LA CENA
DEL SIGNORE

di Fausto Salvoni

CAPITOLO TERZO
QUESTO E' IL MIO CORPO

Indice
1) Presenza reale di Cristo
2) Contesto simbolico
3) Interpretazione degli apostoli e di Gesù stesso
4) Tutta l'azione è un simbolo
5) L'ebraico non ha il verbo «simboleggiare»
6) Un obiezione: Offesa al pane, offesa a Gesù?
7) La questione sacrificale

1) Presenza reale di Cristo

In tono prima enfatico ed ora più moderato, i teologi cattolici insistono sulle parole dell'istituzione per sostenere che il pane e il vino si trasformano sostanzialmente nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo. Bastino le seguenti due citazioni:

La frase: Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue, che sono espressioni di identità, indicano con esattezza e sufficienza la presenza viva del corpo e del sangue di Gesù. Las presenza reale vi è asserita vi verborum (ossia in forza delle stesse parole) dell'istituzione, essendo la conversione implicita nella presenza. Logicamente se vogliamo che la forma di identità insita nella frase: Questo è il mio corpo, sia retta, bisogna concludere che il pane non è più il pane bensì il reale corpo di Cristo (P. Batiffol, L'Eucharistie. La presence réelle et la transubstantiation, Paris 1913, p. 102 nota 1. Il Batiffol fu un pioniere della storia dei dogmi).

Forse che il Cristo – continua il Conway – lui che è Dio infinito, amante delle anime, può essersi permesso di usare una figura retorica capace di ingannare milioni di suoi seguaci di ogni tempo, e di condurli proprio a quell'idolatria che egli era venuto ad abolire? (B.L. Conway, The Question Box, p. 252).

Tuttavia la «idolatria» non viene da Gesù, bensì da chi si accosta al testo biblico con la mentalità occidentale dimenticando che le parole del vangelo sono scritte secondo il modo espressivo degli orientali. L'unica via per non incorrere in errori interpretativi sta nel dimenticare la mentalità filosofica medievale per tuffarci in quella semitica, presente nei vangeli. L'espressione « questo è » può intendersi in due modi diversi: in senso letterale o in senso simbolico. Se indicando un ragazzo dico: «Questo è mio figlio», chiunque capisce che quella persona è realmente la creatura da me generata o partorita, ma se, presentando la fotografia di un ragazzo, ripeto le medesime parole, ognuno comprende che parlo un senso metaforico: «Questa foto raffigura mio figlio». Quindi il contesto serve per conoscere quale senso si debba dare a una espressione. Quando Gesù diceva: « Questo è il mio corpo, questo calice è il mio sangue » che significato intendeva darvi? Letterale o simbolico? Ecco l'indagine indispensabile ad ogni studioso per cogliere il vero significato di queste parole, anteriormente a tutti i problemi teologici moderni. La risposta non dovrebbe riuscire difficile a chiunque si accosti senza preconcetti al pensiero biblico, dal quale in varie maniere risulta che Gesù intendeva parlare in senso metaforico. Ciò appare già dalla mentalità diversa con cui un occidentale e un orientale si accostano alla realtà: il primo, al vedere un essere concreto si chiede: «Che cosa è questo?», e ne ricerca l'intima natura costitutiva (sostanza). L'orientale invece dinanzi alla stessa realtà, si domanda: «Che cosa è mai questo per me?» ricercandone non la natura bensì i suoi rapporti con la persona che indaga (relazione). Vedendo il pane l'occidentale dice: «Questo è pane»; l'orientale invece afferma: «Questo è pane per me, ossia del cibo per me». Di conseguenza, all'udire le parole di Gesù: « Questo è il mio corpo», un semita non era indotto a pensare che la sostanza del pane si fosse trasformata nella sostanza del corpo di Cristo, ma che tale pane era, per il credente, il «corpo» di cristo, vale a dire la persona di Cristo, presentata nel suo aspetto esteriore percepibile di corpo. Sentendo dire: « Questo è il mio sangue », un semita non era portato a pensare che la sostanza del vino, contenuto nel calice, si era trasformata nella sostanza del sangue di Cristo, ma che la persona vivente del Cristo (il sangue è la vita) era destinata ad essere sacrificata per la salvezza umana, come viene chiarito dal participio aggiunto: « che sta per essere versato per voi».

