Circolare n° 137
Altro che Chiesa contro la scienza!
Secondo Sentiero

Dopo ‘Il Codice da Vinci’, che s’incentra sulla negazione della storicità dei Vangeli, il recente film ‘Angeli e demoni’, tratto dall’omonimo romanzo di Dan Brown, lancia il messaggio di una Chiesa perennemente ostile al progresso scientifico-tecnologico. E’ davvero così? Assolutamente no. Anzi: senza il Cristianesimo l’Occidente non sarebbe stato l’Occidente. Vediamo perché.

 

C’é un fatto che non può essere negato e da cui dobbiamo necessariamente partire: la planetarizzazione del mondo é iniziata dal bacino del Mediterraneo.

E’ questo un fatto senza spiegazioni?  E’ difficile che nella storia si possano verificare avvenimenti senza cause.

Partiamo, dunque, da questo interrogativo: perché il progresso scientifico e tecnologico é partito dal bacino del Mediterraneo? La risposta non é difficile. E’ il Cristianesimo,soprattutto con il suo mistero dell’Incarnazione, a rendere il Mediterraneo culla di civiltà per il mondo intero.

Nella cultura cristiana, per una specifica antropologia e per il mistero dell'Incarnazione, é assente la demonizzazione del corpo e delle realtà materiali. E la tecnologia é quella manifestazione dell’umano per il miglioramento delle condizioni materiali di vita. La scienza é una conoscenza organizzata, una relazione fra concetti. La tecnica, invece, l'esito pratico che si dà alla conoscenza scientifica intervenendo sugli oggetti, sulla realtà.

 

Positività del creato e centralità dell’uomo

Il mistero dell’Incarnazione va ad inserirsi su un’antropologia -che é già quella dell’Ebraismo- che valorizza l’individualità e soprattutto l’unitarietà dell’individuo. Il “Dio disse e il “Dio vide che era cosa buona del libro del Genesi evidenziano la volontarietà del gesto creatore, in contrapposizione a visioni gnostiche -diffuse in quel tempo soprattutto nelle culture pagane- ove la nascita del mondo e delle realtà corporali figurano come conseguenze di una caduta, di un gesto non voluto da parte di Dio. 

Questa antropologia biblica non si limita a valorizzare la positività del creato, ma anche la centralità dell’uomo all’interno della creazione...“E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza,(...) ”(Genesi 1)...e quindi la legittimità dell’uomo di dominare la natura, di servirsi della natura... “e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra.”(Genesi 1)

Dopo il peccato originale, servirsi della natura vuol dire anche ripararla. Rendere, cioè, la natura più “amica” dell’uomo, proprio perché il peccato originale ha leso le leggi della natura stessa. Da tutto questo si comprende nel Cristianesimo tanto la legittimità quanto la necessità morale della tecnica. E’ doveroso applicare la propria intelligenza sulla natura al fine di migliorare le proprie condizioni materiali di vita.

 

La logica realista

e la teologia naturale come “genitori” della tecnica

A questo poi deve aggiungersi che nel pensiero cristiano l’accettazione di una logica realista -per esempio il principio di non contraddizione- e quindi il riconoscimento dell’oggettività della verità, rendono possibile -e di molto!- l’indagine scientifica.

La scienza si sviluppa, dopo secoli di tentativi falliti delle prime civiltà, all’interno di una cultura -quella cristiana appunto- convinta che la ragione umana -attraverso il metodo analogico- sia capace di cogliere nel creato l’esistenza e la presenza del creatore. Afferma l’astronomo Jaki nel suo Dio e i cosmologi: “(Il cristianesimo, introducendo la distinzione fra) il soprannaturale e il naturale (in luogo della distinzione fra) le regioni celesti e quelle terrestri (propria di tutti i paganesimi), permise (...) di considerare le regioni celesti allo stesso livello del resto, e quindi governate dalle stesse leggi. (...E’ questa fede) la più grande fortuna della scienza (...). (Essa, fondata in) Cristo, come unico Figlio generato in cui il Padre creò tutto, (cioè) su un evento che certamente si qualifica come l’esatto contrario dell’inevitabilità, (rende conto) dello sviluppo del tutto inaspettato, per cui un sottoprodotto che si potrebbe presumere accidentale di cieche forze materiali ha una mente che gli permette di avere la padronanza intellettuale del cosmo.

 Tutto il pensiero filosofico cristiano volge al superamento del mutevole per giungere a ciò che é immutabile. Friedrich Nietzsche, maledicendo la scienza, dà a riguardo una testimonianza importante. Contestando l'idea di scienza così come in Occidente si é sviluppata, il filosofo tedesco ammette che questa non é lontana dall'ideale ascetico del Cristianesimo; ideale attento all'oggettività della verità. Egli scrive polemicamente ne La gaia scienza: “Papa Leone X ha cantato un giorno (...) la lode della scienza: la descrive come l’ornamento più bello e l’orgoglio più grande della nostra vita, come una nobile occupazione nella felicità e nella disgrazia; (...).” E Karl Jaspers definì come prospettiva tipicamente cattolica il riconoscimento della verità oggettiva e quindi il metodo scientifico, il quale non può prescindere da tale oggettività.

