Letteratura (A cura di ACarmine AlloccaA)

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Il Ventennio - Storia italiana dal 1919 al 1939
Analisi Poesie

Come analizzare una poesia

Nell’analisi di una poesia bisogna mettere in evidenza il tipo di composizione poetica,il numero dei versi, le misure dei versi, il numero delle strofe, la struttura metrica e lo schema delle rime. Bisogna individuare i luoghi il tempo, i personaggi messi in risalto dall’autore. Bisogna vedere se ci sono allitterazioni (ripetizioni di uno stesso suono o sillaba all’inizio o al centro di una parola es. trillo-tremulo); aggettivazioni; metafore(es. è una volpe); parole difficili, dialetti; arcaismi(una parola del passato es. augelli); richiami fonici; analogie; enjavement (quando il verso finale è legato a quello successivo). Bisogna notare se vi sono richiami ad altre poesie, infine bisogna riassumere in poche parole la poesia mettere in evidenza il significato e un commento personale.

Altre figure retoriche

Anacoluto- consiste nel cambiare il soggetto nella stessa frase es. quelli che muoiono, bisogna pregare iddio per loro.

Accumulazione- accostamento di parole messe in successione es. ho visto strade, negozi e ville.

Asindeto- è quel modo di unire più frasi senza congiunzioni.

Polisindeto- il contrario

Pleonasmo- è una ripetizione es. a me mi

Iperbole- equivale ad una esagerazione es. sei grosso come un elefante

Eufemismo- un modo gentile per dire cose che potrebbero essere offensive

Iterazione Sinonimica- accostamento di due vocaboli quasi dello stesso significato.

Litote- negare il contrario di quello che si vuole dire.

Analogia- una specie di paragone es. un grido di sparviero è il tuo ricordo.

Le composizioni poetiche sono:

Sonetto- 2 quartine e 2 terzine

Ode- non ha la lunghezza fissa ma è formata da sestine

Inno- si distingue dall’ode perché tratta argomenti sacri, struttura simile all’ode ma più rapido e impetuoso

Canzone- (formata da strofe di varia lunghezza da 7 a 21 versi, endecasillabi o settenari)

Strambotto- (componimento poetico popolare formato da 8 versi di rima varia)

Madrigale- (tratta temi d’amore, struttura varia 2 o 3 terzine seguite da 1 o 2 distici a rima baciata).

Struttura

Bisogna conoscere i versi, le strofe, la rima.

IL verso:   composto da 3 sillabe è un ternario 

                    composto da 4 sillabe è un quaternario 

                    composto da 5 sillabe è un quinario 

                    composto da 6 sillabe è un senario 

                    composto da 7 sillabe è un settenario 

                    composto da 8 sillabe è un ottonario 

                    composto da 9 sillabe è un novenario 

                    composto da 10 sillabe è un decasillabo

                    composto da 11 sillabe è un endecasillabo 

 Le strofe:     composte da 2 versi distico

                    composte da 3 versi terzina

                    composte da 4 versi quartina

        composte da 6 versi sestina

        composte da 8 versi ottava

 La rima può essere:

Baciata (a-a)

Alternata (ab-ab)

Incrociata (ab-ba)

Incatenata (aba-bcb)

Ripetuta (abc-abc)

Invertita (abc-cba)

Interna (ca-ab)

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Petrarca

Francesco Petrarca “Dal Canzoniere”

 

L’autore : Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304 e morì ad Arquà nel veneto nel 1374. Nel corso degli studi si appassionò soprattutto ai classici, che volle imitare, scrivendo parecchie opere in latino, per le quali divenne celebre presso i suoi contemporanei. Proprio per esse, a Roma , in Campidoglio, nel 1341 ricevette pubblicamente la corona d’alloroche lo consacrava poeta.

La sua passione per il mondo classico lo spinse a cercare e studiare i manoscritti degli antichi scrittori. Petrarca tentò di realizzare una sintesi tra la cultura medievale (cristiana) e quella medievale (pagana ), divenendo il primo degli “umanisti”, cioè di quei dotti che si adoperano per un pieno recupero della classicità. Egli, inoltre fu un letterato di professione che passò, la vita studiando; anzi si può affermare che con lui nacque una nuova figura di letterato, quella dello scrittore che vive presso la corte di un ricco signore, (o al sevizio di qualche pubblica signoria), e che ha unico compito, a parte qualche incarico diplomatico, di comporre opere gradite al suo protettore, da cui riceve sostentamento.

 

IL TESTO : i sonetti che seguono sono tratti dal Canzoniere. Essi non hanno titolo perché quando Petrarca scriveva non si usava scrivere il titolo alle poesie; comunemente però, il primo verso viene utilizzato come titolo.

Il Canzoniere è l’opera a cui è legata maggiormente la fama di Petrarca. È una raccolta di 366 componimenti quasi un diario quasi “per  un anno”, pur se le poesie furono scritte nell’arco di parecchi anni: ma esse furono riordinate successivamente dal poeta, in modo da dare una sequenzialità narrativa. Il titolo Canzoniere è tradizionale, perché in realtà l’aveva chiamato con titolo latino, Rerum vulgurium fragmenta, cioè “frammenti di cose in lingua volgare”; questo titolo rispetta la mentalità del poeta, che giudicava le sue poesie in volgare delle “poesiole”, “cosucce da poco”, mentre voleva affidare alla sua fama le opere latine. La grande cura, però, che egli dedicò alle rime in volgare dimostra che, nonostante il titolo fragmenta, egli aveva profondamente a cuore la forma e il contenuto dell’opera.

