Circolare n° 138
La testimonianza del cattolico oggi
tra “cristianofobia” e
deriva “umanitarista” del Cattolicesimo
Secondo Sentiero

Oggi il cattolico si trova a testimoniare la propria identità tra due evidenti minacce. La prima la possiamo definire come cristianofobia, la seconda come deriva umanitarista del Cattolicesimo.  

Per cristianofobia deve intendersi una vera e propria paura del Cristianesimo, ma non nel senso psicoanalitico, quanto in quello culturale. Il Cristianesimo fa paura, perché -di suo- si presenta incompatibile con l’essenza della cultura dominante.

Questa cristianofobia si manifesta soprattutto (il che non vuol dire ‘unicamente’) in tre prospettive. La prima è nell’imposizione del relativismo e del policentrismo. La seconda è nell’idolatria del concetto di multiculturalità. La terza è nella diffusa convinzione di una presunta incompatibilità tra Cristianesimo e progresso scientifico-tecnologico.

Partiamo dalla prima prospettiva: l’imposizione del relativismo e del policentrismo. Ebbene, va detto che il Cristianesimo dà fastidio per la sua intrinseca pretesa di assolutizzare il vero. Si potrebbe obiettare: ma anche le altre religioni hanno questa pretesa, per cui si dovrebbe parlare di religionefobia piuttosto che di cristianofobia. E invece non è così. Le altre religioni non danno molto fastidio all’imposizione del relativismo e del policentrismo. Non danno fastidio le religioni cosiddette “orientali” (Induismo, Buddismo…), perché queste si configurano come religiosità a carattere monistico e quindi formalmente politeistico. Il monismo implica la negazione del principio di non contraddizione e, quindi, la negazione del concetto stesso di “vero”. Consequenzialmente le religioni orientali si esprimono attraverso un politeismo formale, nel senso che le varie divinità figurano come attestazione di un pluralismo teoretico (esistono più verità) e morale (non esiste una morale unica e assoluta).  M attenzione: anche una religione non monistica come l’Islam non dà fastidio. Almeno per due motivi. Il primo di carattere teologico: in questa religione, infatti, il concetto di Dio è al di là del bene e del male. Il secondo motivo è di carattere culturale: l’Islam può servire -e di fatto serve- per la demolizione dell’essenza dell’Occidente. Come ci informa l’agenzia Corrispondenza romana, ricordiamo che il 26 marzo il Consiglio ONU per i diritti umani, con sede a Ginevra, ha approvato la risoluzione n.62/154 intitolata “Combattere la diffamazione delle religioni”. In realtà, il documento, presentato su istanza del Pakistan dall’Organizzazione della Conferenza Islamica, tutela esclusivamente la religione musulmana, incoraggiando, di fatto, l’imposizione della shari’a anche nei Paesi occidentali e rendendo più difficile la denuncia delle violazioni dei diritti umani commesse in nome della jihad. Chiunque criticherà l’Islam sarà dunque possibile di azione legale. Tale approvazione, in virtù della sola citazione dell’Islam, ha suscitato profonda preoccupazione presso la Santa Sede, seondo quanto riferito da monsignor Silvano Tommasi, osservatore permamente vaticano presso l’ufficio ONU di Ginevra.  Monsignor Tommasi ha poi confermato che sono più di 200 milioni i cristiani -cattolici e non- che “si trovano in situazioni di difficoltà perché ci sono delle strutture legali o delle culture pubbliche che portano, in qualche modo, ad una certa discriminazione nei loro riguardi”. Pertanto, “la comunità cristiana è la più minacciata al mondo”, ha aggiunto il rappresentante diplomatico vaticano. A riguardo si può ricordare ciò che, prima il teologo, poi il cardinale Ratzinger amava dire: l’Occidente si è costruito sulla prospettiva ellenico-cristiana (amore per la verità come logos), eppure esso stesso ha demolito il suo fondamento, perché il relativismo è nato proprio in Occidente.