 

Il Dio che si fa uomo santifica la dimensione terrena

Ma é con il mistero dell’Incarnazione che il senso della tecnica trova pieno diritto di cittadinanza nel discorso antropologico. Dio si fa uomo e viene a santificare la dimensione terrena, viene a sottolineare come la salvezza la si realizzi già su questa terra. Per cui la dimensione terrena non é una realtà da fuggire, ma da migliorare. Non é una realtà da rinnegare, ma da abbracciare. Non é una realtà da demolire, ma da restaurare.

Il Cristianesimo é certo una religione proiettata verso l’esito escatologico, ma non per questo disattento all’hic et nunc. Il continuo ricordare le verità ultime non deve -anzi!- impedire al Cristiano di dimenticare le sue condizioni attuali di vita. “Certo, -scrive la Gaudium et Spes- siamo avvertiti che niente giova all’uomo se guadagna il mondo intero ma perde se stesso. Tuttavia, l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente (...). Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso é di grande importanza per il Regno di Dio. (...) I cristiani (...) non si sognano (...) di contrapporre i prodotti dell’ingegno e della potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del creatore; al contrario, piuttosto, essi sono persuasi che le vittorie dell’umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. E quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità sia individuale che collettiva. Da ciò si vede come il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall’incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più stringente.

Se già l’Ebraismo costituisce un elemento importante di valorizzazione dell’individuo -proprio grazie alla sua visione dell’uomo come realtà voluta da Dio in spirito e corpo -a maggior ragione il Cristianesimo, ove la natura umana, corporale, tanto non costituisce elemento negativo, da esser stata addirittura assunta da Dio stesso. “Se la carne non dovesse essere salvata, scrive Sant’Ireneo nel suo Adversu haereses- in nessun modo il Verbo di Dio si sarebbe fatto carne.

Il corpo va aiutato nelle condizioni in cui si trova a vivere. Il Cristianesimo legittima la tecnica e, in un certo qual modo, obbliga moralmente ad essa.

 

La tecnica come via di santificazione

Addirittura questa prospettiva tecnica diventa anche una via di santificazione personale.

A differenza di altre culture, nel Cristianesimo, essendo l’uomo spirito e corpo, non ci si può santificare incrociando le braccia. E’ rifiutata una salvezza ridotta esclusivamente alla dimensione contemplativo-estatica. La regola benedettina, con il suo ora et labora, costituisce non solo il modo di essere della vita monastica occidentale, ma lo stesso atteggiamento dell’uomo occidentale-cristiano: si comunica con Dio non solo attraverso la preghiera, ma anche attraverso il lavoro, attraverso il modo di essere dinamico dell’uomo. Scrive lo storico Volpe: “(...)in Occidente, (il monachesimo) fu attivo, pratico, animato da un gagliardo spirito di proselitismo, fornito di mirabile virtù organizzatrice (...) accolse uomini di ogni temperamento e attitudine e cercò sì, pace e tranquillità, ma anche si volse al lavoro dei campi, al dissodamento e ripopolamento di luoghi abbandonati e incolti alla predicazione, all’attività sociale. (...)san Benedetto di Norcia (+543) (...) detta (...) una ‘regola’ (non solo ascetica ma) anche intellettualmente e manualmente operosa. L’ozio é bandito come un nemico; il lavoro, nelle sue varie forme, raccomandato, anzi imposto, per il suo valore morale.” Ecco ciò che dice direttamente san Benedetto nella sua Regola: “L’ozio è nemico dell’anima; e quindi i fratelli devono in alcune determinate ore occuparsi nel lavoro manuale, e in altre ore, anch’esse ben fissate, nello studio delle cose divine”.

E il monachesimo, perché fa proprio il senso integrale del Cristianesimo e del mistero dell'Incarnazione, sensibilizza l'uomo alla tecnica. Nel XII secolo, se un povero contadino vuole imparare ad usare l’aratro o a difendersi da una pestilenza, va senz’altro dai monaci, perché la loro vita é tutto all'insegna della concretezza. Un antico detto monastico dice che un monaco impara più dagli alberi che dai libri!

 

La vita terrena

come anticipazione della beatitudine eterna

Indubbiamente alla base della cultura occidentale, che partorisce dal suo grembo scienza e tecnologia, vi é un’istanza di gioia, di attenta consapevolezza alla gratificazione della vita terrena.

