speranze di futuro?

Se vogliamo capire compiutamente la testimonianza e lo spirito profetico che il Papa ha manifestato e farne in qualche modo esperienza e occasione di crescita, mi sembra sia necessario concentrarsi su quattro aspetti della questione.

Il primo riguarda la lamentazione di Geremia dalla quale il Papa ha preso spunto.

Il secondo concerne i comportamenti della società che hanno provocato un così irrefrenabile "disgusto" nell'animo del Vicario, eco del dio che si manifesta attraverso di lui.

Il terzo l'indifferenza dei destinatari di quel messaggio.

Il quarto, infine, riguarda i laici non credenti: perché dovrebbero essere anche loro scossi e coinvolti da una rivelazione pastorale che in teoria non li tocca e che invece, a parer mio, ne investe direttamente il senso di responsabilità e il sentimento morale.

Geremia. Visse 2700 anni fa nell'antica terra di Israele, nella zona settentrionale di quella regione. A lui si intitola uno dei libri della Bibbia, che segue quello intitolato a Isaia e precede quello intitolato a Baruc.

La Voce che parla attraverso quella del profeta somiglia, molto alla lontana, a quella del Dio cristiano. È infatti la voce del Dio degli eserciti, irato contro il suo popolo di elezione al punto di scatenare contro di esso non solo la sua ira ma le armi dei suoi più terribili nemici - caldei e babilonesi - che ne devasteranno le terre e le città, uccideranno, bruceranno, stupreranno. Fino alla distruzione del Tempio e la presa in cattività dell'intero popolo di Israele e di Gerusalemme. Geremia si riferisce ad avvenimenti storicamente accaduti dei quali lui stesso è stato testimone e vittima, ma non è questo l'aspetto più importante della sua profezia che consiste invece nell'attribuire al Signore (Adonai) la volontà attiva dello scempio e dell'abiezione in cui cadranno il regno di Giuda e Gerusalemme a causa dei loro peccati. I peccati sono più volte elencati: idolatria, adulterio, ingiustizie, amore dei piaceri e dell'oro, cupidigia del potere, violazione della Legge. E si riassumono in un'unica e fiammeggiante parola: tradimento.

Il dio d'Israele ha lungamente sopportato tutto questo, ha inviato al suo popolo innumerevoli avvertimenti, lo ha infinite volte stimolato a pentirsi e rientrare sulla retta via indicata da Abramo e da Mosè. Ma ora la sua pazienza è esaurita, la fonte della sua misericordia si è disseccata. Ora il dio degli eserciti ha sfoderato la spada e con quella colpisce.

Geremia - nel mentre che riferisce al popolo delle tribù la maledizione divina - invoca ancora la clemenza del Signore, ma questi rifiuta la preghiera del profeta e gli intima di astenersi da quella invocazione. Ed anzi estende la sua condanna a tutto il genere umano affidando al profeta la coppa della sua ira affinché la faccia bere a tutte le genti che abitano la terra.

"Tu dirai loro: così parla il Signore degli eserciti, il Dio di Israele. Bevete e ubriacatevi e vomitate e cadete per non più risorgere di fronte alla spada che io mando in mezzo a voi. E tu dirai loro: rugge il Signore di lassù e dalla sacra sua dimora lancia il suo grido. Sì, rugge contro il suo gregge perché il Signore ha lite con le nazioni, fa il processo ad ogni vivente e i rei li dà alla spada. Così parla il Signore degli eserciti".

E ancora, rispondendo all'invocazione di clemenza da parte di Geremia: "Io non ascolto il loro chiamare: offrano pure olocausti e oblazioni; io non li gradisco, anzi con spada con fame e con peste io li consumerò".

Alla fine, il profeta esalta la misericordia di Dio e apre un varco alla speranza: tornino i popoli a rispettare le leggi del Signore e questi stenderà di nuovo su di essi la sua mano protettrice. Questa è la sicura speranza di Geremia, ma non la parola del Signore che resta adirato e nascosto alla vista, circondato dai nembi del cielo tempestoso.

Il dio dei cristiani, il dio di papa Wojtyla, non è il "Deus Sabaoth", degli eserciti e dell'ira di Geremia. Ha inviato in terra il Figlio, la sua seconda persona, affinché si immoli sulla croce e stabilisca una nuova alleanza con gli uomini fondata sull'amore, sulla giustizia e sulla misericordia. Perciò non farà mai propri, il dio dei cristiani, i propositi vendicativi e arcaici del dio di Israele.

Certo, resta il tema del male, del quale gli uomini non riescono a darsi ragione quando colpisce i giusti e gli innocenti. Se ne parlò a lungo in un'occasione recente, quella del terremoto e dei ventisette, anzi ora ventotto bambini sepolti dalle macerie della loro scuola a San Giuliano di Puglia. Dov'era Dio in quel momento, si chiese un sacerdote, si chiesero i genitori delle vittime e molti di coloro che hanno partecipato con cuore dolente a quel lutto collettivo.

Il tema del male è grandissimo e forse imperscrutabile per un credente. Ne parlano diffusamente i grandi dottori della Chiesa e soprattutto Paolo e Agostino. Ne parlano, con accenti diversi ma con non minore passione, Giobbe e i suoi tre amici, nel libro sapienziale che da Giobbe prende il nome.

Per i non credenti il problema del male non si pone con la stessa intensità: se è un male voluto, una violenza, un'ingiustizia, un crimine, gli autori ne sono responsabili e la legge provvede a sanzionarli; se è un male naturale e senza né autori né moventi, esso è frutto del caso. Se camminando schiaccio e uccido una formica, il caso ha provocato quell'uccisione. E chi siamo noi per ritenerci superiori alla formica, muniti di un personale destino già scritto nel libro di Dio?

Ma qui non si discute di questo problema. Qui si discute del perché il Vicario di Cristo, questo Vicario che occupa da più di vent'anni la scena del mondo, ha sentito di dover annunciare che Dio, disgustato dagli uomini, si è ritirato nel suo cielo chiudendosi nel silenzio.

Wojtyla non è certo arrivato alle vendette bibliche citate da Geremia, ma ha esplicitamente richiamato quel profeta e le sue lamentazioni. Ha fatto chiaro riferimento al capitolo 14 di quel libro. Insomma ha circostanziato il suo annuncio in modo da renderne percepibile a tutti il peso e la gravità.

