LA CENA
DEL SIGNORE

di Fausto Salvoni

CAPITOLO PRIMO
L'EUCARISTIA NEL CORSO DEI SECOLI

Indice
1) La questione della presenza di Cristo
a) La Cena del Signore nei primi tre secoli
b) Dal VII al XIX secolo
c) Nuovi tentativi di spiegazione
2) Il sacrificio eucaristico
a) Messa e sacrificio della croce
b) Sacrificio e sacerdozio
c) Partecipazione al sacrificio da parte dei fedeli

3) Insegnamento moderno del magistero ecclesiastico
a) Accento sul sacrificio eucaristico piuttosto che sul realismo sostanziale della presenza di Gesù
b) Valore simbolico del pane e del vino
c) Presenza di Cristo

4) La pratica
a) La Messa
b) Norme per la distribuzione della comunione
5) Conseguenze pratiche
a) Esteriorizzazione
b) Adorazione dell'ostia
c) Sacralizzazione della natura
d) Sacralizzazione del tempio
e) Sacralizzazione della casta sacerdotale

1) La questione della presenza di Cristo

a) La Cena del Signore nei primi tre secoli

All'inizio del Cristianesimo continuò l'uso apostolico di celebrare la cena del Signore sotto l'aspetto gioioso di un pasto sacro ogni domenica – il dies domini – come appare per il 2° secolo dalla testimonianza del filosofo Giustino :

Nel giorno del sole (= domenica) coloro che abitano le città o le campagne si radunano in uno stesso luogo. Allora si leggono le memorie degli apostoli o gli scritti dei profeti... Poi quando il lettore ha finito, colui che presiede prende la parola per ammonire i presenti ed esortarli a seguire le belle lezioni udite. Quindi ci leviamo tutti in piedi, innalziamo preghiere e si portano il pane, il vino e l'acqua: colui che presiede innalza preghiere e azioni di grazie secondo le sue capacità e il popolo risponde: Amen (Apologia c. 66).

Il punto centrale di questa cena stava – come indica pure il nome – nel mangiare e nel bere. Ce lo documenta la prima preghiera liturgica a noi nota:

Quanto al rendimento di grazie, ringraziate così: anzitutto per il calice:

Ti rendiamo grazie, Padre nostro,
per la santa vita di Davide, tuo servitore
che a noi rivelasti Gesù, tuo Servitore.
A Te gloria nei secoli!

Per il pane spezzato:

i rendiamo grazie, Padre nostro,
per la vita e per la conoscenza,
che ci rivelasti per Gesù tuo Servitore.
A Te gloria neo secoli!

Come questo pane spezzato era prima sparso su per i colli e, raccolto, divenne una cosa sola, così si raccolga la tua chiesa dai confini della terra nel tuo regno; Poiché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo nei secoli!

Il popolo stesso portava all'altare il pane comune di tutti i giorni, il vino per il calice e l'olio per l'illuminazione; i più ricchi vi aggiungevano doni per i poveri. Queste offerte costituivano il sacrificio che i cristiani, secondo la profezia di Malachia, elevavano a Dio in ogni parte della terra.

I vescovi e gli scrittori che ne parlano non fanno altro che ripetere le parole di Gesù, sia pure accentuando la realtà della sua carne in senso antidoceta: « L'Eucaristia è farmaco di'immortalità » e « antidoto per non morire »: è « la carne del nostro Signore Gesù Cristo, che ha patito per i nostri peccati e che il Padre per sua benignità ha risuscitato ».

Dal 2° secolo i fedeli si portavano a casa un po' di pane consacrato per conservarlo e mangiarlo in seguito. Spesso se lo tenevano addosso in un sacchetto di tela, per usarlo, quale talismano, nei viaggi e nei momenti di pericolo. In alcuni casi lo ponevano in bocca a un cadavere quale viatico., come facevano i greci con l'obolo, per cui i vescovi dovettero intervenire e biasimare alcune pratiche superstiziose e talora persino sacrileghe.

Nei secoli 4° e 5° sorgono le prime timide spiegazioni del mistero eucaristico.

1) In Oriente . I padri greci parlano di una « trans-elementatio » (metastoicheìosis), per mezzo della quale gli elementi (stoicheìa) del pane e del vino si convertono e si cambiano nel corpo e nel sangue di Cristo. Cirillo di Gerusalemme (m. 386), che esprime tale concetto più chiaramente dei suoi predecessori, lo paragona al cambiamento dell'acqua in vino, per cui il pane e il vino « sono » il corpo e il sangue di Cristo:

Non li considerate come elementi ordinari... anche se i sensi ti suggeriscono tale pensiero; la fede ti dà la certezza assoluta. Non giudicare la realtà dal gusto; dalla fede trai invece la certezza che tu sei stato reso degno del corpo e del sangue di Cristo.

Teodoro di Mopsuestia (m. 428), insistendo sul medesimo concetto, scriveva:

Il Signore non disse: Questo è il simbolo del mio corpo e questo è il simbolo del mio sangue; ma: Questo è il mio corpo e il mio sangue, insegnandoci a non considerare la natura della cosa presentata, ma a credere che essa, per il rendimento di grazie, si è tramutata in carne e sangue.

Tuttavia domina in Oriente una concezione dinamica delle cose, differente da quella ontologica medievale. Le realtà materiali per i greci « possono rivestirsi di tutte le proprietà secondo il volere del Creatore » (Origene, Contra Celsum 3, 41 GCS 1, p. 237) tramite la potenza dello Spirito Santo che le compenetra. Lo Spirito, ad esempio, come permea l'olio rendendolo qualcosa di sacro, di divino, così, dopo l'invocazione a lui rivolta, trasforma il pane nel corpo di Cristo:

Come il pane eucaristico dopo l'episclesi (o invocazione dello Spirito Santo) non è più semplice pane, bensì il corpo di Cristo, così anche questo santo profumo con l'episclesi non è più un semplice profumo comune, ma è il dono di Cristo, essendo divenuto, per la presenza dello Spirito Santo, un dono efficace della sua divinità (Cirillo di Gerusalemme, Catech. Myst. 3, 3 SC 126, p. 124).
Noi supplichiamo Dio, amante dell'uomo, di inviare lo Spirito Santo sui doni deposti, per fare del pane il corpo di Cristo e del vino il sangue di Cristo; poiché tutto ciò che lo Spirito tocca, viene santificato e trasformato (ivi, Catech. Myst. SC 126, p. 154).

Come il cristiano è un uomo la cui carne è stata afferrata dallo Spirito Santo, cioè da Dio, così anche il pane e il vino sono in un certo qual modo compenetrati dallo Spirito Santo, che vi attua una specie di incarnazione sacramentale e culturale del Logos. Si veda come il concetto fondamentale degli orientali non sia affatto quello del cambiamento di sostanza; la sostanza metafisica del cristiano o dell'olio sacramentale rimane tale e quale, anche se è trasformata dallo Spirito Santo che dimora in essa. Così avviene pure per il pane e il vino eucaristici, che vengono tramutati in virtù della presenza divina che li compenetra. Non vi è una forma sacramentale magica, bensì un'invocazione dello Spirito Santo che è mezzo di santificazione. La chiesa torna a Dio e si apre allo Spirito Santo; Dio vi risponde rendendo presente il Cristo. Lì, in questa comunione con il Cristo, si realizzerà l'unità della chiesa, la cui autorità non può oltrepassare i limiti della propria giurisdizione sacramentale. Quindi non vi può essere alcun papato, perché il vescovo non ha autorità al di là della propria chiesa locale.

Questo concetto eucaristico si rifà alla metafisica platonica, secondo la quale tutti gli esseri sono una copia, più o meno lontana, dell'idea originale che ripetono in modo imperfetto. Solo che i cristiani hanno trasferito questo concetto metafisico dalle idee statiche a un fatto storico: l'originale è la morte salvifica di Cristo che si presenta a noi nella sua copia, quale il battesimo prima e la celebrazione eucaristica dopo. L'originale in un certo senso è presente nella copia, ma la copia non è tutto l'originale, proprio perché ne è una copia. E' visibile nella fede, ma tuttavia ancora nascosto perché poggia sulla fede. Il Cristo è presente nell'eucaristia, ma in modo nascosto e solo provvisorio. Tuttavia questa interpretazione dell'eucaristia non esprime sufficientemente l'elemento personalistico; la fede, che si richiede per accedere all'eucaristia, è solo un prerequisito, poi lo Spirito Santo fa tutto per conto proprio, La fede apre la porta, poi agisce Dio. Mentre nella Bibbia è l'uomo credente, che attua la Cena, che accoglie Gesù in se stesso tramite il pane e il vino ricevuto con fede, presso i padri greci, al contrario, il pane e il vino che prima erano possesso dell'uomo, diventano poi possesso dello Spirito Santo: è infatti lo Spirito Santo che se ne appropria e ne trasforma gli elementi. Il metabàllein esprime quindi un semplice cambiamento di possesso.

2) In Occidente . I latini, invece, meno speculativi, almeno all'inizio, misero l'accento più sull'aspetto sacramentale del segno o della figura del pane e del vino, restando così più vicini al senso biblico delle parole, senza profonde indagini metafisiche. Per Tertulliano e Agostino il pane e il vino nell'Eucaristia sono la « figura », il « tipo », il « segno » del corpo e del sangue di Cristo. E' ancora l'antica concezione immagine-copia, che qui affiora. Ambrogio ammette la presenza stessa del Cristo:

Il Signore Gesù stesso lo proclama: Questo è il mio corpo. Prima della benedizione delle parole celesti lo si chiama con un altro nome, dopo la consacrazione, è denominato corpo. Lui stesso dice che è il suo sangue. Prima della consacrazione lo si chiama diversamente, dopo la consacrazione lo si chiama sangue (De Mysteriis 54)
Lo stesso Signore Gesù ci ha testificato che riceviamo il suo corpo e il suo sangue. Forse che dobbiamo dubitare della verità e della autorità della sua testimonianza? (De Sacramentis IV, 23).
Ma forse tu dici: Questo è il mio pane ordinario. Ma questo pane è pane prima delle parole sacramentali. Quando avviene la consacrazione, il pane diventa la carne di Cristo ( de pane fit caro Christi, De Sacramentis IV, 14).

