Vi servo io

 

 

     L’«Edipo a Colono»? No, no, meglio l’«Edipo a Casavatore»: suona anche bene, «Edipo a Casavatore». Il regista potrebbe Salvatore Piscicelli, lui queste cose le fa. Ma nemmeno a Piscicelli, probabilmente, verrebbe l’idea di utilizzare Tommaso Bianco, attore da sempre e da sempre piuttosto emarginato. E allora? E allora Tommaso Bianco si costruisce uno spettacolo tutto per sé, sale in palcoscenico da solo e impone al pubblico, distratto o abitudinario che sia, l’intero repertorio della sua carriera, della sua rabbia, dei suoi successi e delle sue delusioni.

     Ecco, in questa breve sequenza iniziale, che ovviamente  ha la funzione di un prologo, è riassunto il senso completo di «Vi servo io», la messinscena che – su testo di Antonio Scavone, musiche originali ed elaborazioni di Carmelo Columbro e Renato Piemontese e apporto alla scena e ai costumi di Bruno Garofalo – la Compagnia del Sancarluccio presenta fino a domenica 18 nell’omonimo teatrino di via San Pasquale. Del resto, già il titolo è più che esplicito: quel «Vi servo io» racchiude, insieme, narcisismo e perfidia, bisogno di comunicare e voglia di polemizzare, amore per il proprio mestiere e fastidio (o noia) per tutto quello e tutti quelli che lo mistificano e lo svendono. Direi che il testo di Scavone coglie sostanzialmente nel segno e non mancano, al riguardo, momenti addirittura preziosi. Faccio solo l’esempio dell’esecuzione di «So’ Bammenella ’e copp’’e Quartiere» di Viviani: le strofe sono cantate sulla traduzione in italiano del testo francese firmata da Viller, mentre il ritornello utilizza il dialetto napoletano di don Raffaele. E nelle prime Bianco interpreta il ruolo del magnaccia, nel secondo quello della prostituta. Giustissimo, perché – vi do un’informazione, che a me è stata regalata da Rosalia Maggio – tra «La valse brune» e la canzone che ne ricavò Viviani esiste una versione che parla di un «Bammeniello», vale a dire proprio di colui che nel gergo della malavita è lo sfruttatore di donne.

ENRICO FIORE, da Paese Sera del 4 aprile 1982

 

 

     Il ghiaccio lo ha rotto subito. Quel suo presentarsi al pubblico del Broletto, giovedì sera nell’ambito dell’Estate Novarese, come uno spettatore qualsiasi, quel suo accentuare notevolmente le distorsioni e gli ammiccamenti di un attore napoletano fatalmente relegato ai margini dei grandi circuiti commerciali: tutto ciò, ovviamente, rispecchiava una situazione che Tommaso Bianco ha voluto «ricostruire» emblematicamente. Il suo spettacolo, scritto da Antonio Scavone ed intitolato «Vi servo io», aveva il pregio di «aggredire» la napoletanità, di farne uno spaccato di storia degli inizi del secolo. Il protagonista era proprio l’attore sconfitto, da un impresario a un altro, da un teatro ad un altro, con il solito rifiuto che significa essenzialmente ridursi alla fame.

     Il dualismo teatro-pubblico, verità-finzione si è felicemente appuntato sulla scena (gustosissima) in cui l’attore squattrinato scopre che, per una curiosissima coincidenza, il pubblico esiste davvero, non è un’entità astratta e sta lì, in platea, silenzioso testimone della «sua» tragedia personale, che è quella della povera vita di un disoccupato.

     Nel secondo «quadro» Scavone ha reso il meglio del suo testo e Bianco lo ha arricchito con le sue indubbie doti di umanità. Questa ci è parsa la giusta sintesi dello spettacolo: quello stupore di scoprire (ma lo stupore è reciproco, anche il pubblico del Broletto lo ha provato) che la vera vita è una recita e che la recita coincide sempre con la verità.

RENZO S. CRIVELLI, da Corriere di Novara del 24 giugno 1982

 

 

     Il cielo e il mare di Napoli appaiono tiepidi e tenui nei colori del luminoso fondale di Bruno Garofalo che inquadra «Vi servo io», spettacolo in un prologo e tre quadri di Antonio Scavone sull’attore napoletano e con l’attore napoletano Tommaso Biancom in scena al Teatro Abeliano.

