LA CENA
DEL SIGNORE

di Fausto Salvoni

CAPITOLO QUARTO
LA CENA DEL SIGNORE NEL NUOVO TESTAMENTO

Indice
1) Per Gesù l'ultima cena era un segno prefigurativo
2) Per i cristiani la cena è un segno che parla di Gesù
3) La cena del Signore è una comunione
4) La cena è una predicazione ai non credenti
5) La cena preludio del convitto finale
6) Conseguenze teologiche della cena cristiana

Risvegliati! Risvegliati! Guarda! vedi!
su tutte le vette, e su tutte le pianure,
su tutte le chiuse valli, su tutti gli aperti golfi,
su tutti gli arcipelaghi, su tutti gli oceani,
hanno apparecchiato la tavola umana!
E, sulla tavola fatta del legno di tutti i boschi,
ecco hanno messo un'universale tovaglia
tessuta con tutte le luci del cielo.
E, il coperto è messo, e le coppe benedette,
e intorno la creazione.
Ed ecco, fra gli animali
la cui vita sovrabbonda,
davanti a tutti gli umani, il lupo e l'agnello
fanno la pace del mondo!

...
Alzati! Alzati! Il tuo posto in mezzo a loro è vuoto,
e i loro visi sono felici,
intorno alla tavola immensa!
Guarda: hanno spezzato il pane!
Guarda: hanno alzato il calice del vino!
Ascolta: hanno pregato nel silenzio:
la santa cena umana incomincia!

(Edmond Fleg, poeta ebreo, m. 1963)

Per ben capire i vari significati simbolici ed evocativi, racchiusi nella cena del Signore, occorre richiamare il valore insito nel segno biblico.

1) Per Gesù l'ultima cena era un segno prefigurativo

Le azioni profetiche, compiute per volere di Dio, mostravano che ad esse sarebbe ineluttabilmente seguita la realtà presignificata; anzi il compimento futuro della profezia avrebbe dato la prova che i profeti agivano davvero in nome di Dio (Dt 18, 21s; Ez 13, 6s).

Quando mise a marcire la propria cintura nelle acque dell'Eufrate o ruppe un vaso in presenza del popolo, Geremia profetizzava con tali gesti che il legame tra Dio e Israele ormai era spezzato e che ineluttabilmente Gerusalemme sarebbe stata distrutta (Gr 13, 1-11; 19, 1-13). Quando si pose un giogo sulle spalle, lo stesso profeta presignificava che la futura sottomissione degli abitanti di Gerusalemme a Nabucodonosor, re di Babilonia, era inevitabile e quando occultò le fondamenta del trono di Nabucodonosor nel delta del Nilo compì un gesto che necessariamente sarebbe stato completato con la realtà del futuro dominio assiro su quella regione egizia (Gr 27, 2; 43, 10). Gli atti compiuti da Ezechiele (bagaglio da deportato, mangiare del pane con paura, bere l'acqua con trepidazione) indicavano che senza dubbio gli ebrei dovevano andare esuli da Gerusalemme in Mesopotamia (Ez 12, 3-71).

Con i segni profetici « gli atti dell'uomo di Dio fanno entrare anticipatamente nella realtà gli eventi futuri da essi prefigurati. L'atto compiuto costituisce una parte – già realizzatasi – dell'evento preannunciato e divine così garanzia del suo necessario adempimento totale » (A. Lods, Prophètes d'Israel et les debuts du Judaisme, Paris 1935, p. 59).

Un esempio chiarissimo di questa assimilazione tra segno e realtà l'abbiamo nel caso di Eliseo che dice a Joas, re di Israele, di scagliare dalla sua finestra delle frecce in direzione di Damasco. Al primo colpo il profeta afferma: « E' la freccia della salvezza del Signore, è la freccia della salvezza contro la Siria; tu batterai la Siria in Afec fino allo sterminio ». Scagliate altre due frecce, Joas si arresta d'improvviso suscitando l'ira di Eliseo, che dichiara: « Se tu avessi percosso la terra cinque, sei o sette volte, avresti percosso la Siria fino alla sterminio, mentre ora non la vincerai che tre volte soltanto » (2 Re 13, 14-19). Le frecce evocano inesorabilmente altrettante vittorie, che erano una realtà già contenuta nel segno che le prefigurava.