Questo è dovuto alla parola creatrice di Dio:

Non era il corpo di cristo prima della consacrazione, ma dopo la consacrazione vi dico che è ormai il corpo di Cristo. Egli disse e fu fatto, egli ha ordinato e fu creato (De Sacramentis IV, 16).
Perché cerchi qui nel corpo di cristo l'ordine della natura quando lo stesso Signore Gesù è nato da una vergine al di fuori dell'ordine della natura? (De Mysteriis 53).

E ancora:

Prima delle parole di Cristo il calice è pieno di vino e di acqua, ma quando hanno operato le parole di Cristo vi si forma il sangue che redime il popolo (De Sacramentis IV, 28).

Mentre accoglie il pensiero greco di originale-copia (immagine), Ambrogio lo sorpassa e apre un contrasto tra natura e benedizione; anziché poggiare come i greci sulla legge cosmica che tutto è immagine dell'idea divina, egli fa ricorso alla volontà creatrice di Dio e di Cristo.

Forse tu dici: io vedo però qualcosa d'altro (invece del corpo di Cristo)! Come fai a ritenere che io ricevo il corpo di Cristo? E veramente dobbiamo dimostrarlo. Quanti esempi (della Scrittura) dobbiamo presentare per provare che qui non si tratta di ciò che la natura ha formato, e che la potenza delle benedizione è più grande della forza naturale, perché con la benedizione la natura stessa viene mutata (De Mysteriis 9, 50 CSEL 73, 110).
Se la parola di Elia era tanto potente da far cadere il fuoco dal cielo, non deve la parola di Gesù essere capace di cambiare la natura (specie) degli elementi? Tu hai letto sulla creazione del mondo intero: Disse e fu fatto, comandò e fu creato. Non può dunque la parola di Cristo, che poteva creare dal nulla ciò che non esisteva, tramutare ciò che già esiste in ciò che ancora non è? Il dare alle cose una nuova natura non è (per la parola di Cristo) da meno del mutare la loro natura (ivi 9, 52 CSEL 73, 112).

Ad ogni modo, nonostante queste affermazioni così realiste, anche Ambrogio ricorda ancora un testo del canone eucaristico leggermente differente dal posteriore testo romano, che così suonava: « Accordaci che questa offerta spirituale sia approvata e accettabile, perché essa è il simbolo (figura) del corpo e del sangue del nostro Signore Gesù Cristo » (De Sacramentis 4, 5, 21 SC. Botte 1961, p. 115).

I latini, anziché dare valore all'invocazione dello Spirito Santo, misero più in risalto l'aspetto commemorativo dell'Eucaristia tramite la ripetizione delle parole di Gesù, divenute poi la formula della consacrazione.

Al 4° secolo la celebrazione eucaristica aveva assunto le linee essenziali della messa futura, con le letture, il bacio fraterno, la recita del Padre nostro. Cirillo, vescovo di Gerusalemme, così descriveva la comunione come si attuava verso il 352:

I fedeli andavano all'altare porgendo la mano destra al di sopra della sinistra «quasi fosse un trono», e il celebrante vi deponeva un pezzo di pane, sul quale era stato pronunciato il ringraziamento. Il comunicando doveva stare attento a non perderne nemmeno la più piccola parte: «Dimmi un po' se uno ti desse della polvere d'oro, non la custodiresti con la massima cautela, stando attento di non perderne nulla, per non subirne danno?» Del vino se ne beveva un sorso stando in atto di adorazione.
Le donne anziché porgere la mano nuda, la ricoprivano con un panno di lino
(Cirillo di Gerusalemme, Catech. Myst. 5, 21 s SC 126, pp. 170-172).

Per mostrare in modo visibile l'unità della « chiesa locale », in molte città si celebrava nelle feste una sola Eucaristia, compiuta dal vescovo circondato dai suoi presbiteri, anche se non tutti i fedeli potevano prendervi parte. Così, ad esempio, a Milano solo 5000 persone potevano trovare posto nella basilica di S. Ambrogio, mentre tutti gli altri fedeli, circa 30.000, restavano senza il sacrificio eucaristico.

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b) Dal VII al XIX secolo

Dal 7° secolo cessò l'offerta del pane da parte dei fedeli perché i monaci si incaricavano di prepararlo; nacque in tal modo l'ostia che con più facilità si poteva porgere ai comunicandi.. A partire dal 9° secolo tale uso si diffuse per tutta l'Europa. Sorse allora la consuetudine di ricevere il sacramento in ginocchio, non per venerazione gli antichi mostravano venerazione stando in piedi o prostrati ma per rendere più agevole al sacerdote di porre la particola sulla lingua del fedele. Si continuò a bere il vino, nonostante che esso riuscisse sgradevole a qualche persona, che creasse dei problemi igienici per la malattia di qualche cristiano e ce ne volesse una gran quantità per la cresciuta moltitudine dei fedeli. Talora si cercò di migliorarne l'igiene con l'uso di una cannuccia, che ognuno si prendeva o portava con sé. In Oriente sorse la consuetudine tuttora in uso di intingere dei bocconcini di pane nel vino, che poi di distribuivano con un cucchiaino ai singoli comunicandi.

Il mondo germanico ebbe la tendenza ad accentuare l'oggetto reale; basti ricordare la penitenza tariffata per espiare un colpa che poteva essere surrogata con opere di altro genere e perfino da parte di persone diverse dal colpevole. Questa tendenza « cosificante », direbbe il Gerken si fece sentire anche nella valutazione dell'eucaristia, ed esplose nella controversia del IX secolo ad opera di due monaci del monastero di Corbie nella Francia Settentrionale, provocata appunto dalla separazione tra il simbolo e la realtà, prima tra loro ricollegati. Pascasio Radberto, abate di Corbie (m. 851 o 860) ne accentuò la realtà fisica (fisico-ralistica o reale somatica), mentre il monaco Ratramno (m. 858) ne esaltò il valore simbolico (in figura).

Pascasio, al posto del rapporto precedente sta il Cristo (originale) e il cibo eucaristico (immagine) celebrato dalla comunità, vi sostituì il rapporto tra l'immagine data dalle apparenze percepite dai sensi e l'originale che è la realtà non percepita dai sensi, bensì dalla fede. L'invisibilmente presente è lo stesso Cristo:

Così noi riceviamo nel pane ciò che pendette dalla croce e beviamo nel calice ciò che fluì dal fianco di Cristo (Lettera a Frudegardo PL 120, 1355 A).

Contro questa visione « cafarnaitica » così chiamata dalla reazione suscitata nei cafarnaiti alle parole di Gesù si eresse Ratramno che vide « il corpo autentico del Salvatore » nel corpo che « patì, fu sepolto e risorse », mentre quello eucaristico è solo « immagine ». « E' dimostrato con evidenza che il pane, chiamato corpo di Cristo e il calice chiamato sangue di Cristo, è immagine perché mistero » (De Corpore et sanguine Domini PL 121, 169 A). Mentre Pascasio tende ad identificare il corpo storico di Cristo con quello eucaristico, Ratramno cerca di insistere sulle differenze: per costui il corpo storico è realtà (veritas), il sacramento invece è immagine (figura) di quella realtà.

Due secoli dopo (XI secolo) sorse la famosa controversia di Berengario di Tours (m. 1088), arcidiacono della chiesa di Angers e scolastico (ossia Maestro di scuola) del monastero dei canonici di S. Martino di Tours, il quale sostenne che sull'altare, dopo la consacrazione, vi è nel pane e nel vino solo un « segno» della presenza di Gesù Cristo, perché il pane e il vino continuano ad essere « pane e vino ». Il pane e il vino non sono il vero corpo e il vero sangue, ma un'immagine (figura), una similitudine (similitudo). Biasimato dal Concilio di Roma nell'aprile del 1050 sotto leone IX, fu ricondannato nel settembre dello stesso anno a Vercelli, dove Berengario non si era presentato. Sotto Nicolò II fu costretto ad accettare una professione di fede redatta dal Sinodo romano del 1059 a sfondo terribilmente sensualistico e che, in seguito, fu biasimata dallo stesso Tommaso d'Aquino. Essa tra l'altro asseriva:

Sono d'accordo con la chiesa di Roma e la sede apostolica... e professo con la bocca e con il cuore che il pane e il vino posti sull'altare, dopo la consacrazione sono il vero corpo e il vero sangue di Cristo; che sensibilmente e non solo sacramentalmente, vengono in realtà toccati dalle mani sacerdotali, spezzati e triturati dai denti dei fedeli.

Il problema si riaprì nel Sinodo romano del 1079 sotto Gregorio VII. Ecco come risulta dagli atti di quel Concilio:

Adunati nella chiesa del Salvatore, si trattò del Corpo e del Sangue del Signore nostro Gesù Cristo, perché prima molti sentivano in un modo altri in un altro. La massima parte asseriva che il pane e il vino, tramite le parole della sacra orazione e consacrazione del sacerdote, per l'opera invisibile dello Spirito Santo, si converte sostanzialmente («substantialiter») nel corpo del Signore, che nacque dalla Vergine e fu appeso alla croce, e nel sangue che dalla lancia del soldato fu effuso dal suo costato, e questo difendeva in tutti i modi con le autorità degli ortodossi santi Padri, tanto greci che Latini. Alcuni, invece, colpiti da grande e lunga cecità, ingannando se stessi e gli altri con certi cavilli, si sforzavano di dimostrare trattarsi solo di una figura. Ma prima che si venisse al terzo giorno, la seconda parte cessò di adoperarsi contro la verità. Il fuoco dello Spirito Santo, annientando quel fuoco di paglia, e col suo fulgore oscurando la falsa luce, convertì in luce l'oscurità della notte. Alla fine Berengario, maestro di questo errore, dopo aver per lungo tempo insegnato l'empietà, confessò davanti al numeroso Concilio di aver errato, e per le sue suppliche meritò la clemenza Apostolica.