     Nel primo quadro siamo nel 1914 e l’attore di café-chantant Tommaso Tabbacchella, invece dell’agognata scrittura al Teatro Umberto I, trova la moglie Rusetta accoltellata e morente. Di qui fuga, cattura, processo, assoluzione, tardiva gloria artistica di Tabbacchella che mette addirittura in scena i suoi guai e smaschera sul palcoscnico il vero assassino, il perfido impresario Ciccio Sparano! Attraverso la tradizione della sceneggiata tardo-romantica è colta l’occasione per presentare numeri di café-chantant, dalla pantomima dell’uomo-gallina a canzoni famose come «Scugnizzo» di Capurro o «Valse brune» su cui Viviani adattò le parole di «Bammenella» in «Tuleto ’e notte». Il secondo quadro presenta un altro attore affamato, Tommaso Quagliarella, che nel 1947 reduce da trionfi «persino nelle Puglie», chiede invano scrittura all’eterno impresario, ma una volta ritrovato il pubblico, precipita fatalmente in uno sdilinquimento intestinale. Nel terzo quadro, siamo ai giorni nostri, il Tommaso di turno impreca contro i nuovi impresari (assessori, enti locali, ecc.) che imperversano a Napoli come altrove.

     «Vi servo io» è scritto da Scavone con fluidità e intelligenza scenica e trova poi nell’interprete la sua giusta misura.

PASQUALE BELLINI, da La Gazzetta del Mezzogiorno del 14 novembre 1982

 

 

     Nella parabola disegnata dall’accurato testo di Antonio Scavone, su gradevoli elaborazioni musicali di Carmelo Columbro e Renato Piemontese, Tommaso Bianco puntualizza stilisticamente l’attore napoletano tra farsa, melodramma, comico e grottesco in quelle stagioni del teatro che conoscono Tommaso Tabbacchella attore di tabarin, Tommaso Quagliarella avvilito dalla sorte, Tommaso Nero «sperimentatore teatrale» nell’assillo esistenziale d’oggi.

     Osservatelo in scena prendere l’abbrivio, il ritmo della corsa e cabrare nel secondo tempo. Brilla di «spettacolarità» in una scarna scena surreale, giostra tra l’affabulante cronaca e l’agile dicitura di ribalta, mima in grottesco una fetida realtà. Il pubblico s’è fatto prendere dalla sua voce piena che canta «Totonno ’e Quagliarella»: la fascinazione della «lingua» filtra attraverso le doti interpretative di Bianco come polvere d’oro dalle vene della tradizione.

                 Applausi calorosi e «Bravo!» al debutto, davanti al pubblico milanesissimo del Verdi.

VIVI FARNE’ GALLISAY, da Il Giorno del 14 gennaio 1983

 

 

     Non c’è forse attore più intimamente legato alle «pulsazioni» della propria città di quello napoletano. E nel dramma della sua solitudine, dovuta all’incapacità di liberarsi di un repertorio che, pur nella sua naturale carica espressiva, è ormai fiacco e stereotipato, si riflette l’ineluttabile declino di una Napoli dai mali antichi ed eterni.

     È l’amara conclusione cui arriva lo spettacolo di Antonio Scavone «Vi servo io», con Tommaso Bianco unico personaggio sul palcoscenico del Verdi: ideale parabola che, con l’ironia e la comicità del più genuino spirito partenopeo, ripercorre, dagli inizi del secolo ai nostri giorni, il «viaggio» dell’artista napoletano.

     In questa visione pessimistica, Tommaso Bianco spicca per un’eccezionale personalità scenica. L’attore esce vincitore dall’ardua sfida con questo lungo monologo che richiede una notevole sensibilità espressiva, riuscendo a mantenere con grande rigore la fedeltà storica e linguistica dei suoi personaggi. Il che, se va a scapito, soprattutto per la figura di Tabbacchella, di una piena comprensione del testo, dà al lavoro la natura di una vera operazione culturale.

     Soprattutto emerge, agli occhi di tutti, il coraggio di aver parlato francamente di una realtà teatrale che rischia di esportare soltanto sceneggiate.

ALESSANDRO CANNAVÒ, da il Giornale del 14 gennaio 1983

 

                    

 

 

 

Una notte d’Italia

 

 

     L’esistenza come viaggio, come passaggio sulla terra è antica metafora, ma la forza di Antonio Scavone è nel farla derivare naturalmente da un disegno iperrealista e, per molti versi, anche linguistici, mimetico: il meridionale d’oggi diventa l’esempio supremo di precarietà del vivere, in cui assieme si rispecchiano la società odierna, i suoi contrasti, il suo sradicamento, quell’«armonia perduta» di Napoli di un recente libro di Raffaele La Capria, sul sogno irrealizzato, infranto di una città e un popolo.

     «Una notte d’Italia», come si intitola questo monologo, ha la vitalità e la dialettica di un testo drammatico articolato, e va quindi intesa nel provocatorio ribaltamento del discorso di La Capria, perché dalla realtà questo personaggio, Giaquinto Aquino, precario anche nella sua posizione di insegnante di latino nella scuola superiore, passa al sogno.