Ma l'occidentale, dimenticando questo aspetto, ha operato un illecito passaggio dal campo relazionale alla sfera della natura e dell'essenza, deducendo dalle parole di Gesù che la sostanza del pane si cambia nella sostanza del Cristo. Ha ben affermato l'illegittimità di questo processo il calvinista F.J. Leenhardt, che così scrive:

Logicamente il pane è pane. Ma è un ebreo che parla. Il pane è riferito ad un fine che lo trascende. La sua natura empirica, che solo interessava lo spirito greco, non interessa lo spirito dell'israelita. Non si tratta di ciò che il pane è in se stesso. Per un ebreo, questa realtà bruta e immobile del pane è riferita ad uno scopo. Il pane è ciò che esso diviene in connessione a questo riferimento ultimo (F.J. Leenhardt, Ceci est mon corps, Neuchâtel - Paris 1955. p. 28).

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2) Contesto simbolico

Anche il contesto nel quale le parole di Gesù furono pronunciate ci spinge a dare loro un senso simbolico e non sostanziale.

Nei sinottici la «cena del Signore » è chiaramente inclusa nella cena Pasquale ebraica tutta impregnata di simbolismo: si ricordino le erbe amare, il pane azzimo, la coppa della benedizione, l'agnello pasquale, che richiamavano alla mente la grandiosa liberazione di Israele dalla triste schiavitù egizia ad opera della potente mano di Dio. Ai figli che chiederanno: « Che è per voi questo?», ossia che cosa raffigura questa azione (cena pasquale), risponderete: « Questo è (ossia raffigura) J ahvè che passò oltre la casa dei figli di Israele, quando colpì gli egiziani e salvò le nostre vite» (Es 12, 24 ss). La cena Pasquale raffigurava quindi l'angelo sterminatore che, quale messaggero di Jahvè, oltrepassò le case degli ebrei segnate col sangue dell'agnello senza colpirvi nessuno di morte, per entrare solo nelle case egizie e uccidervi i primogeniti. In tale atmosfera doveva riuscire spontaneo anche per gli apostoli intendere in senso simbolico la nuova cena stabilita da Gesù che sarebbe succeduta all'antico banchetto pasquale. Mentre la cena Pasquale ricorda simbolicamente la liberazione dalla schiavitù egizia, la cena cristiana simboleggia la salvezza realizzata da cristo con la sua morte in croce tramite la liberazione dalla schiavitù del peccato. Va poi ricordato che, quando parlava loro, Gesù era tuttora presente di persona, per cui è impossibile supporre che gli apostoli annettessero a quell'atto la trasformazione sostanziale del pane e del vino nel corpo e nel sangue di colui che stava loro dinanzi.

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3) Interpretazione degli apostoli e di Gesù stesso

1. Che gli apostoli, anche dopo la discesa dello Spirito Santo, abbiano inteso le parole di Gesù in senso metaforico appare chiaro dalla modifica, possibile solo nel caso di un simbolo. Paolo e Luca, infatti, alle parole «Questo calice è il mio sangue » (Mt, Lc) sostituiscono « Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue versato per voi » (Lc 22, 20; 1 Co 11, 25). E' evidente che il « calice », vale a dire il vino contenuto nel calice, non può sostanzialmente trasformarsi in un patto, che è qualcosa di astratto ma può essere solo simbolo o figura di questa nuova alleanza, così come esso è pure figura o simbolo del sangue di Gesù. Il senso simbolico che si adatta ad entrambe le formule, deve essere proprio quello inteso da gesù e non il senso letterale ontologico (relativo alla sostanza) che, al contrario, si adatta solo alla formula usata da Matteo e da marco, ma non a quella di Luca e di Paolo.

2. Alla medesima conclusione ci conduce l'apostolo Paolo, quando non dice che mangiando il pane e bevendo il vino si compie la « conversione» di tali sostanze nel corpo e nel sangue di Cristo, ma afferma invece che «si predica» quello che Cristo ha compiuto per noi sul Calvario: « Ogni volta infatti che voi mangerete di questo pane (si noti la conservazione del nome pane) e berrete di questo calice proclamerete la morte la morte del Signore fino a che il Cristo venga» (1 Co 11, 26).