 

IL CONTENUTO DEL CANZONIERE : nel Canzoniere si segue prevalentemente l’amore del poeta per Laura, una donna che certamente è esistita (ma di cui non sappiamo nulla). Gli avvenimenti narrativi vengono vissuti a distanza di anni. Il libro è diviso in due parti: (“In vita di madonna Laura”) invece, Laura, morta il 6 aprile del 1348, diventa un ricordo, che continua ad occupare la memoria e la vita del poeta. Frammiste alle liriche di argomento amoroso vi sono anche alcune poesie di argomento politico e religioso.

È NECESSARIO SAPERE CHE…….. La celebrità di Petrarca alle sue poesie in lingua volgare. Egli infatti, è considerato uno dei maggiori poeti di tutti i secoli.       

A Carmine A

 

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Petrarca (Francesco)

Petrarca (Francesco), poeta italiano (Arezzo 1304 - Arquà, Padova, 1374). Nacque come egli stesso narra nella Lettera ai posteri, "da onorati genitori d'origine fiorentina, in mediocre stato di fortuna, anzi per ver dire prossimo a povertà, essendo essi banditi dalla patria"; infatti il padre, il notaio ser PETRACCO (di cui il poeta per amore d'eleganza letteraria mutò il nome in quello di Petrarca) era stato bandito da Firenze insieme con Dante e altri capi dei guelfi bianchi, e di famiglia fiorentina era anche la madre Eletta Canigiani. Il destino del poeta fu dunque quello di un déraciné, che non ebbe una sua patria municipale, come l'ebbero l'Alighieri e il Boccaccio, e questa circostanza fu determinante per la formazione della sua personalità e del suo stesso gusto di scrittore. Ad Arezzo visse meno di un anno; ben presto la famiglia si trasferì nel podere dell'Incisa sull'Appennino e lì rimase fino al 1310 circa, quando, per un breve periodo, passò a Pisa. Il soggiorno nella città toscana fu memorabile, perché fu quella la sola occasione in cui il poeta, ancora fanciullo, poté conoscere di persona Dante, tra gli esuli che s'erano riuniti intorno ad Arrigo VII. Nel 1311 ser Petracco aveva già deciso di trasferirsi ad Avignone, dove la presenza della curia pontificia gli poteva assicurare un fruttuoso lavoro; ma per la crisi degli alloggi sistemò la famiglia (era nato intanto un secondo figlio, Gherardo, forse nel 1307) nella vicina Carpentras, dove Francesco fece gli studi di grammatica sotto la guida di un modesto maestro, Convenevole da Prato, prima di recarsi a studiare legge a Montpellier (1316-1320) e a Bologna (1320-1326). Quelli di giurisprudenza non furono studi a lui congeniali; troppo forte sentiva l'attrazione delle lettere, che invano il padre ostacolò almeno fino a quando s'interessò dei figli, ossia il 1320 circa, ché, perduta la prima moglie nel 1318 o 1319, non tardò a passare a nuove nozze. Dopo gli anni bolognesi il poeta tornò ad Avignone. Per garantirsi una situazione conveniente prese gli ordini minori, grazie ai quali ottenne nel corso della vita prebende e cariche ecclesiastiche redditizie. Ma ad Avignone badò anche a vivere da raffinato signore, come raccontò poi in una lettera al fratello; e fu allora, il 6 aprile 1327, che nella chiesa di Santa Chiara vide Laura e concepì per lei l'amore che lo accompagnò per tutta la vita. Chi realmente fosse Laura è difficile stabilire: l'opinione più accreditata l'identifica con Laura de Noves, andata sposa nel 1325 a Ugo de Sade; ma appurare il casato e le vicende private di Laura poco importa per comprendere la poesia del Petrarca: su dati molto esigui di cronaca si fonda la storia di questo amore - oltre il giorno fatale dell'innamoramento, quello della morte della donna amata avvenuta il 6 aprile 1348, segnato nel codice di Virgilio che si conserva alla Biblioteca ambrosiana di Milano -; il resto è tutto una storia di emozioni, di desideri, di rimpianti, di memorie. Amore di sogno, intensissimo, tale da assorbire tutta la fantasia del poeta fu quello cantato nel Canzoniere; ma appunto perché amore di sogno non impedì al Petrarca di vivere una vita intensa di studi, di viaggi, di impegni politici, e anche di conoscere altri amori. Da una donna che non si può identificare, per la grande discrezione che il poeta osservò su questo argomento, egli ebbe anzi due figli: Giovanni, nato nel 1337, e Francesca, nata nel 1342, sulla cui educazione vigilò sempre con affettuosa premura. Ma degli impegni e degli interessi del poeta molto più ci dicono le varie relazioni d'amicizia che intrattenne - a cominciare da quella con Giacomo Colonna vescovo di Lombez e col cardinale Giovanni Colonna - e i viaggi e gli studi. Già il lungo viaggio compiuto attraverso la Francia, la Fiandra e la Germania fra il 1332 e il 1333 può considerarsi un tipico viaggio di uomo di cultura, mosso come egli scriveva, dall'"ardente desiderio di molto vedere", e da appassionata curiosità non solo per i costumi degli uomini ma per tutte le reliquie della civiltà antica. Fu appunto in quell'occasione che a Liegi egli scoperse l'orazione Pro Archia, che fu un testo importantissimo per lui e per tutta la cultura dell'umanesimo, grazie alle pagine in cui Cicerone vi esalta la poesia e discorre della missione che spetta al poeta. Anche il viaggio compiuto, nel 1336- 1337, a Roma fu quasi l'adempimento di un voto, perché Roma era la città due volte sacra: e come sede della luminosa civiltà antica, e come centro della cristianità. A Roma tornò poi nel 1341 per ricevere in Campidoglio la laurea poetica, e scelse Roma, a preferenza di Parigi, che attraverso la sua università gli aveva rivolto il medesimo invito, proprio perché credette che quella cerimonia, tipicamente medievale, potesse assumere un significato nuovo se celebrata nella città eterna. Ma prima volle sottoporsi all'esame del dottore di Napoli Roberto d'Angiò, e dopo la cerimonia, svoltasi l'8 aprile, avvertì anche più pungente la vanità della gloria terrena, per quel sentimento di scontentezza, che mai l'abbandonò anche mentre cercava onori e soddisfazioni mondane. In realtà egli sentì questa scontentezza prima di tutto come artista che mirava a un ideale di perfezione. Basta pensare che quando ricevette la corona poetica non aveva pubblicato ancora nulla di suo: si sapeva che attendeva a due opere latine affini per contenuto, l'Africa e la vasta compilazione storica del De viris illustribus, l'una e l'altra instancabilmente rielaborate e rifatte negli anni successivi, e la sua fama era affidata, oltre che ai saggi di poesia volgare e alle lettere inviate ad amici e personaggi illustri, al credito che si dava alla sua vasta cultura. Lasciata Roma fu ospite a Parma di Azzo da Correggio, e nel 1342 tornò in Provenza, per vivere soprattutto a Vaucluse (Valchiusa), presso le sorgenti della Sorgue (Sorga), la cui solitaria bellezza egli trovava assai propizia al suo lavoro. Ma si recava di quando in quando ad Avignone, interessandosi alle vicende politiche e alla crisi della Chiesa; e fu durante un soggiorno ad Avignone che conobbe Cola di Rienzo, venuto presso il papa come capo di un'ambasceria, e s'entusiasmò per il programma del tribuno di restaurare l'antica repubblica romana. Ebbe dalla curia avignonese vari incarichi diplomatici, i quali lo riportarono a Napoli e successivamente in città dell'Italia settentrionale; ma in Provenza era di nuovo nel 1345. Mentre l'opera più importante del precedente soggiorno a Valchiusa era stata il Secretum, dopo il ritorno, fra il 1346 e il 1347, attese specialmente al Bucolicum Carmen (dodici egloghe latine di contenuto allegorico e autobiografico) e ai trattati De vita solitaria, in lode della solitudine dei santi e degli studiosi, e De ocio religioso, ispirato da una visita in convento al fratello Gherardo, che nel 1342 si era fatto certosino. In Italia tornò sulla fine del 1347 e visse in diverse città del Settentrione: era a Verona il 19 maggio 1348, quando ebbe notizia della morte di Laura; nel 1350 andò a Roma, per il giubileo; e nel ritorno visitò Arezzo, la città natale, e Firenze, la patria dei suoi genitori, dove fu accolto con particolare entusiasmo dal Boccaccio, che si strinse a lui di una devota amicizia, fraternamente ricambiata. Effetto della visita fu un invito dei Fiorentini a tornare nella città dei suoi avi: gli avrebbero restituito i beni confiscati al padre e conferito una cattedra nello Studio. Gli recò l'invito, a Padova, il Boccaccio stesso; ma il poeta non accettò. Si preparava del resto a tornare a Valchiusa, dove dimorò ancora dal 1351 al 1353. Fu il suo ultimo soggiorno in quello che egli chiamava il suo "Elicona transalpino", e allora attese soprattutto a riordinare le sue lettere. L'imponente epistolario venne definitivamente sistemato più tardi; ma è significativo che, meno che cinquantenne, il Petrarca pensasse a rielaborare e ordinare le sue lettere. Ricche di notizie autobiografiche e di confessioni, esse furono scritte infatti non come sfoghi occasionali, ma quasi alla maniera di "saggi" su diversi argomenti di cultura, di politica, di religione, e talvolta indirizzate non a personaggi reali, ma a uomini illustri dell'antichità, come quelle del libro XXIV delle Familiari, o senza nome di destinatario, come le Sine titulo. L'imponente epistolario comprende varie sillogi: Epistole metrice, che contengono quarantasei lettere in esametri, distinte in tre libri dedicati all'amico Barbato da Sulmona; le Familiari (Familiarium rerum libri XXIV) , dedicate a Socrate, cioè all'amico Ludovico di Campinia, che contengono 348 lettere in prosa e due sole in versi, indirizzate a Virgilio e a Orazio; Le senili (Seniles) dedicate a Simonide, l'amico Francesco Nelli, divise in diciassette libri e comprendenti 125 lettere posteriori alla composizione delle Familiari, tutte degli anni 1361-1374; l'incompiuta lettera Ai posteri (Posteritati), che narra la sua vita sino al 1351; le Sine titulo, diciannove lettere scritte nella maggior parte durante l'ultimo soggiorno in Provenza, che trattano di scottanti questioni politiche e religiose della curia avignonese, e che il poeta intitolò così, in quanto non avevano il nome dei destinatari, che non volle compromettere. A queste raccolte sono da aggiungere le Varie, in tutto 57 lettere che non furono raccolte dall'autore, ma, conservate dai destinatari, figurano già nelle più antiche stampe delle opere petrarchesche.

