LA CENA
DEL SIGNORE

di Fausto Salvoni

CAPITOLO SECONDO
IL PANE DI VITA: PREANNUNCIO DELL'EUCARISTIA?

Indice
1) L'uso dei primi cristiani
2) Il discorso di Gesù a Cafarnao
3) Sviluppo unitario del discorso
4) Tutto il discorso concerne la fede
5) La chiave interpretativa del discorso
6) Chiarimento dato da Gesù ai discepoli
7) Simbolismo del tempo
8) Storia dell'interpretazione

Il pane è pane. Ma è un ebreo che parla. La sua natura empirica non interessa lo spirito dell'israelita. Non si tratta di ciò che il pane è in sé stesso. per un ebreo... il pane è ciò che esso divine in rapporto al suo riferimento ultimo (F.J. Leenhardt)
1) L'uso dei primi cristiani

Secondo gli Atti degli apostoli, sin dai primi tempi, i cristiani erano assidui «nel rompere il pane », espressione che probabilmente fu la prima usata dalla Bibbia per designare quello che più tardi Paolo chiamerà « cena del Signore » e i cattolici « eucaristia » (1 Co 11, 20). Siccome in essa si parla solo del pane, H. Lietzmann vi ha voluto vedere un semplice pasto comunitario fraterno, che secondo l'uso giudaico aveva inizio spezzando un po' di pane; in tal modo si ripeteva quello che Gesù aveva compiuto in Galilea dove saziò le folle e mangiò con il gruppo dei suoi discepoli. Il pasto gioioso ricordava la presenza invisibile del Risorto in mezzo ai suoi. Fu solo Paolo, che in seguito a una speciale rivelazione, gli diede il senso commemorativo della morte di Gesù, mangiando quindi con tristezza. Mentre per i primi giudeo-cristiani la cena era un pranzo gioioso (agàpe fraterna); per i primi gentili convertiti sarebbe stata invece una pasto di mestizia. Ma questa ipotesi è superflua; Paolo non modifica nulla, ma si rifà alla tradizione (1 Co 11, 23); sarebbe poi incredibile che l'apostolo dei gentili sia riuscito a far accettare da tutta la chiesa un'innovazione, qualora vi fosse stata. Che l'espressione « spezzare il pane » non parli di vino, lo si deve al fatto che prima di incominciare la cena si spezzava il pane (di qui il nome); la cena poi non fu mai segnata dalla tristezza perché non ricordava la morte di gesù, bensì la morte del « Signore », vale a dire del Gesù risorto e quindi trionfatore della morte (Lc 24, 30-35.36-48; Gv 21, 9 ss).

In At 2, 42 lo « spezzare il pane » indica probabilmente la cena del Signore sia per la presenza dell'articolo che lo identifica con un « pane speciale », quello cioè che è simbolo di Cristo, sia per il contesto culturale. Il successivo v. 46 indicherebbe al contrario un « pasto comune », sia per l'assenza dell'articolo dinanzi a « pane » (E' spezzare del pane), sia per il contesto che parla di pasti fraterni di casa in casa, probabilmente allude alla cena del Signore anche il pasto attuato in giorno di domenica da Paolo a Troade, prima del suo imbarco per Gerusalemme. pare che, almeno all'inizio, specialmente presso i giudeo-cristiani, la cena si attuasse la notte tra il sabato e la domenica, nelle ore in cui il Cristo era risorto, cioè dopo la fine del sabato giudaico, giorno sacro e di riposo, per i giudei che terminava appunto al calar del sole.

Che valore aveva la cena del Signore nel pensiero dei primi cristiani? Si pensa di trovarne il significato in due insegnamenti presentati rispettivamente da Giovanni nel suo vangelo (c. 6) e da Paolo nell'epistola ai Corinzi (1 Co 10, 16-21; 11, 17-34), che bisogna quindi esaminare alla luce della mentalità ebraico-biblica.

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2) Il discorso di Gesù a Cafarnao

Dopo aver moltiplicato nei pressi di Cesarea, ad oriente del lago di Tiberiade, cinque pani di orzo e due pesci per sfamare 5000 uomini più donne e bambini, la folla entusiasta volle creare re Gesù, ma egli in tutta fretta allontanò gli apostoli prima che fossero contagiati da tale entusiasmo, licenziò la folla, e poi, nottetempo, camminando sull'acqua del lago, raggiunse gli apostoli in barca e con loro scese a Cafarnao (Gv 6, 1-10). Il giorno dopo al popolo, che lo ritrova, Gesù raccomandò di andare alla ricerca non di un cibo materiale come il pane prima moltiplicato, bensì di uno « eterno » (v. 27) quale si può trovare solo nella fede in colui che parlava a loro. Lui infatti è la vera « manna », ossia un « pane (sceso) dal cielo » (Sl 78, 24); quella manna che gli ebrei si attendevano per il futuro regno instaurato sulla terra dal Messia:

Accadrà verso lo stesso tempo che il tesoro della manna scenderà di nuovo dall'alto, e gli ebrei ne mangeranno in quegli anni, perché essi sono giunti alla consumazione del tempo (Apocalisse siriaca di Baruch 29, 8).

