OPERAZIONE ORO NERO: IL VERO OBIETTIVO DELLA GUERRA.
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Operazione oro nero.
di Jeremy Rifkin - tratto da
www.espressonline.it del 14/11/2002.
Per capire quanto l'Europa e l'America si siano
allontanate l'una dall'altra, basta ascoltare cosa si dice per strada in merito
all'incombente invasione americana dell'Iraq. Negli Stati Uniti la maggior parte
dei cittadini crede al presidente George W. Bush quando egli dice che l'America
ha il dovere morale di proteggere il mondo dal desiderio patologico di Saddam
Hussein di costruire e impiegare armi di distruzione di massa. Al contrario,
in Europa, la maggior parte della gente ritiene che gli Stati Uniti stiano
programmando l'invasione dell'Iraq al fine di assicurarsi le sue riserve
petrolifere, essendo l'Iraq il secondo paese produttore al mondo, dopo
l'Arabia Saudita.
Se l'America dovesse riuscire a impadronirsi di quei pozzi di petrolio,
sostengono gli europei, si troverebbe nella posizione di poter contrastare
l'influenza saudita in quella regione; e potrebbe quindi dettare i termini
futuri al resto del mondo per ottenere l'accesso al petrolio.
Così, mentre gran parte degli americani crede che il nostro piano di attacco
all'Iraq abbia lo scopo di salvare il mondo da un folle, la maggior parte degli
europei pensa che il vero folle sia il presidente Bush, il quale ha come unica
cattiva intenzione quella di crearsi un punto di appoggio in Medio Oriente
cosicché l'"Impero Americano" possa continuare ad espandersi.
C'è da notare, inoltre, che i media sostengono le sensibilità politiche dei loro
rispettivi Paesi. Gli europei ritengono di avere svariate ragioni per essere
sospettosi delle motivazioni che spingono gli Stati Uniti verso il Medio
Oriente. Essi accusano l'amministrazione Bush di perseguire in modo piuttosto
egoistico i propri interessi nazionali, nonostante le responsabilità globali che
le sono state poste di fronte: per esempio, il rifiuto della Casa Bianca di
firmare il Trattato di Kyoto per ridurre l'effetto serra o la mancanza di
sostegno alle raccomandazioni fatte al Vertice di Johannesburg sullo sviluppo
sostenibile. In entrambi i casi, gli europei accusano l'America di aver ignorato
i propri obblighi morali collettivi per conservare il petrolio in favore di ciò
che essi considerano un arrogante e chiassoso tentativo da parte degli Stati
Uniti di mettere i propri interessi commerciali prima di qualunque altra cosa.
Incluse le sorti del resto del mondo. Gli europei vedono quindi l'imminente
invasione dell'Iraq come parte di un grande disegno della Casa Bianca per
cementare la sua posizione di prima potenza militare e commerciale.
In America comunque la prospettiva è piuttosto difficile. Ancora scossi dagli
avvenimenti dell'11 settembre, molti americani credono al presidente Bush quando
quest'ultimo sostiene che l'Iraq rappresenta un potenziale pericolo per la loro
sicurezza. Gli americani si sentono vulnerabili e si preoccupano che in America
possano verificarsi in futuro altri attacchi terroristici come quello dell'11
settembre. Sono in molti, quindi, a sposare l'idea promossa dalla Casa Bianca di
una "azione preventiva" contro il terrorismo. Inoltre, molti americani sono
increduli di fronte al fatto che gli europei non considerino più seriamente la
minaccia di terrorismo globale e si domandano perché coloro che si suppone siano
i nostri alleati sono così riluttanti a stare dalla parte degli Stati Uniti nel
loro sforzo di destituire Saddam Hussein. Tuttavia, non si può che essere
sorpresi di fronte al quasi totale silenzio dei politici americani e dei media
sulla questione di un possibile collegamento con il petrolio. È possibile che
leader politici americani, giornalisti, editorialisti, direttori di giornali,
editori dei media cartacei e multimediali, siano così naïf da credere veramente
che la Casa Bianca non abbia in Medio Oriente altri piani eccetto quelli
dichiarati dal presidente Bush e dalla sua amministrazione? Davvero tutti
questi personaggi credono che il petrolio non giochi alcun ruolo nel pensare
strategico di coloro che appartengono ai circoli di potere più vicini alla Casa
Bianca?
Gli editorialisti americani, in particolare, hanno sostenuto a tal punto la
preoccupazione della Casa Bianca di una minaccia terroristica da parte di Saddam
Hussein, che hanno dato ben poca importanza alla questione petrolifera. E anche
quando i politici e i media discutono di petrolio, è solo in riferimento alle
potenziali ripercussioni che una guerra in Iraq potrebbe avere in termini di
rialzo o ribasso dei prezzi del petrolio sui mercati mondiali. Ci si è domandati
anche quali paesi e società potrebbero beneficiare di un cambio di regime in
Iraq. Ma sul fatto che la risolutezza dell'amministrazione Bush ad invadere
l'Iraq possa in qualche modo avere a che fare con il desiderio di assicurarsi i
pozzi di petrolio, i politici di entrambe le parti e i media nazionali non hanno
proferito verbo.
