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Naim "Bey" Safa
eroe scomodo

 

L'eroe che nessuno vuole si chiamava Naim Bey, era un turco e salvò decine di persone durante i massacri del 1915, in quello che gli armeni chiedono sia definito come "genocidio". A illuminare le pieghe più buie della Storia non ci sono solo gli Oskar Schindler o i Giorgio Perlasca. Ma anche personaggi minori, figure opache o travagliate, che oggi pochi ricordano o di cui si fatica a ricomporre le gesta o, meglio, le semplici azioni.
Naim Bey era uno di questi. A quel tempo funzionario del governo di Costantinopoli, segretario ad Aleppo (nell'odierna Siria) del Comitato di Deportazione e dunque incaricato di avviare migliaia di armeni alle lunghe marce verso il nulla, si oppose in molti casi agli ordini, salvando i condannati a morte sicura. Tacendo al governatore la reale provenienza degli sfollati, riuscì a far scampare a un orrendo destino diverse famiglie appartenenti alla minoranza cristiana di Konya e di Adana. Per farlo Naim Safa, nome corretto di Naim Bey (bey significa "signore" in turco), rischiò la poltrona e la vita.
La sua vicenda fu raccontata nel 1920 da un giornalista armeno di Costantinopoli, Aram Andonian, nel libro The memoirs of Naim Bey. In quel volume il cronista riporta, raccolti dalle mani dello stesso funzionario, i telegrammi di Talat Pasha, ministro degli Interni nel governo dei Giovani Turchi e principale organizzatore dei massacri nel triumvirato composto con Celal Pasha ed Enver Bey. Una serie di documenti ufficiali e decreti ai governatori locali, di cui le forze britanniche comandate dal generale Allenby entrarono in possesso quando, nel 1918, catturarono Aleppo. I telegrammi non distrutti furono ritrovati nell'ufficio di Naim Bey, apparentemente a causa della rapidità con cui gli inglesi si impadronirono del centro.
Proprio quelle carte finirebbero per essere le prove del discusso "genocidio" armeno. Una parola, genocidio, a cui la Turchia si oppone con forza. Per tre motivi: perché a suo dire fu un massacro compiuto da entrambe le parti nel contesto della prima guerra mondiale, perché fu consumato soprattutto dalla cavalleria curda, e perché a causarlo fu il tradimento degli armeni passati a favorire il nemico numero uno dell'Impero Ottomano, la Russia zarista. Una "decisione di guerra" dunque, con deportazioni organizzate per "proteggere la popolazione armena da probabili rappresaglie della popolazione turca". Senza, dicono i turchi, alcuna volontà di sterminio sistematico e massiccio.
[ foto CORBIS - bambini armeni che attendono la distribuzione di cibo in un campo profughi ]Ecco perché Ankara oggi si rifiuta di vedere in Naim Bey un eroe nazionale.
Riconoscerlo significherebbe ammettere il "genocidio", definizione a cui oggi in Turchia si antepone l' aggettivo "controverso", anche se alcuni coraggiosi intellettuali stanno spingendo la società civile a rivedere gli eventi del 1915.
Naim Bey divenne tuttavia un simbolo scomodo per gli stessi armeni. Il 26 luglio del 1937, 17 anni dopo l'uscita del suo libro, Andonian confessò in una lettera di aver scritto il testo per ragioni di "propaganda". il giornalista aveva conosciuto il funzionario turco nel 1916 a Meskene, nel deserto che, fra Aleppo e Diyarbakir , costeggia l'Eufrate. E Naim Safa non era affatto l'eroe puro e indomito descritto fino ad allora. "Era dedito all'alcol e alle scommesse -scriveva ora Andonian- e fu precisamente la sua mancanza di mezzi a portarlo al tradimento. La verità vera è che tutto quel che ci diede come documentazione, lo comprammo con il denaro... Naim Bey era una creatura completamente dissoluta".