In un frammento degli Oracoli Sibillini citato da Teofilo nell' Ad Autolycum e che è probabilmente precristiano, torna il medesimo concetto:

Ma quelli che onorano il vero ed eterno Dio ereditano la vita; sono questi coloro che abitano, nel tempo dell'eone futuro, il lussureggiante giardino del paradiso (e) banchettano con il dolce pane proveniente dal cielo stellato.

Di fronte alla richiesta dei Giudei rivolta a Gesù perché rinnovasse il miracolo della « manna » – ricollegato da loro con il tempo messianico – e provasse in tal modo di essere il messia, Gesù nega che la manna del tempo mosaico sia stata un vero pane del cielo, perché non aveva saputo impedire la morte delle persone. Invece Gesù è il vero cibo che discende dal cielo e dona la vita al mondo.

Il discorso di Gesù tenuto a Cafarnao, è appunto uno sviluppo di questo tema.

In verità, in verità vi dico:
Se non mangiate la mia carne,
e non bevete il mio sangue
non avete vita in voi
(v. 53).

Dunque secondo questo preannuncio dell'eucaristia, chi mangia il pane mangia il corpo di Cristo e beve il suo sangue, per cui il corpo e il sangue devono tenere il posto del pane e del vino.

Che tali parole siano da intendersi in senso letterale e non simbolico – insistono alcuni teologi – si deve dedurre dal fatto che Gesù preferì perdere i propri discepoli, anziché spiegare loro che la sua espressione doveva intendersi in senso figurato.

Quando (i giudei) gli obiettano: come può quest'uomo dar da mangiare la propria carne?, Gesù non spiega la sua dottrina in senso figurato, anzi ripete il proprio insegnamento urtante in modo ancora più enfatico. Egli lo espone in forma di comando: Se mangiate la mia carne... e aggiunge: La mia carne è veramente cibo... Gesù insegna che il mangiare e il bere è garanzia di vita eterna; vincolo che unisce l'uomo intimamente a se stesso... E quando molti suoi discepoli continuano a rifiutare tale idea, Cristo non ritrattò le proprie parole, né disse che parlava in modo figurato. Al contrario li rimproverò per la loro mancanza di fede ed esigette da essi che accettassero le sue parole (B.L. Conway, The question Box, p. 249 s).

Proprio per questa tematica diversa: eucaristia (e non più fede come prima), R. Bultmann ritiene che le parole del v. 53, non siano di Gesù ma della Chiesa che le ha attribuite al suo fondatore, e Gil Boismard le ritiene un brano di un altro discorso di Gesù (ora perso) che Giovanni, per non ometterlo, ha trasferito e introdotto nel discorso di Cafarnao con il quale non si amalgama perché questo parlava della fede e non della eucaristia. Sono tutte ipotesi superflue in quanto anche il v. 53, come vedremo, può inserirsi assai bene anzi è richiesto dal discorso, che è un tutto unitario riguardante la fede in Gesù, quale inviato di Dio.

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3) Sviluppo unitario del discorso

L'unità del discorso appare dal fatto che Gesù procede per gradi, sviluppando progressivamente i concetti da lui prima solo accennati. Il v. 35 ne costituisce la chiave esplicativa:

Io sono il pane di vita (a).
Chi viene a me non avrà più fame (b),
e chi crede in me non avrà più sete (c).

Ora tutto il discorso svolge le tre idee presenti in queste poche parole, che vengono riprese e sviluppate più ampiamente:

― Gesù è vero pane di vita , perché è sceso dal cielo, ma è tale solo per chi crede in lui dietro istruzione divina (vv. 37-47 = 35 a).

― Occorre mangiare questo pane vivente , ben superiore alla manna per non morire (vv. 48-51 = 35 b).

Occorre mangiare la sua carne e bere il suo sangue per possedere la vita (vv. 52-58 = 35 c).

Secondo l'uso del linguaggio orale il discorso contiene alcune parole chiave, che ricorrono in tutto il discorso (pane, carne, vita, credere, ecc.) che ne facilitano il ricordo mnemonico. Tutto il discorso si suddivide in due parti correlative (35-47; 48-58) con inizio identico: « Io sono il pane di vita» (vv. 35-48) e una finale simile: « chi crede in me ha una vitalità eterna» (v. 48) e « Chi continua a masticare questo pane vivrà in eterno» (v. 58). Ecco le due parti tradotte letteralmente, che hanno tutte al centro un fatto storico riferentesi alle mormorazioni dei giudei:

Parte I (6, 35-47)

Strofa 1)

35

Io sono il pane della vita;
chi viene a me non avrà più fame
e chi crede in me non avrà più sete


36

Ma vi dico: pur avendomi visto, non avete creduto

Strofa

2) 37

Quelli che il padre mi dà, verranno a me
e chi viene a me non lo caccerò fuori,



38

perché sono sceso dal cielo non per fare la mia volontà
ma la volontà di colui che mi ha mandato.
Strofa 3) 39 Questa è la volontà di Colui che mi ha mandato:
che tutti quelli che mi ha dato
non ne perda alcuno
ma lo risusciti nell'ultimo giorno.
Strofa 4) 40 Questa infatti è la volontà del Padre mio,
che chiunque vede il Figlio e crede in Lui
abbia vita eterna
e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
... (cenno storico sulla mormorazione dei giudei)
Strofa 5) 43 Finitela di mormorare tra boi!