Veniamo adesso alla seconda prospettiva: l’idolatria del concetto di multiculturalità. Prima di tutto bisogna aver chiara la distinzione tra multietnicità e multiculturalità. La multietnicità riguarda la convivenza fra varie etnie, la multiculturalità la convivenza fra varie culture. Fin qui la differenza di carattere terminologico. Il problema, però, è che a questa differenza di carattere terminologico corrisponde una differenza di carattere valoriale. Il termine multiculturale non solo sta a significare la completa uguaglianza fra tutte le culture, ma indica anche la confusione culturale come un valore di per sé. Chiediamoci: da un punto di vista cristiano è accettabile il concetto di “società multiculturale”? Evidentemente no. Anche in questo caso possiamo rispondere appellandoci a due motivi. Il primo riguarda la positività che nel Cristianesimo deve avere il valore della comunità di appartenenza. Secondo il Cristianesimo, l’uomo, così come non è uno spirito disincarnato, non può nemmeno essere uno spirito decomunitarizzato. La comunità di appartenenza è e deve essere per lui importante. E’ la Provvidenza -e non il caso!- che ci fa nascere in una determinata famiglia, in una determinata città ed in una determinata nazione. E, per salvarci, non possiamo prescindere dalla nostra famiglia, dalla nostra città e dalla nostra nazione. Ora, non può esserci famiglia, città o nazione senza un giudizio culturale di riferimento. Altrimenti è la polverizzazione e il dissolvimento tanto della famiglia, tanto della città quanto della nazione. Il secondo motivo per cui cristianamente non è accettabile il concetto di società multiculturale è il fatto che il Cristianesimo non può prescindere per principio (il che non vuol dire che non possa di fatto) dal concetto di “cristianità”, che è la traduzione dell’identità cristiana in cultura e strutture sociali e politiche.  

Ed eccoci alla terza prospettiva: la diffusa convinzione di una presunta incompatibilità tra Cristianesimo e progresso scientifico-tecnologico. E’ proprio vero questo? Basta anche qui mettere in rilievo due cose. La prima è che la planetarizzazione del mondo si è avuta partendo dal bacino del Mediterraneo. La seconda è che solo nella dimensione dell’alterità della natura è possibile lavorarci sopra. Se la natura viene concepita come una manifestazione del divino (così come solitamente avveniva nel mondo pagano) è evidente che essa diventa intoccabile e deve essere accettata per come è; ma se la natura è invece realtà creata da Dio ma non Dio stesso (così come afferma il Cristianesimo), allora l’uomo si sente autorizzato a lavorarci sopra. Se poi, a questo, si aggiunge che il Cristianesimo parla del peccato originale, ovvero che la natura, in conseguenza di questo peccato, da madre è divenuta matrigna, allora ancor di più diventa legittimo l’intervento su di essa.

Veniamo adesso alla seconda grande minaccia per il cattolico oggi. Ovvero ciò che abbiamo già definito come deriva umanitarista del Cattolicesimo. E’ evidente che per umanitarismo non intendiamo l’interesse per l’uomo, quanto il fatto che in gran parte della teologia contemporanea si è sostituita la centralità di Dio con la centralità dell’uomo. Se nella teologia cattolica tradizionale l’antropologia (studio dell’uomo) scaturisce dalla metafisica (studio dell’essere e l’essere nella sua perfezione è Dio), per cui l’uomo si conosce attraverso la conoscenza di Dio; nella teologia moderna, per influenze esistenzialiste, si riscontra una vera e propria “svolta antropologica”, in cui -possiamo dire- Dio si deve conoscere attraverso l’uomo, nell’esistenza concreta ed individuale dell’uomo stesso. Ciò ha determinato diversi effetti: prima di tutto il naturalismo, la svalutazione o addirittura la completa dimenticanza della dimensione soprannaturale; poi una sorta di intellettualismo, per cui il Cristianesimo non viene considerato per quello che deve essere principalmente, ovvero Vita di Grazia, ma solo vaga e astratta adesione a qualcosa. Il Papa nell’omelia della domenica di Pentecoste (31.5.09) ha detto: “La Chiesa non deve essere affannata per le attività e più dedita alla preghiera. L’attivismo potrebbe renderla sorda alla voce dello Spirito.” Dunque, il Papa invita ad una svolta soprannaturalizzante dell’essere cattolici.  

  Questo, però, non vuol dire “spiritualizzare” la presenza del cattolico oggi (si pensi alla famosa “scelta religiosa” degli anni ’70) e quindi non significa nemmeno “clericalizzare” tale presenza. Il contrario: essere attenti alla voce dello Spirito, vuol dire mettere al centro della vita della Chiesa (e quindi anche dell’essere cattolici) la missione salvatrice e profetica, nella convinzione che il male più grave da evitare è il peccato e il bene più grande da raggiungere il Paradiso. Dunque, anche la missione profetica. Ovvero l’impegno missionario. Proprio Benedetto XVI, nella Lettera ai vescovi riguardante la remissione della scomunica ai quattro vescovi ordinati da monsignor Marcel Lefebvre, ha parlato della fede attuale come una fiammella che si sta spegnendo perché non più alimentata.

 

 
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