La cultura cristiana é la cultura del già e non ancora, cioè della certezza che è rimandata al futuro solo il completamento della salvezza ma non la salvezza di per sé. La salvezza é già qui, é già iniziata. Anche un santo come Francesco d’Assisi, pur ricordato per la sua straordinaria tensione ascetica, si sforza di valutare adeguatamente le realtà terrene. “Benché sollecito di lasciar presto il mondo, terra d’esilio, -scrive di lui fra Tommaso da Celano- questo beato pellegrino sapeva anche valersi, e non poco, delle cose del mondo.

Cosa che non é per le culture non cristiane. In esse scienza e tecnica spesso non coincidono. La scienza rimane fine a se stessa. Domina la convinzione che nella vita terrena l'uomo non può né prepararsi il suo destino né tantomeno anticiparlo.

 

Il rifiuto dell’intellettualismo gnostico

C'é poi un altro importante motivo per cui il Cristianesimo facilita lo sviluppo scientifico e tecnologico. Mi riferisco all'essenza non gnostica del Cristianesimo stesso.

La gnosi é una convinzione secondo cui materia e spirito sono due realtà in contrapposizione. Lo spirito ha un valore positivo, mentre la materia ha un valore negativo.  Pertanto, l'uomo ha una dignità infinita nel suo spirito, e non ne ha nel suo corpo. L'uomo é un "pezzetto" di Dio decaduto nella "prigione" della materia. L’uomo può realizzare la salvezza solo attraverso la dimensione spirituale e non attraverso quella corporale. Ma così la dimensione spirituale, sganciata dalla quella corporale, si riduce a puro esercizio intellettuale. E, infatti, la gnosi, che vuol dire “conoscenza”, implica che la salvezza si raggiunga solo attraverso questa. La separazione dell'intelletto dal corpo si traduce inevitabilmente in una esclusiva valorizzazione della scienza, a discapito della tecnica.

Ma a differenza di culture precedenti, con evidenti contaminazioni gnostiche, il Cristianesimo, con la sua antropologia totalmente alternativa alla gnosi (anche per il mistero dell'Incarnazione: Dio che assume la carne perché questa costituisce valore), é una spinta non indifferente affinché la scienza si traduca nella tecnica.

 

La tecnica nelle prime culture

La civiltà egiziana, di cui non si può non ammirare lo splendore e anche l’originalità, é una civiltà chiusa. Il suo contributo alla formazione delle civiltà successive é molto scarso. Le cognizioni scientifiche egiziane non si legano sistematicamente fra loro. Non si inseriscono in un vero e proprio pensiero scientifico che possa inglobarle e dar loro un significato teoretico. Da queste cognizioni, insomma, non nasce un sapere scientifico.

Tanto nella cultura egizia, quanto in quella assira e babilonese, pur coltivandosi la matematica e pur non ignorandosi la meccanica, non si riscontra un desiderio di utilizzare le macchine per fini pratici. E' la scienza che non diviene tecnica.

Presso questi popoli le condizioni sociali non sono favorevoli al progresso tecnico. Non si ha interesse ad inventare macchine utili, perché è grande la disponibilità di schiavi. Per quale motivo lambiccarsi il cervello per creare delle novità, quando ci sono tante braccia disponibili portate in patria da condottieri vittoriosi?

In queste prime culture, la scienza non diviene tecnica per una ben determinata concezione culturale. L'uomo non può fare nulla per modificare una dinamica storica che ciclicamente lo imprigiona. A che scopo concentrarsi per migliorare le proprie condizioni materiali di vita se tutto è già deciso?

Gli storici dell’Antico Egitto convergono sulla perpetuità come peculiarità di questa civiltà. Dopo l’unificazione da parte di Menes, l’Egitto costituisce il primo vero Stato dell’antichità e i Faraoni vi regnano almeno per ben trenta dinastie. Per tre millenni non una modifica sostanziale nell’ordinamento politico e sociale. Tutto é all’insegna della perpetuità. Tutto all’insegna della ciclicità. 

 

La tecnica nella cultura classica

C’é chi dice che sia stata soprattutto la cultura greca, e non tanto quella cristiana, ad indirizzare la civiltà mediterranea ed europea allo spirito scientifico e tecnologico.

Ciò é storicamente falso e lo si può dimostrare facilmente.

Il contributo del pensiero greco é stato certamente importante, ma non determinante. Nel periodo in cui questo pensiero é protagonista nel bacino del Mediterraneo, in Mesopotamia vi é un grado di sviluppo della tecnica non certo inferiore, anzi per alcuni versi anche superiore a quello greco e a quello dell'intero contesto mediterraneo. Fu dopo il diffondersi del Cristianesimo che nel bacino del Mediterraneo é ravvisabile un'evidente accelerazione del progresso tecnologico.