Quando lasciò la Provenza, nel 1353 il Petrarca aveva l'intenzione di stabilirsi definitivamente in Italia; pensava forse come a luoghi particolarmente accoglienti a Mantova o a Padova, ma cedette agli insistenti inviti dell'arcivescovo Giovanni Visconti, e si stabilì a Milano. Che colui che aveva ammirato Cola di Rienzo, e sognato sempre la restaurazione della libertà repubblicana in Roma, si adattasse a vivere presso un tiranno dispotico come il Visconti, parve inconcepibile a molti, e più di una giustificazione di questa scelta si legge nelle lettere scritte in quel tempo agli amici. Certo è che gli otto anni milanesi (1353-1361) furono tra i più fecondi di opere: portò allora a ordinamento quasi definitivo buona parte delle lettere, corresse le Rime e condusse a termine il loro primo ordinamento; scrisse i 253 dialoghi dei Rimedi per la prospera e l'avversa fortuna (De remediis utriusque fortunae); attese ai Trionfi e ad altre opere ancora. E intensissima fu pure la sua attività diplomatica: nel 1353 andò ambasciatore a Venezia per la pace tra la repubblica di San Marco e Genova, che si era data ai Visconti; nel 1354 fu a Mantova presso l'imperatore Carlo IV; nel 1356 a Praga sempre presso l'imperatore con una nuova missione; nel 1360 a Parigi con un incarico diplomatico; e molto anche aiutò i Visconti scrivendo contro il frate Jacopo Bussolari, capo dell'insurrezione di Pavia contro i Visconti e i loro alleati Beccaria. Era a Padova nel luglio 1361 quando ricevette la notizia della morte del figlio Giovanni, e quel dolore ebbe senza dubbio parte nella decisione che prese di non tornare a Milano. Si trattenne a Padova sino al settembre 1362, quando si stabilì a Venezia in una casa donatagli dalla Repubblica sulla riva destra degli Schiavoni onorato da tutti, e consolato dall'amore della figlia che, sposatasi a Milano con Francescuolo da Brossano, non aveva tardato a lasciare la città lombarda per tornare a vivere accanto al padre. Il soggiorno nella città lagunare fu sovente interrotto da visite a Padova e da periodi che trascorreva, durante l'estate, a Pavia, dove i Visconti avevano messo a sua disposizione una casa. Se nel 1367 lasciò Venezia la ragione deve imputarsi all'amarezza che gli procurarono gli attacchi di quattro giovani averroisti che lo avevano definito "ignorante": egli aveva replicato col trattato Sulla ignoranza sua e di molti altri (De sui ipsius et multorum ignorantia), nel quale svolse più organicamente che in altri scritti il suo concetto della cultura, intesa non come somma di peregrine e disparate notizie, ma come ricerca di valori atti a formare la personalità dell'uomo. Padova fu dunque di nuovo la sua dimora, e benché vecchio si sobbarcò ancora a importanti mansioni ufficiali e affrontò nuovi viaggi: si recò a Udine incontro all'imperatore Carlo IV sceso in Italia per combattere i Visconti (1368); fu a Milano per assistere alle nozze di Violante, figlia di Galeazzo Visconti, con Lionello di Clarence, figlio del re d'Inghilterra; nel 1370 partì da Arquà, dove si era stabilito in una casetta donatagli dal signore di Padova, per Roma, dove il papa Urbano V aveva trasferito la sede pontificia, ma, colto da sincope a Ferrara, fu costretto a interrompere il viaggio e a tornare ad Arquà. Lì visse gli ultimi suoi anni, addolorato dal sapere che Urbano V troppo presto aveva lasciato Roma per tornare ad Avignone, e lì fu colto dalla morte nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374.

