Analisi
Poesie |
Come
analizzare una poesia
Nell’analisi di una poesia bisogna mettere in
evidenza il tipo di composizione poetica,il numero dei versi, le
misure dei versi, il numero delle strofe, la struttura metrica e lo
schema delle rime. Bisogna individuare i luoghi il tempo, i
personaggi messi in risalto dall’autore. Bisogna vedere se ci sono
allitterazioni (ripetizioni di uno stesso suono o sillaba
all’inizio o al centro di una parola es. trillo-tremulo); aggettivazioni;
metafore(es. è una volpe); parole difficili, dialetti;
arcaismi(una parola del passato es. augelli); richiami
fonici; analogie; enjavement (quando il verso
finale è legato a quello successivo). Bisogna notare se vi sono
richiami ad altre poesie, infine bisogna riassumere in poche parole
la poesia mettere in evidenza il significato e un commento
personale. |
Altre
figure retoriche
Anacoluto- consiste nel cambiare il soggetto nella stessa
frase es. quelli che muoiono, bisogna pregare iddio per loro.
Accumulazione- accostamento di parole messe in successione es. ho
visto strade, negozi e ville.
Asindeto- è quel modo di unire più frasi senza
congiunzioni.
Polisindeto- il contrario
Pleonasmo- è una ripetizione es. a me mi
Iperbole- equivale ad una esagerazione es. sei grosso come un
elefante
Eufemismo- un modo gentile per dire cose che potrebbero essere
offensive
Iterazione Sinonimica-
accostamento di due vocaboli quasi dello stesso significato.
Litote- negare il contrario di quello che si vuole dire.
Analogia- una specie di paragone es. un grido di sparviero è
il tuo ricordo.
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Le
composizioni poetiche sono:
Sonetto- 2 quartine e 2 terzine
Ode- non ha la lunghezza fissa ma è formata da sestine
Inno- si distingue dall’ode perché tratta argomenti
sacri, struttura simile all’ode ma più rapido e impetuoso
Canzone- (formata da strofe di varia lunghezza da 7 a 21
versi, endecasillabi o settenari)
Strambotto- (componimento poetico popolare formato da 8 versi
di rima varia)
Madrigale- (tratta temi d’amore, struttura varia 2 o 3
terzine seguite da 1 o 2 distici a rima baciata).
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Struttura
Bisogna conoscere i versi, le strofe, la rima.
IL verso: composto
da 3 sillabe è un ternario
composto
da 4 sillabe è un quaternario
composto
da 5 sillabe è un quinario
composto
da 6 sillabe è un senario
composto
da 7 sillabe è un settenario
composto
da 8 sillabe è un ottonario
composto
da 9 sillabe è un novenario
composto
da 10 sillabe è un decasillabo
composto
da 11 sillabe è un endecasillabo
Le strofe:
composte da 2 versi distico
composte
da 3 versi terzina
composte
da 4 versi quartina
composte da 6 versi sestina
composte da 8 versi ottava
La rima può essere:
Baciata
(a-a)
Alternata (ab-ab)
Incrociata (ab-ba)
Incatenata (aba-bcb)
Ripetuta (abc-abc)
Invertita (abc-cba)
Interna (ca-ab)
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Petrarca
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Francesco
Petrarca “Dal Canzoniere”
L’autore :
Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304 e morì ad Arquà nel veneto nel
1374. Nel corso degli studi si appassionò soprattutto ai classici,
che volle imitare, scrivendo parecchie opere in latino, per le quali
divenne celebre presso i suoi contemporanei. Proprio per esse, a
Roma , in Campidoglio, nel 1341 ricevette pubblicamente la corona
d’alloroche lo consacrava poeta.
La sua passione per
il mondo classico lo spinse a cercare e studiare i manoscritti degli
antichi scrittori. Petrarca tentò di realizzare una sintesi tra la
cultura medievale (cristiana) e quella medievale (pagana ),
divenendo il primo degli “umanisti”, cioè di quei dotti che si
adoperano per un pieno recupero della classicità. Egli, inoltre fu
un letterato di professione che passò, la vita studiando; anzi si
può affermare che con lui nacque una nuova figura di letterato,
quella dello scrittore che vive presso la corte di un ricco signore,
(o al sevizio di qualche pubblica signoria), e che ha unico compito,
a parte qualche incarico diplomatico, di comporre opere gradite al
suo protettore, da cui riceve sostentamento.
IL TESTO : i sonetti
che seguono sono tratti dal Canzoniere. Essi non hanno titolo perché
quando Petrarca scriveva non si usava scrivere il titolo alle
poesie; comunemente però, il primo verso viene utilizzato come
titolo.
Il Canzoniere è
l’opera a cui è legata maggiormente la fama di Petrarca. È una
raccolta di 366 componimenti quasi un diario quasi “per
un anno”, pur se le poesie furono scritte nell’arco di
parecchi anni: ma esse furono riordinate successivamente dal poeta,
in modo da dare una sequenzialità narrativa. Il titolo Canzoniere
è tradizionale, perché in realtà l’aveva chiamato con titolo
latino, Rerum vulgurium fragmenta, cioè “frammenti
di cose in lingua volgare”; questo titolo rispetta la mentalità
del poeta, che giudicava le sue poesie in volgare delle “poesiole”,
“cosucce da poco”, mentre voleva affidare alla sua fama le opere
latine. La grande cura, però, che egli dedicò alle rime in volgare
dimostra che, nonostante il titolo fragmenta, egli
aveva profondamente a cuore la forma e il contenuto dell’opera.
IL CONTENUTO DEL
CANZONIERE : nel Canzoniere si segue prevalentemente l’amore del
poeta per Laura, una donna che certamente è esistita (ma di cui non
sappiamo nulla). Gli avvenimenti narrativi vengono vissuti a
distanza di anni. Il libro è diviso in due parti: (“In vita di
madonna Laura”) invece, Laura, morta il 6 aprile del 1348, diventa
un ricordo, che continua ad occupare la memoria e la vita del poeta.