La formula uscita dal Concilio di Gregorio VII, e che fu imposta al giuramento di Berengario diceva:

Io Berengario, credo col cuore e affermo con la bocca che il pane e il vino posti sull'altare, per il mistero della sua orazione e per le parole del nostro Redentore, si convertono sostanzialmente («substantialiter») nella vera e propria vivificatrice Carne e nel Sangue di Gesù Cristo Nostro Signore, e dopo la consacrazione sono il vero Corpo di Cristo, che nacque dalla vergine, che fu appeso alla croce in offerta per la salvezza del mondo e siede alla destra del Padre, e il vero Sangue di Cristo sparso dal suo costato, non soltanto come segno e virtù del sacramento («non tantum per signum et virtute sacramenti»), ma anche nella propria natura e nella verità della sostanza («in proprietate naturae et veritate substantiae» Denz. Sch. 700).

Berengario giurò. Il papa gli ordinò di non disputare più sul Sangue e sul Corpo del Signore se non per richiamare alla fede allora professata e giurata quelli che per il suo insegnamento l'avevano abbandonata a proibì a tutti i fedeli di S. Pietro, di molestare Berengario « Figlio della chiesa Romana ». Forse per queste sue ultime parole, nel 1080 Enrico IV, re di Germania e d'Italia, riuniti a Brixen ventisette suoi vescovi dei quali diciotto dell'Italia settentrionale, ingiunse loro di deporre Gregorio VII per eleggervi al suo posto l'antipapa Guiberto, arcivescovo di Ravenna, e, tra le altre accuse, aggiunse questa: « antico discepolo dell'eretico Berengario, pone in questione la fede cattolica e apostolica del corpo del Signore ».

Principale avversario di Berengario fu Lanfranco di Bec (1010-1089) che, assieme a Guitmondo di Anversa (m. 1055), spianò la via alla transustanziazione dell'alto Medioevo. Accolto il concetto di sostanza introdotto da Berengario, come la somma delle proprietà percettibili dai sensi, egli distinse tra sostanza (substantia) e forma visibile (species visibilis) e per quanto concerne il corpo di cristo tra essenza (essentia) e sue proprietà (proprietates). Di qui la sua affermazione: « Noi crediamo... che le sostanze terrene... si trasformano nell'essenza del corpo del Signore » (De corpore et sanguine Domini PL 130, 430).

Quindi solo l'essenza e non le proprietà del corpo di Cristo sono presenti nel pane e nel vino eucaristici, mentre « la forma esteriore delle cose stesse » (ipsarum rerum species) viene mantenuta nel pane e nel vino (ivi 150, 420 D). Di conseguenza per Lanfranco l'eucaristia è sì un « segno », ma anche una presenza di Gesù, per cui sbaglia Berengario nel ridurla a un puro segno.

Tommaso d'Aquino cercò di chiarire con più precisione il carattere sacrificale della messa e il modo in cui il Cristo diviene presente nell'Eucaristia. Essendo impossibile per il corpo glorioso di Cristo trasferirsi con moto locale dal cielo alla terra ogni qual volta il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione, bisogna concludere che esso vi diviene presente mediante la conversione della sostanza del pane nella sostanza del suo Corpo e della sostanza del vino nella sostanza del suo Sangue, senza che per questo il Cristo aumenti o diminuisca di volume. Che si tratti di conversione della sola sostanza risulta dal fatto che anche dopo tale mirabile conversione continuano a essere presenti le apparenza – colore, durezza, sapore e forma – del pane e del vino (specie). Per sottolineare tale fenomeno fu coniato in quel tempo il termine di « transustanziazione ».

Tuttavia, per concomitanza, anche il sangue di cristo è presente nel pane e il corpo nel vino. Quindi colui che si ciba solo dell'ostia riceve tutto il Cristo allo stesso modo che colui che beve anche il vino. Poggiando su tali premesse il Concilio di Costanza, per ovviare ad alcuni inconvenienti, soppresse definitivamente nel 1415 l'uso del vino e introdusse l'obbligo del digiuno eucaristico dalla mezzanotte precedente la comunione. Tale dottrina si mantenne quasi inalterata – salvo alcune variazioni sul tempo del digiuno – sino ai più recenti documenti ufficiale della chiesa cattolica.

I fondatori del protestantesimo (sec. 16°) diedero interpretazioni diverse alla eucaristia: per Lutero , il corpo glorioso di Cristo si trova dovunque, anche in ogni pietra, nel fuoco e nell'acqua, come dovunque esiste Dio, al quale esso è personalmente unito. Per chi partecipa alla cena del Signore la presenza del Cristo nel pane e nel vino eucaristico diviene percepibile mediante le parole dell'istituzione (consustanziazione).

Per Calvino nella celebrazione eucaristica lo Spirito Santo attira a sé i partecipanti perché si incontrino con il Signore, così pure li attrae con la predicazione, con la preghiera e con il battesimo. Non è nel pane o nel vino, che si attua l'incontro – come affermava Lutero – bensì al di là dei due elementi materiali, vale a dire «» dove esiste il Cristo glorioso, l'unica realtà essenziale, che si unisce con i credenti.

Per Zwingli ed Ecolampadio l'eucaristia è invece un puro simbolo e la presenza del Cristo si realizza nella nostra mente.

Contro quei protestanti, che, per riaffermare l'aspetto biblico della Cena del Signore insistevano più sul concetto di « segno » che su quello di « sostanza » nella sessione 13° dell'ottobre 1551 il Concilio di Trento definì « transustanziazione » la mirabile « conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo... e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue », quale si attua con le parole della consacrazione pronunciate dal sacerdote. Con la presenza del Cristo sotto le apparenze visibili del pane e del vino, si « rinnova » e si « perpetua » il sacrificio della morte di Cristo. Eccone il passo fondamentale:

Prima di tutto il sacro Concilio insegna che in questo augusto sacramento della Santissima eucaristia, dopo la consacrazione del pane e del vino, sotto le specie (= apparenze) di queste cose sensibili, si contiene veramente e sostanzialmente il nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo... Se qualcuno negherà che nel santissimo sacramento dell'Eucaristia si contenga veramente, realmente e sostanzialmente il corpo e il sangue, insieme con l'anima e la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo e perciò tutto Gesù Cristo, ma dirà che in questo sacramento Gesù vi è soltanto in segno o in figura o in potenza, sia scomunicato.

Il vocabolo « transustanziazione », che fu « usato dalla chiesa cattolica per molti secoli, è, per il Concilio, assai conveniente e appropriato » (Sess. 13, Decreto sull'eucaristia c. 4, Denz. Sch. 1642). L'anno 1792 Paio VI ne lamentò l'omissione da parte del sinodo di Pistoia, come se non si fosse trattato di un termine coniato dalla chiesa per la salvaguardia di un « articolo di fede » (Cost. Auctorem fidei n. 29 Denz Sch. 2629).

Dal secolo XIX la pietà cattolica, lasciando nell'ombra il valore comunitario e simbolico dell'eucaristia, si rivolse particolarmente ad adorare nell'ostia il Cristo mediante le processioni e le benedizioni eucaristiche. La messa divenne il mezzo con il quale si rende presente il Cristo nell'ostia; mentre il carattere conviviale scomparve, in quanto basta una minima particella di ostia, per ricevere Gesù nella sua completezza. Alcuni teologi più recenti, volendo rifarsi meglio al concetto biblico di segno, ricordando che esso ha un legame inscindibile con la realtà significata e. nel caso presente, con il Cristo che muore sul Calvario, dissero che egli divine in un certo qual modo presente nel segno. Sorsero così alcuni nuovi tentativi per spiegare meglio la presenza eucaristica di Gesù e per chiarire il concetto medievale di transustanziazione.

Mentre in Italia si svolgeva una discussione tra l'interpretazione fisicistica (F. Selvaggi) e quella ontologica (C. Colombo) della conversione eucaristica, la teologia d'oltralpe si impegnava in un altro problema: se mantenere la parola transustanziazione troppo ontologica o cercare un altro termine più antropologico. Si pensò quindi di sostituire il vocabolo « transustanziazione » con altri termini più appropriati e accessibili come « transfinalizzazione » e « transsignificazione », dai quali apparirebbe meglio il fatto che la sostanza del pane e del vino si muta non sul piano della sostanza ma su quello della relazione con il « credente ». Tale idea, diffusa nel 1950 tramite un dattiloscritto francese attribuito a un « noto teologo testè defunto », fu valorizzata per primo da I. De Baciocchi. Secondo questi teologi il pane e il vino possono essere visti sotto diversi aspetti.

Per il chimico sono un puro aggregato di atomi, riuniti in modo caratteristico.

Il filosofo li vede nel loro aspetto ontologico particolare, e ne ricerca l'elemento costitutivo o sostanziale, per cui essi sono pane e vino e non sasso o acqua.

Per il religioso sono segno della provvidenza divina che viene incontro ai suoi figli dando loro il necessario nutrimento.

Per il cristiano , che partecipa all'eucaristia, il pane e il vino assumono un nuovo valore, in quanto significano il corpo e il sangue di Cristo, per mezzo dei quali l'amore di Dio dona salvezza ai credenti.

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C) Nuovi tentativi di spiegazione

Per la fede dl cristiano tutto è mutato in quel momento. prima il pane e il vino erano solo segno e prova della Divina Provvidenza, che procura ai suoi figli gli elementi indispensabili alla loro vita naturale; ma in quell'attimo diventano il simbolo efficace del sacrificio di Cristo, e conseguentemente della sua presenza spirituale. per volere di Dio creatore, gli alimenti della cena acquistano un nuovo valore: subiscono una trasformazione – la più profonda – che li tocca nel grado più intimo dell'essere, che è il costitutivo della loro vera realtà.
Ecco che cosa indica il nome di transustanziazione: non ne diminuiamo la realtà, ma affermiamo che essa non si attua a livello delle apparenze o della scienza o della filosofia. Per credere che questa trasformazione sia reale, basta solo credere che la verità religiosa è l'ultima parola della realtà
(Citazione tratta con piccole modifiche, a.c., p. 59, n.7. Da questo brano appare inesatta l'asserzione di Schillebeeckz: « Non mi consta che nella teologia cattolica anteriore al 1950 sia mai stata avanzata una interpretazione simbolica dell'eucaristia. E' però probabile che la critica di Roma poggi su di un malinteso » (la presenza eucaristica o. c., p. 117)).