Lo stesso apostolo fa pure un interessante parallelo tra l'eucaristia e i pasti sacrificali laici o pagani:

«Guardate l'Israele secondo la carne: Quelli che mangiano i sacrifici non sono essi in comunione (koinonòi) con l'altare (= Dio)?... Io dico che le carni che i non ebrei sacrificano, le sacrificano ai démoni e non a Dio, ora io non voglio che siate in comunione (koinonoùs) con i démoni. Voi non potete bere il calice del Signore e il calice dei démoni; voi non potete partecipare alla mensa (trapèza) del Signore e alla mensa dei démoni» (1 Co 10, 18.20s).

Si hanno qui i seguenti parallelismi:

a) i giudei mediante le offerte sacrificali entrano in comunione con Dio (altare);

b) i pagani con i loro pasti (mangiare della carne, bere del vino) stabiliscono una comunione con i démoni;

c) i cristiani mangiando il pane e bevendo il vino entrano in comunione (koinonìa) con Gesù Cristo: « Avete koinonìa con il corpo e il sangue di Cristo» (1 Co 10, 16). Ma tale comunione con il Cristo non esige il cambiamento della sostanza del pane e del vino nel corpo e del sangue di Gesù, altrimenti in forza del parallelismo dovremmo concludere che anche le bevande dei pagani si sarebbero dovute cambiare sostanzialmente nei démoni, e il cibo degli ebrei in Dio, il che è assurdo.. Come gli ebrei attuavano una comunione con Dio (= altare) e i pagani una comunione con i loro dei, senza alcuna transustanziazione del cibo, così, in virtù del parallelismo, si deve concludere che anche la comunione con il Cristo si può attuare senza esigere la conversione sostanziale del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore.

Per mezzo di tale cena si avvera quindi una maggiore comunione (koinonìa) con il corpo e il sangue di Cristo: «Il calice delle benedizione che noi benediciamo, non è esso la comunione (koinonìa) con il sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo non è la comunione (koinonìa) con il corpo di Cristo?» (1 Co 10, 16).

L'espressione «il calice della benedizione che noi benediciamo» è tratta dagli usi giudaici ed era familiare ad ogni ebreo. I giudei « benedicevano », ossia lodavano Dio all'inizio e alla fine dei pasti, così avevano un calice della benedizione con il quale chiudevano i pasti. Anche la comunità cristiana ritenne questo modo di parlare, come risulta d Paolo e dalla Didachè (9, 10). Il « che noi benediciamo» viene usato per distinguere tale benedizione da quella simile dei giudei. Che si tratti di questo uso e non della « consacrazione » risulta chiaro anche dal fatto che Paolo non dice nulla per il pane, che avrebbe dovuto essere consacrato anch'esso.

Paolo, tra il puro ricordo intellettuale e la transustanziazione medievale, segue una via di mezzo: la cena è sì un ricordo (anàmnesis), ma un ricordo che stabilisce una maggiore comunione tra chi partecipa alla cena e il Cristo stesso, senza che vi sia trasformazione sostanziale dei simboli nel corpo e nel sangue di Gesù.

3. Del resto lo stesso Cristo ce ne diede la spiegazione (ritengo genuino il comando, perché i discepoli non avrebbero potuto ripetere i gesti di Gesù fin dall'inizio, se lui stesso  non ve li avesse invitati) quando disse agli apostoli: « Fate questo in memoria (anàmnesis) di me» sia per il pane (Lc 22, 14; 1 Co 11, 25) sia per il vino (1 Co 11, 25).

Il greco anàmnesis «ricordo ». «memoriale» indica usualmente un momento eretto per ricordare un defunto oppure una vittoria; poteva anche essere una festività. Dal testamento di Epicuro leggiamo: « E così avvenga per la festa che avrà luogo il 20 di ogni mese tra tutti quelli che hanno seguito con me lo studio della filosofia, in memoria nostra (eis tèn emôn mnèmen) e di quella di Metrodoro » (Diogene Laerzio, Epicurea 10, 18, p. 165). Lo riconosce chiaramente anche E. B. Allo nel suo magistrale commento alla prima lettera di Paolo ai Corinzi, anche se poi senza alcuna ragione filologica, spinto a quanto pare dal dogma cattolico, aggiunge che qui, in bocca a Paolo, tale parola significa « il rinnovamento del sacrificio della croce».