Frammiste alle liriche di argomento amoroso vi sono anche alcune
poesie di argomento politico e religioso.
È NECESSARIO SAPERE CHE…….. La celebrità
di Petrarca alle sue poesie in lingua volgare. Egli infatti, è
considerato uno dei maggiori poeti di tutti i secoli.
A Carmine
A
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Petrarca
(Francesco)
Petrarca
(Francesco), poeta italiano (Arezzo 1304 - Arquà, Padova, 1374).
Nacque come egli stesso narra nella Lettera ai posteri, "da
onorati genitori d'origine fiorentina, in mediocre stato di fortuna,
anzi per ver dire prossimo a povertà, essendo essi banditi dalla
patria"; infatti il padre, il notaio ser PETRACCO (di cui il
poeta per amore d'eleganza letteraria mutò il nome in quello di
Petrarca) era stato bandito da Firenze insieme con Dante e altri
capi dei guelfi bianchi, e di famiglia fiorentina era anche la madre
Eletta Canigiani. Il destino del poeta fu dunque quello di un déraciné,
che non ebbe una sua patria municipale, come l'ebbero l'Alighieri e
il Boccaccio, e questa circostanza fu determinante per la formazione
della sua personalità e del suo stesso gusto di scrittore. Ad
Arezzo visse meno di un anno; ben presto la famiglia si trasferì
nel podere dell'Incisa sull'Appennino e lì rimase fino al 1310
circa, quando, per un breve periodo, passò a Pisa. Il soggiorno
nella città toscana fu memorabile, perché fu quella la sola
occasione in cui il poeta, ancora fanciullo, poté conoscere di
persona Dante, tra gli esuli che s'erano riuniti intorno ad Arrigo
VII. Nel 1311 ser Petracco aveva già deciso di trasferirsi ad
Avignone, dove la presenza della curia pontificia gli poteva
assicurare un fruttuoso lavoro; ma per la crisi degli alloggi sistemò
la famiglia (era nato intanto un secondo figlio, Gherardo, forse nel
1307) nella vicina Carpentras, dove Francesco fece gli studi di
grammatica sotto la guida di un modesto maestro, Convenevole da
Prato, prima di recarsi a studiare legge a Montpellier (1316-1320) e
a Bologna (1320-1326). Quelli di giurisprudenza non furono studi a
lui congeniali; troppo forte sentiva l'attrazione delle lettere, che
invano il padre ostacolò almeno fino a quando s'interessò dei
figli, ossia il 1320 circa, ché, perduta la prima moglie nel 1318 o
1319, non tardò a passare a nuove nozze. Dopo gli anni bolognesi il
poeta tornò ad Avignone. Per garantirsi una situazione conveniente
prese gli ordini minori, grazie ai quali ottenne nel corso della
vita prebende e cariche ecclesiastiche redditizie. Ma ad Avignone
badò anche a vivere da raffinato signore, come raccontò poi in una
lettera al fratello; e fu allora, il 6 aprile 1327, che nella chiesa
di Santa Chiara vide Laura e concepì per lei l'amore che lo
accompagnò per tutta la vita. Chi realmente fosse Laura è
difficile stabilire: l'opinione più accreditata l'identifica con
Laura de Noves, andata sposa nel 1325 a Ugo de Sade; ma appurare il
casato e le vicende private di Laura poco importa per comprendere la
poesia del Petrarca: su dati molto esigui di cronaca si fonda la
storia di questo amore - oltre il giorno fatale dell'innamoramento,
quello della morte della donna amata avvenuta il 6 aprile 1348,
segnato nel codice di Virgilio che si conserva alla Biblioteca
ambrosiana di Milano -; il resto è tutto una storia di emozioni, di
desideri, di rimpianti, di memorie. Amore di sogno, intensissimo,
tale da assorbire tutta la fantasia del poeta fu quello cantato nel
Canzoniere; ma appunto perché amore di sogno non impedì al
Petrarca di vivere una vita intensa di studi, di viaggi, di impegni
politici, e anche di conoscere altri amori. Da una donna che non si
può identificare, per la grande discrezione che il poeta osservò
su questo argomento, egli ebbe anzi due figli: Giovanni, nato nel
1337, e Francesca, nata nel 1342, sulla cui educazione vigilò
sempre con affettuosa premura. Ma degli impegni e degli interessi
del poeta molto più ci dicono le varie relazioni d'amicizia che
intrattenne - a cominciare da quella con Giacomo Colonna vescovo di
Lombez e col cardinale Giovanni Colonna - e i viaggi e gli studi. Già
il lungo viaggio compiuto attraverso la Francia, la Fiandra e la
Germania fra il 1332 e il 1333 può considerarsi un tipico viaggio
di uomo di cultura, mosso come egli scriveva, dall'"ardente
desiderio di molto vedere", e da appassionata curiosità non
solo per i costumi degli uomini ma per tutte le reliquie della
civiltà antica. Fu appunto in quell'occasione che a Liegi egli
scoperse l'orazione Pro Archia, che fu un testo importantissimo per
lui e per tutta la cultura dell'umanesimo, grazie alle pagine in cui
Cicerone vi esalta la poesia e discorre della missione che spetta al
poeta. Anche il viaggio compiuto, nel 1336- 1337, a Roma fu quasi
l'adempimento di un voto, perché Roma era la città due volte
sacra: e come sede della luminosa civiltà antica, e come centro
della cristianità. A Roma tornò poi nel 1341 per ricevere in
Campidoglio la laurea poetica, e scelse Roma, a preferenza di
Parigi, che attraverso la sua università gli aveva rivolto il
medesimo invito, proprio perché credette che quella cerimonia,
tipicamente medievale, potesse assumere un significato nuovo se