     Spaccone e vittima, malinconico e rabbioso, alla ricerca di un gesto che lo faccia sentire protagonista senza la forza di esserlo davvero, vive tutto nel testo di Scavone e nell’interpretazione asciutta, senza coloriture anche nei momenti in napoletano, di Carlo di Majo, che ne rende anche l’impaccio fisico e popola di invisibili, concreti interlocutori la scena.

     La regìa di Francesco De Felice punta tutto su un girevole diviso da una parete di carrozza ferroviaria con porta e finestrino, che ora presenta l’interno, ora l’esterno del vagone. Un piccolo spettacolo di vero teatro d’autore e di testo, a confermare vitalità e povertà di questo genere di spettacolo.

paolo petroni, dal Corriere della Sera del 21 dicembre 1988

 

 

     C’è un nome da aggiungere alla piccola costellazione di autori (Enzo Moscato, Manlio Santanelli, il compianto Annibale Ruccello, a voler ricordare i più noti) per i quali si è parlato di una drammaturgia partenopea «dopo Eduardo». Diciamo di Antonio Scavone, classe 1947, presente in questi giorni sulla ribalta del Politecnico con Una notte d’Italia, testo per attore solo, congenialmente interpretato da Carlo di Majo. Qualche lavoro inedito dello stesso commediografo, venutoci tra le mani, conforta la nostra buona impressione.

     Più che monologare, il protagonista di Una notte d’Italia dialoga con se stesso, o con interlocutori invisibili, dei quali non udiamo le repliche, se non per eccezione. Eppure la sua solitudine, il suo straparlare, ai limiti del vaniloquio, del delirio verbale, ci risultano affollati di presenze vere, non di fantasmi. C’è insomma, nei deliri esistenziali e sociali del giovane personaggio, un riflesso ampio e articolato della Napoli, dell’Italia di oggi, di una «notte» forse più grigia che nera, ma non per ciò meno buia.

     La scrittura di Scavone è in lingua, ma con cadenze dialettali e sparse frasi in vernacolo (nonché azzeccatissime citazioni latine). Espressiva, comunque, e tutta teatrale, nell’intensa mediazione di Carlo di Majo, guidato discretamente dalla regìa di Francesco De Felice. L’impianto scenico iperrealistico (uno «spezzato» che, posto su un girevole, mostra volta per volta l’interno e l’esterno del vagone) accresce merito a uno spettacolo in miniatura, assai più degno d’interesse di tanti allestimenti miliardari.

aggeo savioli, da l’Unità del 26 novembre 1988

 

 

     Il cinema ha alleggerito il teatro di molta parte vistosa dello spettacolo, e io credo che sbagli il teatro quando vuole competere con il cinema su questo terreno. Ma il teatro ha qualcosa di insostituibile, chiamiamola cellula germinale, o cellula dialettica, che consiste nel rapporto primario tra autore e personaggio, inteso quest’ultimo non come fantoccio da laboratorio, ma come doppio dell’autore e suo opposto.

     Queste idee, che possono sembrare soltanto teoriche, e non sono, hanno una inaspettata quanto gradita conferma al Politecnico, nell’atto unico «Una notte d’Italia» di Antonio Scavone: unico atto, unica scena, unico personaggio. Senonché mentre il monologo è sempre più frequente sui nostri palcoscenici, a dimostrare una disperata ricerca di risparmi, stante i bislacchi criteri con cui è somministrato il denaro pubblico, con vantaggio dei grandi e sacrificio dei piccoli, questa volta il monologo non potrebbe avere dimensioni diverse, perché intimo è il discorso che contiene, in una scena che più espressivamente elementare non potrebbe essere: la sagoma di uno scompartimento ferroviario ancorata ad un girevole, che ora mostra l’esterno del vagone, ora, sull’altra faccia, l’interno.

     Il personaggio è quello di un giovane professore napoletano, un vero precario, che si lascia convincere dagli amici a partire in comitiva per Milano, a veder giocare la squadra del Napoli. Quando lo spettacolo ha inizio, i giochi sono fatti: il Napoli ha perduto, la comitiva s’è sbandata e il professorino ha un posto di seconda per il ritorno a Napoli. E qui, in un clima di ritirata, si percorrono due terzi d’Italia, sempre più a sud, come un anatomista percorre il tracciato, sempre più dolente, di un nervo: dolore prima dovuto al paragone con un’Italia prospera, che si coniuga con il bruciore della sconfitta, e poi, via via che si scende, a un malessere vago ma crescente, finché la dolenzia del nervo inquisito porta a un sopore anestetico, quasi a un sonno di fuga. Sicché il giovane precario sente e non sente d’essere arrivato a Napoli, ma non ha la forza e forse il coraggio di scendere e lascia che il treno riparta verso Reggio Calabria. Interpreta il giovane precario Carlo di Majo con una semplicità, una sofferenza e uno scoramento, che racchiudono in un fatto personale tanta storia d’Italia. È difficile vedere in un personaggio un così attendibile «doppio» dell’autore. Interesse, successo e ripetuti applausi.