Molte persone cercavano anzi di addurre con i loro gesti la realtà, che però si avverava solo quando era Dio a volere tale segno (così si distingueva il vero dal falso profeta).Mentre Geremia se ne andava in giro con un giogo al collo, il falso profeta Aanania per eliminare tale segno, glielo spezzò sperando in tal modo di distruggere la realtà prefigurata e in esso contenuta; ma il profeta di Dio gli rispose: « Tu hai spezzato il giogo di legno, ma in sua vece ne hai costruito uno di ferro » (Gr 28, 10-13).

Un'azione profetica che per il suo modo di esprimere s'accosta più delle altre alla cena del Signore è quella di Ezechiele, che dopo essersi tagliato con un rasoio barba e capelli, in parte li bruciò, in parte li tagliò con una spada o li disperse, e in parte se li pose in seno, concludendo: « Questo è Gerusalemme» (Ez 5, 1-5). Egli intendeva: l'azione che ho compiuta sui miei capelli è segno di ciò che necessariamente si attuerà per Gerusalemme, la quale sarà bruciata, mentre i suoi abitanti verranno in parte uccisi, in parte deportati in modo che ne rimanga per Dio solo un piccolo resto. Quando Geremia prese un vaso, lo portò fuori della porta di Gerusalemme e lo spezzò in presenza del popolo, avrebbe potuto dire: « Questo (siete) voi» (Gr 19, 1-15).

Gesù, che durante la sua vita pubblica compì varie azioni profetiche, nell'ultima cena, preso del pane, attuò su di esso l'azione simbolica della rottura e della distribuzione accompagnandola con le parole esplicative: den gufi (secondo altri den bisri), vale a dire: il mio corpo – ossia me stesso – è questo. Con il gesto profetico della rottura egli preannunziava la propria morte. prendendo del vino e distribuendolo ai suoi discepoli mentre diceva den idmi, Gesù presignificava che la sua morte si sarebbe avverata con l'effusione del proprio sangue (morte violenta) a favore di quanti avrebbero creduto in lui. L'azione compiuta liberamente da Gesù era non solo una profezia, ma quasi un dare già corpo all'evento, che dopo tale gesto diveniva inevitabile. Era un dire che Gesù. nonostante la sua naturale opposizione alla morte – si pensi alla scena del Getsemani (Lc 22, 42) –, con tale gesto profetico metteva in movimento quel complesso di cause che l'avrebbero condotto alla morte. Dando un pezzo di quel pane a Giuda Iscariota, Gesù compiva un atto simbolico assai efficace, che contribuiva a mettere in atto il suo tradimento e di conseguenza la propria morte. Tale gesto confermava le parole di Gesù riportate da Giovanni: « Nessuno mi toglie (la vita) ma io la depongo da me stesso per ripigliarla poi. Tale compito ho ricevuto dal Padre» (Gv 10, 18)

Il gesto compiuto da Gesù nell'ultima cena era l'offerta della propria vita, perché egli ben sapeva che dopo tale atto profetico compiuto volontariamente, non vi sarebbe più stato alcuno scampo, in quanto con esso la sua morte diveniva inevitabile. La cena, supremo atto d'amore di Gesù, è quindi introdotta da Giovanni con le parole: « Li amò sino alla fine » ossia fino al massimo consentito a un uomo.

Il tardo giudaismo a proposito dei patriarchi e dei messaggeri di Dio parla di un banchetto di addio nel quale l'uomo di Dio dona la sua benedizione sui discendenti e sui discepoli (cf Giubilei 22, 1-9; 31, 22s; Testamento di Neftali 1, 2). Similmente Gesù in questo banchetto di addio annunzia con un'azione simbolica che mediante la sua morte imminente egli avrebbe dato ai suoi discepoli (raffigurati dai Dodici) le benedizioni della nuova alleanza già preannunziate dai profeti e che avrebbe lui stesso suggellato con la sua morte ormai prossima. Nella cena Gesù si presenta come il servo di Dio, che va incontro alla morte espiatrice e che cammina verso la vittoria escatologica.