celebrata nella città eterna. Ma prima volle sottoporsi all'esame
del dottore di Napoli Roberto d'Angiò, e dopo la cerimonia,
svoltasi l'8 aprile, avvertì anche più pungente la vanità della
gloria terrena, per quel sentimento di scontentezza, che mai
l'abbandonò anche mentre cercava onori e soddisfazioni mondane. In
realtà egli sentì questa scontentezza prima di tutto come artista
che mirava a un ideale di perfezione. Basta pensare che quando
ricevette la corona poetica non aveva pubblicato ancora nulla di
suo: si sapeva che attendeva a due opere latine affini per
contenuto, l'Africa e la vasta compilazione storica del De viris
illustribus, l'una e l'altra instancabilmente rielaborate e rifatte
negli anni successivi, e la sua fama era affidata, oltre che ai
saggi di poesia volgare e alle lettere inviate ad amici e personaggi
illustri, al credito che si dava alla sua vasta cultura. Lasciata
Roma fu ospite a Parma di Azzo da Correggio, e nel 1342 tornò in
Provenza, per vivere soprattutto a Vaucluse (Valchiusa), presso le
sorgenti della Sorgue (Sorga), la cui solitaria bellezza egli
trovava assai propizia al suo lavoro. Ma si recava di quando in
quando ad Avignone, interessandosi alle vicende politiche e alla
crisi della Chiesa; e fu durante un soggiorno ad Avignone che
conobbe Cola di Rienzo, venuto presso il papa come capo di
un'ambasceria, e s'entusiasmò per il programma del tribuno di
restaurare l'antica repubblica romana. Ebbe dalla curia avignonese
vari incarichi diplomatici, i quali lo riportarono a Napoli e
successivamente in città dell'Italia settentrionale; ma in Provenza
era di nuovo nel 1345. Mentre l'opera più importante del precedente
soggiorno a Valchiusa era stata il Secretum, dopo il ritorno, fra il
1346 e il 1347, attese specialmente al Bucolicum Carmen (dodici
egloghe latine di contenuto allegorico e autobiografico) e ai
trattati De vita solitaria, in lode della solitudine dei santi e
degli studiosi, e De ocio religioso, ispirato da una visita in
convento al fratello Gherardo, che nel 1342 si era fatto certosino.
In Italia tornò sulla fine del 1347 e visse in diverse città del
Settentrione: era a Verona il 19 maggio 1348, quando ebbe notizia
della morte di Laura; nel 1350 andò a Roma, per il giubileo; e nel
ritorno visitò Arezzo, la città natale, e Firenze, la patria dei
suoi genitori, dove fu accolto con particolare entusiasmo dal
Boccaccio, che si strinse a lui di una devota amicizia,
fraternamente ricambiata. Effetto della visita fu un invito dei
Fiorentini a tornare nella città dei suoi avi: gli avrebbero
restituito i beni confiscati al padre e conferito una cattedra nello
Studio. Gli recò l'invito, a Padova, il Boccaccio stesso; ma il
poeta non accettò. Si preparava del resto a tornare a Valchiusa,
dove dimorò ancora dal 1351 al 1353. Fu il suo ultimo soggiorno in
quello che egli chiamava il suo "Elicona transalpino", e
allora attese soprattutto a riordinare le sue lettere. L'imponente
epistolario venne definitivamente sistemato più tardi; ma è
significativo che, meno che cinquantenne, il Petrarca pensasse a
rielaborare e ordinare le sue lettere. Ricche di notizie
autobiografiche e di confessioni, esse furono scritte infatti non
come sfoghi occasionali, ma quasi alla maniera di "saggi"
su diversi argomenti di cultura, di politica, di religione, e
talvolta indirizzate non a personaggi reali, ma a uomini illustri
dell'antichità, come quelle del libro XXIV delle Familiari, o senza
nome di destinatario, come le Sine titulo. L'imponente epistolario
comprende varie sillogi: Epistole metrice, che contengono
quarantasei lettere in esametri, distinte in tre libri dedicati
all'amico Barbato da Sulmona; le Familiari (Familiarium rerum libri
XXIV) , dedicate a Socrate, cioè all'amico Ludovico di Campinia,
che contengono 348 lettere in prosa e due sole in versi, indirizzate
a Virgilio e a Orazio; Le senili (Seniles) dedicate a Simonide,
l'amico Francesco Nelli, divise in diciassette libri e comprendenti
125 lettere posteriori alla composizione delle Familiari, tutte
degli anni 1361-1374; l'incompiuta lettera Ai posteri (Posteritati),
che narra la sua vita sino al 1351; le Sine titulo, diciannove
lettere scritte nella maggior parte durante l'ultimo soggiorno in
Provenza, che trattano di scottanti questioni politiche e religiose
della curia avignonese, e che il poeta intitolò così, in quanto
non avevano il nome dei destinatari, che non volle compromettere. A
queste raccolte sono da aggiungere le Varie, in tutto 57 lettere che
non furono raccolte dall'autore, ma, conservate dai destinatari,
figurano già nelle più antiche stampe delle opere petrarchesche.
Quando lasciò la
Provenza, nel 1353 il Petrarca aveva l'intenzione di stabilirsi
definitivamente in Italia; pensava forse come a luoghi
particolarmente accoglienti a Mantova o a Padova, ma cedette agli
insistenti inviti dell'arcivescovo Giovanni Visconti, e si stabilì
a Milano. Che colui che aveva ammirato Cola di Rienzo, e sognato
sempre la restaurazione della libertà repubblicana in Roma, si
adattasse a vivere presso un tiranno dispotico come il Visconti,
parve inconcepibile a molti, e più di una giustificazione di questa
scelta si legge nelle lettere scritte in quel tempo agli amici.