Agli scritti latini menzionati occorre aggiungerne altri che completano il vasto quadro degli interessi culturali, politici e religiosi del Petrarca. Della sua curiosità per la storia antica e moderna, testimoniata dal De viris illustribus e anche dall'Africa, dà prova pure l'ampia compilazione dei Libri delle cose degne di memoria (Rerum memorandarum libri): a studiare i fatti storici il poeta fu attratto soprattutto dal culto della virtus, intesa non nel senso cristiano, ma in quello antico di energia e di virile impegno verso la vita; ed è per questo, oltre che per la passione messa nel riscoprire testi antichi, che il Petrarca ci appare il vero padre dell'umanesimo. Sarebbe però tendenzioso riconoscere in lui un pensatore che ha del tutto rotto i ponti con la tradizione religiosa del medioevo: di un sentimento religioso profondamente sofferto, di una ricerca del divino che si manifesta essenzialmente come angoscia per la propria condizione di creatura finita, le espressioni sono insistenti negli scritti del Petrarca, e, oltre che nel Secretum, l'istanza religiosa è particolarmente viva nei Salmi penitenziali (Psalmi penitentiales), che sono sette confessioni in forma di preghiera. D'altra parte la partecipazione alla vita del suo tempo, l'interesse per i fatti della Chiesa e per la politica italiana, tanto abbondantemente testimoniati nelle lettere, si trovano anche in quegli scritti polemici, aspri, taglienti, per i quali il Petrarca inaugurò una consuetudine che fu vivissima nel secolo dell'umanesimo: le Invective contra medicum, l'Invectiva contra quendam magni status hominem (il cardinale Jean de Caraman), l'Invectiva contra eum qui maledixit Italie (il cisterciense Giovanni da Hesdin, che aveva scritto contro il trasferimento della Santa Sede da Avignone a Roma). Per quest'opera varia e ricca, fortemente impegnata con la vita morale, religiosa, politica e culturale del suo tempo al Petrarca spetta sicuramente il merito che gli riconobbe il Villemain, di avere inaugurato una "confederazione degli spiriti illuminati, in mezzo all'Europa asservita da ogni parte dalla potenza ecclesiastica e dalla dominazione feudale", e che confermò Renan quando lo definì "primo uomo moderno", per avere rifiutato le forme ormai vuote della scolastica medievale e avere dato inizio a una nuova cultura, fondata sul culto degli antichi romani.