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2) Per i cristiani la cena è un segno che parla di Gesù

Un gesto parla con più realismo della parola, perché penetra nelle più profonde zone dell'essere umano, dove il linguaggio comune non può arrivare. E' ciò che cercano di evocare gli studi sulla moderna psicologia dell'inconscio. Un eccellente discorso sul valore del cibo non avrà mai la stessa efficacia del mangiarlo.. Gesù, precorrendo le scoperte psicologiche contemporanee, ha capito che il modo migliore per far capire come egli sia il cibo dell'uomo, è quello di farci mangiare del pane. Quindi egli ha voluto che i cristiani partecipassero alla cena creata in suo ricordo: « Fate questo in memoria di me» (1 Co 11, 24-25). La « memoria» qui suggerita è duplice, in quanto può riferirsi tanto a Dio quanto ai credenti che partecipano alla cena, assumendo di conseguenza un significato del tutto diverso.

a) Riferita a Dio «la memoria» significa: ciò si compie perché egli ricordi quanto Gesù ha fatto per noi

Tale era il senso dei dodici pani di fior di farina non lievitati, simbolo delle dodici tribù di Israele, che stavano di continuo sull'altare del santuario e sui quali si offriva ogni sabato un po' d'incenso puro « come memoriale» (azkarah) perché Dio non dimenticasse il patto stabilito con il suo popolo: « Ogni giorno di sabato si disporranno i pani davanti al Signore, di continuo; da parte degli Israeliti (in) alleanza eterna », vale a dire come segno dinnanzi a Dio del patto eterno stabilito con le dodici tribù di Israele (Lv 24, 8). Il termine « memoria, memoriale » (eb. zikkaron) si applicava pure ai nomi delle dodici tribù incisi sulle pietre preziose ornanti le spalle del sommo sacerdote e delle dodici pietre preziose del suo « pettorale » (Es 28, 12-19). Nei momenti più sacri, quando il sommo sacerdote entrava «davanti al Signore » nella parte più intima e sacra del tempio, essi richiamavano a Dio il ricordo dell'alleanza stabilita con le dodici tribù di Israele: « Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (Ez 37, 27; cf 2 Co 6, 16).

Il ricordo divino non è soltanto intellettuale, ma si trasforma in azione benefica o punitiva. Quando ricorda i peccati dell'uomo, Dio li punisce; egli ricorda le colpe dell'umanità e le punisce con il diluvio (Ge 9, 15 ss), i delitti di Roma e ne distrugge la città, le iniquità di Israele e ne disperde la gente in schiavitù « essi torneranno in Egitto» (Os 8, 13).

Quando Dio ricorda il bene è per premiarlo: ricorda Abramo per benedirne la stirpe (Ge 19, 29), Davide per attuarne le promesse (Sl 132, 1), «il suo patto» e dà la Palestina ai figli di Abramo (Sl 105, 8; 111, 5), Anna e le fece avere il figlio desiderato: « O Jahvè Zebaot. Deh! Guarda all'afflizione della tua schiava e ricordati di me. Non dimenticare la tua schiava e donale un figlio: ... e Jahvè si ricordò di lei, perciò mise al mondo un figlio » (1 Sm 1, 11-19).

Anche un segno può ricordare a Dio le sue promesse: l'arcobaleno gli ricorda la promessa di non voler più annientare l'umanità con il diluvio (Ge 9, 14 s). I nomi delle tribù sull'abito sacerdotale e i pani presentati dinnanzi all'altare, come abbiamo visto sopra, gli ricordano il patto stabilito con Israele affinché egli non vi venga meno.

Si tratta evidentemente di un modo antropomorfico di esprimersi, perché Dio non dimentica mai le sue promesse. Tale espressione vuole solo tenere viva nei Giudei la fiducia in quel Dio che ha fatto le sue promesse, che di continuo gli dona sicurezza; anche in mezzo alle prove più dolorose, egli farà sussistere il suo popolo e lo ricondurrà nella terra promessa anche dai luoghi dell'esilio.