Perché il dio cristiano si è ritirato, stanco e disgustato dai peccati degli uomini? Quali peccati? Non si ritirò di fronte ai massacri e ai genocidi dello scorso secolo o almeno i suoi vicari non ne dettero alcuna rivelazioni. Neppure papa Wojtyla, che pure fu protagonista non secondario e anzi in primissima fila nella lotta contro i crimini del comunismo e il soffocamento sanguinoso dei diritti dell'uomo nei paesi di quell'impero che anche per lui, anzi per lui soprattutto, fu l'impero del male.

Quello era un crimine che aveva come responsabili un regime e le persone che lo guidavano. Le cause del crimine si potevano eliminare facendo crollare quel regime e l'ideologia che lo sorreggeva nella credulità delle masse. Fu dunque una lotta affidata in qualche modo al dio degli eserciti, in nome dei valori di natura come la libertà, la giustizia, i diritti.

Ma qui e ora il caso è diverso. Terribilmente più complicato perché diversa è la natura del peccato. Il peccato è l'esclusivo o almeno dominante amore di sé, espresso in tutte le forme, dalle più violente alle più morbide e apparentemente non conflittuali con i diritti degli altri.

Quest'amore c'è sempre stato e sempre ci sarà poiché costituisce uno dei fondamenti naturali della sopravvivenza. Ogni molecola vivente, ogni cellula, ogni sia pur elementare nucleo di vita organizzato manifesta come primo e fondamentale impulso quello di sopravvivere e riprodursi. Se qualcosa o qualcuno minacciano la sua sopravvivenza, quella cellula, quell'organismo si difenderà fino allo stremo, cercherà le condizioni migliori, le troverà secondo le forme che la natura gli ha dato, nell'acqua, nella luce, nel fango dei pantani, sulle vette delle montagne.

Ma, al tempo stesso, la natura ha segnato l'individuo col marchio della sua appartenenza ad una specie. Anche le specie sono spinte in quanto tali alla lotta per la loro sopravvivenza. Gli individui non hanno bisogno - né sono in grado - di porsi individualmente il problema: li guida l'istinto collettivo, il branco, le migrazioni, l'appagamento dei bisogni primari.

Soltanto l'uomo è conformato in modo da porsi, o comunque da avvertire, il tema dell'appartenenza alla specie ed anche ad una determinata comunità. Accanto all'istinto egoistico della sopravvivenza individuale, la natura ha dato all'uomo l'istinto d'una appartenenza collettiva e il senso della responsabilità per le scelte che compie; ha dato cioè il sentimento morale e il bisogno della religiosità. Non è la morale a derivare dalla religione ma esattamente l'opposto: la religione nasce dalla morale come presidio dell'istinto di appartenenza e di ricerca della sopravvivenza collettiva e freno alla trasgressività individuale.

Il peccato che il Papa ravvisa come causa del disgusto divino parte dunque dalla constatazione che il sentimento morale si va rapidamente ottundendo. Mammona ha conquistato uno spazio crescente, Paal ha alterato l'equilibrio ontologico tra la forza del bene e quella del male. Non si può cercare la causa di questa alterazione in un determinato regime politico, in un meccanismo economico, in un'ideologia sociale. Il danno è molto più profondo e difficilmente reversibile. Gli angeli si sono ribellati al loro Signore e non aiutano più gli uomini a ritrovare la retta via. E il Signore si ritira nel suo cielo, la sua voce tace sdegnata. "I tuoi sacrifici io non li gradisco più perché puzzano di ipocrisia".

Non si era mai visto un Papa più disperato di questo al termine del suo pontificato: più profetico, più solo, più apocalittico.

Il suo appello, anzi la sua rivelazione, è rivolto ai cristiani e anche ai credenti delle altre grandi religioni monoteistiche, gli ebrei, i musulmani, perché l'Onnipotente, il Trascendente, il Signore dell'universo, il Padre delle anime, è unico e comune. Ma interessa anche, quell'appello, direttamente i non credenti.

Essi, i non credenti, non pongono la fonte della morale nei cieli della trascendenza, ma nelle invenzioni incessantemente evolutive della nostra terrestre natura. Ma se è vero - e i segnali sono percepibili a tutti - che il senso di responsabilità e di solidarietà si ottunde e cede spazio alla narcisistica contemplazione di un sé posto al di sopra della comunità e della specie, allora i non credenti sono coinvolti direttamente. Non possono trasferire alle potenze infernali nelle quali non credono la responsabilità di questa alterazione. Né si preoccupano del disgusto divino o degli angeli caduti.

In gioco c'è la natura dell'uomo, gli elementi fondanti della specie, la sua sopravvivenza e il suo destino. I non credenti sono chiamati in causa ancor più dei credenti, non hanno un Dio cui rivolgere lamentazioni e preghiere, né un diavolo da combattere o a cui vendere l'anima, né un Papa che parli per loro.

I non credenti sono soli, ciascuno per sé, con il proprio corpo, la propria mente, i propri istinti, la propria individualità, la propria vita e la propria morte. Se saltano gli equilibri di questa multiforme miscela vitale, se l'istinto della sopravvivenza collettiva viene meno, è la vita stessa dell'uomo che entra nella regione dei rischi e del disgusto.

La vita si ritira disgustata dal vivere. Anche il Vicario è un uomo. E forse è questo che voleva dirci.

 

Il silenzio lo crea l'uomo

L'esperienza di una carmelitana: Cristiana Maria Dobner

La lamentazione solca il tempo dell'attesa del Messia stesso, annuncio di pace e di gioia, con una scansione di pianto. La spada tocca l'Adam, l'uomo, nella sua carne, rischia di troncare in lui il soffio della vita; spada che è simbolo di vita attentata o di morte, immediata e repentina, comunque violenta; fame che è simbolo di vita attentata o di morte, diluita nel tempo e contata, goccia a goccia, figlia della violenza sorda che non uccide alzando la mano ma rinchiudendola. Due forme di violenza che precludono l'uomo all'uomo, che possono costringerlo ad una verticalità che si apre nel gemito verso il Padre buono.