B. Welte, in un simposio sull'eucaristia tenuto a Passau (Germania) dal 7 al 10 ottobre 1959, recava alcuni esempi significativi. Una cosa può cambiare la sua essenza secondo la diversa relazione che ha con Dio o con l'uomo: una stessa sostanza chimica può essere un alimento oppure un combustibile. Un tempio greco da un'opera artistica com'era per il costruttore, divenne una casa sacra («casa di Dio») per i fedeli che vi prestavano culto, e ora è un ricordo del passato per un turista. Un panno colorato può essere una tela multicolore, ma può divenire una bandiera nazionale, e quindi il simbolo di un popolo, assumendo così una realtà oggettivamente diversa da quella che era prima. Allo stesso modo il pane e il vino per volere di Dio diventano nella cena qualcosa di diverso dal comune pane e vino in quanto sono simbolo del corpo e del sangue di Gesù; quindi per il credente vengono transustanziati in un cero qual modo nel corpo e nel sangue di Cristo morto e risorto.

Un carissimo amico mi è più intensamente presente e agisce in me tramite una sua lettera più fortemente che non un estraneo che stia accanto a me con il suo corpo. « Due uomini possono trovarsi in stretto contatto fisico su di un tram sovraffollato ed essere infinitamente lontani l'uno dall'altro » (Ratzinger). Il regalo dei genitori in un giorno decisivo della vita conserva un peso e un significato che trascende il suo valore materiale; l'amore e l'amicizia sono capaci di elevare tali realtà al rango di segni realizzativi. Il fatto che Cristo dona se stesso nell'eucaristia, fa sì che il pane e il vino non sono più solo un nutrimento corporeo e un segno di comunione tra uomini; ma segni realizzativi della sua presenza in noi, della sua donazione per noi, del suo sacrificio che ci redime. « Proprio questa ampiezza di donazione, al di là di ogni spazio, è l'essenza del Risorto passato attraverso la morte » (Ratzinger).

Sia pure con sfumature diverse, pare che tale idea sia stata accolta da Ch. Davis, P. Schoonenberg, L. Smits, E. Schillebeeckz, A. Gerken e dallo stesso Catechismo Olandese dove si legge, tra l'altro, che « il pane è stato sottratto alla sua normale destinazione ed è divenuto il pane che il Padre ci ha offerto in dono: Gesù stesso ». La presenza di Cristo sussiste « fin tanto che sussiste qualcosa che il buon senso può chiamare ancora pane. Insomma: il termine pane va inteso non come concetto fisico, ma come concetto antropologico ».Perciò quando si mangia e scompare il pane, oppure quando il frammento è troppo minuscolo da non essere più considerato pane, allora non vi è neppure la presenza di Gesù. « Quando riceviamo il corpo di Cristo, la sua presenza diviene più intensa in noi, per mezzo dello Spirito ».

Prima del medio Evo non si è riflettuto in maniera speciale su ciò. Andava da sé che la realtà della presenza di Gesù consistesse in questo segno.
ll Medio Evo approfondiva maggiormente. La coscienza religiosa trovò allora questa espressione del mistero: gli «accidenti», cioè le specie, colore, gusto, ecc. del pane, restano; la «sostanza», cioè il fondo proprio, l'essenza del pane non resta, ma diventa Cristo stesso. Se si continua tale approfondimento secondo il nostro pensiero contemporaneo, ci si esprimerebbe così: il fondo proprio, l'essenza delle cose materiali e ciò che essi sono – ciascuna alla sua maniera – per l'uomo –. Ora nella messa l'essenza del pane diventa radicalmente un'altra: il corpo di Gesù come nutrimento per la vita eterna. Corpo significa in ebraico la persona presa come un tutto. Il pane è diventato tutta la persona di Gesù...
(Catechismo Olandese, pp. 403-404).

Secondo un recente studio di Ratzinger la transustanziazione non sarebbe un cambiamento nell'ordine delle realtà fisico-chimiche, bensì dell'autonomia, essenziale ad ogni essere. Quando il pane e il vino sono consacrati, essi perdono la propria autonomia per divenire puri e semplici segni della presenza di Cristo fra noi, sussistono solo « per lui e in lui ». Nella loro stessa essenza e nel loro essere sono ora segni , così come prima nella loro essenza erano « cose». E in tal modo sono veramente transunstanziati e raggiunti nella loro più segreta profondità e incomunicabile proprietà, nel loro essere, nel loro vero senso: in sé.

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2) Il Sacrificio eucaristico

a) Messa e sacrificio della croce

Assieme al problema della presenza di Gesù nel pane e nel vino eucaristico, si andò sviluppando anche lo studio dell'eucaristia nel suo aspetto sacrificale.

Ignazio di Antiochia nelle sue sette lettere non chiama mai sacrificio (thusìa) l'eucaristia.. I primi che ne parlano presentano come tale non la consacrazione del pane e del vino, bensì le preghiere dei cristiani che accompagnano la celebrazione eucaristica in armonia con i passi biblici. Giustino scrive:

(Dio) gradisce le preghiere degli individui della nazione (ebraica) dispersi (tra i popoli) e chiama sacrifici le loro preghiere. ora le preghiere e le azioni di ringraziamento compiute da uomini degni sono i soli sacrifici perfetti e graditi a Dio...; infatti solo questi i cristiani hanno avuto l'ordine di compiere, anche nella cerimonia del loro cibo solido e liquido, durante la quale commemorano la passione subita dal Figlio di Dio (Giustino, Dial. contro Trifone 117).

Egli vi unisce l'offerta del pane e del vino, sui quali a partire dal 2° secolo si sposta l'accento nel ricordare le offerte dei fedeli; questi elementi terrestri, che i cristiani portano a Dio, sono il sacrificio universale predetto da Malachia (1, 11).

Circa il sacrificio offerto a Dio da noi gentili in tutti i luoghi, cioè il pane e il calice dell'Eucaristia, ci fu allora una profezia nella quale Dio afferma che noi onoreremo il suo nome, quello che voi (ebrei) bestemmiate (Giustino, Dialogo 41, cita Ml 1, 11).

Nel nostro sacrificio presentiamo a Dio ciò che già gli appartiene sostiene Ireneo vale a dire il pane e il vino:

Nel dare le sue istruzioni ai discepoli perché offrissero a Dio le primizie della sua stessa creazione – non perché egli ne avesse bisogno ma perché essi recassero frutti di gratitudine – Gesù prese tra le cose create un po' di pane e un po' di vino, rese grazie e disse: Questo è il mio corpo. Anche per lo stesso calice che è parte della sua creazione e che appartiene a lui, egli confessò che era il suo sangue e in tal modo insegnò come doveva essere l'offerta della nuova alleanza. La Chiesa ha ricevuto il comando dagli apostoli e la offre in tutto il mondo a Dio che fornisce gli alimenti, come primizia dei suoi doni (Ireneo, Adv. Haer. 4, 17, 5).

Così, anche secondo Ireneo, si compie la profezia di Malachia circa il futuro sacrificio puro, offerto da Dio in ogni luogo. Che le parole di Giustino di riferiscano alla semplice offerta del pane e del vino, è reso chiaro in tutto il capitolo seguente (c. 18) di solito trascurato dai teologi:

«Noi siamo obbligati a offrire a Dio le primizie della sua creazione, come comandò Mosè dicendo di non apparire dinanzi a Dio con mani vuote ». La differenza tra le antiche offerte e le nuove sta nel fatto che noi, cristiani, siamo liberi e non schiavi come gli ebrei. « Solo la chiesa offre al creatore questa offerta pura, presentandogli, con ringraziamenti, cose prese dal creato ». « Noi ora gli presentiamo delle offerte, non perché egli ne abbia bisogno, ma per ringraziarlo dei suoi doni, e in tal modo santifichiamo quello che egli ha creato ». Inizialmente, come appare al tempo di Ippolito (3° secolo), l'eucaristia fu appunto chiamata anche «offerta», proprio per il risalto che si dava alla presentazione dei doni: pane, vino, olio, aiuto per i poveri. Appunto tale offerta costituiva allora il vero e proprio sacrificio dei fedeli, e non un solo rito preparatorio al sacrificio eucaristico. L'eucaristia, al dire di Agostino, non era la rinnovazione di un sacrificio della croce, ma solo « la memoria del sacrificio della croce che si attua dopo l'ascensione di Gesù (al cielo) » (Agostino, Contra Faustum 20, 21).

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b) Sacrificio e sacerdozio

Con lo sviluppo liturgico della messa, la presidenza fu riservata a qualche persona (vescovi-sacerdoti) per cui si andò formando l'idea che il sacerdote avesse un potere superiore a quello dei semplici laici. Prima ognuno compiva la sua offerta sacerdotale, in seguito i fedeli la presentavano al sacerdote scelto dalla comunità. Il primo passo si compì in Africa con Cipriano che così scrive:

Dal momento che Gesù Cristo, Signore e Dio nostro sommo sacerdote di Dio e primo offerente di se stesso al Padre in sacrificio, comandò di fare questo in sua memoria, davvero il sacerdote che imita quello che Gesù ha fatto, compie esattamente l'ufficio di Cristo e nella chiesa di Dio offre un vero e completo sacrificio qualora si accinga ad offrirlo nello stesso modo con cui ha visto il Cristo offrirlo (Cipriano, Ep 63 (62) PL 4, 385).

L'offerta dei doni (pane e vino), pur essendo ancora un atto del sacerdozio universale dei credenti, è ora data nelle mani dei sacerdoti ufficiali perché essi stessi la presentino a Dio.

Il sacerdote scrive Agostino – prende da voi ciò che egli sta per offrire per conto vostro, quando volete riconciliarvi con Dio per i vostri peccati (Agostino, Enarrationes in Ps 129, 7).

Tuttavia anche la processione dei fedeli conserva tuttora il suo valore perché ad essa nota Ambrogio non possono partecipare i neo-battezzati prima degli otto giorni dal loro battesimo e nemmeno gli scomunicati, come prescrive il Sinodo di Elvira (c. 50) (Ambrogio, In Ps 118, prol. 2; Sinodo di Elvira (a. 305) can. 60). Ancora al 6° se4colo il concilio di Maçon (a. 585) prescriveva a tutti i cristiani, uomini e donne, di portare all'altare ogni domenica del pane e del vino (can. 4).