Quando i cristiani partecipano alla cena del Signore, Dio ricorda il nuovo patto d'amore stabilito nel sangue di Cristo, per proteggere il suo nuovo popolo in ogni difficoltà. I credenti non sono soli; Dio è con loro. In quel momento Gesù compie la sua funzione di avvocato presso il Padre: «non solo per i nostri peccati, ma anche per quelli del mondo intero» (1 Gv 2, 1-2). Anche in questo caso, Dio non ha bisogno di un simile segno per ricordare i suoi discepoli; sempre se ne ricorda e li protegge. Il segno della cena assicura i cristiani dell'amore e dell'aiuto divino e accresce la loro fiducia nel Padre e in Gesù avvocato di tutti gli uomini.

b) I cristiani ricordano la morte di Gesù

Il termine ebraico zikkârah (aramaico dukrân?) era adoperato anche per la Pasqua giudaica: « Questo giorno sarà un memoriale (zikkarôn); lo celebrerete come la festa di Jahvè. Di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perpetuo» (Es 12, 14). « Sarà per te un segno sulla mano e un memoriale per i tuoi occhi, affinché la legge del Signore sia nella tua bocca. Infatti con mano potente il Signore ti ha fatto uscire dall'Egitto» (Es 13, 9). « Per sette giorni mangerai degli azzimi, pane dell'afflizione, perché uscisti in fretta dall'Egitto, affinché tu ti ricordi (tizkôr) del giorno che uscisti dal paese dell'Egitto tutto il tempo della tua vita » (Dt 13, 3). Qui sono gli uomini a ricordare la salvezza donata da Dio.Mentre mangia le erbe amare, il popolo ebraico rivive la dolorosa esperienza di quando era schiavo in Egitto; mentre si ciba dell'agnello pasquale, rinnova la gioiosa esperienza di essere stato preservato dalla morte dei primogeniti che colpì invece gli Egizi e di aver così ottenuto la liberazione dall'Egitto.

Quando il cristiano mangia il pane e il vino della cena del Signore rivive l'esperienza dell'amore di Gesù che con la sua morte in croce è divenuto per noi il pane di vita. Un artista riproduce con il suo strumento musicale la stessa melodia che ha allietato gli animi quando fu composta e ristabilisce la stessa atmosfera di gioia o di dolore, di esaltazione o di sconforto che l'ha originata. Mediante i segni del pane che si mangia e del vino che si beve si ricrea l'atmosfera di amore e di perdono misericordioso quale si è avverata sulla croce. Nella cena il credente esperimenta che Gesù è il suo pane di vita e che è divenuto tale con la sua morte espiatrice.

1. Gesù è il pane di vita. Il pane evoca per sua natura il nutrimento, perché presso tutti i popoli del mediterraneo e del Medio Oriente esso era il prodotto base dell'alimentazione. Chi non ha pane è destinato a morire: la vedova di Sarepta ad Elia, che le chiedeva del pane, risponde: « Com'è vero che Jahvè il tuo Dio vive, del pane non ne ho. Ho solo una manciata di farina in un vaso e un po' d'olio nell'ampolla. Ne farò una focaccia per me e per mio figlio con questi due pezzi di legno che sto raccogliendo. La mangeremo e poi moriremo» (1 Re 17, 12).

Nel deserto il popolo di Israele rimpianse il pane che lo nutriva in Egitto, mentre lì nella steppa sinaitica non aveva né pane né acqua ed era quindi destinato a perire (Es 17, 3: Nm 21, 5). Per evitare che la gente venisse meno per la strada, Gesù moltiplicò miracolosamente sette pani e ne sfamò la gente (Mt 5, 23 ss). Sfortunato chi è costretto a mendicare il pane altrui perché non può guadagnarselo per conto proprio; però è ancora più triste la sorte di quei ragazzi che chiedono del pane, ma nessuno glielo può dare (1 Sm 2, 5; Lm 4,4).

I cristiani quando mangiano del pane, reso segno del corpo, vale a dire della persona di Gesù, esperimentano che questo è il nutrimento spirituale, datore e conservatore di vita. L'uomo « che non vive di solo pane » (Dt 8, 3; Mt 4, 4) è tenuto in vita dal quel Gesù che gli si presenta come « il pane sceso dal Cielo» (Gv 6, 35).

2. Gesù è pane vivificante, perché ha dato il suo sangue per noi. Il sacrificio di Gesù è la radice che ha reso Gesù pane di vita per l'umanità che a lui si affida. Il sangue era ed è sinonimo di vitalità, perché mentre esso fuoriesce dal corpo, ne fa uscire progressivamente anche la vita, per cui l'antico ebreo diceva: « il sangue è la vita» (Ge 9, 4). Dal momento che la vita è dono divino, le antiche mitologie della Mesopotamia facevano impastare il primo uomo con il sangue di un Dio. Invece la Bibbia, priva di simili presentazioni mitologiche, fa capire che la vita è dono divino obbligando l'uomo ad offrire a Dio il sangue dell'animale ucciso, che va versato sull'altare, o almeno per terra, senza mangiarlo nemmeno assieme alla carne (Lv 17, 7-11; cf At 15, 29).