Giovanni Paolo II non ignora la violenza odierna, l'ingiustizia che non cede il passo alla Shalom, i drammi dell'uomo e dei piccoli dell'uomo gli sono presenti, giocano nella sua vita le ombre della matita grassa, fumosa.Eppure, peggiore della guerra, della calamità naturale, della fame che isteriliscono la mente toccando gravemente il corpo, vi è un'altra dimensione dell'esistere umano che è in gioco e che fonda tutto: la relazione con Dio. Se questo legame è inaridito, se patisce la violenza della spada del pensiero debole, del rivolgersi agli idoli vani del tempo corrente; se la fame di Dio è colmata da ogni bene terreno, satura di se stessa, grassa di edonismo, che cosa rimane dell'uomo? Il suo cuore non è più il cuore ascoltante della preghiera di Salomone, quel lev che rimane sempre teso e vibrante ad ascoltare la voce del Padre, che, in Lui fonda la propria giustizia e da cui attende lo Shalom. L'uomo non guarda più neppure l'uomo, suo compagno di strada. Guarda solo se stesso e la dinamica dell'attesa di Colui che sta venendo, gli suona assurda, incredibile o, almeno, lontana e fantastica. Toccando però il centro del suo dolore, scopre anche la sua area di forza. Le tracce di Dio nella storia le può cogliere e riconoscere solo questo cuore ascoltante, altrimenti gli si oppone il dramma peggiore che possa toccare la persona umana: il silenzio distante e costante.

Tutti, in misura diversa, abbiamo conosciuto il silenzio della persona amata, dell'amico, dei genitori. Un silenzio che grida indignazione, scontrosità, rabbia tacitata, rapporti rotti o, almeno, insidiati.Così è Dio con noi, quando come il popolo, dobbiamo asserire: siamo colpiti, non c'è più rimedio?Il silenzio di Dio è di altra acqua, conosce una sola valenza: il rispetto della libertà, l'assoluto amore per la tragedia che l'uomo colpito non sa leggere. Dio gli concede tempo e, saggiamente, tace. Avvolge l'uomo con una coltre che lo protegge mentre sembra respingerlo. E' una spinta immobile, un moto che è statico, fermo. Un contro movimento che reca in sé la traccia della vita. Dio attende che l'uomo si ritrovi, che faccia luce in se stesso: colpito nella sua radice più profonda, fluttua nell'insicurezza, nell'instabilità.

Se Dio tace, cioè se non si esprime con la sua Parola che è fatto concreto, perché quando Egli parla opera; se tace, le sue mani non smettono di sorreggere l'uomo da Lui plasmato.La sua mano, nel silenzio e nel vuoto, tocca gli orecchi del cuore e li libera dal frastuono, dal vocio del sé al sé. E l'uomo grullo pensa: Dio tace. Invece Egli è all'opera e il canale dell'udito si libera, incomincia a percepire almeno il silenzio, il vuoto. Dio ci insegna che il disgusto esiste, Egli è debole per amore, ma ci insegna anche come trasfigurare il disgusto che lo fa ritrarre dal suo rapporto con l'uomo: non nel carapace di un ostinato rifiuto, nella ricerca del punto debole del carapace dell'uomo: nel grembo del silenzio dove Egli ricrea nell'uomo la capacità del cuore ascoltante.

Non è forse il messaggio di chi ha fatto esperienza di Dio, dei mistici, delle loro Notti? Il muro del silenzio diventa allora armoniosa attesa, si fa spasimo ardente, perché l'uomo solo conoscendo se stesso, può aprirsi a Dio. Il nodo dell'amicizia si stringe e le notti della persona e della storia fanno scaturire bellezza splendente. Non è il messaggio di ogni cristiano che accompagna il fratello, nel silenzio e nel vuoto della storia, perché Egli apprenda a percepire il passo di Colui che gli cammina accanto?Il radicarsi in quella Parola, l'ultima secondo Giovanni della Croce, pronunciata dal Padre donandoci il Verbo, Gesù Cristo. Silenzio di Dio che non getta l'uomo nella storia e lo dimentica, ma tesse la speranza, la verità dell'uomo sull'uomo. Giovanni Paolo II ci ha ricordato quanto vogliamo, inconsciamente, scordare: il silenzio lo crea l'uomo.


Il silenzio di Dio

di Giovanni Manco

1. L'11 dicembre 2002 il Papa Giovanni Paolo Il con terribili parole ha riproposto un tema che è al centro della riflessione teologica contemporanea, ben prima di Auschwitz, il silenzio di Dio dinanzi agli orrori del mondo.
"Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada; se percorro la città, ecco gli orrori della fame. Perché Dio ci hai colpito, non c'è rimedio per noi?" Dopo avere citato le parole del profeta Geremia, davanti alle rovine del tempio di Salomone, il Papa, richiamandosi espressamente allo scenario del Medio Oriente, aggiunge: "C'è una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio che non si rivela più, e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dall'agire dell'umanità. Dio, roccia di salvezza, si allontana quando l'uomo l'abbandona, lo rifiuta."
Il Papa ha parlato, certo, anch'egli da profeta apocalittico, nel linguaggio fatto di metafore, ma anche nel contenuto: quello costantemente volto a svelare, nell'antico e nel nuovo testamento, la via indicata al popolo di Dio, di fronte all'impero, al dominio del male che unisce dialetticamente da un lato l'orrore della morte sia per spada o per guerra, sia per fame, per sfruttamento, per ingiustizia; dall'altro il rifiuto e l'abbandono di Dio. Profezie talvolta dirette ad incoraggiare il popolo a resistere, talvolta disperate, quasi rassegnate di fronte al silenzio di Dio.
Un parlare con le categorie astratte del linguaggio religioso, che tuttavia, pur nella sua suggestione, forse non favorisce l'univoca e generale comprensione di quanto dovrebbe giungere alla mente e al cuore di tutti; ed anzi, con la sua genericità ed astrattezza, sembra agevolare, in chi è il massimo corresponsabile della "colpa", la fuga dal pentimento e dalla richiesta di perdono davanti al popolo, e ostacolare, in chi ne è vittima, la capacità di comprenderla, denunciarla e combatterla. Un silenzio, quello di Dio, che dovendo essere interpretato, lascia adito ad accentuazioni differenti secondo che lo si limiti a Dio; che lo si imputi a chi opera il male, che lo si estenda alla Chiesa. Marcature che, sullo stesso tema del silenzio di Dio, hanno contrassegnato l'intera storia della teologia, tanto ne coinvolgono il centro, l'idea stessa di Dio, il significato del suo Regno, il senso ultimo della vita, la collocazione della salvezza.