Nella Grecia antica, l’idea di scienza non é sempre corollario di senso del progresso e quindi di sviluppo della tecnica. La conoscenza scientifica non sempre si accompagna alla necessità della ricerca per migliorare le condizioni materiali di vita. E così la convinzione secondo cui bisogna migliorare le proprie conoscenze scientifiche al fine di dar loro una applicazione pratica é del tutto assente in Aristotele, anche se questi dà un grande contributo allo sviluppo dell’interesse per la natura e alla formazione di una mentalità realistica. Non la si ritrova neppure in Archimede, malgrado le sue macchine siano assai sofisticate e per certi versi anche moderne. Sarà l’assedio di Siracusa a spingerlo ad un’applicazione pratica della sua scienza. Lo dovrà fare per un dovere di guerra, ma a malincuore, affezionato com’è all’astrattezza dei suoi calcoli geometrici.

La cultura greca ha una connotazione astratta. Forse per influenze gnostiche ed orientali -si pensi all’Orfismo- ciò che è davvero importante e nobilitante per l’uomo é solo l’attività intellettuale. Anche qui la dimensione dinamica e il lavoro manuale sono esclusi dalla realizzazione autentica dell'uomo. La famosa matematica greca rimane in una dimensione di astrazione. Un esempio: uno dei miti più antichi é l’ideale di perfezione. E un mondo perfetto, fondato sui rapporti matematici, é quello di Pitagora, di Euclide, dello stesso Platone. Aristotele individua tale perfezione nella circolarità dei moti celesti. Integrandosi vicendevolmente, la matematica e l’astronomia costituiscono l’antico modello di perfezione: il tutto e le parti formano un’armonia universale che é garanzia di stabilità e di sicurezza. Ma ci si accorgerà che questa teoria di perfezione é una pura congettura mentale, non quando l'uomo entrerà in possesso di sofisticati mezzi, ma solo quando adotterà una prospettiva realistica, conseguente al suo desiderio di porre la teoria scientifica al servizio della pratica e del miglioramento del reale. Le successive modificazioni della matematica, fortemente suscettibile di evoluzioni e perfezionamenti, manderanno in fumo lo schema dell’antichità. Nel Trecento, i cosiddetti Calculatores della Scuola di Oxford sostituiranno le lettere ai numeri. La matematica si avvierà ad essere un sistema di riferimento, un vero e proprio mezzo espressivo. La matematica non si mostrerà più come un sistema indipendente dalla realtà fenomenica a cui si cercherà di applicarla e non si interesserà più alle idee, ma inizierà ad interessarsi ai problemi.

Anche nel contesto della Grecia e di Roma antiche, la mancanza di una scienza che divenga tecnica é certamente da attribuire anche alla pratica della schiavitù.

Erone di Alessandria, considerato l’ inventore per eccellenza dell’ antichità       -colui che nella sua opera Misure introduce le misure fisse per la prima volta nella storia della scienza- costruisce solo dei meccanismi ingegnosi, tra cui una rudimentale turbina a vapore. Ma né a lui, né a nessun altro, passa per la mente che quella macchina potrebbe servire per sollevare la gente dalla fatica del lavoro. A che scopo con tante braccia di schiavi? E così gli originali ingegni di Erone vengono usati soltanto per creare giochi di scena nei teatri.

La "comodità" degli schiavi impedisce anche a Roma lo sviluppo della tecnica. Considerati bestie dal volto di uomini, non hanno nessun diritto, né possono vantare alcuna garanzia. Non viene loro riconosciuta alcuna personalità. Sono abbandonati come un gregge alla discrezione del padrone che può far di loro quello che vuole. Sono piuttosto cose che esseri viventi. Sono res mancipi. A questi schiavi vengono affidati tutti i lavori illiberales, cioè non degni di un uomo libero, quali i lavori manuali pesanti. Ed è indubbio che tutto questo distragga anche i Romani dall'interessarsi di questioni meccaniche e tecniche. 

 

La tecnica nella cultura orientale

Che nella cultura orientale lo sviluppo tecnologico non abbia trovato un terreno molto fertile, è altrettanto innegabile.

Nell'Induismo non c'é modo di praticare la religione se non staticamente. Se, monisticamente, l’uomo non é altro che il suo spirito -perché é fondamentalmente nello spirito che si coglie l’uguaglianza ontologica con l’assoluto- allora é evidente che ci sarà un solo modo di comunicare con l’assoluto, e questo modo non é altro che la contemplazione, l’esperienza estatica. L’esperienza dinamica, il lavoro, non possono essere mezzi con i quali mettersi in comunicazione con l’assoluto. Lo yoga, per esempio, é un tentativo di recuperare, attraverso l’esperienza estatica, l’unità spirito dell’uomo-assoluto. E’ una sorta di alienazione al fine di far dimenticare all’uomo la sua umanità e la sua quotidianità.