GIORGIO PROSPERI, da Il Tempo del 30 novembre 1988

 

 

     Violenza negli stadi e flussi di coscienza, monologhi interiori sulla via del ritorno a casa. Un ritorno lungo perché il rpotagonista di Una notte d’Italia ha seguìto la sua squadra, il Napoli, in trasferta al nord sul campo del Milan.

     E lì ha perso nella baraonda scatenata degli ultras sugli spalti i compagni di viaggio. Così tra interminabili soste, coincidenze mancate, attese notturne su e giù dal vagone ha tutto il tempo di ripensare alla sua vita agra di insegnante liceale precario per eccellenza, agli amici lontani e alla moglie con la quale il dialogo familiare rantola, intervallando ed epigrammando, con citazioni latine dell’amato Catullo e di Ovidio. Una parete di scompartimento su una pedana girevole offre spaccati dell’esterno e dell’interno del vagone con le poltrone vicino al finestrino di taglio molto realistico, quasi cinematografico.

     Ma Una notte d’Italia di Antonio Scavone, messa in scena al Politecnico con la regìa di Francesco De Felice, ha il tono, il timbro letterario di una vaneggiamento solitario, di un passaggio attraverso l’irrealtà. Carlo di  Majo dà al suo personaggio il calco di un trentenne precocemente invecchiato, l’immagine di un Sud opaco, umiliato e offeso, senza frange di folclore e di colore, riuscendo tuttavia a convincerci ugualmente che, magari con la spinta traumatica di una trasferta sportiva, a Napoli la vita più che altrove è sogno.

NICO GARRONE, da la Repubblica del 29 novembre 1988

           

                    

           

 

 

Acchinson

 

 

 

     Che le barberìe lindamente neutre potessero erigersi a luoghi della mente, lo ipotizzano due autori fra loro lontanissimi che, casualmente, si sono espressi nello stesso momento. L’uno, il francese Leconte, lo dice col film «Il marito della parrucchiera», l’altro, il napoletano Antonio Scavone, lo drammatizza, lo rende teatro simbolico con la storia di Luigi Cavaliere detto Acchinson, di professione barbiere ovvero pensatore solitario e alchimista.

     Realizzato con scrupolosa capacità d’ascolto alle parole del testo dalla regista Maddalena Fallucchi, «Acchinson», che ha appena debuttato al Teatro Politecnico di Roma, mette in scena un inquieto ondeggiare della coscienza. Acchinson, un intenso e asciutto Carlo di Majo, perde docilmente il senso del reale e parla agli spettri dentro di sé. In uno slancio estatico si confessa, ricorda, s’infuria, in cerca di un pensiero puro, immortale:«Non basta essere, ma bisogna essere fino alla fine». In questo sottrarsi felice e necessario della volontà, Acchinson ritrova, proprio perché straniero, estraneo – è ritornato a Gaeta dopo due anni trascorsi in Inghilterra – la sua essenza, in breve la consapevolezza.

     Che però, attenzione, bisogna mantenere fino alla fine, come dice in quella sorta di veglia funebre che chiude lo spettacolo: ai piedi di un morto, quello che fu il suo unico cliente, il cavaliere muto, il doppio saggio e silenzioso di Acchinson. Buone le prove anche degli altri attori: il felpato e misterioso Nino D’Agata, l’estroverso Bruno Conti e Maria Libera Ranaudo.

KATIA IPPASO, dal Roma del 1° maggio 1991

 

           

     Dov’era un’autorimessa, agisce da una ventina d’anni un teatrino sperimentale battezzato, «alla lombarda», Politecnico. Lo conduce attualmente Mario Prosperi, figlio d’arte perché il padre è l’illustre critico e commediografo Giorgio Prosperi, e drammaturgo egli stesso. Sentivo ripetere che in quel teatrino nascosto in fondo a un cortile di via Tiepolo si portava avanti una ricerca controcorrente, in linea da un lato con i famosi scantinati romani anni Sessanta, e dall’altro, sostenuta da un rigore culturale e da un impegno professionale non sempre evidenti nell’off.

     L’occasione per colmare la lacuna mi è stata fornita dalla presentazione di una novità di Antonio Scavone, narratore e drammaturgo emergente della nuova scuola di Napoli, di cui avevo letto e apprezzato «Ricognizione assoluta», una ricostruzione teatrale degli ultimi giorni di vita del matematico napoletano, suicida, Renato Caccioppoli,  pièce alla quale è andato il primo premio del concorso «Teatro e Scienza» promosso dall’amministrazione di Manerba del Garda.