2. Come interpretare il silenzio di Dio? Esso è, certo, segno del disgusto che Egli prova davanti al male, ma anche di quanto poco bene è operato da chi deve essere testimone di Cristo ed appare, a causa di ciò, in una qualche misura corresponsabile. Col superamento del confine ultimo oltre il quale c'è l' "Ira Dei", si è rotto il disequilibrio patologico accettabile, se mai esso sia ammissibile, tra bene e male, ed è quindi necessario capire la specificità e straordinarietà del male che lo ha determinato, fare la diagnosi dell'eziologia, analizzandone molto bene non solo le forme moderne, i meccanismi nuovi del suo dominio, ma anche le concause che lo hanno agevolato.
La nuova struttura del capitale finanziario, le sue dinamiche eversive di ogni regola, di ogni codice anche morale, i suoi strumenti di potere, la nuova ideologia del mercato globale, la nuova cultura dietro cui si maschera quanto concorre a massimizzare il profitto e a farlo ritenere invincibile; la nuova forma dell'impero che oggi, più che mai, appare ovunque dominare per la sua esclusività, dimensione e capacità espansiva, per la sua forza pervasiva, seducente e violenta, il moderno volto di "mammona", metafora evangelica del male, pare aver vinto, non trovare più resistenza alcuna nella coscienza degli uomini di buona volontà. Infatti, se per la quantità, qualità e velocità dei suoi effetti tragici - la guerra, appunto, non solo quella del medio oriente che tocca più da vicino la c.d. terra santa (non è per questo anche la più scandalosa?), ma tutte le guerre dimenticate (il silenzio della cattiva coscienza dell'uomo!), come ha detto il Papa, le infinite forme del diniego della dignità dell'uomo, del suo ridurlo a mezzo, persino a schiavo, la fame, le malattie, le tante ancelle della povertà (l'analfabetismo, la dittatura, ecc.), il loro insieme, dunque, quale abisso del crescente affronto alla dignità dell'uomo, volto tragico di una realtà nuova, quella del mercato globale - -il male pare aver superato ogni limite, quello oltre il quale Dio stesso ha cessato ogni dialogo con gli uomini.

3. Ma è forse meno importante del conoscere il male, il saper conoscere noi stessi, il nostro saper fare il medico?
Poiché il male degli altri chiama in causa sempre la nostra responsabilità, quella di chi ha il compito di prevenirlo, neutralizzarlo, combatterlo con la medicina della "spada" cristiana della verità e dell'amore, non dobbiamo forse chiederci che cosa, nel nostro operare, abbia agevolato tanto abominio? Che rapporto hanno, ad esempio, le cause generatrici del male ed i suoi effetti, l'insieme del suo dominio, col comportamento di chi vuole essere testimone del bene? Non è utile persino il chiederci se il semplice stigmatizzare le azioni disgustose, se i reiterati appelli alla pace o anche il disaccordo netto e chiaro contro la guerra, non logorino il messaggio? Se in essi sia frustrante in chi riceva il messaggio la mancanza di "fattibilità" e di efficacia della testimonianza personale? Perché l'umanità sappia scegliere Dio e rifiutare Mammona, non occorre forse rivedere in modo più critico ed esplicito il grado di coerenza di ogni elemento del sistema affinché ne siano rimosse le cause di criticità?
I profeti d'Israele non sono mai stati personaggi votati alle mera esortazione. Il loro richiamo all'Oracolo del Signore era un modo per affrontare direttamente e in modo esplicito i problemi cruciali del popolo eletto, per contestare e fustigare i re, ma anche per costringere alla riflessione autocritica, per mettere Israele di fronte alle sue responsabilità e indurlo a scegliere bene la strada da prendere.
Non chiederci se di tanto male non si sia tutti noi cristiani corresponsabili, significherebbe negare in radice il fondamento del cristianesimo, sia teologico che etico.
Bisogna amare nello stesso modo e misura Dio, se stessi e il prossimo, con identico sentire, di intelletto, di cuore, di animo, e con uno stesso fare (Mt. 23). Amare implica una responsabilità attiva, quella di operare il bene, che è l'altra faccia del respingere e combattere il male. Non porsi tale problema, non cercare di capire "non se", ma "perché, dove, quando e come" si è stati corresponsabili del male, significherebbe limitare l'amore di Dio, "operare a parole", enunciarlo, aspettare di essere coinvolti; in definitiva, non vedere il male e non combatterlo è dimenticare che solo i frutti sono parametro e misura della verità e della giustizia che è conformità alla volontà di Dio, a quanto rende l'uomo giusto. E quali sarebbero stati i nostri frutti se Dio è silente per essere disgustato del male operato dall'intera città, come lo fu per Sodoma e Gomorra? Possono i pochi giusti salvare la città?
In definitiva, se è vero che nel Nuovo Testamento la responsabilità è sempre personale, nondimeno di fronte al male dell'intera società è molto difficile pensare di non esserne compromessi.
Basta operare il bene, le opere di misericordia, ma non avere quella sete di giustizia che toglie ossigeno al male, nonostante che i suoi effetti tragici siano davanti ai nostri occhi e scandalizzino la nostra coscienza? Amare Dio non vuol dire forse saper vedere il male, ovunque si nasconda, comunque si mascheri, e quindi volerlo combattere? Chi opera il male non deve forse essere amorevolmente spinto al pentimento e alla conversione mediante la riprovazione generale?
E ancora: cosa significa combattere il sistema del male per una religione non violenta sapendo che l'impero dei mercanti è violento? Chi rappresenta l'ecclesia non ha forse il dovere di proteggere tutto il gregge, anche a costo della vita e ciò non è tanto più efficace quanto più tutto il popolo ha coscienza del fine del sacrificio? C'è un limite oltre il quale l'insufficienza del bene compiuto con le opere di misericordia rende palese l'enormità, l'insostenibilità del male altrui come conseguenza della nostra inerzia e tolleranza?

Non c'è forse scandalo nella omissione di controllo o peggio nella concessione da parte del Sinedrio ai mercanti di occupare il Tempio? Il tempio non è forse il mondo, la natura, l'umanità che ha subito, oltre misura, l'offesa dei mercanti, un'offesa che anche se incruenta suscita in Gesù l'indignazione e il "rovesciamento" dei loro banchi? Che cosa sono i banchi se non le banche, di quanto è il regno della finanza, di mammona? E quanto maggiore è lo scandalo se l'operato dei mercanti è anche cruento e se è causa diretta della fame, della malattia, dell'uccisione del popolo?
Capire perché e come si è comportato il Sinedrio, quale sia il suo rapporto con i mercanti, è altrettanto importante del capire chi sono e cosa vogliono i mercanti e quale sia nel mondo il rapporto tra i mercanti e mendicanti pure così vicini.