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4) Tutta l'azione è un simbolo

Il significato della cena del Signore non sta soltanto nei simboli del pane e del vino, ma in tutta l'azione che si compie su di loro: « Quello che io realizzo sul pane spezzato e distribuito è il corpo di Gesù che sta per essere ferito e sacrificato per voi sulla croce »... «Quello che io attuo sul vino versandolo e distribuendolo da bere è il mio sangue che sta per essere versato in sacrificio a vostro favore » (Mt, Mc), oppure rappresenta «il nuovo patto che sta per essere sancito con il sangue da me versato» (Lc - Paolo). Per tale motivo il comando di Gesù non dice di recitare le parole della consacrazione, bensì di ripetere la medesima azione allora compiuta: « Fate questo in memoria di me » ( 1 Co 11, 24; Lc 22, 19).

Di conseguenza benché la parola « pane » (o àrtos) sia maschile in greco, il pronome che vi si riferisce (oùtos) non sta al maschile bensì al neutro (toùto), perché non si ricollega direttamente al pane, ma a tutta l'azione precedentemente compiuta che esige il neutro. Perciò, se riguarda tutta l'azione svolta e non solo il pane o solo il vino, non può indicare che questi due elementi si trasformino sostanzialmente nel corpo e nel sangue di Cristo, come in passato si soleva dedurre dall'analisi del pronome « questo ». Per questo motivo l'atto liturgico dei primi credenti si chiamava « cena del Signore» oppure « rottura del pane», per meglio sottolineare l'azione simbolica, anziché essere detta, come avvenne in seguito, consacrazione del pane e del vino. Il mutamento del nome è indice del cambiamento di concezione.

Innegabile è il rapporto tra l'azione di Gesù e quella simbolica compiuta da Ezechiele. Il profeta con un coltello affilato si rade barba e capelli, ne butta un terzo nel fuoco, un terzo lo taglia con la spada e un terzo lo disperde al vento, conservandone soltanto un piccolo numero che lega al lembo del proprio mantello. Poi continua: « Questo (è) Gerusalemme», vale a dire « la mia azione simboleggia ciò che sta per avvenire agli abitanti della città santa» (Ez 5, 1-5). La frase finale, identica per costruzione a quella di Gesù, ci mostra come essa possa e debba avere un significato simbolico, senza esigere un sostanziale cambiamento dei due elementi del pane e del vino.

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5. L'ebraico non ha il verbo «simboleggiare»

Se Gesù avesse voluto dire che l'azione simbolica compiuta sul pane e sul vino è soltanto un simbolo della sua morte in croce, ci si può chiedere come mai non abbia usato un verbo più chiaro e più esplicito, quale «simboleggia, significa » che avrebbe eliminato ogni ombra di dubbio, anziché adoperare l'enigmatico verbo « essere »? Per la semplicissima ragione che il verbo « simboleggiare » «significare », inesistente in ebraico o in aramaico, era espresso in queste due lingue semitiche accostando semplicemente il soggetto al predicato: «questo mio corpo» o, nel greco biblico, con il verbo « essere»: «questo è il mio corpo». Tutte le volte che in una versione della Bibbia appare il verbo «significa», l'originale ebraico non ha alcun verbo e il greco presenta il verbo « essere».

a) A + B equivale ad «A rappresenta B»

E' la forma comune nell'Antico Testamento dove il verbo «essere» usualmente si sottintende in ebraico, per cui il simbolo è accostato direttamente alla realtà significata. « I tre tralci tre giorni», ossia «rappresentano tre giorni dopo dei quali il coppiere sarà riammesso al servizio del Faraone (Ge 40, 12); «I tre cesti tre giorni », ossia equivalgono a tre giorni dopo dei quali il panettiere del re verrà ucciso (Ge 40, 16). «Le sette vacche grasse sette anni e le sette spighe altrettanti sette anni », ossia « raffigurano» sette anni di abbondante raccolto (Ge 41, 26; cf pure il v. 27). Alla domanda del figlio « Che cosa queste istruzioni, queste leggi e queste prescrizioni? (equivale a « che cosa sono, oppure significano queste istruzioni...? »), risponderai che, quando i nostri padri furono liberati dall'Egitto, Dio diede loro questi comandi » (Dt 6, 20). « Che queste pietre? », (ossia « che cosa sono (= significano) queste pietre?») Vi diranno i vostri figli e voi risponderete loro che le acque del Giordano si sono divise per lasciare passare gli Israeliti » (Gs 4, 6).