Ma la gloria del Petrarca, più che sui meriti altissimi di promotore d'una nuova cultura, si fonda sulla rara perfezione della sua poesia volgare. Certamente il poeta pensò molto presto a raccogliere e ordinare le sue rime, forse già prima del 1336, e in varie fasi successive attese alla correzione e sistemazione dei suoi componimenti poetici, in modo che il libro, nell'insieme, testimoniasse la storia di un uomo che dall'amore per una bellissima creatura è stato portato, attraverso speranze e tormenti, a elevarsi a una visione sempre più chiara delle vanità terrene e a un profondo desiderio di redenzione spirituale. Ma perché il Canzoniere potesse prendere questa forma fu necessario che Laura morisse, per assumere la funzione di guida e consolatrice. Occorsero tuttavia non pochi anni perché di correzione in correzione il libro, diviso in due parti, una prima comprendente le poesie composte in vita di Laura, una seconda comprendente le rime scritte dopo la sua morte, si costruisse come lo leggiamo nel codice Vaticano latino 3195, in parte autografo, in parte copiato sotto diretto controllo dell'autore, che rappresenta il testo definitivo. Il titolo in esso è latino: Francisci Petrarche poete laureati Rerum vulgarium fragmenta, e l'intero libro comprende 366 componimenti (317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate, 4 madrigali), distinti in due parti (263+103): non un grande libro, se si bada alla mole; ma libro grandissimo per l'alta poesia che contiene e per l'importanza che ebbe nella storia delle letterature europee.Il Petrarca ereditò e sublimò nel Canzoniere la tradizione medievale della lirica d'amore che, iniziata in Provenza, si affermò nel Duecento in Italia, dalla Scuola siciliana al Dolce stil novo. L'essenza di quella poesia era spiritualistica, ma non per questo insensibile ai richiami della sensualità, appassionata e, insieme, tesa a una trasfigurazione idealistica della creatura amata. A differenza però dei suoi predecessori il Petrarca non accettò le convenzioni di un codice amoroso. Analizzò con instancabile lucidità la sua vita sentimentale, e a essa riportò tutto il dramma della sua vita, perplessa tra i richiami della bellezza e della felicità terrena e la coscienza della caducità di ogni bene mondano. Questo dramma fu così intensamente vissuto che già alcuni amici del poeta dubitarono della reale esistenza di Laura, ravvisando nella donna cantata con tanta passione soltanto una finzione per dare un senso al proprio dramma interiore. Ma il poeta smentì recisamente siffatta interpretazione, e scrivendo all'amico Giacomo Colonna nel 1336 affermava: "Quello che tu dici, che io mi sia finto il bel nome di Laura, come di donna della quale io parlerei e per la quale molti parlerebbero di me... che di questa Laura vivente, della cui bellezza sembro preso, tutto sia creato da me, finte le poesie, simulati i sospiri; oh se in questo soltanto tu avessi scherzando detto il vero! Fosse una finzione non una travolgente passione! Ma credimi, nessuno riesce a fingere a lungo senza grande fatica; e faticare per nulla, per sembrare pazzo, è somma pazzia". Veramente non v'è ragione di dubitare dell'esistenza di Laura e dell'attrazione fortissima che, viva e morta, essa esercitò sul poeta; ma è pur vero che se il lettore conosce attraverso il Canzoniere Laura, più a fondo conosce l'animo tormentato del suo autore, quella "malinconia piena di grazia" - per usare una definizione felicissima di Francesco De Sanctis - che dà senso e ragione a tutta l'esistenza del poeta. Se infatti nelle poesie d'amore più a fondo si rivela il dramma del Petrarca, è anche vero che la sua malinconia pervade ogni altro suo sentimento; e le stesse poesie d'ispirazione politica, tra le quali eccelle la canzone Italia mia, recano inconfondibile il sigillo della malinconia. È ben fondato dunque il parere di quanti, fino al Croce, hanno visto nel Petrarca per siffatta disposizione sentimentale uno dei più grandi anticipatori della sensibilità romantica; e romantico si è tentati di definire il senso di scontentezza che non gli consentì di abbandonarsi mai in tutto alla gioia degli impulsi vitali, e gli fece avvertire in sé sempre qualche cosa d'imperfetto, di inexpletum, come egli disse. Ma questa forse è la condizione vera della poesia, e perciò il Petrarca è tanto grande poeta: la sua lirica inoltre resta un esemplare altissimo d'arte per la perfezione formale, la pura linea classica della parola, della frase, del verso. Al dramma il poeta non si abbandona; lo contempla, e questo dà ragione anche del suo instancabile lavoro di correzione intorno a quelle che pure definiva le sue "cosucce volgari" (nugelle vulgares), e, non meno, ci illumina su quello che si deve considerare il limite pericoloso di un'arte tanto raffinata: un'eleganza squisita, una letterarietà preziosa, che finisce per raggelare i palpiti del cuore e tarpare i voli della fantasia. Ma non si deve dimenticare che era intrinseca alla poetica petrarchesca l'idea di fare della poesia una sorta di lucido compendio delle esperienze sentimentali e morali. Lo dimostra soprattutto la concezione dei Trionfi, il poemetto allegorico che avrebbe dovuto trasferire su un piano stilisticamente e idealmente più alto la materia del Canzoniere, e che invece si legge come opera di artista sapiente, nella quale si intercalano alcuni prodigiosi frammenti poetici.