Nella prospettiva indù, l'uomo non esiste come individualità. Il corpo é una "prigione", rappresenta una "cattività", per cui non ha senso migliorarne le condizioni di vita. Una eccessiva attenzione nei suoi confronti costituirebbe una sorta di bestemmia. Nell'Induismo é addirittura ammessa -anche se implicitamente- la possibilità di uccidere il proprio simile, senza che questo atto vada a compromettere l’integrità morale di chi commetta una tale azione. Mi riferisco alla citazione dalla Bhagavadgîtâ, che ho inserito in un capitolo precedente. La divinità Krishna esorta il principe Arjuna, della stirpe dei Bhârata, a vincere la compassione e ad uccidere in battaglia i suoi parenti più prossimi, perché sono solo i corpi ad essere uccisi e i corpi non sono importanti.

Da queste convinzioni come può venir fuori il desiderio di faticare al fine di rendere più confortevole la vita di quel corpo, tanto negativo, la cui soppressione non costituisce neppure occasione di compassione?

Il fatalismo indù non può permettere una sensibilità tecnica. L’uomo non può nulla e non gli é permesso di modificare la propria vita. Se pretendesse farlo, sarebbe solo una ribellione alla infallibile legge del karman, che "giustamente" decreta quale deve essere la condizione da patire.

 

La tecnica nella cultura islamica

Facendo tesoro dell’esperienza della scienza del mondo classico e anche del patrimonio scientifico di contesti non ellenici (Persia, India e Cina), la scienza islamica riesce ad apportare progressi significativi nel campo della matematica, dell’astronomia, della medicina. Fonda l’algebra, la trigonometria e pone le premesse dell’ottica. Dà un contributo significativo alla chimica.

Ciò malgrado, in questa cultura non si sviluppa una vera e propria sensibilità scientifica. Vediamo il perché.

Per i Musulmani il Corano va inteso diversamente da come i Cristiani intendono la Bibbia. Il Corano non è un libro ispirato da Dio, ma una vera e propria manifestazione di Dio. Esso contiene tutto ciò che é necessario sapere per la vita dell'uomo. Tutto, proprio tutto...e non solo le verità riguardanti la fede e la morale. Ciò che non é nel Corano é superfluo. Ciò che non é nel Corano, per il fatto stesso di essere al di fuori del libro sacro, é da ritenersi perfino pericoloso. Questa convinzione, vincolante per ogni Musulmano, causa inevitabilmente la negazione di ogni progresso, la rinuncia ad ogni autentica ricerca scientifica.

Anche per un altro elemento della sua dottrina, l'Islam sembra impedito a qualsiasi seria istanza tecnico-scientifica. Mi riferisco alla negazione dei cosiddetti preambula fidei. L'Islam non fa propria l'analogia entis, cioé quel metodo che permette di conoscere, seppure in maniera incompleta, il Creatore procedendo analogicamente dall'osservazione del creato. Questo rifiuto del metodo analogico produce una prospettiva fideistica, che ha ripercussioni in campo scientifico. 

Quando la ragione non può aiutare l'uomo a raggiungere Dio -essendo Dio la realtà più importante- essa perde la sua nobiltà. Ma l'attività scientifica é strettamente legata all'attività razionale. Ed ecco perché la cultura islamica concepisce il discorso scientifico come qualcosa di accessorio.

Come la ragione é estranea al cammino più importante che l’uomo deve percorrere (cioè quello verso Dio), così l’attività scientifica é da considerarsi altrettanto estranea a ciò che conta nella vita del mondo.

Pensatori e scienziati musulmani cercano di conciliare sviluppo scientifico con Il Corano, ma sono tentativi che falliscono. Nella sua opera, Confutazione dei filosofi, Al-Ghazzali denuncia l’inutilità di questi tentativi.

Proprio a causa di questa diffidenza nei confronti della scienza, spesso nei contesti islamici si organizzano attacchi contro libri che trattano di scienza. Celebre é un racconto delle Mille e una notte, in cui gruppi di fedeli, alle porte di Baghdad, danno fuoco a libri che entrano ed escono dalla città.

Proprio perché il pensiero scientifico é all'interno della cultura islamica un pericoloso accessorio, in questa cultura, accanto a significative eccezioni, si ritrovano ingenuità che denotano una mancanza di metodo. Per esempio, i Musulmani sono attratti dalla filosofia di Aristotele, ma non riescono ad operare un adeguato discernimento del pensiero dello Stagirita. Arrivano poi a confondere il numero magico di Platone con la gerarchia di Aristotele, confusione che facilita l'insorgere di vere e proprie assurdità.