     «Acchinson» - questo il titolo della novità di Scavone – è la storia di un barbiere napoletano – Luigi Cavaliere, detto Acchinson per via di un suo soggiorno a Londra di cui favoleggia volentieri – che cerca di sollevarsi dal grigiore dell’esistenza quotidiana rifugiandosi in un immaginario sconfinante in un donchisciottismo patetico.

     Acchinson dialoga con un manichino sprofondato in una poltrona della misera botteguccia (con un cliente di riguardo muto per l’occlusione delle corde vocali) o con fantasmatici personaggi non si sa se reali o inventati: la moglie, la cocottina di periferia Giustina e il fidanzato di questa, un bulletto di nome Nando. In questo quasi monologo di robusta fattura, il «macchiettismo» del personaggio si riscatta però nelle zone alte della satira e dell’assurdo. Se i riferimenti iniziali possono essere Viviani o Eduardo – come accade per altri autori napoletani contemporanei, vedi Santanelli – si affacciano poi altri modelli, diciamo Gogol, Adamov, Ionesco e, per restare in casa, Zavattini.

     L’humour di Scavone, in altri termini, muove dalla convenzione di un Figaro da strapazzo, che canticchia le arie del “Barbiere di Siviglia”, e approda alla ben altrimenti impegnativa descrizione delle ribellioni – non meno drammatiche per essere risibili – di un pover’uomo che si sente prigioniero dei mediocri, nefasti condizionamenti della vita di tutti i giorni. Sicché la farsa si colora di inquietudini metafisiche, anche per l’apparire in scena di un ottuso, puntiglioso brigadiere che rinvia ai poliziotti-inquisitori di Ionesco; e si conclude in melodrammatica tragedia.

     Con la sua magrezza e la sua spigolosità gestuale, Carlo di Majo è Acchinson: interpretazione ricca di effetti, ma da affinare. La sobrietà espressiva di Nino D’Agata dà rilievo alla figura del Brigadiere; Bruno Conti è il ragazzo di borgata Nando con selvatica stupidità, nella parte della moglie e di Giustina la Ranaudo si fa perdonare con la sua freschezza una residua inesperienza. Maddalena Fallucchi, giovane regista dotata di inventiva e cultura, usa al meglio i mezzi di cui dispone (e che sono limitati: il giovane teatro coniuga libertà e povertà), imprimendo al tutto un’espressività in grottesco. Pubblico partecipe, applausi.

UGO RONFANI, da Il Giorno del 6 maggio 1991

 

 

     Di Scavone si è visto rappresentato quel Regolamento interno che, nell’89, ha vinto il Premio Fava, mentre è recente la pubblicazione, sulla rivista Hystrio, d’un testo notevolissimo, Ricognizione assoluta, proclamato il migliore tra quelli proposti all’impegnativo concorso «Teatro e Scienza». E qui, nella sala romana del Politecnico, avevamo pure apprezzato, qualche anno addietro, il singolare monologo Una notte d’Italia, interpretato dallo stesso Carlo di Majo che è ora il protagonista di Acchinson.

     Il titolo corrisponde al nomignolo di questo Luigi, barbiere di Napoli, che hatrascorso qualche tempo a Londra, e ora si è ridotto a vivere tra il luogo natìo e l’irraggiungibile Roma: ma la sua clientela sembra scomparsa, a eccezione di un anziano signore, privato della parola da una grave malattia, e tuttavia presenza insidiosa, ancorché muta, nella squallida botteguccia del nostro personaggio. Il quale è pure visitatoda altre apparizioni, vuoi concrete, vuoi spettrali: una moglie tradita e in fuga, una ragazza «facile» incinta (forse) di lui, un amico molto infido, un poliziotto che indaga sui traffici di droga (e che potrebbe essere il «doppio» del policeman con cui ebbe a che fare oltre Manica)… Ma al di là o al di sopra dei fatti, a delinearsi è il ritratto di un uomo «fuori», estraneo più che ostile alla società, e anche a se stesso, tormentato da interrogativi esistenziali, sproporzionati per eccesso a una cultura raffazzonata o istintuale. Di tale angosciosa identità è specchio il suo linguaggio, misto diitaliano, di dialetto, di quell’inglese approssimativo imparato alla men peggio nel soggiorno londinese.