4. L'autocritica è, dunque, la premessa della critica.
Ogni conoscenza, infatti, è "critica della conoscenza"; e ciò non è innocuo per le conseguenze e dunque non è indolore per quanti si avventurano su questa strada con sete di verità e giustizia. C'è sempre un costo nella problematicità della fede (l'esitazione a non credere) quando essa viene sacrificata alla dogmaticità dinanzi alla proibizione di mettere in discussione la situazione storica, concreta della Chiesa: fede e storia non sono infatti separabili. Non sono separabili perché non si può amare Dio senza operare il bene del prossimo, dunque vivendo nel mondo e nella storia per combattere il male, quello che è sì negli altri, ma è anche inscindibilmente presente in noi. Separarli significherebbe interrompere il loro rapporto dialettico, di comunicazione; ma anche finire per non sapere più dove e perché si sbaglia e dunque come rimuovere la coscienza che ogni uomo, ogni cristiano ha del bene e del male, non come astrazione, ma nel loro farsi.
Chiedersi se vi sia una nostra responsabilità significa riproporsi alcune domande fondamentali sulla fede in Cristo, cominciando da quella prima che non ci abbandona mai, anche quando si è risposto alla chiamata e si è compiuta la scelta: "Chi dite ch'io sia?" La certezza della risposta non esclude l'ambiguità, la problematicità, che la fede in Cristo sia movimento dell'animo, e non dogma.
Premessa teologica dalle innumerevoli conseguenze su diversi piani - psicologico, metodologico, culturale, ecc. - tutti riconducibili sostanzialmente al dubbio, alla conoscenza critica che parte sempre da quella autocritica e solo a questa condizione, di sapersi coraggiosamente mettere in gioco, si legittima.
Significa, anche, partire dal Concilio Vaticano II, dal percorso fatto (Dei verbum) - la riscoperta della fede come partecipazione alla storia e non come fatto dottrinale o teologico; la riscoperta della parola di Dio e del dialogo col mondo oltre che della liturgia - e da quello incompiuto (Lumen gentium), con cui si sarebbe dovuto valorizzare l'immagine comunitaria della Chiesa come popolo di Dio. Infatti non si è ancora avuta quella renovatio - riformatio della Chiesa così come voluta da Giovanni XXIII, quale risposta all'esigenza cristiana di continua conversione nella via (Odòs) che è  per  definizioneaperta, qual è quella del Signore -(LC 25-33: "Se uno viene da me e non odia suo padre, sua madre, la moglie e i figli, i fratelli e sorelle e persino la propria vita, non può essere mio discepolo").
Rispetto alle tante forme ed espressioni di forte legame affettivo e sociale che creano "strutture chiuse" la Chiesa profetica deve essere intesa come interrogazione aperta, inclusiva della coscienza di tutti (e non esclusiva quale è quella strumentale alla salvezza di pochi singoli) rispetto al fine ultimo della salvezza comune dell'universale famiglia umana.

5. Le cause riconducibili alla fede della Chiesa cristiana e alle sue diverse "interpretazioni-concezioni" che, indebolendo la forza di resistenza al male ne hanno favorito il dominio distruttivo, concorrendo così a far superare il limite ancora curabile del male, sono come è ovvio imputabili alla responsabilità generale dell'intera comunità nel tempo. Non possono quindi, come già accennato, che essere ricondotte al sistema interpretativo della fede con cui, quali che ne siano state le motivazioni umane, la Chiesa si è rapportata alla realtà della società civile, definendo così il proprio magistero rispetto al male e alle sue cause.
Si tratta di capire se e quali deviazioni, di natura od origine psicologica ed antropologico-culturale vi siano state e possano aver forzato nel senso sopraddetto (favorendo indirettamente il male) l'originaria concezione di alcuni temi e concetti fondamentali della fede; e quindi capire se e cosa fare perché cessi quanto prima il silenzio di Dio.
Una riflessione che, di necessità, riflette il moto dell'animo di chi scrive, e dunque un punto di vista per definizione opinabile, schematico, incompleto, quando non apodittico, implicitamente erroneo data la nostra personale limitatezza dottrinale; ma che tuttavia nasce (e riflette) dal bisogno di interrogarsi, di cercare la verità, e di esprimersi come genuino atto d'amore.
Differenze di concezione - quelle che intendiamo cogliere - che attraversano l'idea di Dio, della fede, del suo regno, della salvezza, del giudizio finale, della Grazia, della verità; differenze che sono sempre esistite e che tendono, antropologicamente, secondo le regole dell'agire umano, ad affermarsi, a consolidarsi, a divenire "cultura" in ragione della propensione degli interpreti a vivere e a ricondurre la fede più alle regole di questo mondo, che a quelle del "cielo"; prima metafora della radicale alternatività di Dio e della sua legge.

6. La causa prima dell'indebolimento del cristianesimo come fede operatrice di lotta al male è nella stessa teodicea, quando si propende a giustificare Dio, la sua giustizia e il suo operato in rapporto al male più che al bene; ovvero quando si propende a ricondurre la genesi del male, e quindi il piano strategico del suo più acuto manifestarsi, al diavolo, a qualcuno-qualcosa che esiste fuori dall'uomo. Collocare il bene o il male fuori da noi indebolisce di per sé la necessità di una nostra continua conversione e di un crescente impegno positivo a operare; implica una proiezione del nostro inconscio al potere salvifico trascendente - proprio del pensiero mitico-magico della condizione puerile dell'uomo - e per contro non implica un nostro sacrificio personale se non quello di evitare che il male entri in noi. A differenza dell'azione d'amore che è solo positiva e che implica un nostro sforzo a favore dell'altro, di donazione e di perdono, e che induce a curare dal di dentro i mali del mondo, senza delega a chiunque, Dio compreso, e senza l'intercessione a potenze e patronati mitico-magici, il santo protettore, l'angelo custode, ecc.; forme toccanti di fragilità umana e di ricerca compensatoria del divino che creano una profonda scissione nel foro interno della nostra responsabilità.
Appropriarsi di qualcos'altro fuori di noi, divinità, idee, teorie, fonti sapienziali, pensando che ciò sia di per sé una garanzia sufficiente a realizzare la "trasformazione della realtà" come frutto dell'amore, è puerile. Ciò sposta il centro della fede cristiana, del suo umanesimo integrale, dal mettersi in gioco col dono e sacrificio personale, dall'unire agendo il bene, con il sentire costantemente e in tutto il legame col prossimo, verso il mero desiderio del bene (buonismo), verso l'affidamento ad altri sia del compito di operare il bene che di contrastare il male; e dunque verso la difesa del nostro particolare ed individuale interesse o della nostra diversità-superiorità; verso la diffidenza e la sfiducia nel prossimo, tanto maggiore quanto più è lontano nello spazio e nel tempo; verso la separazione-conflittualità col diverso (tra fedeli, tra chiese cristiane, tra religioni), verso la soluzione miracolistica, la grazia ricevuta rispetto ai tanti bisogni, materiali e non, della vita.