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Manzoni

Manzoni (Alessandro)

Manzóni  (Alessandro), poeta e romanziere italiano (Milano 1785-1873). Nacque da nobile e agiata famiglia: il padre, il conte Pietro, apparteneva alla piccola nobiltà di Lecco, e la madre, Giulia Beccaria, era figlia dell'autore del celebre Dei delitti e delle pene (è tuttavia più che fondato il sospetto che il vero padre dello scrittore sia stato il minore dei fratelli Verri, Giovanni). Fece i suoi studi presso i somaschi nei collegi di Merate e di Lugano e con i barnabiti al Longone di Milano. Precoce fu la sua vocazione alla poesia che coltivò dapprima sotto l'influsso del Parini e del Monti: del 1801 è il poema in quattro canti di terzine Il trionfo della Libertà di accesi spiriti democratici, del 1803 l'ode di argomento amoroso A Delia e l'elegante idillio in endecasillabi sciolti Adda, indirizzato al Monti, e fra il 1802 e il 1804, parte a Milano e parte a Venezia (dove dimorò dall'ottobre 1803 al marzo dell'anno seguente), vennero scritti quattro Sermoni nei quali le cadenze oraziane sono rifatte nei modi cari al Parini e a Gasparo Gozzi. Nell'estate 1805 il giovane Alessandro raggiunse a Parigi la madre che, separatasi legalmente dal marito fin dal 1792, era vissuta là con Carlo Imbonati, il quale morendo (15 marzo 1805) l'aveva lasciata erede del suo patrimonio. Per difendere se stesso e la madre dalle calunnie dei maledici compose allora il carme in endecasillabi sciolti In morte di Carlo Imbonati, che attraverso un immaginario colloquio col defunto esprime una dolorosa eppur virile concezione della vita. Dopo la morte del padre, sposò nel 1808 Enrichetta Luigia Blondel, figlia di un banchiere ginevrino, di religione calvinista. Staccatosi dal cattolicesimo già in anni giovanili, a Parigi, dove oltre a stringersi d'amicizia con Claude Fauriel frequentava alcuni degli ideologi eredi del sensismo settecentesco, Manzoni aveva portato alle estreme conseguenze i suoi spiriti illuministici e razionalistici. La vita con la moglie, sincera credente, segnò un primo passo verso il ritorno alla fede. Il matrimonio era stato celebrato secondo il rito evangelico ma, quando nacque la primogenita Giulia, questa fu battezzata secondo il rito cattolico. Enrichetta sentì allora il bisogno di conoscere la religione nella quale sarebbe stata allevata la figlia, e sotto la guida di colui che si assunse il compito della sua educazione religiosa, l'abate Eustachio Degola, non tardò ad abiurare il calvinismo per abbracciare il cattolicesimo. In questo fatto fu la prima spinta decisiva al ritorno del poeta alla fede. Di un tormento morale profondo si hanno indizi nel poemetto Urania del 1809, ma la conversione poté dirsi compiuta soltanto nel 1810, quando il matrimonio con Enrichetta venne ricelebrato secondo il rito cattolico. Comunque la critica moderna ha svalutato il cosiddetto "miracolo di San Rocco", ossia la versione secondo la quale nell'aprile del 1810 il poeta, a Parigi, avendo smarrito la moglie in mezzo alla folla esultante per il matrimonio di Napoleone, sarebbe entrato nella chiesa di San Rocco e avrebbe promesso di tornare alla fede se avesse ritrovato Enrichetta.

Nel 1810 il poeta si stabilì nuovamente a Milano e nel raccoglimento della vita familiare e dello studio maturò, conseguenza logica della conversione religiosa, anche la sua conversione letteraria al Romanticismo. Ma i segni esterni tardarono a manifestarsi: la prima opera alla quale pensò furono gli Inni sacri che dovevano essere dodici, a celebrazione delle massime solennità dell'anno liturgico. Compose nel 1812 La Risurrezione, nel 1813 Il nome di Maria e Il Natale, nel 1814-1815 La Passione; più tardi La Pentecoste, cominciata nel 1817, ripresa nel 1819 e compiuta nel 1822 (di data difficilmente precisabile, ma di molto posteriore è l'incompiuto Ognissanti). I misteri della fede erano interpretati negli Inni sacri come eventi di una storia il cui significato trascende i valori umani; così il poeta rispondeva sia alla sua più intima esigenza religiosa sia a quell'istanza, che era propria della scuola romantica, di dare alla poesia non un contenuto soggettivo o mitico ma storico. Siffatti ideali ispirarono pure le due tragedie: Il conte di Carmagnola, cominciato nel 1816 e terminato nel 1819, e l'Adelchi, scritto nel 1820-1821 e corretto nel 1822 (di una progettata tragedia Spartaco si sa soltanto che doveva trattare della lotta fra dominatori e schiavi). Le tragedie presentano eroi cristiani e romantici, ai quali la sventura ha insegnato a non credere alle leggi crudeli con le quali gli uomini governano il mondo e a cercare rifugio nella fede. Specialmente il modo nel quale è concepito Adelchi autorizza a pensare a influenze giansenistiche, le quali possono del resto essere fondatamente supposte anche perché giansenisti erano i due religiosi che furono consiglieri spirituali del poeta e della moglie, il Degola e Luigi Tosi. È ben vero però che del giansenismo o, se meglio si vuole, dell'agostinismo il poeta risentì solo la lezione morale, quel pessimismo che lo portava a diffidare del mondo e a confidare nella forza redentrice della Grazia, ché dal punto di vista teologico egli rimase sempre strettamente fermo alla dottrina della Chiesa di Roma come attestano sicuramente anche le Osservazioni sulla morale cattolica, scritte per richiesta del Tosi. Né al cattolicesimo contrastavano gli ideali liberali e patriottici ai quali si ispirarono una canzone del 1814 composta per formulare la speranza che le potenze europee collegate contro Napoleone dessero l'indipendenza all'Italia, l'incompiuta canzone Il proclama di Rimini (1815) e più tardi l'ode Marzo 1821, occasionata dai moti piemontesi e spirante un sentimento religioso della libertà politica. La concezione cattolica non è intaccata neppure dal pensiero che gli dettò la magnifica ode Il cinque maggio composta di getto nel luglio 1821 quando giunse a Milano la notizia della morte di Napoleone, informata all'idea che nei grandi eventi della storia si debba riconoscere il segno dell'imperscrutabile volontà di Dio.