Anche la lingua aramaica non usava la copula: « L'albero dal fogliame bello tu, o re», dice Daniele, nella sua spiegazione del sogno di Nabucodonosor, intendendo dire «rappresentano te » (Dn 4, 22). Anche nelle parole dell'istituzione, parlando del calice, Luca segue tale uso perché scrive: « Questo calice la nuova alleanza», vale a dire «rappresenta » il nuovo pattp stabilito tramite il sangue di cristo (Lc 22, 20). Questa frase ci mostra come Gesù nell'originale aramaico (qui letteralmente tradotto in greco) non espresse la copula, ma accostò semplicemente il simbolo alla realtà significata.

b) «A é B» equivale ad «A rappresenta B»

E' la forma dominante nel Nuovo Testamento perché la lingua greca esprime il verbo « essere », sottaciuto invece nell'ebraico. « Che è questa parabola? », vale a dire « Che cosa significa la parabola del seminatore? » (Lc 8, 4). Poi Luca continua: « Il seme è la parola di Dio »; «quei semi che sono nella roccia sono coloro che hanno udito ma restano soffocati dalle cure e dalla ricchezza»: « quel seme che è caduto in buona terra sono coloro che ritengono la parola in un cuore onesto » (Lc 8, 11.13.14.15). In queste frasi le varie parti del seme, cadute in terreno diverso, « raffigurano »le persone che rispondono diversamente alla parola divina sparsa nei loro cuori.

Paolo usa spesso tale forma: « Agar e Sara sono (= rappresentano) le due alleanze ». «Agar è (rappresenta) il monte Sinai » (Ga 4, 24; cf 1 Co 11, 26). « La roccia che seguiva gli ebrei nel deserto era (= rappresentava) il Cristo » (1 Co 10, 3 s). Anche nell'Apocalisse si legge: « Le sette stelle sono (= rappresentano) gli angeli delle sette chiese e le sette lampade sono (= rappresentano) le sette chiese » (Ap 1, 20).

E' quindi naturale che Gesù, pur volendo indicare, come abbiamo visto precedentemente che l'azione sul pane e sul vino era solo simbolo del sacrificio di Gesù sulla croce, abbia usato il verbo essere, anziché quello inesistente di « simboleggiare ». Si può quindi concludere questo studio con le parole del benedettino J. Dupont:

Dicendo: questo è il mio corpo; Gesù non afferma necessariamente che la sostanza del pane è cambiata nella sostanza del suo corpo; nel modo di pensare di un semita e della Bibbia stessa il senso più naturale sarebbe: Questo significa il mio corpo, rappresenta il mio corpo. Si ricordi Ezechiele (5, 1-5) che dice dei suoi capelli: Questo è Gerusalemme, ossia questo è il simbolo di Gerusalemme; simbolo nell'ordine dell'azione; ciò che è avvenuto ai miei capelli deve riprodursi anche per Gerusalemme. Abbandoniamo quindi senza esitare un argomento troppo semplicista, che non prova proprio nulla (J. Dupont, Ceci est mon corps, ceci est mon sang, in Nouv. Rev. Theol. 90 (1968) 1025-1044, p. 1037).

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6) Un obiezione: Offesa al pane offesa a Gesù?

Se ben si riflette al fatto che il pane e il vino sono l'immagine del cristo risorto, si vede come sia inconsistente l'obiezione di C. Wisemann:

Un uomo non può essere colpevole di lesa maestà a meno che la maestà regale non esista nell'oggetto contro il quale si commette il crimine di lesa maestà. Così uno non può offendere il corpo e il sangue di Cristo nella beata Eucaristia, se queste cose non vi sono presenti (C. Wisemann, Lectures in the Real Presence of Jesus Christ in the Blessed Eucharist, London 1836, p. 319).

Si ricordi tuttavia che si offende il capo di uno stato o il papa, quando si brucia una loro statua o un loro ritratto; che si offende una nazione quando se ne strappa la bandiera per il semplice motivo che tali oggetti, pur non essendo sostanzialmente quelle persone e quello stato, di fatto li raffigurano. Per un cattolico un'offesa compiuta verso un'immagine del Cristo o di Maria viene considerata un sacrilegio contro il Cristo stesso e Maria, anche se di fatto Gesù e Maria non vi sono sostanzialmente presenti. Il culto rivolto a una reliquia, che storicamente fosse falsa, non è una male secondo la dottrina cattolica, perché il culto va alla persona ricordata da quella reliquia senza arrestarsi alla reliquia in se stessa. Anche se questi esempi non sono conformi al pensiero biblico, di fatto confermano il principio che non deve essere sostanzialmente presente una persona per offenderla; la si può offendere anche maltrattando ciò che la rappresenta (fotografia, ambasciatore, ecc.). Dunque lo stesso vale per la cena del Signore che deve essere compiuta con serietà: « Perciò chiunque mangerà il pane e berrà il vino del Signore indegnamente, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore » (1 Co 11, 17).