Con l'idea della transustanziazione l'offerta compiuta dai fedeli, sia pure tramite il sacerdote, passò in seconda linea e si ritenne un sacrificio quello che il sacerdote compie rendendo presente Gesù, senza alcun riguardo al sacrificio dei fedeli. Ormai è il celebrante che rinnova nella messa il sacrificio di Cristo, per cui l'accento passò dall'offertorio ritenuto ormai una sua semplice preparazione alla consacrazione, che, come vero sacrificio, rinnova in modo incruento quello della croce.

Tommaso D'Aquino ha mostrato che anche i cristiani hanno nell'eucaristia, un sacrificio da offrire, perché è legge di natura che ogni religione abbia il suo sacrificio (Summa Teol. 2.2 ae q. a. 1). Esso non consiste nella comunione bensì nella consacrazione; la partecipazione al sacrificio è tuttavia necessaria per cui i sacerdoti si comunicano sia per se stessi, sia in rappresentanza dei fedeli (ivi 3, 80, 12). L'eucaristia è offerta dallo stesso Cristo per bocca del sacerdote e possiede la stessa efficacia del sacrificio della croce, che essa rappresenta e commemora (3, 83, 1).

I protestanti, poggiando sull'affermazione biblica che unico e irripetibile è il sacrificio della croce, negarono che la messa fosse un vero sacrificio. La prima testimonianza ufficiale del termine transustanziazione si ebbe solo nel 1215 con il concilio Lateranense IV.

Nella chiesa il sacrificio è dato dallo stesso sacerdote Cristo Gesù, il cui corpo e sangue si contengono nel sacramento dell'altare sotto le specie del pane e del vino dal momento in cui, per divino potere, il corpo si transostanzia nel pane e il sangue nel vino (c. 1 De fide catholica contra Albigenses et Catharos, Denz. Sch. 802).

Per tale motivo il Concilio di Trento scomunicò chiunque negasse il sacrificio della messa.

Se qualcuno dirà che nella Messa non si offre a Dio un vero e proprio sacrificio, oppure che questo consiste solo nel fatto che Cristo viene dato in cibo, sia scomunicato (Concilio di Trento, Sess. 22 (a. 1562) Denz. Sch. 1751).

In epoca moderna i teologi hanno tentato di chiarire meglio l'essenza del sacrificio eucaristico, seguendo due correnti: l'offerta a Dio e l'immolazione.

1) Offerta . Secondo il Lepin, Suarez, Scheeben è solo l'offerta e non l'immolazione che appartiene all'essenza del sacrificio. L'olocausto è ucciso solo per essere bruciato e così produrre qualcosa di profumato e gradito da offrire a Dio. Dopo il sacrificio di Noè: « Il Signore odorò la fragranza soave e disse: Non... colpirò ogni essere vivente (mediante il diluvio) » (Ge 8, 21). La Messa è quindi un sacrificio perché è una nuova offerta della croce, compiuta da Gesù tramite il sacerdote.

2) L'immolazione sarebbe invece essenziale al sacrificio, per cui senza l'effusione di sangue, non vi sarebbe remissione di peccato. Quindi anche la messa deve consistere in una immolazione, che però è intesa in modo diverso.

a. Essa consiste nel fatto che gesù glorioso (che già una volta si incarnò) ora di annichila e assume la forma di cibo e di bevanda. Così in passato sostennero il De Kugo e Vasquez.

b. Per altri (Billot, O. Casel, A. Piolanti, O. Betz) l'immolazione avverrebbe solo simbolicamente, perché dopo la consacrazione il corpo e il sangue (anche se nella realtà non sono disuniti tra loro) sono tuttavia rappresentati come se fossero separati sotto le specie del pane (corpo) e del vino (sangue). « La Messa è una celebrazione rituale e la ripresentazione dell'azione divina (...) nella quale il fatto salutare del passato diventa presento nel rito (...) per cui la comunità che vi partecipa ottiene in tal modo la salvezza » (Casel).

3) Per il De La Talle la Messa sarebbe un nuovo sacrificio solo per il fatto che la chiesa aggiunge la propria offerta sacrificale alla immolazione compiuta da Gesù sulla croce e che viene ricordata dai simboli eucaristici. Ma in tal caso non sarebbe più il sacrificio della croce (che è unico ed irripetibile), bensì un nuovo sacrificio diverso dal precedente.

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c) Partecipazione al sacrificio da parte dei fedeli

Anche i fedeli hanno parte nell'azione liturgica della santa Messa, come asseriva già nel medio Evo Innocenzo III (m. 1216).

Non soltanto offrono i sacerdoti, ma anche tutti i fedeli; perché ciò che (nell'Eucaristia) si compie per il ministero dei sacerdoti, si compie universalmente per voto dei fedeli (Innocenzo III, De sacro altaris mysterio 3, 6).

Scriveva Pio XII:

E' necessario che tutti i fedeli considerino loro principale dovere e somma dignità partecipare al sacrificio eucaristico non con una assistenza passiva, negligente e distratta, ma con tale impegno e fervore, da porsi in intimo contatto con il sommo sacerdote (Gesù) (Pio XII, Mediator Dei (a. 1947)).

Come partecipano i fedeli a questo sacrificio? Ce lo spiega la Mediator Dei di Pio XII.

A questa oblazione propriamente detta i fedeli partecipano nel modo loro consentito e per un duplice motivo: perché essi offrono il sacrificio non soltanto per mano del sacerdote, ma in un certo modo, anche insieme con lui, e con questa partecipazione la stessa offerta fatta dal popolo si riferisce al culto liturgico (Pio XII, Mediator Dei (a. 1947) Denz. Sch. 3851).

Sin dai primi tempi della chiesa i cristiani contribuivano attivamente alle spese per la cena del Signore e per la stessa comunità presentando i propri doni nel cosiddetto offertorio: pane, vino, cibo per i poveri, olio per le lampade della illuminazione. Più tardi questo comportamento comunitario fu sostituito da un modo di agire più individualistico: la Messa fu valutata per i suoi effetti che produce per se stessa e si è pensato di indirizzare tali benefici spirituali verso se stessi o verso i defunti. perché tale applicazione si effettuasse, i cristiani hanno pensato di offrire del denaro al sacerdote perché offrisse una o più messe per una determinata intenzione. Il sacerdote si tiene tale denaro per il proprio sostentamento o per altri bisogni. Solo nel caso che egli celebri di domenica più messe, ha il diritto di tenersi l'offerta di una sola Messa, mentre l'eventuale contributo per l'altra o le altre viene devoluto al vescovo oppure utilizzato in opere di carità secondo le disposizioni episcopali. Nel Medioevo si infiltrarono al riguardo anche delle superstizioni, come nel caso delle cosiddette messe gregoriane.

Paolo VI con il motu proprio Firma in traditione spinto forse dalla crescente diminuzione di tali offerte ne sottolineò il vantaggio spirituale:

Costoro, spinti dal loro senso religioso ed ecclesiale, si uniscono alla celebrazione della Pasqua del Signore con un loro personale concorso... si associano in un modo più intimo al Cristo sofferente e ne percepiscono frutti più abbondanti.

In qualche luogo l'offerta di messe costituisce l'unico mezzo con cui i sacerdoti e i loro collaboratori possono venire sostentati. La chiesa quindi « non solo approva ma incoraggia il contributo dei fedeli tramite l'offerta di sante messe » (Firma in traditione del 13 giugno 1974; Oss. Rom. 28-6-74, p. 1).

Penso che i cristiani dovrebbero evidentemente aiutare le loro guide spirituali come suggerisce l'apostolo Paolo (1 Co 9, 4-11; 1 Ti 5, 17 s) e come lui pure venne aiutato in particolari momenti di necessità (Fl 4, 10-20), ma ciò entro i limiti suggeriti dalla parola di Dio. Tale aiuto deve essere effettuato per amore e non per interesse personale (come nel caso delle messe applicate a se stessi o a propri defunti), senza incorrere nella superstizione (messe gregoriane) e senza attribuire un'efficacia inesistente a un sacrificio non biblico. L'efficacia viene ai cristiani dal sacrificio della croce, di cui ogni credente si appropria tramite la fede obbediente.

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3) Insegnamento moderno del magistero ecclesiastico

La dottrina eucaristica del Vaticano II e, specialmente di Paolo VI, pur riallacciandosi sostanzialmente alla dottrina tradizionale, ha messo in particolare rilievo i seguenti punti:

a) Accento sul sacrificio eucaristico piuttosto che sul realismo sostanziale della presenza di Gesù

Nella Cost. Sacrosantum Concilium leggiamo: « Il nostro Salvatore nell'ultima cena, la notte in cui fu tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue, onde perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il Sacrificio della croce... Sacramento nel quale si riceve il Cristo » (n. 47).

«La Messa è il sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo, i quali sono così in un certo modo presenti» (Cost. Lit. 47); è «il sacrificio per eccellenza » (Presbyt. ordinis 5), nel quale i sacerdoti « ripresentano... l'unico sacrificio di Cristo, che una volta per sempre ha offerto se stesso al Padre » (Cost. Chiesa n. 28) e « perpetua nei secoli... il sacrificio della croce » (Cost. Lit. n. 47).

Paolo VI, nell'Omelia per la festa del Corpus Domini (29 maggio 1975), ha detto: « Gesù compie gesti insoliti... distribuendo ad un dato momento pane e vino così radicalmente investi da nuove, qualificanti ed essenziali definizioni del suo proprio corpo e del suo proprio sangue da trasformare il pasto in sacrificio » (Oss. Rom. 30-5-75 p. 1).

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b) Valore simbolico del pane e del vino

Sulla scia dell'insegnamento biblico Paolo VI ha accentuato il valore simbolico dei segni visibili, che riguarda tanto la comunione con il Cristo quanto la comunione dei fedeli tra loro.

1) Comunione con IL Cristo

Il pane e il vino, queste specie tanto comuni hanno valore di simbolo, di segno: segno di che? ... segno che Cristo vuol essere nostro cibo, nostro alimento, principio interiore di vita per ciascuno di noi... L'incarnazione si estende nel tempo affinché ogni cristiano divenga davvero come il tralcio alimentato dal ceppo dell'unica vie (Gv 15, 1), il prolungamento di Cristo » (Paolo VI, Allocuzione del 5-6-69, Oss. Rom. 6/7-6-69, p. 1).

2) Simbolo dell'unità ecclesiastica. Il Concilio Vaticano II ha più volte ribadito questo concetto:

Col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata e si compie l'unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (Cost. Chiesa (21-11-64) n. 3).