All'affermazione dei princìpi romantici il Manzoni non collaborò soltanto con le sue opere di poeta. A lui si devono anche scritti critici di notevole rilievo nei quali convalidò e approfondì le teorie esposte dagli scrittori del Conciliatore Nel 1818 aveva composto per satireggiare i classicisti e l'abuso della mitologia l'ode L'ira di Apollo, che fu data alle stampe soltanto nel 1829; quando poi pubblicò il Carmagnola premise alla tragedia una breve ma densa prefazione intesa a dimostrare la validità dei princìpi romantici nel teatro tragico; a un articolo di Joseph Victor Chauvet, che pur lodando il Carmagnola ne attribuiva i difetti all'abbandono delle norme classiche, replicò nel 1820 con l'acuta lettera in francese (Lettre à M. C**sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie) che, inviata al Fauriel, venne da questo pubblicata due anni dopo insieme con la traduzione delle due tragedie; nel 1823 dettò la Lettera sul romanticismo, indirizzata a Cesare d'Azeglio, pubblicata soltanto nel 1846, a sua insaputa, a Parigi nel giornale degli esuli italiani L'Ausonio. In questi scritti Manzoni spiegava su quali esigenze di verità si fondasse la sua adesione al Romanticismo e come per lui il problema estetico fosse inseparabile da quello morale e religioso. D'altra parte dello scrupolo che metteva nel documentarsi sulla storia dalla quale prendeva ispirazione e delle idee che informavano la sua visione degli eventi e dei personaggi si ha buona prova nell'importante Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia: qui è compendiato ciò che egli aveva studiato e pensato per scrivere l'Adelchi, ed è evidente che il suo giudizio sui Longobardi, mentre voleva correggere quello dato dal Muratori, risente fortemente delle idee informatrici della storiografia romantica, e in particolare delle tesi di Augustin Thierry.

Attendeva ancora all'Adelchi quando concepì il disegno di un romanzo storico sulla Lombardia del  XVIIsec. sotto la dominazione spagnola. La minuta del romanzo, il Fermo e Lucia, venne sottoposta al giudizio degli amici Fauriel ed Ermes Visconti, tenendo conto dei consigli dei quali il romanziere non tardò ad accingersi a un rifacimento radicale: l'opera, col titolo I promessi sposi, venne pubblicata nel 1827 e successivamente, con correzioni soprattutto di carattere linguistico, a dispense dal 1840 al 1842 a Milano. (Per la sua eccezionale importanza e per l'influenza che il libro ebbe, si rimanda il lettore alla voce apposita.)

Da quando si stabilì nel 1810 a Milano la vita del poeta si svolse senza vicende eccezionali. Di rado egli si allontanò dalla sua casa di città e dalla villa di Brusuglio: soltanto fra il 1819 e il 1820 abitò a Parigi per dieci mesi circa; nel 1827 stette per due mesi a Firenze, dove fu di nuovo nel 1856: il primo soggiorno nella città giovò a quella "risciacquatura dei panni in Arno" che portò ad accentuare, nell'edizione dei Promessi sposi del 1840, le forme espressive tipiche del fiorentino. Nel 1848, dopo il ritorno degli Austriaci in Lombardia, soggiornò per due anni a Lesa, dove tornò di frequente anche in seguito. Gravi lutti lo amareggiarono: nel 1833 perdette la moglie Enrichetta e l'anno dopo la figlia Giulia, sposa a Massimo d'Azeglio; nel 1841 gli morì la madre; nel 1861 la seconda moglie Teresa Borri Stampa, sposata nel 1837. La sua fama andava vieppiù crescendo in Italia e in Europa, ma dopo I promessi sposi egli rinunziò quasi del tutto alla creazione poetica e si dedicò a studi filosofici, critici, storici e linguistici. Esercitò un forte influsso sul suo pensiero Antonio Rosmini, conosciuto nel 1826, al quale restò legato da profonda amicizia. Dalla teoria del filosofo roveretano sulle idee innate dedusse i princìpi informatori dello scritto di estetica Dell'invenzione (1850), ma il pensiero del Rosmini non fu estraneo neppure al saggio Del romanzo storico e, in genere, dei componimenti misti di storia e d'invenzione, pensato e forse scritto in parte poco dopo il 1830 ma pubblicato nelle Opere varie del 1845. Questo saggio, in apparenza il più paradossale degli scritti manzoniani, in quanto con logica sottile lo scrittore vi dimostra l'incoerenza in cui incorre il romanzo storico, quale forma moderna dei componimenti che alla maniera dei poemi epici pretendono di fondere verità storiche e parti inventate, ha tuttavia grande importanza come affermazione dei diritti del realismo in letteratura. A parte la Storia della colonna infame, da storico scrisse ancora il saggio comparativo su La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859, stendendone poco più che l'esordio, nel quale l'imparzialità del giudizio è invero compromessa dalla severità con la quale vengono valutati gli eccessi della Rivoluzione francese, prescindendo dalle circostanze che avevano determinato fatti tanto eccezionali. Ma il suo maggiore impegno di storico egli voleva mettere nella Storia dell'indipendenza italiana, incompiuta, inedita fino al 1947, alla quale attendeva ancora alla vigilia della morte. Anche come teorico il Manzoni segnò una traccia profonda nella questione della lingua. Già quando si accinse a riscrivere il suo capolavoro pensava a un libro che risolvesse le difficoltà contro le quali egli stesso aveva dovuto lottare poiché in Italia, ben diversamente da quello che era avvenuto in Francia, tra lingua letteraria e lingua dell'uso v'erano insanabili divergenze. Più tardi, in data imprecisabile, ma probabilmente già intorno al 1835, attendeva a quello scritto intitolato Sentir messa, pubblicato soltanto nel 1923, che dimostra come per ragioni storiche e pratiche debbano essere respinte le varie soluzioni della questione della lingua proposte dai letterati nel corso dei secoli da Dante al Monti e al Perticari, e propone come modello l'uso vivo di Firenze depurato dai caratteri prettamente dialettali. Tali idee riprese poi in un trattato Della lingua italiana del quale nei manoscritti restano due redazioni: da esso e dai vari materiali per esso raccolti (pubblicati in maniera poco soddisfacente dopo la sua morte) derivò i vari scritti attraverso i quali la sua dottrina linguistica fu divulgata, incontrando consensi e dissensi: dopo la lettera Sulla lingua italiana a Giacinto Carena del 1845, la relazione Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, che, quale presidente di un'apposita commissione, inviò al ministro Emilio Broglio il 19 febbraio 1868; dello stesso anno 1868, due lettere a Ruggero Bonghi, una Intorno al libro "De vulgari eloquio" di Dante, che segna una data per l'interpretazione del trattato dantesco, e l'altra Intorno al Vocabolario; del 1869 l'Appendice alla relazione al Broglio; del 1871 la Lettera al marchese Alfonso della Valle di Casanova. L'importanza della dottrina esposta in questi scritti non sarebbe tuttavia valutata nella giusta misura senza tenere conto sia del suo stretto rapporto con il grande modello di prosa moderna che lo scrittore aveva dato nei Promessi sposi, sia del fondamento che essa aveva nella concezione sociale e politica dello scrittore. Non soltanto il Manzoni fu convinto che letteratura e poesia devono indirizzarsi al popolo per assolvere la loro funzione ma tra i primi egli asserì la necessità dell'unità nazionale, fin dal 1815, nell'incompiuta canzone per Il proclama di Rimini, nella quale si legge il verso "Liberi non sarem, se non siam uni". È vero che gli atti con i quali manifestò il suo impegno politico furono assai rari, come del resto pretendeva un temperamento tanto schivo della vita pratica. Non si può comunque tacere che la sua fede di cattolico non gli impedì di dare il suo consenso alla politica unificatrice di Vittorio Emanuele II e che, nominato senatore, nel 1861 partecipò alla storica seduta in cui fu proclamato il regno d'Italia, e tre anni dopo votò il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, ben sapendo che quello era un passo necessario verso Roma capitale.