7. Altra causa attiene all'insieme delle categorie spazio-temporali inerenti il Regno di Dio, la salvezza, il giudizio finale. Tanto più si è forzata la divisione spaziale, terra-cielo, qui-aldilà; ovvero quella temporale, ora-fine dei tempi, quanto più si è allontanato il luogo e il momento della parusia (inverarsi) del Cristo, dell' operare sulla sua via, tanto più si è accentuata la stessa concezione di Dio giudice e quindi quella della remuneratività del bene che si compie in vita.
Al "qui e ora" (M c 10,30 -Lc. 17,21 ) come manifestazione della libera, immediata, ma radicale scelta dell'operare il bene e del rifiutare il male, ogni termine spaziale (cielo) o temporale (il momento del giudizio) da metafora di una alternatività, costitutiva della realtà di questo mondo, ha finito per assumere una connotazione fisica, reale.
Se tempo (presente e futuro) e spazio (cielo e terra) - che nel linguaggio biblico sono metafore di una concezione solo apparentemente dialettica - sono in realtà simultanei e presenti, oggi e qui; se cielo-terra sono entrambe manifestazioni di una stessa condizione di responsabilità, di libera scelta, e se Dio - il suo nome-essenza, la sua volontà, il suo regno, la sua verità, l'appello alla sua giustizia - è impegno nel mondo e non la fuga da esso. Già per Daniele il cielo non era il luogo dove si attendevano le persone dopo la morte, bensì una realtà alternativa attivamente impegnata nella lotta contro il male sulla terra.
Quanto più, invece, il tempo e il luogo del Regno di Dio sono collocati escatologicamente, come catastrofe cosmica, alla fine dei tempi, al tempo della fine del mondo, tanto più il cielo e l'aldilà sono il luogo e tempo cui unicamente meriti finalizzare le nostre azioni; e tanto meno il mondo e la vita sono degni di inverare, qui e ora, la "volontà" di Dio intesa come salvezza di tutti attraverso il suo amore e quello reciproco tra gli uomini. Anzi la terra diviene dialetticamente il luogo, la prospettiva del male, della menzogna, dell'ingiustizia, dell'impero del diavolo. L'ordine naturale non è più la condizione necessaria ad operare il bene, lo specchio di Dio, ma ne è l'ostacolo primo e principale, lo specchio del male antitetico al cielo.
Il male, ma anche la sofferenza del mondo - le guerre, le malattie, i disastri naturali, ecc. - assumendo una materialità concreta, terrena, finiscono per appartenere più al disegno vendicativo o punitivo di Dio che alla naturalità del mondo e del suo disegno; effetto più di quanto del maligno entra nell'uomo che di quanto è generato dall'incapacità dell'uomo di amare, da quanto esce da lui e solo a lui imputabile.
Il rapporto tra presente e futuro è centrale nelle parole di Gesù. Alla domanda dei quattro discepoli (Mc 13:4) che vorrebbero sapere di più sui segni e sulle date della fine, apocalittica ed escatologica, Gesù invita a portare la propria attenzione non su un avvenire da attendere, di cui sarebbero spettatori, ma sul presente di cui essere attori.
L'annuncio di Gesù sul presente e sul futuro è collegato; il futuro è salvezza per quanti sappiano cogliere il presente come presente di Dio e come l'ora della salvezza; il futuro di Dio resta, invece, giudizio per colui che non vuole accogliere l'oggi di Dio. Gesù per questo ci chiede solo di stare attenti e di vegliare, di apprezzare con tutte le forze l'ora presente e di non pretendere di calcolare i tempi, di strumentalizzare col futuro anche la vita, di avere di Dio una concezione di telos compensatorio. "State in guardia", "vegliate" sono ammonimenti riferiti non a segni apocalittici di fine del mondo, ma ai falsi profeti, alle persecuzioni. Non diversamente, del resto, va letta l'intera Apocalisse di Giovanni. L'unica certezza (Mc 12, 24-27) non attiene all'aspetto cosmico del giudizio (veterotestamentario) (15-13, 10-34), ma alla venuta di Gesù nella gloria, non tanto come parusia finale, ma come salvezza e realizzazione del regno di Dio da operare fin da ora nella storia.