Sempre per questa naturale diffidenza nei confronti della scienza, ma soprattutto perché alle attività scientifiche non deve essere dedicato molto tempo, gli scienziati islamici accolgono sì il patrimonio scientifico del mondo classico, ma volutamente non cercano di rivoluzionarlo, né tantomeno di migliorarlo. E famosa è l’affermazione dello scienziato musulmano Al-Biruni, che invita i suoi a limitarsi a studiare ciò che gli antichi hanno studiato.

Si realizza così una sorta di dualismo, di scontro, tra le superiori verità della fede e le inferiori argomentazioni della ragione. E questo dualismo, tranne che per un breve periodo iniziale, renderà la cultura islamica improduttiva per le innovazioni scientifiche.

Oggi é possibile confutare la convinzione secondo cui nei primi secoli della cultura islamica, il mondo arabo sia più sviluppato tecnologicamente rispetto alla cultura cristiana. Infatti, la cultura islamica di questo periodo deve molto alla grande tradizione cristiana greco-bizantina. Dopo la morte di Maometto, i Musulmani, venendo dalla penisola arabica, entrano in contatto con la grande cultura ellenistica, e in particolar modo con quella cristiana. Per almeno quattro secoli, i califfi si rivolgono a scienziati cristiani per avere nelle loro corti maestri di logica, di filosofia, di matematica, di medicina, di astronomia...Ancora fino al X secolo la stragrande maggioranza dei medici sono cristiani. Qualche esempio: il più famoso oculista alla corte di Baghdad nell’XI secolo é un cristiano melchita, Isa Al Kahlal. Cristiano é anche Hunayn Ibn Ishaq, colui che nel IX secolo viene incaricato di tradurre dal greco e dal siriaco più di cento opere di medicina e di filosofia, che rappresentano la summa del sapere dell’epoca.

Il grande periodo ricordato dalla storia come il “rinascimento arabo”, che va dal IX all’XI secolo, nasce dall’incontro di un potere politico ed economico, detenuti dai Musulmani, con una tradizione culturale greco-bizantina, di cui i Cristiani sono gli eredi. Cultura, però, che non é mai utilizzata per progredire e i mutakallimûn, cioé i teologi, la respingono con decisione.

E il declino dell’Islam comincia proprio quando i Musulmani vogliono far da sé, ritenendo di poter fondare sul Corano e sulla tradizione islamica le strutture di una nuova civiltà, così rifiutando completamente la cultura cristiana. Declino ravvisabile anche nella desertificazione del nordafrica. Prima dell'invasione araba, la fascia dall’Egitto alla Mauritania é rigogliosa di frutteti e di vigneti, non solo sulla costa ma anche verso l’interno. Poi tutto viene distrutto. La causa é nello sradicamento di tutti i vigneti, perché il Corano proibisce l’uso del vino. Vigneti piantati prima dai Romani e poi dai Cristiani, anche come argine ad una possibile avanzata del deserto. Gli Arabi musulmani, inoltre, con la loro tendenza a rifiutare i lavori pesanti, sostituiscono in quelle terre la faticosa agricoltura con la più "comoda" pastorizia, la quale -è risaputo- é distruttiva per la terra. E al peggioramento delle condizioni del Nordafrica contribuisce l'usanza degli Arabi musulmani di investire i loro capitali nel commercio e addirittura nell'armare navi pirata, piuttosto che nell'agricoltura.

La tecnica occidentale si introduce molto lentamente nella cultura islamica, e per opera di Cristiani. A partire soprattutto dal XVII secolo, grazie alla fondazione a Roma del Collegio Maronita, nel 1584. Da un certo periodo, la cultura islamica si é solo limitata ad importare tecnologia. Così afferma Mahmûd Ragab, professore di filosofia all’Università del Cairo: ”Da noi, la gente guida la macchina come se fosse un asino meccanico. Quando non va più avanti, la sgridano e la battono. La mentalità non é cambiata; invece dell’asino (che conoscevamo), abbiamo la macchina (che non conosciamo)!

 

Cristianesimo e tecnica nella storia

Un'obiezione che potrebbe muoversi all’affermazione del Cristianesimo indispensabile per lo sviluppo scientifico e tecnologico, è che l’Aristotelismo nasce prima del Cristianesimo. Questa filosofia facilita lo sviluppo di una mentalità scientifica, adottando una prospettiva rigorosamente realistica. Altra obiezione: il Cristianesimo, almeno inizialmente, rifiuta l'Aristotelismo.

Ma a queste obiezioni c'é una risposta.

L'Aristotelismo da solo non basterebbe a sviluppare una mentalità autenticamente tecnica. Aristotele ha una sensibilità scientifica, non tecnica. Poi, per quanto riguarda l'iniziale rifiuto dell'Aristotelismo, va detto che se il Cristianesimo medioevale rifiuta inizialmente il pensiero dello Stagirita -una vera e propria cristianizzazione dell'Aristotelismo si ha solo con Alberto Magno- ciò non é dovuto, come invece solitamente si sostiene, al fatto che il Cristianesimo sia intimamente spiritualista e mistico e che preferisca il Platonismo agostiniano, quanto a due concezioni dell'Aristotelismo, inaccettabili per il Cristianesimo: l'eternità del mondo e l'indifferenza di Dio nei confronti dell'uomo.