Il sangue serviva per suggellare un'alleanza. Mosè, quando ebbe promulgato (sul Sinai) «ogni comandamento della legge a tutto il popolo, prese il sangue dei vitelli e dei capri... lo asperse sul popolo e sul libro dicendo: Questo è il sangue del patto che Dio volle contrarre con voi» (Eb 9, 19-21; cf Lc 22, 20).

Il sangue dei sacrifici aveva pure un valore espiatorio: « Siccome la vita di una persona sta nel sangue, io do il sangue per espiazione a favore della vostra vita. Infatti è il sangue che espia » (Lv 17, 11). Con il sangue si purifica un colpevole dai suoi peccati (Lv 16), un lebbroso, una casa contaminata, un altare, il sommo sacerdote (Lv 14, 8), per cui si può concludere: « Senza effusione di sangue non vi è remissione» (Eb 9, 22).

Anche il sangue di Gesù ha sancito la nuova alleanza non con un popolo, come aveva fatto il patto sinaitico che riguardava solo gli ebrei, bensì con l'intera umanità. Quindi Matteo può scrivere: «Il sangue dell'alleanza è questo atto che io compio sul vino» (Mt 26, 28; Mc 14, 24). E ancor più chiaramente Luca: « Questo calice (su cui agisco versandone il vino) è l'alleanza che io stabilisco nel mio sangue» (Lc 22, 20; 1 Co 11, 25).

Con l'alleanza nuova firmata con il sangue di Gesù si è compiuta anche la purificazione dei peccati dell'uomo:

« Il Cristo non ha offerto il sangue di capri e vitelli, ma ci ha liberati per sempre dai nostri peccati offrendo il suo sangue per noi... Quanto più efficace il sangue di Cristo... Il suo sangue purifica la nostra coscienza dalle opere morte e ci rende adatti a servire il Dio vivente » (Eb 9, 12-14; cf Lv 16, 14-16; Eb 10, 19; 1 Pt 1, 18-19; 1 Gv 1, 7).

Come simboleggiare questo sangue nella cena del Signore? Non vi era simbolo più adatto del vino. Il vino, sia per il colore rosso, sia perché spremuto dagli acini, sia per la sua efficacia corroborante (era usato come medicina), si prestava a divenire un simbolo naturale del sangue che sprizza dai pori, ha il medesimo colore rosso e dà vitalità ad una persona. Non fa quindi meraviglia che verso il quarto millennio a.C. gli antichi Sumeri chiamassero la vite « albero di vita », e la stessa vita fosse raffigurata da un pampino. Il condottiero vittorioso spiega come mai le sue vesti siano imbrattate di sangue, mettendo in parallelismo la spremitura dell'uva con lo sprizzare del sangue nemico:

Nel vino ho pigiato da solo dei popoli, nessuno era come; è sprizzato il loro sangue sulle mie vesti, e tutti i miei abiti sono macchiati (Is 63, 1-3).

Per tale motivo, al posto dell'antica offerta del sangue, propria dei sacrifici cruenti, Gesù ha voluto utilizzare il simbolo del vino, che non di rado si offriva già in passato, come libagione a Dio.

Bevendo il vino, i cristiani ricordano che la morte di Gesù, simboleggiata dal vino versato, ha dato inizio alla nuova alleanza di Dio con gli uomini i cui peccati per mezzo suo ottengono espiazione.

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3) La cena del Signore è una comunione

La cena del Signore non è un puro ricordo intellettuale, ma crea una maggiore comunione con Cristo e con i fratelli.

a) Comunione con Gesù Cristo

Il cristiano è già in unione con Gesù, perché con il battesimo si riveste di Cristo (Ga 3, 27). Nella sua preghiera sacerdotale, poco prima di morire, Gesù disse: « che io sia in loro e loro in me» (Gv 17, 23).

Paolo dichiara: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Ga 2, 20).

Lo stesso apostolo pregava: «Piego le mie ginocchia... perché Dio vi conceda che, per mezzo della fede, il Cristo dimori permanentemente nei vostri cuori» (Ef 3, 17).