Mi si permetta di concludere questo studio con una citazione tratta da un recente libro del noto studioso protestante Eduard Lohse:

L'idea di una mutazione degli elementi, di una transubstanziazione è del resto così poco presente nel Nuovo testamento come poco lo è un particolare interesse per gli elementi stessi della cena come tali: pane/vino-corpo/sangue. Proprio la correlazione corpo/alleanza che troviamo in Paolo e Luca mostra che tutto sta nell'azione, nel compimento del rito. E' nel celebrare questa azione che la comunità sa di essere unita al suo Signore (E. Lohose, La storia della passione e morte di Gesù Cristo, Studi Biblici 31, Brescia, Paideia 1975, p. 65).

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7) La questione sacrificale

Di solito si prova l'esistenza del sacrificio eucaristico (S. Messa) mediante la profezia di Malachia e tramite alcune riflessioni su determinati passi neotestamentari, che dobbiamo quindi esaminare sia pure brevemente.

a) Malachia

Per condannare la grettezza dei sacerdoti ebraici che gli offrivano animali tarati e quindi impuri, Dio così dice:

Dal sorgere del sole al suo calare grande è il mio nome tra le nazioni e in ogni luogo mi si offre incenso e un'offerta pura (minchah) perché grande è il mio nome tra le nazioni, dice il Signore degli eserciti (Ml 1, 11).

Il Concilio di Trento nella sua sessione XXII ha così commentato il passo: «(la messa) è appunto quel puro sacrificio predetto per bocca di Malachia e che sarebbe offerto in ogni luogo» (Denz. Sch. 1742).

Questo sacrificio è detto minchàh, vocabolo che primariamente, anche se non esclusivamente, consisteva nell'offerta incruenta di fiore di farina (Lv 2, 1-5). L'incenso è solo un dato figurato per indicare le preghiere dei Santi. Alcuni teologi protestanti identificano invece la profezia con i sacrifici del popolo cristiano consistenti in preghiere e sacrifici spirituali inerenti ad una vita veramente cristiana (cf Rm 12, 1 ss; Eb 13, 15).

Va tuttavia ricordato che il sacrificio di cui parla Malachia non si riferisce a una realtà futura da riservarsi all'epoca messianica, per la quale il profeta usa sempre il tempo futuro (Ml 3, 1-5. 16-21), ma di un fatto già realizzatosi durante la sua vita, come è suggerito dal participio presente.

Inoltre il sacrificio minchah non è riservato all'offerta del fiore di farina, ma è riservato pure per l'agnello offerto da Abele (Ge 4, 4 cf 1 Sm 2, 15). Inoltre se si intende il sacrificio (minchah) come qualcosa di reale, non si capisce perché l'incenso debba essere al contrario preso in senso simbolico e non reale. Se il sacrificio di cui parla Malachia si riferisce al 5° secolo a.C., a che cosa allude?

1. Alcuni hanno pensato ai sacrifici pagani che le genti, pur ignorandolo, avrebbero rivolto al Dio degli ebrei indicato con nomi diversi. per questo il Pope così cantava:

Padre di tutti! In ogni età,
in ogni dimora adorato
dal santo, dal selvaggio e dal saggio;
Jehova, Giove, o Signore!

Così anche il Lods così scrive:

In una diatriba indignata contro i sacerdoti negligenti, Malachia ha l'ardire di dichiarare che Jahvè è onorato dal culto a lui offerto dall'universo intero molto meglio che da quello celebrato nel tempio di Gerusalemme (Lods, Les Prophètes d'Israel, Paris 1935, pp. 313ss).

Le parole di Malachia significherebbero dunque che Dio non ha bisogno dei doni giudaici perché tutti i pagani, anche se offrono in apparenza sacrifici ad altri dei, siano essi Ormuz, Zeus, Osiride, di fatto sacrificano al vero Dio. Malachia sarebbe dunque il più tollerante dei sincretisti religiosi.