La grandezza del Manzoni e il successo della sua opera di scrittore non impedirono che gli venissero mosse critiche, talvolta non del tutto infondate: tra i suoi primi convinti ammiratori, Goethe ebbe, per es., ad avanzare riserve sulle "escrescenze storiche dei Promessi sposi" e sulla poetica stessa del grande scrittore lombardo. Per quanto concerne poi la concezione religiosa, le riserve, da Giovita Scalvini fino a Benedetto Croce, mettono in discussione una certa angustia che è sembrato di vedere soprattutto nel romanzo: tale il significato della critica dello Scalvini quando osservava che sembra, leggendo I Promessi sposi, di essere sotto la volta di una chiesa e non sotto quella immensa del cielo; e non diverso il giudizio del Croce quando, dando la palma all'Adelchi come opera di poesia, parlava di "oratoria" nel romanzo. Le più autorevoli, e tuttavia discutibili, obiezioni a un sostanziale paternalismo implicito nella simpatia manzoniana per le classi popolari vennero d'altra parte da Antonio Gramsci, il quale per sostenere la sua tesi abbozzò anche un confronto tra I promessi sposi e Guerra e pace. Di minor conto furono invece le riserve mosse dagli scapigliati lombardi, alla ricerca di una loro indipendenza d'artisti, e la sostanziale incomprensione di scrittori decadenti, quale il D'Annunzio, per una naturale avversione alla lucidità di stile e all'alto impegno morale del Manzoni. Ma anche i giudizi limitativi, valutati da una critica spassionata e filologicamente agguerrita, hanno giovato non poco a un'interpretazione dalla quale è stato escluso quel tanto di agiografico che si trova negli scritti dei cosiddetti manzoniani, e che riconosce nel grande scrittore lombardo l'iniziatore del realismo moderno in Italia e il suo insuperato maestro. Un utile panorama della controversia critica che ha accompagnato nel tempo l'opera manzoniana è in Manzoni. Pro e contro, curato da Giancarlo Vigorelli (1974). Ma negli ultimi anni la critica è andata molto avanti nell'analisi dei testi manzoniani e in particolare dei Promessi sposi (si ricordano i contributi e i commenti di Ettore Bonora, Lanfranco Caretti, Giovanni Getto, Giorgio Petrocchi). Una spinta ulteriore è venuta dal bicentenario della nascita che ha originato convegni, mostre e studi assolutamente non occasionali in chiave linguistico-strutturale (si segnalano quelli di Maurizio Vitale, Ezio Raimondi, Giovanni Macchia, Sergio Pautasso), con l'estensione ai commenti dati da Geno Pampaloni e da Ezio Raimondi- Luciano Bottoni; mentre sul piano biografico sono da indicare il contributo di Ferruccio Ulivi e le suggestive ricostruzioni romanzesche di Natalia Ginzburg, La famiglia Manzoni (1983), e di Mario Pomilio, Il Natale del 1833 (1983). Nella casa che fu abitata dal grande scrittore in via Morone a Milano ha sede attualmente il Centro di studi manzoniani, al quale si deve la raccolta di importanti cimeli e l'ordinamento di una ricca biblioteca specializzata. Sotto la direzione di Vigorelli, che presiede il Centro, è stata ripresa la pubblicazione degli Annali manzoniani (1990).

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