44 Nessuno può venire a me
se il Padre, che mi ha mandato, non lo attira,
e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
Strofa 6) 45 Sta scritto nei profeti:
E saranno tutti ammaestrati da Dio
(Is 54, 13).
Chiunque ascolta e impara dal Padre
viene a me.
Strofa 7) 46 Non che alcuno abbia visto il padre;
solo colui che è da Dio ha visto il Padre.


47 In verità, in verità vi dico:
Chi crede in me ha vitalità eterna!

Parte II (48-58)

Strofa 1) 48 Io sono il pane della vita


49 I vostri Padri mangiarono la manna del deserto e morirono.


50 Questo è il pane che scende dal cielo.
affinché chi ne mangia non muoia.
Strofa 2) 51 Io sono il pane vivente sceso dal cielo.
Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno.
E il pane che io darò per la vita del mondo
è la mia carne.
(Relazione storica sopra la mormorazione dei giudei)
Strofa 3) 53 In verità, in verità vi dico:
Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo
e non bevete il suo sangue
non avete la vita in voi.
Strofa 4) 54 Chiunque continua a mangiare la mia carne
e continua a bere il mio sangue
già possiede la vita eterna
e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
Strofa 5) 55 Perché la mia carne è veramente un cibo
e il mio sangue è veramente una bevanda.


56 Chi di continuo mangia la mia carne e beve il mio sangue
rimane in me e io in lui.
Strofa 6) 57 Come il Padre, che vive in me, ha mandato me
e io vivo per il padre,
così chi continua a mangiare me,
vivrà anche lui di me.
Strofa 7) 58 Questo è il pane sceso dal cielo,
non come quello mangiato dai vostri Padri che pur morirono.
Chi continua a mangiare di questo pane
vivrà in eterno.

a) Parte prima: si va a Gesù credendo in Lui (vv. 35-47)

Alla domanda « Dacci di questo pane». Gesù presenta se stesso come il pane del quale uno si nutre «andando a lui e credendogli » (v. 35). L'endiadi usata esprime un'azione unica: si va a Gesù quando gli si crede e gli si crede quando si va a Lui. Il Cristo poi non lascerà perire alcuna persona affidatagli dal Padre; Dio vuole infatti che « chiunque continua a contemplare il Figlio e continua a credere in lui abbia una vitalità eterna » e sia da Gesù risuscitato « nell'ultimo giorno » (v. 40).

A tale pretesa i giudei gli oppongono la sua umile vita terrena trascorsa a Nazaret che contraddice la sua presunta missione divina.. Giovanni usa qui il verbo « mormorare », termine tecnico per esprimere l'opposizione con cui gli ebrei nel deserto contestarono sia Mosè, sia Dio (Nm 11, 1; 14, 27).

Gesù risponde loro che sono ormai giunti i giorni predetti dai profeti (Is 54, 13) nei quali Dio stesso avrebbe istruito gli uomini (didaktòi theoû) attirandoli dall'interno (v. 45). Solo costoro possono capire questa discesa di Gesù dal cielo, come precedentemente aveva detto che solo quelli nei quali dimora la parola divina sono in grado di capire le pretese di Gesù (Gv 5, 38). Appunto perché sceso dal cielo, Gesù possiede la visione di Dio a la può comunicare agli altri, per cui chi « vede » il Cristo possiede la vita eterna (6, 40). Di qui la conclusione: « Chi crede ha una vitalità eterna », una forza cioè che conduce alla vita eterna (v. 47). Questa prima parte, che non presenta alcuna allusione all'eucaristia, insegna l'obbligo per tutti gli uomini di ascoltare la parola di Dio che conduce a Cristo e lo fa accogliere quale inviato divino.

b) parte seconda: Gesù salva morendo (vv. 48-58)

Identificandosi di nuovo con il pane di vita, Gesù mostra la differenza tra la manna, che non ha impedito la morte di chi ne mangiava, e la sua propria persona, la quale invece eliminerà tale morte. Egli infatti non è un pane comune, ma un pane « già vivo»; un pane costituito dalla sua stessa persona umana («carne») – destinata ad essere offerta a Dio in dono sacrificale per la salvezza del mondo.

Il pane che io darò
è il mio essere mortale
offerto per la vita del mondo
(Gv 6, 51)

Il verbo «dare per» indica la morte violenta accolta per un nobile ideale: si usa non solo per Gesù (1 Ti 2, 6; Tt 2, 14), ma anche per i martiri: Eleazaro « diede se stesso per salvare il popolo » (1 Mac 6, 44). Anche in un passo del Midrash sull'Esodo si legge: « I padri e i profeti diedero la loro vita per Israele». La particella « per» (gr. upèr) esprime il fine per il quale al vita di Gesù « viene offerta in sacrificio »: essa fu data per le sue pecore (Gv 10, 11-15), per il popolo (11, 50), per la nazione (11, 52), per i discepoli (Gv 17, 19). Siccome dare la vita per un altro è la suprema prova d'amore (15, 13), anche il cristiano dovrebbe dare la sua vita per Gesù (Mt 10, 39). Il « dare la vita » divenne anzi un termine tecnico per designare il sacrificio di Gesù sulla croce (Mt 20, 28; Ga 1, 4).