Certo è che gli otto anni milanesi (1353-1361) furono tra i più
fecondi di opere: portò allora a ordinamento quasi definitivo buona
parte delle lettere, corresse le Rime e condusse a termine il loro
primo ordinamento; scrisse i 253 dialoghi dei Rimedi per la prospera
e l'avversa fortuna (De remediis utriusque fortunae); attese ai
Trionfi e ad altre opere ancora. E intensissima fu pure la sua
attività diplomatica: nel 1353 andò ambasciatore a Venezia per la
pace tra la repubblica di San Marco e Genova, che si era data ai
Visconti; nel 1354 fu a Mantova presso l'imperatore Carlo IV; nel
1356 a Praga sempre presso l'imperatore con una nuova missione; nel
1360 a Parigi con un incarico diplomatico; e molto anche aiutò i
Visconti scrivendo contro il frate Jacopo Bussolari, capo
dell'insurrezione di Pavia contro i Visconti e i loro alleati
Beccaria. Era a Padova nel luglio 1361 quando ricevette la notizia
della morte del figlio Giovanni, e quel dolore ebbe senza dubbio
parte nella decisione che prese di non tornare a Milano. Si
trattenne a Padova sino al settembre 1362, quando si stabilì a
Venezia in una casa donatagli dalla Repubblica sulla riva destra
degli Schiavoni onorato da tutti, e consolato dall'amore della
figlia che, sposatasi a Milano con Francescuolo da Brossano, non
aveva tardato a lasciare la città lombarda per tornare a vivere
accanto al padre. Il soggiorno nella città lagunare fu sovente
interrotto da visite a Padova e da periodi che trascorreva, durante
l'estate, a Pavia, dove i Visconti avevano messo a sua disposizione
una casa. Se nel 1367 lasciò Venezia la ragione deve imputarsi
all'amarezza che gli procurarono gli attacchi di quattro giovani
averroisti che lo avevano definito "ignorante": egli aveva
replicato col trattato Sulla ignoranza sua e di molti altri (De sui
ipsius et multorum ignorantia), nel quale svolse più organicamente
che in altri scritti il suo concetto della cultura, intesa non come
somma di peregrine e disparate notizie, ma come ricerca di valori
atti a formare la personalità dell'uomo. Padova fu dunque di nuovo
la sua dimora, e benché vecchio si sobbarcò ancora a importanti
mansioni ufficiali e affrontò nuovi viaggi: si recò a Udine
incontro all'imperatore Carlo IV sceso in Italia per combattere i
Visconti (1368); fu a Milano per assistere alle nozze di Violante,
figlia di Galeazzo Visconti, con Lionello di Clarence, figlio del re
d'Inghilterra; nel 1370 partì da Arquà, dove si era stabilito in
una casetta donatagli dal signore di Padova, per Roma, dove il papa
Urbano V aveva trasferito la sede pontificia, ma, colto da sincope a
Ferrara, fu costretto a interrompere il viaggio e a tornare ad Arquà.
Lì visse gli ultimi suoi anni, addolorato dal sapere che Urbano V
troppo presto aveva lasciato Roma per tornare ad Avignone, e lì fu
colto dalla morte nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374.
Agli scritti latini
menzionati occorre aggiungerne altri che completano il vasto quadro
degli interessi culturali, politici e religiosi del Petrarca. Della
sua curiosità per la storia antica e moderna, testimoniata dal De
viris illustribus e anche dall'Africa, dà prova pure l'ampia
compilazione dei Libri delle cose degne di memoria (Rerum
memorandarum libri): a studiare i fatti storici il poeta fu attratto
soprattutto dal culto della virtus, intesa non nel senso cristiano,
ma in quello antico di energia e di virile impegno verso la vita; ed
è per questo, oltre che per la passione messa nel riscoprire testi
antichi, che il Petrarca ci appare il vero padre dell'umanesimo.
Sarebbe però tendenzioso riconoscere in lui un pensatore che ha del
tutto rotto i ponti con la tradizione religiosa del medioevo: di un
sentimento religioso profondamente sofferto, di una ricerca del
divino che si manifesta essenzialmente come angoscia per la propria
condizione di creatura finita, le espressioni sono insistenti negli
scritti del Petrarca, e, oltre che nel Secretum, l'istanza religiosa
è particolarmente viva nei Salmi penitenziali (Psalmi penitentiales),
che sono sette confessioni in forma di preghiera. D'altra parte la
partecipazione alla vita del suo tempo, l'interesse per i fatti
della Chiesa e per la politica italiana, tanto abbondantemente
testimoniati nelle lettere, si trovano anche in quegli scritti
polemici, aspri, taglienti, per i quali il Petrarca inaugurò una
consuetudine che fu vivissima nel secolo dell'umanesimo: le
Invective contra medicum, l'Invectiva contra quendam magni status
hominem (il cardinale Jean de Caraman), l'Invectiva contra eum qui
maledixit Italie (il cisterciense Giovanni da Hesdin, che aveva
scritto contro il trasferimento della Santa Sede da Avignone a
Roma). Per quest'opera varia e ricca, fortemente impegnata con la
vita morale, religiosa, politica e culturale del suo tempo al
Petrarca spetta sicuramente il merito che gli riconobbe il Villemain,
di avere inaugurato una "confederazione degli spiriti
illuminati, in mezzo all'Europa asservita da ogni parte dalla
potenza ecclesiastica e dalla dominazione feudale", e che
confermò Renan quando lo definì "primo uomo moderno",
per avere rifiutato le forme ormai vuote della scolastica medievale
e avere dato inizio a una nuova cultura, fondata sul culto degli
antichi romani.
Ma la gloria del
Petrarca, più che sui meriti altissimi di promotore d'una nuova
cultura, si fonda sulla rara perfezione della sua poesia volgare.