Tuttavia, di fronte alle critiche bibliche contro l'idolatria (Sl 115, 3-8; Ez 14, 1-8; Rm 1, 18-23) è difficile pensare che Dio abbia ispirato a Malachia una simile frase di intonazione tanto larga. Essa equivarrebbe a dire che Jahvè preferisce il culto rivolto a Giove, perché è Jahvè che i pagani adorano sotto il nome di Zeus.

2. Malachia intende parlare dei sacrifici che gli ebrei della dispersione offrono, perché costoro sono i veri giudei che tengono alto il suo nome tra tutti i popoli e si mostrano ben più religiosi dei palestinesi. Gli ebrei infatti non erano tutti rimpatriati al tempo di Esdra e Neemia (V secolo), come ci assicura Giuseppe Flavio:

La maggioranza del popolo rimase in quella regione. Quindi solo due tribù in Asia e in Europa sono sottomesse ai romani; le altre dieci tribù stanno al di là dell'Eufrate e la loro gente è innumerevole.

Per la loro pietà, si ricordi che il famoso rabbino Hillel venne da Babilonia, come fecero più tardi anche R. Hiyya e i suoi figli. In Babilonia sorse il Talmud babilonese; a Babilonia si recò Pietro per visitare i giudeo-cristiani (1 Pt 5, 13). Quivi gli ebrei « adoravano il nome di Dio» (Baruch 2, 30-32); i suoi abitanti erano simboleggiati da un cesto di fichi buoni, mentre quello con i fichi marci raffigurava Gerusalemme (Gr 24, 1-10).

Gli ebrei della diaspora mandavano doni a Gerusalemme, i quali erano protetti contro eventuali furti da migliaia di robusti giudei che li accompagnavano. Essi mandavano pure le loro offerte sacrificali al tempio di Gerusalemme, dove si recavano in pellegrinaggio (At 2, 9).

Sembra tuttavia che Malachia parli di sacrifici compiuti in tutte le parti del mondo e dalle nazioni (goyim) e non di quelli inviati dagli ebrei a Gerusalemme. Il profeta afferma infatti che il suo nome è grande «tra le nazioni» e non « tra gli ebrei dispersi nelle nazioni ». E' quindi necessario tentare un'altra soluzione.

3. Le nazioni sono quelle sottoposte al regno persiano, il cui fondatore Ciro era considerato «re delle nazioni». Il montone che cozza contro tutti gli altri imperi «a occidente, a settentrione e a mezzogiorno » è simbolo dell'impero persiano (Dn 8, 4). Ciro, scelto dal Signore, che lo chiama «suo eletto» (Is 45, 1 s) è il « pastore di Dio» (Is 44, 28). Egli « mosso dalla giustizia di Dio» rimanderà i giudei deportati e ricostruirà la città sacra (Is 45, 13), dopo aver rovesciato gli idoli di Babilonia (Is 46, 1). I persiani adoravano il Dio Ahura-Mazda, assai vicino allo Jahvè ebraico, il Dio della luce e dei cieli, con il quale in un certo senso poteva essere identificato. Nessuna pietra porta incisi i suoi lineamenti; nemmeno il segno spesso inciso sulle rocce è il suo nome: Ahura-Mazda è soltanto una parola, che nasconde e circoscrive il suo vero nome, che non può essere scritto, né pronunciato dai fedeli e che soltanto poche labbra conoscono segretamente. Egli abita nella luce infinita e creata, il sole è l'occhio di Ahura-Mazda, il cielo il suo mantello, di cui nessuno riesce a vedere le ultime frange, le stelle sono le sue spie. Il fuoco sacro ne è il suo simbolo. Dio domina l'universo: « L'Eterno, il Dio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra e mi ha comandato di edificargli una casa in Gerusalemme» (Ed 1, 2). Il persiano Dario scrive: « a tutti i poli, a tutte le nazioni e lingue che abitano sulla terra... Io decreto che in tutto il dominio del mio regno si tema e si tremi davanti al Dio di Daniele » (Dn 6, 26 ss). Il culto persiano, privo di immagini, accompagnato dall'offerta dell'incenso, caratterizzato dall'unicità del loro Dio, li ha indubbiamente elevati nella considerazione degli ebrei, che proprio sotto i persiani poterono tornare in Patria. Era quindi possibile che Malachia parlasse del nome di Jahvè stimato tra tutte le nazioni per ordine del re persiano e al quale si offrivano sacrifici a lui più graditi di quelli ebraici. Ad ogni modo, qualunque interpretazione si segua, è difficile vedere in questo passo un qualsiasi nesso profetico con il sacrificio eucaristico.

b) Le parole della consacrazione

Nell'ultimo atto in cui stabilì l'eucaristia, Gesù pronunciò le parole: «Questo è il mio sangue che si versa (in questo momento ekchunnòmenon) per la salvezza dei peccati» (Mt 26, 28). «Questo è il mio corpo che si dà per voi (didòmenon)» (Lc 22, 19). Il participio presente fa capire che in quell'attimo si attuava un vero sacrificio eucaristico, dal momento che quello sulla croce si doveva realizzare più tardi.