     Non a torto, a proposito di Acchinson, qualcuno ha evocato la figura di Woyzeck, il povero soldato-barbiere del dramma di Büchner («Correte per il mondo come un rasoio aperto, ci si taglia con voi» dice a Woyzeck il Capitano, uno dei suoi torturatori). Ma s’intende che è ben di oggi, italiana e napoletana, la realtà alla quale l’autore si richiama. L’allestimento del lavoro di Scavone, per mano di Maddalena Fallucchi, è accurato e partecipe. Eccellente la prestazione del già ricordato Carlo di Majo, impegnato alla ribalta senza tregua, per circa un’ora e un quarto.

AGGEO SAVIOLI, da l’Unità del 13 maggio 1991

 

 

     Ci sono un po’ tutti i trucchi e le metafore del grande teatro in quest’ultimo lavoro complesso e intrigante di Antonio Scavone, ormai pluripremiato, quarantacinquenne nome nuovo delle nostre scene. Ci sono il problema del doppio, il colloquio con se stesso, lo scontro tra realtà e dimensione di sogno, morti che appaiono come vivi, mascherate, ignoti inquisitori e colpe misteriose, senza dimenticare una venatura gialla.

     Un testo difficile, quindi, sempre in bilico tra dimensioni diverse, che tende a dilatarsi nella sua problematica interiorità con qualche difficoltà finale a chiarirla, ma che pure mostra un autore teatrale di razza, che va affinandosi e trovando le proprie qualità anche col puntare in alto come in questo caso.

     Siamo nella bottega di un barbiere dove il proprietario è alle prese con un cliente muto (un manichino) che presto si rivelerà una parte di sé, se viene appellato cavaliere e il nome del nostro protagonista è Luigi Cavaliere, detto però Acchinson, come l’acqua di colonia inglese.

     C’è la tragedia vestita da commedia e c’è il melodramma, c’è la poesia degli incontri con la moglie evocata, delle piume di un boa di struzzo o dei soldi che volano in aria come in tutti i sogni teatrali,c’è l’acrimonia dell’uomo deluso, l’impennata e assieme la filosofia spicciola, personale e trasgressiva di chi portesta e si ribella. Carlo di Majo, nei difficili panni del protagonista, rivela un impegno lodevole e riesce a mostrare umori e pause, tic e dolcezze apprezzabili, con un sorriso ironico capace di spegnersi e accendersi al momento giusto. Attorno a lui, il bulletto ambiguo di Bruno Conti e la ragazza di Maria Libera Ranaudo, che sostiene con la leggerezza dovuta anche il ruolo della moglie, mentre Nino D’Agata è il sobrio agente della Finanza.

PAOLO PETRONI, dal Corriere della Sera del 25 maggio 1991

 

                   

 

 

 

La drammaturgia

 

 

     Autore “impegnato” potrebbe definirsi Antonio Scavone. Di lui abbiamo visto di recente al Teatro Nuovo Regolamento interno , storia dolorosa di una testimone in un processo di ’ndrangheta. Con questa pièce Scavone ha vinto nell’89 il Premio «Giuseppe Fava» intitolato al giornalista siciliano ucciso dalla mafia. Antonio Scavone rimane un convinto assertore della necessità che gli autori aderiscano alla realtà in cui vivono e che, al di là della paura di certe formule – si pensi all’intellettuale organico gramsciano -, cerchino di cogliere i fermenti, le pulsioni e i conflitti che la agitano per restituirli in una visione filtrata del giudizio critico, espresso tuttavia nel linguaggio proprio della scrittura drammaturgica.

     Lo scorso anno gli è stato assegnato il Premio “Teatro e Scienza” per Ricognizione assoluta, in cui vengono ricostruite le due ultime giornate di vita del matematico partenopeo Renato Caccioppoli, figura di artista maledetto, di scienziato pazzo, che rappresenta quella che era l’intellighentsia napoletana degli anni Cinquanta in cui si generò quel flusso migratorio per cui intellettuali coma La Capria, Patroni Griffi, Rosi e Ghirelli abbandonarono Napoli. Caccioppoli, invece, restòe continuò a lavorare nella sua città. Per Scavone, infatti, non serve rimpiangere “l’armonia perduta”, al contrario il compito di uno scrittore oggi, soprattutto meridionale, dovrebbe essere quello di ri-costruire, ri-creare il passato, ma senza nostalgìa, con un atteggiamento sentimentale e accorato ma contemporaneamente lucido, preciso. I suoi personaggi si aggirano quasi smarriti nel deserto dell’esistenza, non sorretti da nessuna utopia, consapevoli di un irreversibile disgregamento di valori e di ideologie rassicuranti.

     Una drammaturgia coraggiosa, dunque, quella di Scavone perché nasce da una sofferta meditazione, orami démodée, sulle brutture, le viltà, le reticenze, gli egoismi del vivere sociale.