8. Il giudizio tra gratuità e remuneratività.
Rispetto all'ottimismo, al coraggio, alla forza del giudizio che si opera da ora e della vita eterna che è posseduta già ora nella fede, sappiamo quanto abbia invece finito per prevalere l'ansia, la paura, il calcolo per un giudizio che si compie solo nel e per l'aldilà e per ottenere il quale ci si può salvare anche col pentimento dell'ultima ora. La rivelazione del mistero (l'escatologia) e l'apocalittica (i destini ultimi dell'umanità) hanno finito per coincidere non solo cronologicamente, ma anche in ciò che li ha animati: la paura del giudizio e della condanna, e persino, in modo ricorrente, il diffuso senso di tragedia e di catastrofe incombente: basti pensare ai movimenti religiosi apocalittici millenaristici e quelli contemporanei, specie statunitensi, che hanno sempre contrapposto, non a caso, in modo dualistico, lo status attuale della storia avvertito come male e peccato, ad uno di perfezione, passato o futuro secondo la scelta del profeta di turno..
Da un lato, l'amore presente e il giudizio già iniziato in vita, qui e ora, in presenza di Cristo, per il quale non può che esservi il piacere e la gratuità dell'operare il bene, e quindi anche l'economia di Dio alternativa a quella del profitto e della distruzione dell'equilibrio naturale; dall'altro, una vita finalizzata al premio dell'aldilà in cui surrettiziamente si consolida una concezione remunerativa del rapporto con Dio, più omissiva che commissiva, e secondo cui, quindi, la fuga dal mondo, lo star fuori dal rischio delle tentazioni e delle contaminazioni con i diversi, faciliterebbe il conseguimento del premio e a cui consegue l'accettazione fatalistica e rinunciataria dell'economia dell'uomo.
La concezione remunerativa della legge di Dio - sicuramente più vicina a quella veterotestamentaria antecedente alla venuta del figlio e comunque figlia della natura umana - presuppone e implica allo stesso tempo una serie di corollari, quali, nei rapporti interpersonali: l'affermarsi della gerarchia costruita a sua volta sul raffronto del maggior o minor merito, facilmente esteso a tutto; il formarsi di atteggiamenti consolatori, dell'accontentarsi; ovvero di atteggiamenti costrittivi, lo faccio perché sono costretto dalla legge per adempiere al dovere ed evitare la pena, o calcolatori, sto fermo e zitto perché così mi considerano più buono. Ovvero, nei rapporti interreligiosi: la concorrenzialità e il proselitismo tra chi offre di più e meglio il salvacondotto per la salvezza eterna, la gara tra i tre paradisi delle tre religioni abramitiche; l'elaborazione della precettistica, di una casistica comportamentale, già nota ai rabbini e ai farisei, di quanto serve per ottenere il premio o evitare la condanna; la mancanza di una cultura di risultato immediatamente verificabile e misurabile come è il bene operato dall'amore; il considerare i diritti della libertà e della giustizia sociale, come categorie a se, autonoma l'un l'altra, separate ed anzi antagoniste rispetto alla legge del cuore, e dunque pericolose.
Una concezione cui corrisponde, sul piano della morale laica, del rapporto tra diritti e doveri, quella del loro carattere sinallagmatico: ossia, dell'esercizio dei diritti solo se e quando si siano assunti i propri doveri. Concezione diversa da quella generata dalla gratuità dell'operare il bene, che estende il senso del dovere all'azione di difesa dei diritti altrui: il diritto a non morire di fame, ad essere curati, istruiti. Quindi non un diritto a compenso del dovere svolto, ma un diritto che si sente in dovere di propagarlo a quanta più umanità possibile. Questo sentirsi in dovere di estendere la fruizione dei diritti distingue il cittadino, consapevole di appartenere ad una comunità dalla cui sorte egli non può prescindere, dall'individualista che limita il bene al singolo prossimo e considera l'intera comunità umana come un ostacolo al proprio progetto.

9. La Grazia, il Regno dei cieli, Dio.
Nella lunga storia della teologia gli strappi teologici sulla Grazia, fino alle estremizzazioni giansenistiche, coinvolgenti i complessi problemi delle forme in cui si esplicita e dei rapporti con la fede, col peccato, con le opere, con la giustificazione, riflettono un andamento certo non lineare e univoco se non in termini molto generali: la Grazia come libero, volontario e amoroso aiuto di Dio, gratuito cui non corrisponde un merito o un diritto da parte dell'uomo, strumento dunque di salvazione dal peccato, di riscatto.
In ogni caso, per quel che qui interessa, si può affermare che alla gratuità della Grazia divina, del dono più grande, quello di saper operare il bene di tutti, non può non corrispondere la gratuità dell'esercizio di questo "sapere" .un concetto che definisce una "funzione" più che una forma o un contenuto tipico.
Una funzione, pertanto, contrapposta all'automatismo compensatorio, contrattuale del rapporto con la divinità, del "do ut des" - propria delle religioni più primitive - in forza del quale ciò che si ottiene con la Grazia è la contropartita di una prestazione umana rivolta al divino, al Dio e ai suoi tanti tramiti, col culto, col sacrificio, col comportamento eticamente corretto.
La donazione gratuita è alla base non solo della Grazia, ma dell'idea e del ruolo di Dio rispetto alla vita e alla storia; funzione ed idea non riconducibili ad un rapporto di scambio, e ad una materia di giudizio umano misurabile con la bilancia e col suo metro di corrispondenza. Un Dio non concepito, dunque, come controparte di un rapporto contrattuale, come un giudice dotato di "ufficiale giudiziario" e di carcerieri, ma col quale invece l'intero rapporto tra merito e colpa si dovrebbe stemperare nell'incontenibile potenza del dono e del perdono. Funzione e potenza che ristretta a quell'unicità positiva del medesimo e unitario comandamento dell'amore, vera essenza, natura e volontà di Dio, che accomuna paritariamente se stessi e il suo prossimo, l'amore come desiderio d'amore, l'amore di Dio come desiderio di Dio, forza di uguaglianza, di unione, di pace e di inclusione, dovrebbe, in verità, ridurre e ridimensionare i tanti corollari dell'altra impostazione.
I tanti corollari - della vita personale e della storia umana come parametro quantitativo con cui numericamente commisurare merito e colpa, premio e punizione, del giudizio finale, personale ed universale, dell'aldilà, della teologia stessa - quando siano concepiti ed usati, pur nel loro mistero, come fattori di disuguaglianza, di divisione, di dominanza, di competitività, di conflittualità o antagonismo, di esclusione.
I tanti corollari che perdono peso, rilevanza tanto più il Regno dei Cieli - metafora del nome di Dio altrimenti non pronunciabile - come campo ed oggetto della sua sovranità, del suo essere o del suo nome, sarà vissuto come presenza già esistente in mezzo a noi e non più come promessa, come realtà già a disposizione nella nostra stessa persona, solo quando lo si voglia operare contro il male che è in noi e quindi nel mondo (Mt 6:24; 5;37; 6,19-21; Lc. 9,57-62,22; Mc. 10, 17-22).