Ma come si può mangiare questa « carne » (= persona) mortale di Gesù offerta in sacrificio, come di solito si faceva nei pasti sacrificali dei giudei? Gli uditori, scossi da tali parole, « litigavano », vale a dire, discutevano tra loro con accanimento, in quanto ciò per alcuni era ripugnante, per altri privo di senso, per altri ancora da intendersi in senso simbolico (v. 52). Ma Gesù insiste sul suo concetto con espressioni ancora più dure, sulle quali tornerò in seguito. Siccome « la carne» precedentemente indicata significava la sua « persona umana », mortale e siccome questa, secondo gli ebrei, risultava di « carne e sangue », Gesù, per meglio sottolineare quanto già aveva asserito, secondo la legge del parallelismo biblico assai amato dagli orientali, ne scinde in due gli elementi e ripete enfaticamente che occorre « mangiare la sua carne » e« bere il suo sangue». Infatti la sua carne e il suo sangue sono « davvero » (alethés) cibo e bevanda (v. 55) qualcosa di concretamente mangiabile e bevibile, non di puramente immaginario e fittizio.

Questa seconda parte chiarisce meglio la prima e spiega che Gesù è vero cibo e non soltanto per la sua parola che deve essere accolta con fede, ma particolarmente per la sua morte sacrificale in favore dell'umanità, i cui benefici sono accessibile soltanto a coloro che mangiano la sua carne e bevono il suo sangue, vale a dire riconoscono in questo essere che muore l'inviato di Dio e il Salvatore atteso (cf v. 35).

Come si vede il discorso è pienamente armonico e può essere spiegato tutto con la fede – come vedremo meglio in seguito – senza alcun richiamo all'eucaristia di cui Gesù non aveva ancora parlato.

Una conferma dell'interpretazione precedente si ha nel fatto che gli effetti del mangiare e del bere sono gli stessi di quelli attribuiti alla fede.

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4) Tutto il discorso concerne la fede

a) Fede

b) Mangiare/bere

40 Chiunque crede in lui
avrà vita eterna
53 Se non mangiate la carne e non bevete questo sangue non avrete la cita in voi
47 Chiunque crede in me
possiede una vitalità eterna
54 Chiunque continua a mangiare la carnee a bere il mio sangue
possiede una vitalità eterna
48/51 Io sono il pane che dà vita
... se uno mangia questo pane,
vivrà in eterno
58 Chiunque continua a mangiare
questo pane
vivrà in eterno

Mi sembra quindi naturale e logico riferire tutto il discorso, compresi i versetti nei quali si parla di « mangiare la mia carne e bere il mio sangue» alla fede in Gesù anziché all'eucaristia. Ecco le ragioni principali che mi consigliano ad agire così:

a) I verbi usati da Gesù sono al presente

Gesù, parlando agli abitanti di Cafarnao, non disse: « Se non mangerete... se non berrete » (futuro), bensì «Se non mangiate... se non bevete » (presente) ossia da questo preciso istante in avanti, voi non «potete aver vita in voi se non mangiate... se non bevete». Dunque proprio nel momento in cui egli parlava, i suoi uditori potevano mangiare la sua carne e bere il suo sangue, il che evidentemente non poteva riferirsi alla cena del Signore non ancora esistente, ma solo al nutrimento spirituale che si ha con la fede in Gesù accolto come l'atteso Messia, nonostante le sue apparenze mortali e la sua morte preannunziata. E' quanto già nel 15° secolo suggeriva il grande letterato Enea Silivio Piccolomini – divenuto poi papa Pio II (m. 1474) – al cardinale De Carvial che l'aveva interrogato su questo punto:

Vuoi tu sapere con certezza se l'evangelista intenda parlare del nutrimento spirituale, quale si ha per fede?
Considera come il Signore dica: Chiunque mangia e chiunque beve. Sono verbi al tempo presente e non al futuro. Perciò proprio mentre Cristo parlava vi erano delle persone che in quel momento avrebbero potuto mangiare e bere. Eppure allora il Signore non aveva ancora sofferto e il sacramento (dell'Eucaristia) non era ancora stato istituito.

Ci si potrebbe tuttavia chiedere se Giovanni abbia qui conservato le parole stesse di Gesù o ne abbia modificato l'espressione in modo da illuminare meglio i lettori per spiegare loro l'eucaristia della quale già conoscevano l'esistenza. In tale caso la coloritura sacramentale del passo rispecchierebbe la situazione ecclesiastica propria della fine del primo secolo. Con le parole « carne e sangue » egli li avrebbe indotti a pensare all'eucaristia alla quale ogni domenica essi prendevano parte.