Fin qui il discorso teorico. Ma, nei fatti, é proprio vero che nell’ambito della cultura cristiana si realizza il progresso scientifico e tecnologico?

Per rispondere a questa domanda si deve indagare su cosa avviene nei secoli immediatamente successivi all’avvento del Cristianesimo. Nei secoli del medioevo si sviluppa davvero una tecnologia? Se sì, è dimostrabile che scienza e tecnica iniziano a coincidere con il Cristianesimo.

I secoli del medioevo sono secoli in cui la fede -che si fa cultura- in un Dio appassionato al suo creato, tanto da averlo posto in essere per amore e redento per amore, determina le condizioni per lo sviluppo dell'indagine scientifica del creato stesso.

Con la fine dell’Impero romano e le invasioni barbariche, quelle opere del mondo classico che fioriscono col lavoro di innumerevoli schiavi rovinano anch’esse. Si deve passare alla ricostruzione. Così, i secoli successivi -soprattutto i secoli del basso medioevo- contrassegnati da una forte sensibilità cristiana, sono secoli di azione e di desiderio di migliorare la vita quotidiana. Scrive lo storico Salvatorelli nel suo Sommario della storia d’Italia: “Non vi sono nella storia italiana secoli più religiosi del XII e del XIII. Si credeva in Dio (...) fermamente (...); ma poiché era rinata la gioia di vivere e il piacere dell’azione, lo si ritrovava più presente nella vita e nell’attività quotidiana.” 

Il Cristianesimo impone l’affrancamento degli schiavi. Se nell'antichità si ricorre a loro per i lavori pesanti, nell'alto medioevo la loro mancanza fa volgere l'attenzione alle sorgenti naturali di energia. E' il caso dei mulini ad acqua, già conosciuti nel mondo antico, ma non utilizzati per l'esistenza degli schiavi. Nel secolo IX, la diffusione dei mulini ad acqua è rilevante. La loro diffusione si deve allo sfruttamento più razionalizzato e perfezionato dell’energia idraulica, che avrà nei secoli del medioevo una importanza paragonabile a quella del petrolio nell’epoca contemporanea.

L’introduzione su larga scala dell'energia idraulica renderà meccanici tre settori di produzione che precedentemente venivano effettuati a mano o con i piedi: il settore agricolo, il settore tessile e quello metallurgico. Un documento del XIII secolo, relativo alla funzione dell’energia idraulica nell’abbazia cistercenze di Clairvaux, testimonia come la meccanizzazione costituisse per l’economia medioevale il fattore più significativo ed importante. I mulini medioevali conoscono diverse fasi di evoluzione. Importante é la introduzione della cosiddetta camma, che dal movimento rotatorio della ruota idraulica permette il passaggio al movimento lineare, facilitando pertanto la meccanizzazione di tutta una serie di lavori, fra cui la battitura. Questa camma é sicuramente nota già nell’antichità -finanche i cinesi la utilizzano per la brillatura del riso- ma soltanto l’applicazione diffusa nel medioevo la renderà determinante per la industrializzazione dell’Occidente.

Sarà proprio nei secoli del medioevo che scienza e tecnica coincideranno per porre l’ingegno umano a servizio del miglioramento delle condizioni materiali di vita. Dal secolo XI al secolo XIII un periodo di intensissima attività tecnologica, tra i più fecondi della storia per quanto riguarda le innovazioni, caratterizza l’Europa occidentale. E' un periodo che, senza esagerazione, potrebbe essere definito come "prima rivoluzione industriale". Infatti, le tecnologie di questi anni costituiscono le fondamenta da cui si originerà la rivoluzione industriale del XVIII secolo. Scrive il francese Jean Gimpel, storico della tecnologia: “La prima rivoluzione industriale risale al Medio Evo. I secoli XI, XII, XIII, hanno creato una tecnologia sulla quale la rivoluzione industriale del secolo XVIII si è appoggiata per il suo sviluppo. Le scoperte del Rinascimento hanno avuto solamente un ruolo limitato nell’espansione dell’industria in Inghilterra nei secoli XVIII e XIX. In Europa, il Medio Evo ha sviluppato in tutti i campi l’uso delle macchine, più di qualsiasi altra civilizzazione. E’ uno dei fattori che più determinano la preponderanza dell’emisfero occidentale sul resto del mondo. Sebbene l’Antichità conoscesse le macchine, ne fece un uso molto limitato utilizzando gli ingranaggi principalmente per animare giocattoli ed automi. La società medievale sostituì il lavoro manuale, che coincideva spesso con il lavoro forzato degli schiavi, con il lavoro delle macchine. Numerosi medievalisti sono oggi concordi nel riconoscere l’idea che ci fu effettivamente una rivoluzione industriale nel Medio Evo. Fernand Braudel, uno dei più grandi storici del nostro tempo, specializzato nel periodo dei quattro secoli che seguirono l’era medievale, fu d’accordo nel ritenere che il Medio Evo abbia conosciuto una rivoluzione industriale”.