«L'eucaristia è segno perfetto di unità », è « causa meravigliosa dell'unificazione dei credenti con Gesù Cristo e fra di loro » « benché alimenti grandemente la vita intima, essa eccelle anche per l'efficacia sociale », ed è « sorgente della vera amicizia ». L'eucaristia « è istituita perché diventiamo fratelli; è celebrata dal sacerdote ministro della comunità cristiana, perché da estranei, dispersi e indifferenti gli uni dagli altri, noi diventiamo uniti, uguali ed amici; è a noi data perché da massa apatica, egoista, gente fra sé divisa ed avversaria, noi diventiamo un popolo, un vero popolo, credente e amoroso, di un cuore solo e di un'anima sola ». « La grazia specifica di questo sacramento è precisamente l'unità del corpo mistico... l'eucaristia è figura e causa di questa unità », Essa « significa e produce una comunione di fede che può avere un enorme e incomparabile beneficio riflesso sulla società temporale degli uomini... è il sacramento capace di renderli fratelli ».

«Gesù ha dato se stesso come alimento interiore di vita personale e come principio di unità sociale, vivente ed organica, così da compaginarci tutti, nella pienezza della nostra singola personalità, in un solo corpo, il suo corpo mistico, che è la comunione dei santi, la chiesa cattolica» Appunto perché l'eucaristia è simbolo di unità ecclesiale non è possibile l'intercomunione con i fratelli separati, a meno che non si tratti di ortodossi, assai più vicini al cattolicesimo di tutti gli altri credenti separati. Di qui la preghiera eucaristica: « Guarda con amore e riconosci nell'offerta della tua chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione, a noi che ci nutriamo del suo corpo e del suo sangue dona la pienezza dello Spirito Santo, perché diventiamo in Cristo, un solo corpo e un solo spirito ».

Non si tratta evidentemente di novità, perché era vissuta tale idea dai primordi del cristianesimo: già la Didachè, verso la fine del 1° secolo, affermava: « Come questo pane era sparso su per i colli e, raccolto, divenne una cosa sola, così si raccolga la tua chiesa dai confini della terra nel tuo regno» (9, 4). Tale concetto dominava in Africa dove Cipriano, vescovo martire del 3° secolo, scriveva: « Quando il Signore chiama il suo corpo pane, risultante dall'unione di molti grani, vuole indicare il nostro popolo adunato ». E altrove « nel sacramento stesso si mostra il nostro popolo riunito ».

Sulla scia di tali idee unitarie, Agostino sottolineava che l'unità della chiesa è creata nell'eucaristia:

Uno solo pane formato da molti grani, un solo corpo composto da molti membri, così la chiesa di Cristo, è composta da molti fedeli, che sono uniti nella carità.

Dello stesso è l'espressione: « O sacramentum pietatis! O signum unitatis! O vinculum caritatis! ».

Anche Tommaso, riallacciandosi al vescovo di Ippona, scriveva:

L'Eucaristia realizza l'unità della chiesa perché consiste in una comunione mediante la quale gli uomini sono uniti a Cristo, in quanto partecipano al suo corpo e alla sua divinità, e di conseguenza vengono puri uniti tra di loro. L'unione comprende due unità: la prima riguardante l'incorporazione che ci unisce a Cristo e la seconda consiste nell'unità che noi stessi riceviamo dal Cristo capo.

Ma nel corso dei secoli tale idea rimase soffocata dai problemi riguardanti la presenza reale di Cristo, per cui ha fatto bene il magistero della chiesa cattolica e riesumarla nei tempi moderni. Il concetto dell'eucaristia come segno di unità ha fatto sorgere il problema se alla comunione eucaristica dei non cattolici possano partecipare i cattolici, per i quali « l'unica chiesa di cristo, costituita e organizzata in questo mondo come società, sussiste solo nella chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui ». Secondo costoro, dal momento che l'eucaristia è il sacramento dell'unità della chiesa, ne deriva che quanti non sono cattolici non possono accedere all'eucaristia cattolica. Il problema è stato più volte esaminato dal Concilio Vaticano II sia dal Segretariato per l'unione dei cristiani.

Nel decreto conciliare sull'ecumenismo Unitatis redintegratio su dichaiara che « comunicazione nelle cose sacre non si deve usare indiscriminatamente come mezzo per ristabilire l'unità dei cristiani » (n. 8). In altre parole non si può permettere la comunione eucaristica ai fratelli separati con lo scopo specifico di facilitare il loro ingresso nella chiesa cattolica. Il Segretariato per l'unione dei cristiani si è espresso prima nel suo Direttorio ecumenico (1967 nn. 44 e 55) e poi nell' Istruzione del 1972 sui «casi di ammissione di altri cristiani alla comunità eucaristica della chiesa cattolica ».

Nel sacrificio della Messa, celebrando il mistero di Cristo, la chiesa celebra il proprio mistero e manifesta concretamente la sua unità (n. 2b). la relazione tra la celebrazione locale dell'eucaristia e l'intera comunione ecclesiale viene indicata anche nel ricordo speciale del papa, del vescovo locale e degli altri vescovi (n. 2c). Quindi per sua natura la celebrazione eucaristica esige una piena professione di fede e una completa comunione ecclesiale (n. 4a).

Ora tale principio sarebbe alterato qualora un fratello separato, pur professando una fede diversa dalla cattolica, chiedesse di ricevere questo sacramento per manifestare la sua unione fraterna con i cattolici, senza però entrare a far parte della loro chiesa. Ma se invece, non potendo ricorrere « al ministro della propria fede ecclesiale per un periodo prolungato di tempo », sentisse il bisogno « di questo nutrimento spirituale », il vescovo locale deve giudicare se quel fratello separato, vivente nella diaspora a riguardo della sua chiesa, possa essere ammesso alla comunione eucaristica (n. 6). Questo riguarda particolarmente gli ortodossi perché costoro, pur essendo separati da Roma, di fatto riconoscono la successione apostolica, il sacerdozio e l'eucaristia, e quindi sono uniti alla chiesa cattolica da uno stretto legame. I cattolici, nelle stesse condizioni, possono pur essi partecipare alla comunione ortodossa..

Infine una nota del 17 ottobre 1973 dello stesso Sgretariato osserva che: «il desiderio della partecipazione comune all'eucaristia esprime in fondo il desiderio stesso della perfetta unità ecclesiale di tutti i cristiani come Cristo l'ha voluta » (n. 10). Quindi essa concludeva con:

«la speranza che il movimento ecumenico ci conduca a una comune professione di fede tra i cristiani e ci permetta così di poter celebrare nell'unità ecclesiale l'Eucaristia, adempiendo le parole (dell'apostolo): Perché v'è un solo pane, noi pure siamo un corpo solo » (n. 10).

Siamo anche qui ben lontani dalla valutazione di Paolo che suggeriva la credente di « esaminare personalmente se stesso » prima di accedere alla cena del Signore, senza bisogno di legislazioni ecclesiastiche che gli permettano o gli proibiscano di fare la comunione.

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c) Presenza di Cristo

Molti teologi moderni hanno notato l'assenza della parola « transustanziazione » tanto nei documenti conciliari (Vaticano II) quanto in molti discorsi di Paolo VI; hanno pure rilevato che la dichiarazione ecumenica di Windsor (commissione internazionale anglicana e cattolico-romana) del 7 settembre 1971, ha evitato, sia pure per evidenti ragioni di carità fraterna verso i « fratelli separati » non cattolici, di nominare la « transustanziazione ». Ma da questo fatto sarebbe arbitrario ed erroneo dedurre che il magistero cattolico odierno abbia accolto il pensiero di quei teologi particolarmente olandesi che cercano di minimizzare la trasformazione ontologica del pane e del vino a vantaggio della sua simbologia. Troppi documenti vi sono contrari:: bisogna credere dice Paolo VI che dopo la consacrazione, il pane e il vino « sono un'altra cosa del tutto diversa » e ciò non solo in base al giudizio della fede ecclesiastica ma per la realtà oggettiva, in quanto convertitasi la sostanza del pane e de vino nel corpo e nel sangue di Cristo, nulla più rimane del pane e del vino se non le sole specie, sotto le quali tutto intero il Cristo è presente nella sua fisica realtà, anche corporalmente...

Nell'Omelia del Corpus Domini 1970, Paolo VI ha ripetuto:

La presenza di Cristo è vera e reale, ma sacramentale... Si tratta di una presenza rivestita di segni speciali, che non lasciano vedere la sua divina e umana figura, ma solo ci assicurano che Egli, Gesù del vangelo ed ora Gesù vivente nella gloria del cielo, è qui, è nell'Eucaristia. Dunque si tratta di un miracolo? Sì, di un miracolo che Egli, Gesù Cristo diede il potere di compiere, di ripetere, di moltiplicare di perpetuare ai suoi apostoli, facendoli Sacerdoti, e dando a loro questo potere di rendere presente tutto il suo Essere, divino e umano, in questo sacramento... che sotto le apparenze del pane e del vino contiene il corpo, il sangue, l'anima e la divinità di Gesù Cristo.

Anche in un'altra circostanza Paolo VI volle richiamare alla mente questa misteriosa trasmutazione «del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù, che sbalordisce la mente umana e la rende attonita:

L'agàpe a questo punto si fa mistero. La presenza del Signore si fa viva e reale. Le apparenze sensibili restano quelle che erano, pane e vino; ma la loro sostanza, la loro realtà è intimamente cambiata; quelle restano solo per significare ciò che le ha definite la parola onnipotente, perché divina: corpo e sangue. Noi rimaniamo attoniti. Anche perché questo prodigio è proprio ciò che il Signore ci ha detto di ricordare; anzi di rinnovare.

I documenti più importanti si trovano nell'enciclica Mysterium fidei (1965) e nella Professione di fede del popolo di Dio (30 giugno 1968). Nella prima, dopo aver respinto alcuni termini moderni come « transignificazione » e «transfinalizzazione » che non accennano alla reale conversione ontologica di tutta la sostanza del pane e del vino nelle sostanze del corpo e del sangue di Cristo, Paolo VI soggiunge:

«La norma di parlare che la chiesa nel suo lungo secolare lavoro non senza l'aiuto dello Spirito santo, ha stabilito, confermandola con l'autorità dei concili, norma che spesso è divenuta la tessera e il vessillo dell'ortodossia, dev'essere religiosamente osservata: né alcuno, secondo il suo arbitrio o col pretesto di nuova scienza, presuma di cambiarla ».