Certamente il poeta pensò molto presto a raccogliere e ordinare le
sue rime, forse già prima del 1336, e in varie fasi successive
attese alla correzione e sistemazione dei suoi componimenti poetici,
in modo che il libro, nell'insieme, testimoniasse la storia di un
uomo che dall'amore per una bellissima creatura è stato portato,
attraverso speranze e tormenti, a elevarsi a una visione sempre più
chiara delle vanità terrene e a un profondo desiderio di redenzione
spirituale. Ma perché il Canzoniere potesse prendere questa forma
fu necessario che Laura morisse, per assumere la funzione di guida e
consolatrice. Occorsero tuttavia non pochi anni perché di
correzione in correzione il libro, diviso in due parti, una prima
comprendente le poesie composte in vita di Laura, una seconda
comprendente le rime scritte dopo la sua morte, si costruisse come
lo leggiamo nel codice Vaticano latino 3195, in parte autografo, in
parte copiato sotto diretto controllo dell'autore, che rappresenta
il testo definitivo. Il titolo in esso è latino: Francisci
Petrarche poete laureati Rerum vulgarium fragmenta, e l'intero libro
comprende 366 componimenti (317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7
ballate, 4 madrigali), distinti in due parti (263+103): non un
grande libro, se si bada alla mole; ma libro grandissimo per l'alta
poesia che contiene e per l'importanza che ebbe nella storia delle
letterature europee.Il Petrarca ereditò e sublimò nel Canzoniere
la tradizione medievale della lirica d'amore che, iniziata in
Provenza, si affermò nel Duecento in Italia, dalla Scuola siciliana
al Dolce stil novo. L'essenza di quella poesia era spiritualistica,
ma non per questo insensibile ai richiami della sensualità,
appassionata e, insieme, tesa a una trasfigurazione idealistica
della creatura amata. A differenza però dei suoi predecessori il
Petrarca non accettò le convenzioni di un codice amoroso. Analizzò
con instancabile lucidità la sua vita sentimentale, e a essa riportò
tutto il dramma della sua vita, perplessa tra i richiami della
bellezza e della felicità terrena e la coscienza della caducità di
ogni bene mondano. Questo dramma fu così intensamente vissuto che
già alcuni amici del poeta dubitarono della reale esistenza di
Laura, ravvisando nella donna cantata con tanta passione soltanto
una finzione per dare un senso al proprio dramma interiore. Ma il
poeta smentì recisamente siffatta interpretazione, e scrivendo
all'amico Giacomo Colonna nel 1336 affermava: "Quello che tu
dici, che io mi sia finto il bel nome di Laura, come di donna della
quale io parlerei e per la quale molti parlerebbero di me... che di
questa Laura vivente, della cui bellezza sembro preso, tutto sia
creato da me, finte le poesie, simulati i sospiri; oh se in questo
soltanto tu avessi scherzando detto il vero! Fosse una finzione non
una travolgente passione! Ma credimi, nessuno riesce a fingere a
lungo senza grande fatica; e faticare per nulla, per sembrare pazzo,
è somma pazzia". Veramente non v'è ragione di dubitare
dell'esistenza di Laura e dell'attrazione fortissima che, viva e
morta, essa esercitò sul poeta; ma è pur vero che se il lettore
conosce attraverso il Canzoniere Laura, più a fondo conosce l'animo
tormentato del suo autore, quella "malinconia piena di
grazia" - per usare una definizione felicissima di Francesco De
Sanctis - che dà senso e ragione a tutta l'esistenza del poeta. Se
infatti nelle poesie d'amore più a fondo si rivela il dramma del
Petrarca, è anche vero che la sua malinconia pervade ogni altro suo
sentimento; e le stesse poesie d'ispirazione politica, tra le quali
eccelle la canzone Italia mia, recano inconfondibile il sigillo
della malinconia. È ben fondato dunque il parere di quanti, fino al
Croce, hanno visto nel Petrarca per siffatta disposizione
sentimentale uno dei più grandi anticipatori della sensibilità
romantica; e romantico si è tentati di definire il senso di
scontentezza che non gli consentì di abbandonarsi mai in tutto alla
gioia degli impulsi vitali, e gli fece avvertire in sé sempre
qualche cosa d'imperfetto, di inexpletum, come egli disse. Ma questa
forse è la condizione vera della poesia, e perciò il Petrarca è
tanto grande poeta: la sua lirica inoltre resta un esemplare
altissimo d'arte per la perfezione formale, la pura linea classica
della parola, della frase, del verso. Al dramma il poeta non si
abbandona; lo contempla, e questo dà ragione anche del suo
instancabile lavoro di correzione intorno a quelle che pure definiva
le sue "cosucce volgari" (nugelle vulgares), e, non meno,
ci illumina su quello che si deve considerare il limite pericoloso
di un'arte tanto raffinata: un'eleganza squisita, una letterarietà
preziosa, che finisce per raggelare i palpiti del cuore e tarpare i
voli della fantasia. Ma non si deve dimenticare che era intrinseca
alla poetica petrarchesca l'idea di fare della poesia una sorta di
lucido compendio delle esperienze sentimentali e morali. Lo dimostra
soprattutto la concezione dei Trionfi, il poemetto allegorico che
avrebbe dovuto trasferire su un piano stilisticamente e idealmente
più alto la materia del Canzoniere, e che invece si legge come
opera di artista sapiente, nella quale si intercalano alcuni
prodigiosi frammenti poetici.