Ma era proprio questo l'intento di Giovanni? Lo pensano moltissimi esegeti moderni, anche non cattolici. Tuttavia se Giovanni avesse modificato le parole di Gesù per presentare l'eucaristia come era attuata al suo tempo, non capisco perché non abbia alluso anche al vino pur esso parte integrante della cena del Signore? perché parla solo di pane? Vale quindi la pena di andare contro corrente (senza rinvenire troppi sensi misteriosi nella Bibbia) e presentare con maggiore semplicità il significato che i lettori del Vangelo potevano trovare al loro tempo.

b) «La carne e il sangue» sono i costitutivi della persona umana

Il «mangiare la carne » e il « bere il sangue » non designano due atti distinti, ma un atto unico perché l'espressione « carne e sangue » è solo un'endiadi per indicare i due elementi costitutivo della persona umana terrena. tale frase presente l'uomo mortale in opposizione al Dio immortale, l'uomo ignorante di fronte al Dio sapiente. D'uso normale presso i rabbini, divenne comune nel Talmùd. Il rabbino Jochanan ben Zaccai in punto di morte piange perché sa di dover comparire dinanzi al re dei re e non dinanzi a un re « di carne e sangue» vale a dire « umano » (Berakot 28 b.). Se un re di « carne e sangue» si onora in un territorio, il re del mondo, cioè Dio, è onorato da tutte le creature.

L'endiadi «carne e sangue » per designare l'uomo mortale fu coniata all'epoca intertestamentaria, perché si trova nel Siracide (Ecclesiastico).

Come le foglie germoglianti su un albero frondoso,
alcune cadono mentre altre spuntano;
così tra le generazioni di carne e sangue,
alcune muoiono mentre altre nascono
(Sir 14, 18).
Che cosa vi è di più luminoso del sole?
pure anch'esso si eclissa.
Così chi è di carne e sangue
pensa al male
(Sir 17, 31).

Gesù usò tali parole rivolgendosi a Pietro quando disse che la sua professione di fede non era frutto di insegnamento umano, bensì di rivelazione divina:

Né la carne né il sangue te lo hanno rivelato,
ma il Padre mio che sta nei cieli
(Mt 16, 17).

In tre passi l'apostolo Paolo utilizza questa espressione, una volta per dire che la lotta del cristiano non è contro « la carne e il sangue», vale a dire contro gli uomini, bensì contro i demoni (Ef 6, 12). L'ex-persecutore Saulo, dopo la sua conversione a cristo, non andò a chiedere consiglio a « carne e sangue » cioè a uomini, ma si ritirò a meditare tutto solo nell'Arabia (Ga 1, 16 s). L'uomo terreno (« carne e sangue») non può raggiungere con le sue forze il regno di Dio, ma vi riesce solo l'uomo trasformato e glorificato dallo Spirito Santo (1 Co 15, 50).

Perciò l'espressione « carne e sangue » nel discorso di Cafarnao è semplicemente sinonimo di persona, come appare chiaramente dal fatto che essa è continuata in seguito dalle frasi seguenti: « Chi mi mangia » e « chi mangia di questo pane » (vv. 57-58). Si identificano quindi con il pronome personale di prima persona (mi) o con « il pane » che era simbolo della persona di Gesù.

Lo riconosce apertamente anche il gesuita Xavier Léon Dufour, studioso dalle idee aperte:

I verbi mangiare e bere sono tra loro paralleli come lo sono le espressioni «venire a me – credere in me...»; l'aggiunta dei complementi carme, sangue, rafforza il parallelismo delle espressioni... I due atti: mangiare la carne e bere il sangue, sono così poco considerati come due riti distinti da essere ricapitolati nei versetti seguenti con: chiunque mi mangia vivrà per me (6, 57) e: Chiunque mangia di questo pane vivrà eternamente (6, 58). Carne e sangue sono dunque equivalenti a «me» e a «pane». Mediante questo sdoppiamento letterario Gesù di designa anzitutto come un essere concreto, debole e mortale destinato al sacrificio... Con tali parole Gesù invitava i contemporanei a trovare la vita mediante la fede nella sua persona e nel suo sacrificio redentore.

c) Giovanni parla di «carne e sangue» anziché di «corpo e sangue» come si usa invece nell'Eucaristia

A un occidentale la differenza può apparire minima, ma tale non lo era per un semita. «Carne» (sarx) indica l'essere concreto, debole, passibile di morte, che non poteva di conseguenza essere adoperata per l'eucaristia la quale ricorda invece non solo la morte di Gesù, ma anche la sua resurrezione. Mentre il termine corpo (sôma) può essere usato anche per un risorto glorificato, la parola «carne», che indica sempre un essere debole e passibile di morte, non può riferirsi a un corpo glorioso, destinato a vita eterna: « La carne e il sangue non possono infatti ottenere la vita eterna » (1 Co 15, 50), perché ciò che è corruttibile non può raggiungere l'incorruttibilità (ivi v. 57). Ora l'eucaristia annuncia la morte del Signore risorto e glorioso che si attende dal cielo: per cui deve usare in tal caso la parola sôma, applicabile anche ad un corpo glorioso, non la parola «carne» riservata solo ad un corpo mortale, del quale mette in enfasi la morte sacrificale.