Questo silenzio nazionale è ancora più assordante se si dà un'occhiata da vicino
agli attori principali di questo dramma. Sia il presidente Bush che il vice
presidente Cheney sono petrolieri. Entrambi provengono dall'industria
petrolifera. Le carriere di tutti e due sono state modellate da interessi
petroliferi. La loro fortuna politica è stata propagandata dalle lobby del
petrolio. Il presidente Bush cominciò il suo percorso di uomo d'affari negli
anni '80 in Texas, fondando una società di esplorazione petrolifera chiamata
Arbusto (per approfondimenti vedi "Quando la
famiglia bin Laden faceva affari con la famiglia Bush"): nel 1984, si fuse
con un'altra società di esplorazione petrolifera, dando vita alla Spectrum 7. E
Bush ne divenne il presidente. Due anni dopo, decise di vendere la sua società
alla Harken Energy Company, per la quale già lavorava come consulente. All'epoca
la Harken aveva interessi in Medio Oriente. Da parte sua, il vice presidente
Cheney, prima del suo insediamento alla Casa Bianca, è stato presidente e
amministratore delegato della Halliburton Company. La Halliburton è uno dei
maggiori fornitori al mondo di prodotti e servizi legati all'industria
petrolifera ed energetica e conduce affari in oltre 100 paesi.
Non c'è da stupirsi, infine, che nella campagna per le elezioni presidenziali
del 2000, l'allora candidato repubblicano George W. Bush sia stato il
beneficiario numero uno del denaro proveniente dall'industria energetica,
riuscendo a raccogliere oltre 1,8 milioni di dollari in contributi: più di
quanto qualunque altro candidato alla carica federale abbia ricevuto negli
ultimi dieci anni.
Se ci fosse qualche motivo per essere sospettosi delle vere intenzioni della
Casa Bianca in merito all'Iraq, certamente il fatto che il vicepresidente Cheney
abbia tenuto segreti incontri di governo a porte chiuse con i leader
dell'industria energetica dovrebbe almeno far sollevare il sopracciglio a
qualche appartenente al mondo dei media: perché quei meeting sono avvenuti
immediatamente dopo aver ricevuto il suo incarico; sono stati fatti allo scopo
di progettare le future iniziative dell'America nel campo dell'energia. E poi,
nonostante i continui sforzi dei membri del Congresso di rendere pubblici quegli
atti, Cheney si è sempre rifiutato di rilasciare i verbali delle discussioni,
oltre ai nomi dei partecipanti e delle società.
Con questo non voglio certo dire che queste discussioni private abbiano
specificatamente a che fare con gli interessi di sicurezza americani in Iraq e
in Medio Oriente. Piuttosto, tutto questo dimostra come gli interessi dei
petrolieri non siano mai lontani dai pensieri del presidente Bush e del
vicepresidente Cheney.
Dati gli stretti e antichi legami del presidente Bush e del vice presidente
Cheney con l'industria petrolifera (come nessuna altra amministrazione
presidenziale nella storia degli Stati Uniti) è piuttosto incredibile che
nessuno appartenente al Congresso o esponente dei media si sia preoccupato di
sollevare la seguente domanda: il desiderio di assicurarsi le risorse
petrolifere del secondo Paese al mondo per la produzione del petrolio, gioca un
qualche ruolo strategico nell'ambito della politica della Casa Bianca?
È certamente comprensibile perché i politici americani e i rappresentanti dei
media non vogliono mettere in discussione le intenzioni dell'America in Iraq:
ciò li farebbe apparire poco patriottici. Ma esistono motivi e circostanze
piuttosto evidenti per sospettare un possibile secondo fine dietro
l'intenzione di dichiarare guerra all'Iraq, sarebbe quindi saggio e opportuno
prendere seriamente in considerazione quanto sostenuto dai media europei e da
gran parte del resto del mondo: ovvero, che le reali intenzioni dell'America in
Medio Oriente non sono poi quelle che ci vengono raccontate.
Di certo, se questo secondo fine fosse anche solo in parte nella testa di chi
siede alla Casa Bianca, la natura del dibattito cambierebbe in modo drammatico.
Per la maggior parte degli americani che nutrono già dei dubbi in merito alla
portata dell'attuale minaccia irachena e alla necessità di impegnare al più
presto le truppe americane, mettendo a repentaglio la vita di giovani uomini in
uniforme, la prospettiva di fare tutto ciò per garantire anche solo in parte gli
interessi delle grandi compagnie petrolifere non sarebbe certo ben vista, né ben
voluta. Di una cosa sono sicuro: gli americani non sosterrebbero mai
un'invasione dell'Iraq, né di qualunque altro paese del Golfo Persico, al solo
scopo di conquistare pozzi petroliferi. Dopo tutto abbiamo combattuto l'ultima
guerra del Golfo per impedire all'Iraq di mettere le mani sulle risorse
petrolifere del Kuwait.
Può anche essere che l'Europa e il resto del mondo si sbaglino sulle vere
intenzioni dell'America in Iraq. Ma il fatto che negli Stati Uniti non si
discuta pubblicamente di ciò che il resto del mondo sospetta essere il vero
motivo per cui la Casa Bianca vuole destituire Saddam Hussein, mi fa pensare che
dietro l'ossessione irachena della Casa Bianca ci sia molto di più di quanto
finora ci sia stato detto.
Traduzione di Rosalba Fruscalzo.
Qui sotto, un sondaggio del TIME riguardo al vero motivo per cui gli USA hanno invaso l'Iraq.