Che poi il Regno di Dio sia oggetto anche di attesa futura nell'insegnamento di Gesù è fuori dubbio; non è oggetto di disputa nel dibattito esegetico del Vangelo. Ma che in esso e soprattutto nella sua proiezione della pastorale si debba accentuare il carattere di realtà presente del regno rispetto a quello di evento futuro - esigenza importante sia in sé che per correggere e combattere le implicazioni devianti nella coscienza diffusa - è altrettanto indubbio. Per tutti questi motivi, la diversa accentuazione della dimensione soprannaturale della fede, fino ad oggi prevalente e dominante, per quanto legittima, col proporci verità di fede come dogmi, rappresentativi di una interpretazione spesso imposta come unica e quindi costitutiva della verità da parte di chi si è creduto e si è proposto come una sorta di inviato di Dio, fa parte della storia della teologia; ed anzi non ha impedito il suo continuo mutamento, persino la coesistenza con le concezioni più diverse, anche quelle talvolta ritenute più o meno eretiche. Del resto, basti pensare alle recenti opinioni, espresse da parte delle più alte gerarchie della Chiesa, secondo cui il Concilio Vaticano II sarebbe stato il frutto diabolico dell'anticristo. Concezione dogmatica che si è sempre illusa di poter fermare il tempo o la storia della fede come atto di libertà, finendo per generare scissioni e dissensi e con ciò con l'indebolire la forza e l'efficacia dell'unica forza unificante della fede in Dio e quindi dell'amore e del comune operare il bene.
Per contro, la diversa accentuazione sul versante del fare e della intransigenza, se paradossalmente porta a generare maggiormente interpretazioni e concezioni soggettive, più personalizzate rispetto anche al grado della propria fede e confacenti alla propria visione del mondo, è più incline a raffigurare nella mente e nel cuore di ognuno la diversità personale e comunitaria (individuale e sociale) della scelta e della condivisione del Cristo.
Tutto ciò fa parte della doppia natura dell'uomo e della doppia anima della Chiesa.

10. Dalle opere di misericordia alla politica della misericordia nella globalizzazione.
Perché la Chiesa di Cristo concorra a far cessare l'ira Dei, il disgusto di Dio, quanto sarebbe efficace far crescere la sua teologia secondo un pregnante senso del "qui e ora" e con essa una concezione della propria funzione e del proprio ruolo da commisurare al risultato che intende raggiungere: quello che solo combattendo e vincendo le nuove forme del male, quelle che nella nuova e diversa realtà del mercato globale, riaprirebbe il dialogo con Dio.
Se uno crede in Cristo non è più possibile operare in uno spazio di bene, di opere di misericordia, e in un sistema di pensiero e di abitudine alla status quo, quando la radicalità del male attesta la nostra insufficienza.
Siamo tutti come il giovane ricco che va via con tristezza perché non vuole lasciare dietro di sé "quello che aveva", per poter guadagnare il nuovo, il dono totale agli altri. A questo fine Cristo ha detto in polemica con i farisei di ieri e di oggi che i comandamenti, le proibizioni non sono sufficienti se non si rispetta il primo "ama il tuo prossimo come te stesso". Il discorso della montagna resta la contestazione più scottante di ogni sistema di autosufficienza. E' necessaria una metanoia, un cambiamento radicale col prossimo, la cui veridicità si misura dai risultati. Il culto non è separabile dalla carità e questa dalla trasformazione della vita sociale. La Chiesa ha certo superato la posizione astorica, lontana dal mondo, disimpegnata nella lotta contro l'ingiustizia sociale, ma la sua liturgia della messa non è ancora comunitaria con l'intera umanità.
Se l'opera di misericordia, di carità, di aiuto alla povertà non è alternativa all'azione di lotta alle cause anticristiane della povertà e del dominio violento sull'uomo, di soddisfacimento smodato dei bisogni, può risultare alternativo il non superamento dei residui di etica compensativa e remunerativa e di fede dogmatica.
Oggi, infatti, il punto dirimente tra una concezione teologica, metafisica, astorica, ed una misericordiosa incarnata nel mondo fino all'estremo ultimo dell'abbandono di ogni personale ricchezza, materiale e non, per donarsi al prossimo bisognoso, va riferito e misurato rispetto alla capacità di risolvere nella odierna globalizzazione del mercato il divario crescente tra la condizione di povertà e di privazione dei diritti della persona nel terzo-quarto mondo e l' accumulazione di ricchezza e di potere a favore di pochi che dal punto di vista religioso viene identificato col mondo occidentale cristiano.
Più ancora: tra la santità di chi vende tutto per aiutare i poveri, ma che, ciononostante, vive l'incoerenza di assistere impotente allo scandalo; e la speranza laica del progetto politico di quanti sentono la necessità di non sottrarsi alla responsabilità e hanno la capacità culturale di governare la globalità secondo libertà e giustizia sociale, che sentono il dovere di estendere a tutti i diritti fondamentali della persona, ma non hanno la forza della fede e della carità - l'unica che può garantire la coerenza del progetto - il silenzio di Dio esige il coraggio della ennesima conversione del mondo non tollera indugi e la Chiesa non vi può assistere, certo non neutrale ma inerte rispetto alle sue cause e alla loro rimozione, pensando "ideologicamente" che i problemi generati dall'ingiustizia, compresi le guerre di dominio, si risolvano da soli col tempo, proprio come affermano i teorici del neoliberismo circa i meriti miracolistici dello sviluppo del mercato. Non può solo dire: "C'è un rimedio contro il male: pregate, pregate! Affidate tutto il resto a Dio!" (messaggio del Papa del maggio 2000). Nel frattempo resta l'olocausto di popoli, di generazioni, di donne, sia quello che è frutto dell'ignavia, della tolleranza, dell'incapacità di cambiare il nostro cuore economico-finanziario e sociale e quindi il nostro sistema culturale e politico, sia quello che inconsapevolmente resta tale nonostante l'eroismo di quanti, come santa Teresa di Calcutta, operano la misericordia.
C'è sempre stata una doppia anima nella Chiesa, ma se si vuole entrare in dialogo con la società bisogna pagare il prezzo della perdita della forma originaria e al tempo stesso non si può non cercare il dialogo.

E' il tema del nesso tra responsabilità personale e responsabilità sociale collettiva della comunità tutta di cui si è parte, dei limiti dell'una e dell'altra inscindibilmente connessi nel continuo passaggio ed alimentarsi dell'uno con l'altro, dell'impossibilità di porre dei limiti di quantità e di qualità, di quanto costringe la Chiesa di Cristo ad andare avanti lungo la strada, dove non c'è tempo per la sosta; una strada che oggi è resa più complessa e ardua, ma anche straordinariamente più vicina a Cristo, proprio per l'occasione nuova di potersi porre contro il male a servizio dell'umanità globale. Se Cristo è un punto fermo della rivelazione, non possiamo non avere anche il senso dell'incompiuto. Il punto omega in cui confluisce tutta la storia religiosa dell'umanità; la rivelazione di Cristo è ancora aperta verso una crescita; come dice Giovanni "non è ancora manifesto quello che saremo".


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