Il tentativo di trovare che nell'Asia Minore esistesse una corrente che nella liturgia eucaristica usasse il termine «carne» (sârx) anziché «corpo» (sôma) non mi pare che finora sia riuscito. Di solito lo si vuole provare con il fatto che Ignazio, quando parla dell'eucaristia, la chiama «carne» di Cristo; egli infatti afferma contro gli gnostici: « Costoro non venerano l'eucaristia perché non riconoscono l'eucaristia come la carne di Gesù Cristo ». Anche Giustino lo conferma quando scrive: « Ci hanno insegnato che questi alimenti sono la carne e il sangue dello stesso Gesù, fattosi carne ». Tuttavia tale ragionamento non implica necessariamente l'uso della parola «carne» nella loro liturgia eucaristica, perché il vocabolo «carne» fu da loro preferito per motivi apologetici, in quanto con esso volevano opporsi agli gnostici negatori della realtà carnale e terrestre del corpo di Gesù. Del resto quando lo stesso Giustino riporta le parole nell'istituzione, adopera anche lui il vocabolo «corpo» (sôma) e non carne (sârx), come tutta la tradizione orientale.

Dobbiamo quindi concludere che le parole « carne e sangue», usate da Gesù, più che alludere all'eucaristia, richiamano la morte sacrificale dell'inviato di Dio. Occorre quindi nutrirsi di questa carne mortale, bere il suo sangue versato per noi. Ma in che modo?

Ce lo spiega Gesù stesso con la sua chiave interpretativa di tutto il discorso.

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5) La chiave interpretativa del discorso

Ci viene data dalle parole iniziali e da alcuni elementi che vi si trovano.

1) Parole iniziali. Gesù incomincia il suo discorso dicendo:

Chi viene a me non avrà più fame
e chi crede in me non avrà più sete
(v. 35).

Ecco come si mangia e si beve Gesù: andando a lui tramite la fede, secondo un'endiadi cara ai semiti. Quando una persona lo accoglie come « figlio» di Dio e come « l'inviato » per eccellenza del Padre, allora va a lui e beve di lui, vale a dire riceve da lui una forza, una vitalità imperitura.

Quindi le parole iniziali illuminano tutto quanto il discorso e ne chiariscono il significato fondamentale.

2) Nelle sue parole: « Se non mangiate... se non bevete» Giovanni usa qui un presente di durata che significa una continuazione dell'atto e si dovrebbe perciò tradurre con « Se non continuate a mangiare... se non continuate a bere» (v. 53). Non basta un atto compiuto una volta sola, occorre ripetere di continuo tale atto; quando una persona cessa di mangiare quella carne e cessa di bere quel sangue, muore la vita in noi. Ora ciò evidentemente non può riferirsi all'eucaristia, che non si può continuare a mangiare, bensì alla fede che deve durare per l'intera nostra vita. Nell'attimo stesso in cui cessa la fede in Cristo, ha pure fine la vita divina in noi.

3) Dicendo: «Se non mangiate... se non bevete » Gesù parla di necessità assoluta. Se si applicassero queste parole all'eucaristia, si dovrebbe concludere che non basta la fede testimoniata dal battesimo per essere rivestiti di Cristo e per avere la vita, ma vi occorre pure la comunione eucaristica.

Data poi l'identificazione della carne con il pane e del sangue con il vino, ne segue che sarebbe assolutamente necessario per la salvezza non solo mangiare del pane, ma anche bere del vino. Per cui tutti i cattolici che muoiono senza continuare a «bere il vino » eucaristico che per molti secoli fu loro proibito non potrebbero salvarsi. Queste conclusioni assurde ci fanno capire che la premessa è sbagliata e che Gesù non intendeva parlare dell'eucaristia bensì della fede nella persona carne e sangue di Gesù.

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6) Chiarimento dato da Gesù ai discepoli

Al vedere che anche molti dei suoi discepoli « mormoravano», perché ritenevano inconcepibile tale discorso, Gesù osservò che « la carne » ossia la persona destinata a perire non giova a nulla, mentre quello che vale è « lo spirito », ossia l'alito vivificante.

Lo spirito è quel che dà vita:
a carne non giova nulla:
le parole che vi ho detto sono spirito e vita
(v. 63).

Espressioni alquanto enigmatiche, intese dagli esegeti in modo ben diverso.. P. Batiffol, Wisemann e B.L. Conway, tra altri, le hanno applicate all'uomo, che, se è solo carne, non può capire le parole di Gesù mentre se è guidato dallo Spirito Santo e dalla fede riesce a percepirne l'insegnamento eucaristico. Tuttavia la « carne » e lo « spirito » non si riferiscono agli uditori, ma allo stesso Gesù, come appare evidente dal contesto. Questa interpretazione antropologica lacera il contesto dell'esposizione giovannea.