SILVANA MATARAZZO, da enne del 31 marzo 1991

 

                    

 

 

 

Regolamento interno

 

 

 

     Irene, 45 anni, proprietaria di un negozio a Latina, vedova con un figlio di 20 anni, ha assistito ad una spietata e usuale esecuzione mafiosa, unica testimone di un evento che finirà per schiacciarla in un conflitto interiore insuperabile. Irene vive la drammatica divaricazione di una coscienza sfrangiata tra richiami morali e tenere reminiscenze sentimentali, mentre un’assistente sociale, un ex giudice, un prete e un professore implicato nel delitto, ricamano un agghiacciante ipocrita minuetto della giustizia.

     È quanto accade in «Regolamento interno», l’interessante testo di Antonio Scavone, calibrato con estrema puntualità drammaturgica nell’evoluzione frammentaria delle scene e risolto nell’incisiva fluidità di un linguaggio che lungi dal ripiegarsi su se stesso, si irradia dal nucleo centrale della narrazione procedendo verso angolazioni morali di diversa lettura in cui la soluzione finale non viene confezionata con premeditata, scolorita convinzione politica, ma consegnata all’intuito dello spettatore con delicata e pudica misura.

     Vincitore del Premio Fava 1989, il testo di Scavone è ora in scena al Teatro Nuovo di Napoli nell’allestimento e produzione del Teatro Libero di Palermo in collaborazione con l’Istituto del Dramma Italiano. Calorosi alla prima gli applausi finali.

RUGGERO CAPPUCCIO, da Il Giornale di Napoli dell’8 marzo 1991

 

 

     «Regolamento interno» di Antonio Scavone, testo teatrale cui l’anno scorso fu attribuito il Premio Giuseppe Fava, illustra in scene da oratorio laico, più in sintesi e forse più in sordina che nella letteratura dell’omertà “eccellente” di Sciascia, il tentativo di neutralizzare una testimonianza scomoda, una deposizione che sta per far clamore in tribunale in merito a un crimine di stampo mafioso. È prosa d’impegno, questa, ma che rifugge dal documentarismo puro e semplice, così come neanche viene concertato, nell’allestimento di Beno Mazzone per il Teatro Libero di Palermo, il facsimile di certi spettacoli-verità.

     Lo spettacolo vuole porsi come enigma inconfessabile ma netto nella meccanica dei ruoli, delle strategie, dei fili tortuosi della psicologia. In una sorta di affidamento “religioso”, di confino di sicurezza nei meandri di una badia, c’è la non resistibile ascesa alla giustizia da parte di Irene, la testimone; c’è la presenza minatoria di un professore-onorevole, la mediazione al compromesso esercitata da un giudice che fa l’avvocato, l’irrequieto e spontaneo filtro rappresentato da un’assistente sociale e c’è l’ipocrisia incensurata del prete.

     Il teorema di questo «Regolamento interno» è in effetti una scrittura-contro, con limpidezza di allusioni e talora con una sua poetica universale dello scandalo, degli idealismi contaminabili. L’azione è una contenzione in un poliedro di legni ingabbiatori, dove le sequenze partono per zone-luce nell’ombra di una totalità repressiva, mentre poi va delineandosi un recinto eliotiano, un cosmo ermetico e persecutorio della parola concepito dal regista Beno Mazzone e da Margherita Gonzales. Lia Chiappara impersona Irene, la donna contro la mafia, la perdente annunciata. Lavorano con lei, nello stile calmo di un oltraggio che assorbe tutto, Renzo Morselli, Achille Belletti, Danila Laguardia, Roberto Burgio e Serafino Giacone.     

RODOLFO DI GIAMMARCO, da la Repubblica del 13 aprile 1990

 

 

     Prelevando dalla cronaca il caso di una supertestimone indotta a ritrattare nel secondo grado del processo, l’autore evita ogni andamento di «teatro didattico» ed anzi pare spostare l’attenzione al groviglio psicologico dei personaggi che consumano la sottile opera di intimidazione e della stessa «antieroina»; ma pervenendo, attraverso questa ellittica orbita attorno al problema, persino ad una sorta di pessimismo radicale, egli ottiene, con effetto per noi non sorprendente, una nuda eloquenza che alimenta proprio lo scatto dell’indignazione civile.

     Beno Mazzone, mettendo in scena Regolamento interno per il suo Teatro Libero ha ideato assieme a Margherita Gonzales una lignea scenografia che stilizzando chiostri ed ambulacri è anche gabbia, trappola, stanza della tortura. Consapevole forse dell’unica insidia del testo di Scavone, che sovraccarica per esempio la madre del peso di una narrazione tra «epicizzante» e psicologico-memoriale, il regista ha dinamizzato lo spettacolo servendosi delle luci come modulazione degli «stacchi», con una serie di accorgimenti quasi filmici, ma sempre al servizio di una metaforizzazione teatrale. I costumi erano firmati da Roberto Barraja e giocavano con monocromatismo voluto e ricercata uniformità su grigie opacità.