Nel medioevo si riesce a utilizzare meglio il cavallo. Con l'introduzione del collare di spalla rigido e con la ferratura -sconosciute nell'antichità- la potenza ne viene quintuplicata. Già alla fine del IX secolo, il collare rigido é impiegato nei lavori agricoli. Come già nel XII secolo, la ferratura é praticata diffusamente. Durante i preparativi per la Crociata, Riccardo Cuor di Leone ordina ben cinquantamila ferri da cavallo alle officine della foresta di Dean.

Il Carnet di Villard di Honnecourt, architetto e ingegnere del Duecento -emblema del tecnico medioevale- é materiale da cui Leonardo da Vinci attinge costantemente.

La concezione della natura di Guglielmo di Conches e della famosa Scuola di Chartres é il presupposto di una visione tecnico-scientifica del mondo. La natura non é soltanto una manifestazione del divino, ma una forza che presiede al nascere e al divenire delle cose.

Ma la scienza medioevale non si limita a questo. Giunge a livelli di scoperta sbalorditivi, che non possono essere spiegati senza tener conto di quanto la mentalità di questo tempo spinga alla comprensione e al miglioramento del reale. Nicola Flamel definisce la sua pietra filosofale come una materia sottile che si trova ovunque, un corpo sussistente di per sé, diverso strutturalmente dai corpi semplici. Secondo Raimondo Lullo si tratta di una sorta di olio occulto, capace di penetrare in maniera benefica, che si può mescolare con tutti i corpi e che può aumentare notevolmente l’effetto di ogni corpo. Tutti questi dati, tradotti in moderno linguaggio scientifico, significano la scoperta della radioattività.

A dimostrare la quantità del progresso tecnologico del medioevo, é anche l'originarsi in questi tempi di una vera e propria "questione ambientale". La regina Eleonora d’Inghilterra, nel 1257, deve abbandonare precipitosamente il castello di Notthingham, non riuscendo a sopportare i fumi pestilenziali della città industriale. Verso la fine del Duecento, Londra diventa una vera e propria  città dello smog. Tra il 1285 e il 1288 sono menzionate lamentele contro i forni da calce che contaminano l’aria della città e si arriva a costituire commissioni d’inchiesta. Nel 1307, a Sothwark, a Wapping, a East Smithfield, con decreto reale e sotto pena di ammenda, si vieta l’uso del carbone di mare nei forni da calce. Non manca nemmeno l’inquinamento acustico. Quanto baccano procurano le forge e le incudini delle fonderie e delle botteghe dei fabbri! Documenti parlano di migliaia e migliaia di denunce per sonni disturbati dai rumori delle officine. Un anonimo del XIV secolo lascia un divertente componimento in versi, in cui esprime la rabbia per i suoi sonni disturbati dal baccano dei fabbri. Così termina: “Tik, tak, hic, hack, ticket, tacket, tyk, tyk. Lus, bus, lus, das. Che Dio li maledica questi fabbri che rovinano il sonno delle nostre notti.

Questa presenza evidente di spirito tecnico nei secoli del medioevo, dimostra quanto il Cristianesimo abbia spinto l’uomo a migliorare le proprie condizioni materiali di vita.  Questa tecnica deve essere provata dai frutti…infatti continua Gimpel: “(...) il Medioevo (ha registrato una) potente crescita demografica, che ha visto passare la popolazione europea dai ventisette milioni di abitanti nell’anno 700 ai settantatre milioni di abitanti del 1300, con un aumento ‘record’ del ventidue per cento nel cinquantennio che va dal 1150 al 1200, quando gli abitanti dell’Europa passano da cinquanta a sessantuno milioni. Su questo sfondo prende piede, in modo deciso, la meccanizzazione delle attività.

Dunque, nel medioevo -e quindi con il Cristianesimo- si sviluppa il dovere tecnico, ovvero il dovere di aiutare tutto l’uomo. Migliorare le condizioni corporali dell’uomo proprio perché Dio ha assunto un corpo. Questo determina il salto di qualità dell’Occidente. Ripetiamo le parole di Gimpel: “(...) soltanto il Medioevo, in tutti i campi, ha sviluppato più di qualsiasi altra civiltà, l’uso delle macchine e questo é stato uno dei fattori determinanti della preponderanza dell’emisfero occidentale sul resto del mondo.

 

 

 

 

 
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