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Manzoni
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Manzoni
(Alessandro)
Manzóni
(Alessandro), poeta e romanziere italiano (Milano 1785-1873). Nacque
da nobile e agiata famiglia: il padre, il conte Pietro, apparteneva
alla piccola nobiltà di Lecco, e la madre, Giulia Beccaria, era
figlia dell'autore del celebre Dei delitti e delle pene (è tuttavia
più che fondato il sospetto che il vero padre dello scrittore sia
stato il minore dei fratelli Verri, Giovanni). Fece i suoi studi
presso i somaschi nei collegi di Merate e di Lugano e con i
barnabiti al Longone di Milano. Precoce fu la sua vocazione alla
poesia che coltivò dapprima sotto l'influsso del Parini e del
Monti: del 1801 è il poema in quattro canti di terzine Il trionfo
della Libertà di accesi spiriti democratici, del 1803 l'ode di
argomento amoroso A Delia e l'elegante idillio in endecasillabi
sciolti Adda, indirizzato al Monti, e fra il 1802 e il 1804, parte a
Milano e parte a Venezia (dove dimorò dall'ottobre 1803 al marzo
dell'anno seguente), vennero scritti quattro Sermoni nei quali le
cadenze oraziane sono rifatte nei modi cari al Parini e a Gasparo
Gozzi. Nell'estate 1805 il giovane Alessandro raggiunse a Parigi la
madre che, separatasi legalmente dal marito fin dal 1792, era
vissuta là con Carlo Imbonati, il quale morendo (15 marzo 1805)
l'aveva lasciata erede del suo patrimonio. Per difendere se stesso e
la madre dalle calunnie dei maledici compose allora il carme in
endecasillabi sciolti In morte di Carlo Imbonati, che attraverso un
immaginario colloquio col defunto esprime una dolorosa eppur virile
concezione della vita. Dopo la morte del padre, sposò nel 1808
Enrichetta Luigia Blondel, figlia di un banchiere ginevrino, di
religione calvinista. Staccatosi dal cattolicesimo già in anni
giovanili, a Parigi, dove oltre a stringersi d'amicizia con Claude
Fauriel frequentava alcuni degli ideologi eredi del sensismo
settecentesco, Manzoni aveva portato alle estreme conseguenze i suoi
spiriti illuministici e razionalistici. La vita con la moglie,
sincera credente, segnò un primo passo verso il ritorno alla fede.
Il matrimonio era stato celebrato secondo il rito evangelico ma,
quando nacque la primogenita Giulia, questa fu battezzata secondo il
rito cattolico. Enrichetta sentì allora il bisogno di conoscere la
religione nella quale sarebbe stata allevata la figlia, e sotto la
guida di colui che si assunse il compito della sua educazione
religiosa, l'abate Eustachio Degola, non tardò ad abiurare il
calvinismo per abbracciare il cattolicesimo. In questo fatto fu la
prima spinta decisiva al ritorno del poeta alla fede. Di un tormento
morale profondo si hanno indizi nel poemetto Urania del 1809, ma la
conversione poté dirsi compiuta soltanto nel 1810, quando il
matrimonio con Enrichetta venne ricelebrato secondo il rito
cattolico. Comunque la critica moderna ha svalutato il cosiddetto
"miracolo di San Rocco", ossia la versione secondo la
quale nell'aprile del 1810 il poeta, a Parigi, avendo smarrito la
moglie in mezzo alla folla esultante per il matrimonio di Napoleone,
sarebbe entrato nella chiesa di San Rocco e avrebbe promesso di
tornare alla fede se avesse ritrovato Enrichetta.
Nel 1810 il poeta si
stabilì nuovamente a Milano e nel raccoglimento della vita
familiare e dello studio maturò, conseguenza logica della
conversione religiosa, anche la sua conversione letteraria al
Romanticismo. Ma i segni esterni tardarono a manifestarsi: la prima
opera alla quale pensò furono gli Inni sacri che dovevano essere
dodici, a celebrazione delle massime solennità dell'anno liturgico.
Compose nel 1812 La Risurrezione, nel 1813 Il nome di Maria e Il
Natale, nel 1814-1815 La Passione; più tardi La Pentecoste,
cominciata nel 1817, ripresa nel 1819 e compiuta nel 1822 (di data
difficilmente precisabile, ma di molto posteriore è l'incompiuto
Ognissanti). I misteri della fede erano interpretati negli Inni
sacri come eventi di una storia il cui significato trascende i
valori umani; così il poeta rispondeva sia alla sua più intima
esigenza religiosa sia a quell'istanza, che era propria della scuola
romantica, di dare alla poesia non un contenuto soggettivo o mitico
ma storico. Siffatti ideali ispirarono pure le due tragedie: Il
conte di Carmagnola, cominciato nel 1816 e terminato nel 1819, e
l'Adelchi, scritto nel 1820-1821 e corretto nel 1822 (di una
progettata tragedia Spartaco si sa soltanto che doveva trattare
della lotta fra dominatori e schiavi). Le tragedie presentano eroi
cristiani e romantici, ai quali la sventura ha insegnato a non
credere alle leggi crudeli con le quali gli uomini governano il
mondo e a cercare rifugio nella fede. Specialmente il modo nel quale
è concepito Adelchi autorizza a pensare a influenze giansenistiche,
le quali possono del resto essere fondatamente supposte anche perché
giansenisti erano i due religiosi che furono consiglieri spirituali
del poeta e della moglie, il Degola e Luigi Tosi. È ben vero però
che del giansenismo o, se meglio si vuole, dell'agostinismo il poeta
risentì solo la lezione morale, quel pessimismo che lo portava a
diffidare del mondo e a confidare nella forza redentrice della
Grazia, ché dal punto di vista teologico egli rimase sempre
strettamente fermo alla dottrina della Chiesa di Roma come attestano
sicuramente anche le Osservazioni sulla morale cattolica, scritte
per richiesta del Tosi. Né al cattolicesimo contrastavano gli
ideali liberali e patriottici ai quali si ispirarono una canzone del
1814 composta per formulare la speranza che le potenze europee
collegate contro Napoleone dessero l'indipendenza all'Italia,
l'incompiuta canzone Il proclama di Rimini (1815) e più tardi l'ode
Marzo 1821, occasionata dai moti piemontesi e spirante un sentimento
religioso della libertà politica. La concezione cattolica non è
intaccata neppure dal pensiero che gli dettò la magnifica ode Il
cinque maggio composta di getto nel luglio 1821 quando giunse a
Milano la notizia della morte di Napoleone, informata all'idea che
nei grandi eventi della storia si debba riconoscere il segno
dell'imperscrutabile volontà di Dio.