GAETANO CAPONETTO, da La Sicilia del 26 marzo 1990

 

 

     Non sono poi molti i nuovi testi teatrali italiani (fra quanti riescono ad arrivare alla ribalta) che affrontino certi temi di stretta attualità. E che lo facciano, tuttavia, sforzandosi di non rimanere alla superficie dei fenomeni, delle «apparenze» crudeli e sanguinose, che quasi ogni giorno ci bombardano dai titoli dei quotidiani e dalle immagini trasmesse sugli schermi televisivi. Qui, in Regolamento interno di Antonio Scavone, si tratta di una testimone, o supertestimone, d’un delitto di mafia e dei motivi per i quali ella deciderà, alla vigilia del processo, di «tirarsi indietro», o meglio, come dice lei stessa, di «chiamarsi fuori». La tragica e più che sospetta morte dell’unico giovane figlio (la donna è vedova da tempo) non la spingerà infatti ad atteggiarsi da eroina, o comunque da vindice. Al contrario, ella penserà solo a salvare, scegliendo il silenzio, quel che resta della sua vita grigia e anonima, ormai deserta di affetti.

     Una tale soluzione (che sarebbe piaciuta, crediamo, a Brecht, e una volta tanto il termine di «Madre Coraggio», giornalmente equivocato, potrebbe applicarsi nel suo senso vero) non costituisce, dopo tutto, un colpo di scena; ma, semmai, un salto di qualità, che si produce al culmine delle pressioni e intimidazioni e ambigue premure.

     Scritto in un lunguaggio secco e disadorno, ma di notevole efficacia scenica, Regolamento interno è stato allestito da Beno Mazzone con cura ed impegno. Forse, concorrendo l’apporto di più istituzioni pubbliche, si sarebbe potuto irrobustire la struttura della compagnia chepur generosamente prodiga nello spettacolo, a cominciare da Lia Chiappara, interprete principale, le sue energie. Platea affollata e calda, alla «prima» romana.

AGGEO SAVIOLI, da l’Unità del 30 marzo 1990

 

 

      Il regolamento interno, nel caso richiamato, rappresenta la norma di attuazione della ferrea legge di Cosa nostra: la disposizione cioè che fornisce il potere politico-mafioso di una valida burocrazia atta a mantenere il cittadino nella linea del potere. Se una donna s’è trovata ad assistere all’assassinio di un giudice e decide di deporre al processo facendo i nomi di coloro che ha visto o che sa immischiati nella vicenda, regolamento vuole che la si accudisca, che le si garantisca la sicurezza, mobilitando preti e assistenti sociali, avvocati ed ex-giudici e tutti, “affettuosamente”, a sconsigliarle una testimonianza, mentre il figlio morirà in conseguenza di un lievissimo e forse presunto incidente d’auto.

     “Regolamento interno” di Antonio Scavone è visto dunque come ossessione e ricatto, visualizzato in un geometrico labirinto da Beno Mazzone regista (e scenografo assieme a Margherita Gonzales). Lia Chiappara vive il dramma della protagonista con passione e dolore.

DOMENICO DANZUSO, da La Sicilia del 14 marzo1991

 

 

     La gabbia dove si svolge tutta la storia di “Regolamento interno” potrebbe essere proprio un serraglio di boss e manovali del crimine. Del resto, è facile stabilire l’equazione pensando all’opera con cui Antonio Scavone vinse il Premio Fava: come in una tragedia greca, i morti non vengono mai mostrati e, come accadeva fra gli Atridi, è il pianto delle madria rivelare che una vita è stata spezzata. Le lacrime scuotono una donna di Sicilia che non veste i panni usurati della matriarca o della prefica o della guardiana dell’onore. Irene Tignaneo, ovvero Lia Chiappara, ha assistito alla rapida mattanza di un magistrato e, incredibilmente, è pronta a raccontarlo.

     La punizione per chi chiacchiera su omicidi e sgarri prevede la morte e quando la furia colpisce, bersagliando un figlio se manca il colpo sul genitore, l’impegno civile può squagliarsi nel dolore senza rimedio. Reagire alla ferocia del meccanismo, strapparne i fili inzuppati di sangue, diventa l’appello neanche troppo sotterraneo dello spettacolo. Impegno edificante a cui il gruppo completato da Danila Laguardia, Roberto Burgio, Renzo Morselli, Pino Romano e Filippo Marsala si applica con la dedizione e la linearità dei buoni maestri, quelli che sacrificano alla facile comprensione ogni preziosismo.

ANGELO PORRU, da La Nuova del 24 febbraio 1991