La leggenda lo voleva sì, "un bevitore, un giocatore, un uomo corruttibile". Ma in fondo "nella sua natura un buono", un tipo che "si era sempre accontentato di piccole somme da quelli che aveva salvato (tra cui lo stesso Andonian e la sua famiglia, ndr), sollecitando per lo più un ricordo tangibile di gratitudine". Un funzionario furbo, insomma, ma dal cuore tenero, e di poche pretese. Può un individuo simile diventare un eroe, o quanto meno un testimone su cui far leva per dimostrare una tesi storica? E potevano, i sostenitori dei due campi, difenderne le azioni e la memoria? La questione si trasformò in breve nella domanda; ma Naim Bey è mai esistito? Le ricerche condotte fino a oggi ci dicono di sì. Ma in realtà quel Naim Safa, segretario del Comitato di Deportazione ad Aleppo, era piuttosto un dirigente di secondo piano, uno che accettava piccole somme in cambio del salvataggio dei poveri armeni. Un buon diavolo, ma sicuramente non un simbolo di cui potersi vantare. La storia di un eroe disgraziato, forse, che oggi appunto nessuno vuole più.
Così l'attenzione, col tempo, si è concentrata esclusivamente sulla vicenda delle prove del genocidio. Una storia di protocolli e dossier in cui, molto probabilmente, hanno avuto un ruolo anche i servizi segreti dell'epoca, mischiando carte false a verità non facilmente verificabili. Una faccenda in cui, ancora adesso, fior di storici dell'una e dell'altra parte si sfidano a suon di documenti. La Turchia sostiene la falsità di molti telegrammi attribuiti al ministro Talat Pasha, bollati come opera di propaganda, contestandone i numeri di protocollo, la terminologia burocratica dell'epoca, l'apposizione delle firme. Mentre storici armeni di chiara fama confutano le posizioni turche con altrettanta pignoleria.
Turchi e armeni non possono tuttavia nascondere le decine di Naim Bey sparsi per l'Impero, oscuri salvatori di vite umane. Le cui storie potrebbero costituire un patrimonio comune. Eroi per caso come il coraggioso governatore di Aleppo, J
alal Pasha, la cui storia i giovani di Erevan sono soliti imparare a scuola, capace di portare in salvo migliaia di persone, come emerse dal rapporto Bryce sul genocidio pubblicato dal Foreign Office. Ma più spesso è un uomo comune -il turco buono- a risplendere tra le pagine della relazione inglese.
Durante la deportazione a Ras al-Ain, lontana località nel deserto, l'armena Maritza Kedjedijan fu testimone della violenza su una giovane donna. "Quando sembrò toccare a un'altra ragazza -scrisse Maritza più tardi- chiesi aiuto a un uomo della città di Mardin,
Omer Jaush. Il termine Jaush lo indica come un caporale dell'esercito. "Egli si fermò subito. E non permise che andassero avanti... I curdi dei villaggi vicini ci avevano attaccato di notte. Omer, che ci aveva in incarico, andò sulle alture e li arringò in curdo, dicendo di lasciarci stare. Avevamo fame e sete, e nessuna bevanda. Omer prese alcune delle sue provviste e ci portò l'acqua da un posto molto lontano. Quella notte la moglie di mio cognato ebbe un figlio. Il giorno dopo dovemmo ripartire. Il caporale Omer lasciò con lei alcune donne e la tenne d'occhio a distanza. Poi mise la madre e il neonato su una bestia, e li portò in salvo".
Storie minime. Come quella del turco senza nome, di cui molti sopravvissuti ricordano l'indomito coraggio, quando salvò, o cercò di farlo, le vite di molti. Oppure atroci. Poco prima di morire a Beirut, Zakar Berberian, dodicenne all'epoca dei fatti, ricordò ancora una volta il massacro di Marash, avvenuto proprio nel 1915. Edi come i gendarmi finissero i bambini a pietrate o a colpi di stivale. Durante la deportazione entrambi i suoi genitori morirono di colera. "Anch'io sarei dovuta morire -disse- ma un turco mi diede il cibo sufficiente per sopravvivere".
O infine come la storia del governatore di Erzurum,
Tahsin Bey il quale, rammentarono due cittadini americani, si rifiutò di eseguire l'ordine di uccidere gli armeni della provincia intimatogli da Costantinopoli. Alla fine fu costretto, concordano le testimonianze, a compiere il suo dovere "per forza maggiore". Come per Naim Bey, nemmeno Tahsin Bey può dunque rifulgere della luce dorata che circonda gli eroi, qui invece persone normali, divise continuamente fra il bene e il male. Ma dopotutto, anche l'eroico e celebrato Oskar Schindler, non apparteneva al partito nazista?
Marco Ansaldo
La Domenica di Repubblica - 12 giugno 2005
 
  Per un "incontro" con la Nazione Armena a Livorno, vedasi, su questo sito:
"Vestigia... dimenticate" e "Degli Armeni in città"
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