All'affermazione dei
princìpi romantici il Manzoni non collaborò soltanto con le sue
opere di poeta. A lui si devono anche scritti critici di notevole
rilievo nei quali convalidò e approfondì le teorie esposte dagli
scrittori del Conciliatore Nel 1818 aveva composto per satireggiare
i classicisti e l'abuso della mitologia l'ode L'ira di Apollo, che
fu data alle stampe soltanto nel 1829; quando poi pubblicò il
Carmagnola premise alla tragedia una breve ma densa prefazione
intesa a dimostrare la validità dei princìpi romantici nel teatro
tragico; a un articolo di Joseph Victor Chauvet, che pur lodando il
Carmagnola ne attribuiva i difetti all'abbandono delle norme
classiche, replicò nel 1820 con l'acuta lettera in francese (Lettre
à M. C**sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie) che,
inviata al Fauriel, venne da questo pubblicata due anni dopo insieme
con la traduzione delle due tragedie; nel 1823 dettò la Lettera sul
romanticismo, indirizzata a Cesare d'Azeglio, pubblicata soltanto
nel 1846, a sua insaputa, a Parigi nel giornale degli esuli italiani
L'Ausonio. In questi scritti Manzoni spiegava su quali esigenze di
verità si fondasse la sua adesione al Romanticismo e come per lui
il problema estetico fosse inseparabile da quello morale e
religioso. D'altra parte dello scrupolo che metteva nel documentarsi
sulla storia dalla quale prendeva ispirazione e delle idee che
informavano la sua visione degli eventi e dei personaggi si ha buona
prova nell'importante Discorso sopra alcuni punti della storia
longobardica in Italia: qui è compendiato ciò che egli aveva
studiato e pensato per scrivere l'Adelchi, ed è evidente che il suo
giudizio sui Longobardi, mentre voleva correggere quello dato dal
Muratori, risente fortemente delle idee informatrici della
storiografia romantica, e in particolare delle tesi di Augustin
Thierry.
Attendeva ancora
all'Adelchi quando concepì il disegno di un romanzo storico sulla
Lombardia del XVIIsec.
sotto la dominazione spagnola. La minuta del romanzo, il Fermo e
Lucia, venne sottoposta al giudizio degli amici Fauriel ed Ermes
Visconti, tenendo conto dei consigli dei quali il romanziere non
tardò ad accingersi a un rifacimento radicale: l'opera, col titolo
I promessi sposi, venne pubblicata nel 1827 e successivamente, con
correzioni soprattutto di carattere linguistico, a dispense dal 1840
al 1842 a Milano. (Per la sua eccezionale importanza e per
l'influenza che il libro ebbe, si rimanda il lettore alla voce
apposita.)
Da quando si stabilì
nel 1810 a Milano la vita del poeta si svolse senza vicende
eccezionali. Di rado egli si allontanò dalla sua casa di città e
dalla villa di Brusuglio: soltanto fra il 1819 e il 1820 abitò a
Parigi per dieci mesi circa; nel 1827 stette per due mesi a Firenze,
dove fu di nuovo nel 1856: il primo soggiorno nella città giovò a
quella "risciacquatura dei panni in Arno" che portò ad
accentuare, nell'edizione dei Promessi sposi del 1840, le forme
espressive tipiche del fiorentino. Nel 1848, dopo il ritorno degli
Austriaci in Lombardia, soggiornò per due anni a Lesa, dove tornò
di frequente anche in seguito. Gravi lutti lo amareggiarono: nel
1833 perdette la moglie Enrichetta e l'anno dopo la figlia Giulia,
sposa a Massimo d'Azeglio; nel 1841 gli morì la madre; nel 1861 la
seconda moglie Teresa Borri Stampa, sposata nel 1837. La sua fama
andava vieppiù crescendo in Italia e in Europa, ma dopo I promessi
sposi egli rinunziò quasi del tutto alla creazione poetica e si
dedicò a studi filosofici, critici, storici e linguistici. Esercitò
un forte influsso sul suo pensiero Antonio Rosmini, conosciuto nel
1826, al quale restò legato da profonda amicizia. Dalla teoria del
filosofo roveretano sulle idee innate dedusse i princìpi
informatori dello scritto di estetica Dell'invenzione (1850), ma il
pensiero del Rosmini non fu estraneo neppure al saggio Del romanzo
storico e, in genere, dei componimenti misti di storia e
d'invenzione, pensato e forse scritto in parte poco dopo il 1830 ma
pubblicato nelle Opere varie del 1845. Questo saggio, in apparenza
il più paradossale degli scritti manzoniani, in quanto con logica
sottile lo scrittore vi dimostra l'incoerenza in cui incorre il
romanzo storico, quale forma moderna dei componimenti che alla
maniera dei poemi epici pretendono di fondere verità storiche e
parti inventate, ha tuttavia grande importanza come affermazione dei
diritti del realismo in letteratura. A parte la Storia della colonna
infame, da storico scrisse ancora il saggio comparativo su La
Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859,
stendendone poco più che l'esordio, nel quale l'imparzialità del
giudizio è invero compromessa dalla severità con la quale vengono
valutati gli eccessi della Rivoluzione francese, prescindendo dalle
circostanze che avevano determinato fatti tanto eccezionali. Ma il
suo maggiore impegno di storico egli voleva mettere nella Storia
dell'indipendenza italiana, incompiuta, inedita fino al 1947, alla
quale attendeva ancora alla vigilia della morte. Anche come teorico
il Manzoni segnò una traccia profonda nella questione della lingua.