Per tale motivo gli esegeti vanno alla ricerca di altre interpretazioni. Per L. Tondelli la carne è l'umanità peritura di Gesù, mentre lo spirito sarebbe l'amore con cui Gesù offre la sua morte al Padre. Tuttavia mai altrove nella Bibbia la parola « spirito» assume un tale significato.

Di solito gli antichi, come Cirillo di Alessandria, Agostino e i moderni, quali Bulen, Billot, Lagrange, Van Noort, pensano che la carne si debba identificare con l'umanità di Gesù e lo Spirito con la sua natura divina, che si manifesta mediante le opere miracolose. Tuttavia se ben si guarda al contesto, Gesù distingue tra la persona umana destinata a perire (carne) e le parole da lui presentate in questo stesso discorso, che lo presentano figlio di Dio sceso dal cielo, le quali quando sono accolte con fede, diventano appunto « spirito e vita »: « Le parole che vi ho detto sono spirito e vita» (v. 63).

Nel suo discorso Gesù non intendeva presentare la necessità di mangiare materialmente la sua carne, perché in tal modo si sarebbe dovuto ucciderne la persona e mangiare la carne priva di vita e quindi riducibile a polvere (Ge 2, 7; Gb 10, 9; Ec 12, 7). Egli intendeva insegnare la necessità di mangiare le sue parole, che sono « spirito vivificante ». Per questo occorre riconoscere che le sue parole non vengono dall'uomo perituro, bensì da Dio che è Spirito, e la cui parola è creatrice. Nell'uomo terreno, che stava dinanzi a loro, gli uditori dovevano vedere l'inviato di Dio, il Figlio di Dio. Di fronte all'incredulità dei giudei, a lui contemporanei, Gesù fa appello alla futura ascensione: « Che direte quando mi vedrete salire al cielo donde sono venuto? ». Si tratta dunque di credere che egli non è un semplice uomo come gli altri, bensì l'inviato di Dio. La sua ascensione avrebbe documentato lo sbaglio di chi non voleva credergli. Egli tuttavia conosce che anche fede è un dono divino, al quale l'uomo può resistere. Perciò molti suoi discepoli, allontanatasi (dal Cristo), « non continuarono più ad andare (imperfetto) con lui » (v. 66).

Quando Gesù chiede ai suoi discepoli se anche loro avessero intenzione di abbandonarlo come gli altri, Pietro, mostrando d'aver ben capito il senso del discorso, disse a nome di tutti: « Signore a chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto, anzi continuiamo a credere e a conoscere (tale è il senso del tempo perfetto in greco) che tu sei il Santo di Dio » (v. 68). Pur pensando che era nato da Maria, moglie di un falegname di Nazaret, pur conoscendo che doveva morire come un uomo qualsiasi, l'apostolo Pietro riconobbe in Lui l'inviato di Dio tanto atteso, uomo come gli altri uomini, ma unico nella storia umana per la missione ricevuta da Dio e per la Parola che si era incarnata in lui.

Questo è il profondo e imperituro valore spirituale del messaggio di Giovanni. La cena del Signore ha valore, ma solo in quanto serve per accrescere la fede in Gesù Cristo, che tramite la propria morte ci darà una vitalità imperitura.

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7) Il simbolismo del tempo

Va poi preso in considerazione un altro concatenamento di idee diffuso nella letteratura rabbinica, dove il pane (manna) è il simbolo della Torah, cioè la controfigura della legge. Tale simbologia può essere fatta risalire almeno a Eliezer ben Ircano e a Joshua ben Anania, che vissero poco tempo dopo la composizione del quarto vangelo.

Quando commenta il fatto che la manna deve essere ripartita equamente (Es 16, 16 ss), Filone osserva: «Il Logos divino distribuisce equamente a tutti quelli che lo vogliono il celeste nutrimento dell'anima (tèn ouranion trofèn tês psuchés), cioè la sapienza». La Torah infatti dà vita, contiene, contiene « parole di vita» (Es b 29, 9), è « Legge di vita» (Sir 17, 11; 45, 5; 4 Ed 14, 30). Tali pensieri non sono altro che una amplificazione di quanto scriveva il Deuteronomio: « Dio ti ha nutrito con la manna... per farti capire che l'uomo non vive di pane soltanto, ma che l'uomo vive di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8, 3). Anche il libro deuterocanonico della Sapienza (ispirato per i cattolici) commenta la bontà della manna scrivendo che essa fu data «perché i tuoi figli, o Signore, comprendessero che non sono i diversi frutti del suolo a nutrire l'uomo, ma che è la tua parola a tenere in vita i credenti» (Sap 16, 23 s).

Al posto della legge, simboleggiata dal pane sceso dal cielo, Gesù pone ora se stesso e la sua parola che, superiore alla stessa manna, è vero «pane di vita»: « Io sono il pane di vita sceso dal cielo » (Gv 6, 35-48). I lettori del vangelo e gli uditori di Gesù, dovevano ben capire che con tali parole Gesù alludeva alla sua persona e alle sue parole, non al futuro rito eucaristico allora inesistente e del quale egli non aveva ancora parlato.