La migliore risposta viene data dal noto gesuita M. Zerwick, che così scrive:

Al posto del participio futuro si usa il presente (come in ebraico ed aramaico)... Questo deve essere tenuto in mente quando si vogliono interpretare le parole dell'istituzione eucaristica (Lc 22, 19 s; toûto estin tò sôma ti uper umôn didomenon («dato per voi»), che va inteso in senso atemporale... toûto to potérion to uper umôn ekchunnomenon («versato per voi», similmente). Un argomento teologico del carattere sacrificale dell'ultima cena non può essere basato sul fatto che i participi sono al presente, mentre se si riferiscono al sacrificio dovrebbero essere al futuro (M. Zerwick, Biblical Greek, Roma, Biblico 1963, pp. 95-96 (n. 283); Grecitas biblica, Roma 1949, p. 65).

Anche il Dupont osserva:

Non si può concludere da questi presenti che i discepoli hanno sotto gli occhi il corpo del Signore già attualmente sacrificato, il suo sangue già attualmente versato. Il participio futuro non è quasi più adoperato dagli autori del Nuovo Testamento, il presente lo sostituisce particolarmente nel caso di un futuro prossimo o di un futuro certo. O erchòmenos non è colui che viene attualmente, ma colui che deve venire; oi sozòmenoi non sono le persone attualmente salvate, ma che sono destinate alla salvezza. La Volgata ne traduce bene il senso quando usa il futuro: sanguis qui pro multis effundetur. Si tratta del corpo che sta per essere ucciso, del sangue che è sul punto di essere versato (J. Dupont, Ceci est mon corps, a.c., in Nouv. Rev. Theol. 1958, pp. 1037).

A questi esempi se ne possono aggiungere altri. Nella preghiera sacerdotale Gesù dice: «Io prego non solo per questi ma anche per quelli che avrebbero creduto (part. presente) a loro», vale a dire per quelli che in seguito avrebbero creduto in Gesù per mezzo degli apostoli (Gv 17, 20). Gesù «il nascente » (to gennomenon) è colui che sta per nascere (Lc 1, 35), egli è «segno che si contraddice » (antilegòmenon participio presente), ossia colui che sarà contraddetto in futuri (Lc 2, 34. Si può quindi concludere che l'argomento filologico non serve a nulla.

c) Il confronto di Paolo con i sacrifici giudaici e pagani

Un altro testo per la teologia cattolica sembra suggerire che anche la cena del Signore sia un sacrificio: « Non potete partecipare alla mensa (trapèza) del Signore e alla mensa dei démoni» (1 Co 10, 20s). Tuttavia i pasti sacrificali presso i giudei e i gentili non erano propriamente un sacrificio, ma un modo di prendere parte ai benefici del sacrificio prima compiuto. Erano un convito sacro, con una successione di riti, le carni della vittima già prima sacrificata. Anche la cena del Signore non è quindi un nuovo sacrificio, ma un modo di partecipare ai benefici dell'unico sacrificio compiuto da Gesù sul Calvario.

Per convincersi della validità di questo ragionamento suggerisco di leggere un articolo del cattolico T. Barosse, che così è da lui sintetizzato:

Il parallelo stabilito da Paolo tra l'Eucaristia e le thysiai (cene sacrificali) giudaiche sembra basato sugli effetti simili del mangiare l'Eucaristia e le thysiai, piuttosto che sul desiderio di affermare il carattere sacrificale del rito cristiano (T. Barosse, The Eucharist. Sacrifice and Meal? An Examination of the New Testament Data, in Yearbook of Liturgical Studies 1966 p. 74).

Non vi è quindi nella Bibbia alcun testo che documenti l'esistenza del sacrificio eucaristico, il quale anzi è in contrasto con l'affermazione biblica che unico è il sacrificio cristiano, quello della croce.