Gli enunciati del Tridentino

non esprimono concetti legati a una certa forma di cultura, a una determinata fase di progresso scientifico, all'una o all'altra scuola teologica, ma presentano ciò che la mente umana percepisce della realtà... e perciò tali formule sono intelligibili per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

E' quindi « necessario serbare un esatto modo di parlare, affinché con l'uso di parole incontrollate non ci vengano in mente false opinioni circa la fede nei più alti misteri ».

Quindi con grande chiarezza, Paolo VI sconfessa alcuni modi recenti di intendere questa presenza reale:

Malamente dunque qualcuno spiegherebbe questa forma di presenza immaginando il corpo di cristo glorioso di natura pneumatica onnipresente, oppure riducendola ai limiti di un simbolismo, come se questo augustissimo sacramento in neint'altro consistesse che in un segno efficace della spirituale presenza di Cristo e della sua intima congiunzione con i fedeli membri del corpo mistico.
La sostanza del pane e del vino non è più quella che era prima, ma un'altra cosa tutta diversa; e ciò non soltanto in base al giudizio della fede della chiesa, ma per la realtà oggettiva, poiché convertita la sostanza o natura del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, nulla rimane più del pane e del vino che le sole specie, sotto le quali Cristo tutto i9ntero è presente nella sua fisica realtà... Perciò (è questa realtà) che è contenuta, offerta e mangiata.

Anche nel Credo del popolo di Dio (1968) Paolo VI dichiara: «Questa conversione in modo conveniente si chiama transustanziazione da parte della Santa chiesa ». Quindi nessun cedimento nei riguardi della tradizione di fronte ai movimenti moderni, anche se talune idee sono state reinserite nel pensiero tradizionale. A ragione J. Guitton nella sua prefazione a un recente libro di un domenicano francese, così concludeva:

Rileggendo Pascal, ho trovato alcune formule mirabili per esprimere questo mistero, che egli aveva posto al centro della sua vita e della sua morte: Noi crediamo che la sostanza del pane essendo cangiata e trasformata in quella del corpo del Nostro Signore Gesù Cristo, egli è realmente presente. Ecco una delle verità. Un'altra è che questo sacramento è altresì la figura della croce e della gloria, ed è il memoriale di entrambe. Questa è la fede cattolica comprendente queste due verità, che sembrano opposte.

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4) La pratica

Le idee precedenti sono state inserite praticamente nella nuova liturgia della Messa e nelle norme riguardanti la distribuzione della comunione recentemente emanate dal Vaticano.

a) La Messa

Il 25 marzo 1970 Paolo VI ha pubblicato il nuovo Messale Romano che si apre con le costituzioni apostoliche Missale Romanum del 3 aprile 1969 e Mysterii Paschalis del 14 febbraio 1967 per la promulgazione del nuovo calendario romano. In questo nuovo rito il sacerdote bacia dapprima la mensa ridotta a un semplice tavolo comune con poche candele accese e con un calice di materiale non prezioso. Saluta poi il popolo con le parole: «Fratelli, riconosciamo i nostri peccati per essere degni di celebrare i sacri misteri ». Seguono tre letture bibliche tratte rispettivamente dall'Antico Testamento, dalle lettere apostoliche e dai vangeli in modo di presentare in tre anni tutte le più importanti parti della Bibbia. Dopo l'omelia si svolge una preghiera universale, il cui tema può anche essere proposto dai fedeli.

Recitato il credo, si fa l'offerta del pane e del vino, possibilmente anche di altri doni, per la chiesa e per i poveri, mentre si recita la seguente preghiera: « Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo; dalla Tua bontà abbiamo ricevuto questo pane (vino) frutto della terra e del nostro lavoro, e lo presentiamo a te perché divenga per noi cibo di vita eterna ».

Segue l'usuale consacrazione del pane e del vino, poi la rottura del pane, che dovrà apparire visibilmente, per cui il « pane eucaristico, sebbene azzimo, deve essere fatto in modo tale che il sacerdote nella messa celebrata con il popolo, possa spezzare l'ostia in varie parti e distribuirla almeno ad alcuni fedeli ». La « rottura del pane», secondo l'istruzione, « è la definizione più apostolica dell'eucaristia », perché nell'unico pane distribuito tra i fedeli si raffigura l'unità e la carità che tutti riunisce.

Prima di distribuire il pane (e talora anche il vino) ai fedeli, che lo ricevono in piedi con le proprie mani, il sacerdote invita l'assemblea a scambiarsi il « segno di pace»: abbraccio, bacino o inchino, stretta di mano ecc. Esso deve mostrare l'amore e il mutuo perdono che lega tutti i partecipanti alla celebrazione della Messa. I laici possono anche autocomunicarsi, prendendo personalmente l'ostia dalla pisside, purché si elimini ogni pericolo di irriverenza e non se ne lasci cadere in terra alcun frammento. In alcuni casi, come in occasione delle nozze, i fedeli possono anche bere un sorso di vino dal calice.

Il rito termina con un cantico di ringraziamento, un'ultima preghiera sacerdotale, la benedizione finale e la frase di commiato; « La Messa è finita, andate in pace ». Se si vuole, il culto può prolungarsi ancora con una breve discussione su qualche brano biblico o sopra un argomento di attualità.

Il papa, presentando la nuova Messa ai fedeli, suggeriva il dovere di «fare della Messa più che mai una scuola di profondità spirituale e una tranquilla ma impegnativa palestra di sociologia cristiana ».

L'obbligo di santificare la domenica con la Messa (sotto pena di peccato mortale) è imposto a tutti i cattolici, che non ne siano fisicamente o moralmente impediti. La celebrazione domenicale cattolica è quindi più vicina alla pratica neotestamentaria che non l'uso di alcuni gruppi protestanti, che limitano la celebrazione della cena del Signore a qualche festività annuale. Al contrario l'obbligatorietà sotto minaccia di colpa grave non corrisponde alla responsabilità che dovrebbero avere tutti i cristiani: al culto essi devono andare spontaneamente, per fede, per bisogno interiore e non per una imposizione dall'esterno. Per meglio dare ai fedeli la possibilità di santificare la festa si è ora concessa, a discrezione del vescovo diocesano, la facoltà di anticipare la celebrazione della Messa domenicale al sabato sera. Tale facilitazione può accordarsi (almeno in parte) con l'uso dei primi giudeo-cristiani che celebravano la cena del Signore al principio della domenica, la quale per loro iniziava con il tramonto del sabato.

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b) Norme per la distribuzione della comunione

Possono distribuire la comunione non solo i ministri ordinari (sacerdoti, diaconi, accoliti) ma in casi particolari concorso di popolo, carenza di personale anche altre persone a ciò deputate dal vescovo. Si noti la solita gerarchizzazione degli atti di culto per i quali si allarga sempre più la cerchia degli addetti dietro permesso vescovile, mentre sino al secolo VIII tutti i cristiani potevano tranquillamente e senza alcun permesso da parte della gerarchia prendere e portare altrove il pane e il vino eucaristico. Solo in seguito ciò fu riservato al clero propriamente detto, esentandone del tutto i laici. Con la Istruzione Fidei Custos emessa il 30 aprile del '66 dalla S. Congregazione dei sacramenti si attribuiva ai vescovi e agli abati dei monasteri il diritto di designare i ministri straordinari secondo la successione seguente: « suddiacono (ora non più esistente), chierico minore, tonsurato, religioso laico, religiosa, catechista, semplice fedele, uomo o donna ». Con la recente istituzione del '73 ( Immensae caritatis) solo i vescovi (e non più gli abati) possono scegliere i ministri straordinari, seguendo la precedenza che essi ritengono più opportuna, preferendo per la sua capacità magari un religioso a un seminarista, una donna a un uomo e via dicendo.. So confermò invece la proibizione dell'autocomunicazione sia che essa si attui accostandosi direttamente al vaso contenente il pane o il vino, sia facendo circolare il vaso con gli elementi consacrati; è pure proibito conservare l'eucaristia in casa propria. Si ammette invece la possibilità in casi particolari celebrazione comunitaria, ma non per devozione di una duplice comunione in un sol giorno però solo durante la celebrazione della Messa, rimanendo stabile la norma generale semel tantum in die (una volta soltanto al giorno).

Che direbbe l'apostolo Paolo il cantore della libertà in Cristo di fronte a questo abbondante legalismo proprio del potere gerarchico (il vescovo nel caso presente a scapito della semplicità e della spontaneità dei primi cristiani, per i quali la cena eucaristica, come indica lo stesso nome, era una vera cena, nella quale prendevano del pane e del vino senza timore di violare particolari tabù liturgici? Solo l'amore vi doveva regnare, privo di qualsiasi legalismo creato arbitrariamente da uomini e imposto in nome di Dio.

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5) Conseguenze pratiche

a) Esteriorizzazione

Per i primi credenti occorreva prepararsi alla comunione con viva fede e con amore, vedendo, al di là del pane e del vino che si prendeva, il corpo straziato di Gesù e il sangue da Lui versato dall'alto della croce. Ora invece ci si deve preparare anche con una particolare disposizione del corpo, data dal digiuno, mentre al tempo di Paolo la comunione eucaristica si svolgeva al termine di un vero banchetto d'amore e quindi senza alcun digiuno (agàpe cf 1 Co 11, 2). Nel corso dei secoli si volle invece che il corpo di Cristo, entrando nello stomaco, non vi trovasse altri cibi fermentati, di qui il digiuno richiesto fino a qualche anno fa dalla mezzanotte precedente al momento della comunione. In alcune città (Brescia ad esempio), dove vigeva l'uso di celebrare la Messa natalizia alla sera della vigilia, due sacerdoti dovevano stare digiuni per timore che uno dei due avesse a violare il digiuno bevendo inconsciamente un sorso d'acqua o una medicina. Dopo il Vaticano II la legge del digiuno si è andata sempre più affievolendo: due ore per il cibo e poco meno per le bevande. Di recente si è ridotto tale periodo a un quarto d'ora per gli ammalati e gli anziani (senectus ipsa morbus) congiuntamente ai familiari e agli addetti alla loro assistenza.