Anche l'espressione «istruiti da Dio » (Gv 6, 45 s da Is 54, 13) designava coloro che Dio istruiva tramite la Legge, nel caso presente tramite Gesù che è immagine di Dio (Gv 5, 37-47). Di fronte a Gesù il popolo di Israele è diviso in due gruppi: quelli che, accettando solo il dono Manna-Legga, negano il Cristo ritenendolo inutile e quelli che, al contrario, accogliendo il significato spirituale dell'insegnamento di Gesù, lo riconoscono il figlio di Dio e la nuova Manna scesa dal cielo. Attratti da Dio vanno a Gesù e gli sono affidati perché ne ricevano la vita.

Possiamo a conclusione ripetere la frase di Xavier Léon Dufour: « Noi abbiamo potuto senza difficoltà leggere questi versetti senza fare allusione all'eucaristia. La manducazione richiesta da Gesù può significare solo un'adesione stretta alla sua persona come salvatore del mondo. Ecco l'appello che doveva capire chiunque udiva Gesù »

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8) Storia dell'interpretazione

Anche se gran parte degli scrittori ecclesiastici riferiscono all'eucaristia il sermone che Gesù pronunciò a Cafarnao, non mancano tuttavia delle persone di grande valore che lo ricollegano alla fede in Gesù quale Figlio di Dio. Tertulliano (m. 122.123) così scrisse:

Quando dice: Le mie parole sono spirito e vita, Gesù la chiama sua carne perché, dal momento che la parola si è fatta carne, essa doveva essere ricercata per ottenere la vita ed essere divorata ascoltandola, ruminandola mediante l'intelligenza e digerendola per mezzo della fede (Tertulliano, De carnis resurrectione 37 PL 2, 894 (AD 208-211).

Clemente d'Alessandria (m. 211-15), così scrive:

Quando Gesù disse: Mangia la mia carne e bevi il mio sangue, evidentemente usava un linguaggio simbolico per indicare che egli era atto ad essere bevuto tramite la fede (Clemente Aless. , Ped. 1, 6, 46/47 PG 8, 296 (poco dopo il 195).

Origene, uno scrittore della stessa scuola (m. 254-55), ripeteva:

Noi abbiamo l'obbligo di bere il sangue di cristo, il che facciamo quando diamo ascolto ai suoi discorsi (Origene, in Num Homeliae 16, 9 PG 12, 701, dopo il 244), perché mediante la carne e il sangue delle sue parole, che sono una vera carne e una vera bevanda, egli abbevera e rinfresca tutta la razza umana (Origene, in Lev. Hom. 7, 5 PG 12, 487, dopo il 244).

Anche Girolamo (m. 420) scriveva:

Io suppongo che il vangelo è il corpo di Gesù e la Bibbia la sua dottrina. Di conseguenza quando Gesù dice: Chiunque non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, anche se poteva riferirsi al mistero (eucaristico), con più ragione si riferiva alla dottrina divina dal momento che il corpo di Cristo e il suo sangue sono il tema della S. Scritture... Se ascoltiamo la parola di Dio, si riversano nelle nostre orecchie la carne ed il sangue di Cristo, ma quando noi pensiamo a qualcosa d'altro, incorriamo in un grande pericolo (Girolamo, In pslamos commentarioli 147, 3 PL 26, 1334 ,a. 392.401).

Agostino (m. 430), vescovo d'Ippona, insegnava che:

Noi mangiamo questa carne e beviamo questa bevanda quando viviamo in Cristo e Cristo vive in noi (Agostino, In Joannis evangelium tractatus 26). E giustamente concludeva con la frase lapidaria: Credi ed hai mangiato (Agostino, Tract. in Joh. 25  n. 12; cf 26 n. 13).

Nicolò Cusano (m. 1464), Giansenio di Gand (m. 1576), il Gaetano (m. 1534) intesero il discorso di Gesù nel senso di mangiare il Cristo spiritualmente per fede, come pensarono pure i Calvinisti e Grozio. Al Concilio di Trento molti vescovi dissero che questo pensiero era non solo l'interpretazione di Agostino, ma anche di Tommaso d'Aquino, per cui il 16 luglio 1562 i vescovi quivi raccolti non vollero imporre l'interpretazione eucaristica di Gv 6: Dodici teologi si astennero dal votare, 19 lo intesero in senso eucaristico, 9 sostennero l'interpretazione spirituale della fede e 21 riferirono il discorso tanto alla fede quanto all'eucaristia. Quest'ultima ipotesi era già stata difesa da Tommaso d'Aquino: « Si deve dire che queste parole di Gesù («se non mangiate la mia carne») vanno riferite alla manducazione spirituale di Gesù (per fede) e non solo al cibo eucaristico ». Quest'ultima interpretazione poggiava sul fondamento assai fragile dei molti sensi letterali della S. Scrittura e che a buon diritto è oggi respinta dagli studiosi.

Dalle scarne considerazioni precedenti risulta come già in antico ciascuno studioso potesse intendere il discorso cafarnaico anche in senso metaforico (fede) senza sentirsi per nulla vincolato alla sua interpretazione eucaristica. Il contesto ci fa capire, come abbiamo visto, che Gesù alludeva alla fede e non alla eucaristia.

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