Già quando si accinse a riscrivere il suo capolavoro pensava a un
libro che risolvesse le difficoltà contro le quali egli stesso
aveva dovuto lottare poiché in Italia, ben diversamente da quello
che era avvenuto in Francia, tra lingua letteraria e lingua dell'uso
v'erano insanabili divergenze. Più tardi, in data imprecisabile, ma
probabilmente già intorno al 1835, attendeva a quello scritto
intitolato Sentir messa, pubblicato soltanto nel 1923, che dimostra
come per ragioni storiche e pratiche debbano essere respinte le
varie soluzioni della questione della lingua proposte dai letterati
nel corso dei secoli da Dante al Monti e al Perticari, e propone
come modello l'uso vivo di Firenze depurato dai caratteri
prettamente dialettali. Tali idee riprese poi in un trattato Della
lingua italiana del quale nei manoscritti restano due redazioni: da
esso e dai vari materiali per esso raccolti (pubblicati in maniera
poco soddisfacente dopo la sua morte) derivò i vari scritti
attraverso i quali la sua dottrina linguistica fu divulgata,
incontrando consensi e dissensi: dopo la lettera Sulla lingua
italiana a Giacinto Carena del 1845, la relazione Dell'unità della
lingua e dei mezzi di diffonderla, che, quale presidente di
un'apposita commissione, inviò al ministro Emilio Broglio il 19
febbraio 1868; dello stesso anno 1868, due lettere a Ruggero Bonghi,
una Intorno al libro "De vulgari eloquio" di Dante, che
segna una data per l'interpretazione del trattato dantesco, e
l'altra Intorno al Vocabolario; del 1869 l'Appendice alla relazione
al Broglio; del 1871 la Lettera al marchese Alfonso della Valle di
Casanova. L'importanza della dottrina esposta in questi scritti non
sarebbe tuttavia valutata nella giusta misura senza tenere conto sia
del suo stretto rapporto con il grande modello di prosa moderna che
lo scrittore aveva dato nei Promessi sposi, sia del fondamento che
essa aveva nella concezione sociale e politica dello scrittore. Non
soltanto il Manzoni fu convinto che letteratura e poesia devono
indirizzarsi al popolo per assolvere la loro funzione ma tra i primi
egli asserì la necessità dell'unità nazionale, fin dal 1815,
nell'incompiuta canzone per Il proclama di Rimini, nella quale si
legge il verso "Liberi non sarem, se non siam uni". È
vero che gli atti con i quali manifestò il suo impegno politico
furono assai rari, come del resto pretendeva un temperamento tanto
schivo della vita pratica. Non si può comunque tacere che la sua
fede di cattolico non gli impedì di dare il suo consenso alla
politica unificatrice di Vittorio Emanuele II e che, nominato
senatore, nel 1861 partecipò alla storica seduta in cui fu
proclamato il regno d'Italia, e tre anni dopo votò il trasferimento
della capitale da Torino a Firenze, ben sapendo che quello era un
passo necessario verso Roma capitale.
La grandezza del
Manzoni e il successo della sua opera di scrittore non impedirono
che gli venissero mosse critiche, talvolta non del tutto infondate:
tra i suoi primi convinti ammiratori, Goethe ebbe, per es., ad
avanzare riserve sulle "escrescenze storiche dei Promessi
sposi" e sulla poetica stessa del grande scrittore lombardo.
Per quanto concerne poi la concezione religiosa, le riserve, da
Giovita Scalvini fino a Benedetto Croce, mettono in discussione una
certa angustia che è sembrato di vedere soprattutto nel romanzo:
tale il significato della critica dello Scalvini quando osservava
che sembra, leggendo I Promessi sposi, di essere sotto la volta di
una chiesa e non sotto quella immensa del cielo; e non diverso il
giudizio del Croce quando, dando la palma all'Adelchi come opera di
poesia, parlava di "oratoria" nel romanzo. Le più
autorevoli, e tuttavia discutibili, obiezioni a un sostanziale
paternalismo implicito nella simpatia manzoniana per le classi
popolari vennero d'altra parte da Antonio Gramsci, il quale per
sostenere la sua tesi abbozzò anche un confronto tra I promessi
sposi e Guerra e pace. Di minor conto furono invece le riserve mosse
dagli scapigliati lombardi, alla ricerca di una loro indipendenza
d'artisti, e la sostanziale incomprensione di scrittori decadenti,
quale il D'Annunzio, per una naturale avversione alla lucidità di
stile e all'alto impegno morale del Manzoni. Ma anche i giudizi
limitativi, valutati da una critica spassionata e filologicamente
agguerrita, hanno giovato non poco a un'interpretazione dalla quale
è stato escluso quel tanto di agiografico che si trova negli
scritti dei cosiddetti manzoniani, e che riconosce nel grande
scrittore lombardo l'iniziatore del realismo moderno in Italia e il
suo insuperato maestro. Un utile panorama della controversia critica
che ha accompagnato nel tempo l'opera manzoniana è in Manzoni. Pro
e contro, curato da Giancarlo Vigorelli (1974). Ma negli ultimi anni
la critica è andata molto avanti nell'analisi dei testi manzoniani
e in particolare dei Promessi sposi (si ricordano i contributi e i
commenti di Ettore Bonora, Lanfranco Caretti, Giovanni Getto,
Giorgio Petrocchi). Una spinta ulteriore è venuta dal bicentenario
della nascita che ha originato convegni, mostre e studi
assolutamente non occasionali in chiave linguistico-strutturale (si
segnalano quelli di Maurizio Vitale, Ezio Raimondi, Giovanni
Macchia, Sergio Pautasso), con l'estensione ai commenti dati da Geno
Pampaloni e da Ezio Raimondi- Luciano Bottoni; mentre sul piano
biografico sono da indicare il contributo di Ferruccio Ulivi e le
suggestive ricostruzioni romanzesche di Natalia Ginzburg, La
famiglia Manzoni (1983), e di Mario Pomilio, Il Natale del 1833
(1983). Nella casa che fu abitata dal grande scrittore in via Morone
a Milano ha sede attualmente il Centro di studi manzoniani, al quale
si deve la raccolta di importanti cimeli e l'ordinamento di una
ricca biblioteca specializzata. Sotto la direzione di Vigorelli, che
presiede il Centro, è stata ripresa la pubblicazione degli Annali
manzoniani (1990).
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