L'istruzione (Memoriale Domini 28-5-69) ha poi cercato in modo curioso di spiritualizzare il digiuno eucaristico:

Per riconosce la dignità del sacramento e suscitare il gaudio per la venuta del Signore, è opportunamente determinato un tempo di silenzio e di riflessione prima di ricevere la S. Comunione. Per gli ammalati invece sarà sufficiente segno della loro pietà e del loro rispetto, se un qualche breve tempo essi rivolgano l'animo a così profondo mistero.

Parole ottime ma mi vien da chiedere in che rapporto esse stiano con il digiuno corporale!

L'istruzione raccomanda pure che si abbia rispetto verso la sacra ostia anche quando la si riceve sulla mano (in Italia ciò non è ancora stato autorizzato dalla conferenza episcopale!). Da molti secoli la comunione si distribuisce infatti deponendola sulla lingua, mentre nei primi secoli la si prendeva tranquillamente con le proprie mani (con o senza fazzoletto). La recezione sulla lingua fu occasionata da un senso di « rispetto » verso « il SS. Sacramento » e da un senso di umiltà; non vi fu estranea la premura di evitare i pericoli della profanazione con la dispersione di alcuni frammenti dell'ostia consacrata. Chissà che ne direbbe un cristiano di oggi se potesse trasportarsi alla celebrazione eucaristica di Corinto dove queste preoccupazioni mancavano del tutto e dove l'apostolo Paolo esigeva solo che al di là del pane si vedesse il Cristo morente e risorto e che vivesse l'amore fraterno senza prescrizioni sterili, che poi si vanno tranquillamente mutando nel corso degli anni secondo il volere del legislatore! Non capisco come mai toccando l'ostia con la lingua anziché con la mano si abbia a rispettare meglio il mistero eucaristico, quasi che la mano abbia meno dignità della lingua! In ciò appare straordinariamente preponderante il peso dell'abitudine: secondo un'inchiesta promossa dal Vaticano la stragrande maggioranza dell'episcopato mondiale si è mostrata contraria a permettere che l'ostia sia presa con la mano anziché con la lingua e questo per la riverenza dovuta ad essa a anche per meglio salvaguardare l'ortodossia circa la dottrina eucaristica.. Ad ogni modo se si prende l'ostia con la mano, va presa solo dopo che il comunicante ha risposto Amen al distribuente e va posta in bocca prima di tornare al proprio posto (si ricordi che la pisside con le ostie non può circolare tra i comunicandi!). Si veda come la legge liturgica complichi il gesto stupendo stabilito da Cristo a «ricordo» della sua passione, morte e resurrezione.

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b) Adorazione dell'ostia

La presenza di cristo non si limita alla celebrazione della messa, ma perdura anche dopo nelle ostie consacrate fino a quando non perdono l'apparenza del pane.

Il Signore dice Paolo VI – rimane nella specie sacramentale e questa permanenza non solo giustifica ma esige il culto suo proprio.: l'adorazione specialmente, la santa Comunione fuori dalla messa... la processione solenne.

Di qui la festa del Corpus Domini dedicata a Gesù eucaristico, celebrata con la caratteristica processione dove è possibile, la quale sorta nel 13° secolo per impulso della «beata» Giuliana di Monte Cornillon, fu estesa a tutta la chiesa con la bolla Transiturus di Urbano IV (m. 1264).

Paolo VI nel suo Credo del popolo di Dio, presentò «il santo sacramento del Tabernacolo» come « il cuore vivente della nostra chiesa » che di continuo intercede per noi. Di qui il suggerimento di conservarlo in un apposito altare laterale dove i fedeli lo possano debitamente visitare.

Sarà bene inoltre rivendicare, contro certe negazioni qua e là circolanti, la permanenza della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche oltre la celebrazione della Messa, durante la quale esse furono consacrate. Cristo rimane; ed allora si giustifica anzi si esige un culto specialissimo all'Eucaristia... Così il culto del Tabernacolo, l'adorazione privata e pubblica del SS. Sacramento, la processione... In occasione del Corpus Domini, i congressi eucaristici hanno la loro ragione di essere secondo la fede, la liturgia, la teologia, la pietà.

La Istruzione sul culto del mistero eucaristico della Sacra Congregazione dei riti (25 maggio 1767) ha messo in risalto l'utilità dei pii esercizi eucaristici sopra ricordati. Al n. 49 così esso afferma:

La conservazione delle sacre specie per gli uomini infermi fece sorgere la lodevole abitudine di adorare quel cibo celeste, che è riposto nel tempio. E in vero questo culto di adorazione poggia su di una valida e solida base, soprattutto perché la fede nella presenza reale del Signore conduce naturalmente alla manifestazione esterna e pubblica di quella fede medesima.

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c) Sacralizzazione della natura

E' un fatto indiscutibile che spesso l'uomo utilizza in senso deleterio gli elementi naturali che lo circondano e che perciò bramano la propria liberazione (Rm 8, 22).

Ora nei sacramenti alcuni elementi naturali servono di veicolo per conferire doni spirituali: olio nella cresima, acqua nel battesimo. Nella eucaristia il pane e il vino diventano addirittura il mezzo mediante il quale Gesù stesso divine presente in mezzo a noi. In tal modo il creato dà gloria a Dio e diviene strumento di salvezza, preannunciando la situazione escatologica finale, quando servirà solo per il bene. Quindi il Vaticano II disse che nell'eucaristia «gli elementi naturali, coltivati dall'uomo, sono trasformati nel corpo e nel sangue glorioso di Gesù Cristo.

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d) Sacralizzazione del tempio

I pagani avevano dei templi consacrati ad alcune divinità, le quali distribuivano i loro favori ai devoti che vi si recavano in pellegrinaggio. Anche gli ebrei ritenevano che Dio dimorasse particolarmente nel tempio di Gerusalemme, considerato per questo l'ombelico della terra e lo ritenevano un potente talismano contro ogni malanno per cui al preannuncio di Geremia, che profetizzava la distruzione della città, opponevano la loro fiducia nel santuario divino: « Tempio di Jahvè! Tempio di Jahvè! Non periremo mai » (Gr 7, 4). La tradizione rabbinica pose a Gerusalemme i più importanti atti salvifici di Dio: sepoltura di Adamo, immolazione di Isacco, deposizione dell'arca al tempo di Davide, costruzione del tempio ad opera di Salomone. Anche la tradizione giudeo-cristiana, riprendendo tale concetto, suppose che Adamo fosse stato seppellito proprio sotto il Calvario, per cui il sangue del nuovo Adamo colando dalla croce sul teschio del primo uomo ne avrebbe purificato la colpa. Tale leggenda sopravviveva ancora nel Medio Evo con l'albero della vita (Gesù Cristo), che affonda le sue radici nel sepolcro adamitico.

Con la conversione al cristianesimo delle masse pagane (secolo IV d.C.) i cristiani cercarono di dedicare ai loro martiri molti santuari pagani (Pantheon, ecc). Con la convinzione che Gesù, uomo-Dio, fosse presente nell'eucaristia, venne rafforzata l'idea del tempio, ritenuto in tal modo la sede della divinità, racchiusa nel Tabernacolo e dinanzi al quale di continuo deve ardere una lampada a segno della presenza divina.

Nelle chiese e negli oratori, Cristo è davvero l'Emmanuele, cioè Dio con noi, perché giorno e notte egli è in mezzo a noi, abita con noi pieno di Grazia e di verità (Gv 1, 14).

Di qui la sacralità della casa di Dio, che deve essere consacrata e benedetta, il desiderio che sia bella e adatta al Cristo che vi abita. La chiesa ha perciò sempre voluto che le cose appartenenti al culto sacro splendessero veramente per dignità, decoro e bellezza. Anche l'arte moderna deve sapersi esprimere con la dovuta riverenza e il divino onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti.

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e) Sacralizzazione della casta sacerdotale

Dal momento che solo i sacerdoti hanno il potere di consacrare l'eucaristia e di rendere presente il Cristo nel pane e nel vino, ecco che il sacerdote viene elevato a una dignità del tutto particolare. E' lui che, come alter Christus in terra parla a nome di gesù, quando dice nella consacrazione eucaristica « Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue ». Con quel «mio » non parla del proprio corpo o del proprio sangue, bensì del corpo e del sangue di Gesù, del quale si fa portavoce. Il sacerdozio di Cristo si esercita particolarmente attraverso l'atto dei suoi ministri sacerdoti e il suo sacrificio unico e la sua unica mediazione si continuano nei gesti liturgici dei suoi sacerdoti. Quindi nell'ultima cena, invitando i suoi apostoli a ricordarlo nel dire: « Fate questo in memoria di me », Gesù li costituiva suoi sacerdoti.

Quel comando di gesù «Fate questo» è una parola creatrice, miracolosa: è una trasmissione di un potere, ch'Egli solo possedeva; è l'istituzione di un sacramento, il conferimento cioè di un sacerdozio di Cristo ai suoi discepoli; è la formazione dell'organo costituente e santificante del Corpo mistico, la sacra gerarchia, resa capace di rinnovare il prodigio dell'ultima cena (Paolo VI, Oss. Rom. 9-4-66, p. 1).

Nell'Istituzione del 1972 , da parte del Segretariato per l'unione dei cristiani , Paolo VI sostiene che il potere ministeriale fu conferito da Cristo « ai suoi apostoli e ai loro successori, vale a dire ai vescovi con i presbiteri, perché attuino sacramentalmente il suo atto sacerdotale, con cui egli è offerto una volta per sempre al Padre... e si è dato ai suoi fedeli perché siano uno con lui ». Di conseguenza vedere un sacerdote è vedere cristo, offendere il sacerdote è offendere Gesù (sacrilegio) ed amare il sacerdote è amare Gesù.

Di fronte a questo continuo sviluppa della originaria cena eucatistica, ci viene da chiedere quanto sia uno sviluppo armonico del pensiero biblico e quanto sia invece una deviazione da esso. Si deve perciò tornare anche qui alle sorgenti bibliche per vedere che cosa era in realtà la cena del Signore e che cosa essa deve significare per i credenti di ogni tempo e di ogni luogo.

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