Cristo è poi presente in modo spirituale dovunque due o tre sono riuniti nel nome di Gesù (Mc 18, 20). Cristo, il capo, non può essere assente là dove si riunisce il suo corpo.

Vi sono però dei momenti della vita nei quali le realtà diventano più reali. Nel momento in cui partecipo al culto, leggo le Scritture e prego, Dio è presente in modo come non lo è quando lavoro nella cucina, nei campi, in uno stabilimento (Joseph R. Schultz, The Soul of the Symbols. A Theological study of Holy Communion, Grand Rapids (Michigan), Eerdmans Publ, Company, 1966, p. 129).

Il luogo non crea la presenza di Dio, ma accresce il nostro sentimento di tale presenza e dispone i nostri cuori a percepire meglio la presenza divina. Nel momento della cena del Signore Gesù è presente, in un certo senso, in quanto fa ricordare, attraverso i simboli da lui stabiliti, quanto egli ha fatto per me. Come nell'ultima cena, Gesù mi distribuisce il suo pane e il suo vino. Il capofamiglia ebreo non faceva circolare il suo calice; solo in casi eccezionali, per mostrare la sua stima e il suo affetto verso una persona, le inviava il proprio calice per onorarla in modo particolare. Nell'ultima cena Gesù mandò il suo calice a tutti, facendolo circolare tra gli apostoli, mostrando così come essi fossero suoi amici. Mediante il calice che circola egli mostra come i discepoli siano resi partecipi della benedizione da lui procurata con la sua morte e resurrezione. per questo Paolo concludeva: «I l calice di benedizione che noi benediciamo non è una comunione (koinonìa) con il sangue di cristo? e il pane che noi spezziamo non è una comunione con il corpo di Cristo? » (1 Co 10, 16).

Di conseguenza tra il cristiano, che partecipa alla cena del Signore, e Gesù Cristo si stabilisce uno scambio di beni: i peccati di debolezza, l'egoismo dei credenti sono eliminati dalla purezza, dalla potenza, dall'amore altruista di Gesù. Il credente viene così fortificato e rallegrato, perché come il pane « fortifica il cuore dell'uomo, così il vino lo rallegra » (Sl 104, 15).

Procura delle bevande forti per l'afflitto
del vino al cuore pieno di amarezza.
Che ne beva! Che dimentichi la sua miseria!
Che più non si ricordi della sua pena!
(Pr 31, 69).

Per questo i soldati volevano dare a Gesù crocifisso un po' di vino per calmarne i dolori (Mc 16, 35). Ma la dimenticanza prodotta dal vino è solo passeggera e più tardi il dolore riappare a tormento del sofferente. Gesù, vino spirituale, rende invece la nostra gioia più profonda e ci fa superare ogni difficoltà con la potenza dello Spirito Santo che egli ci dona. Per questo Paolo gioisce in ogni sofferenza (si legga ad esempio la lettera ai Filippesi, da lui scritta in carcere).

Come fanno gli ebrei in occasione della pasqua, anche i cristiani durante la cena del Signore, devono ringraziare Dio per tutti questi benefici: « Abbiamo quindi il dovere di ringraziare e lodare... colui che ha operato prodigi al tempo dei nostri padri, colui che dalla schiavitù ci ha portati alla libertà, dai dispiaceri alla gioia, dalla mestizia alla letizia; dalle tenebre ad una gran luce » (Pesach 10, 5).

b) Unione con i fratelli

In occasione del banchetto pasquale, Dio così parla agli ebrei: « Oggi il tuo Dio ti comanda di mettere in pratica questi statuti e questa legge... Oggi il Signore si è impegnato ad esserti Dio, mentre tu camminerai nelle sue vie» (Dt 26, 16-19). Anche i cristiani nel mangiare assieme del pane e nel bere del vino compiono un gesto che è però inutile se non è accompagnato da un corrispondente atteggiamento di vita. Sedersi a mensa con il Signore con sentimenti opposti ai suoi è profanare la cena del Signore. tale atto diviene sacrilegio non perché vi manca la decenza rituale, ma perché non esprime la volontà di inserirsi nel disegno amoroso di Dio, svelato dal Cristo. I gesti senza adesione interiore dell'uomo, sono pure mimiche o pantomime, si trasformano in scenografie nelle quali l'uomo mostra degli atteggiamenti che non sono suoi, ai quali non crede. Il culto vero si esplica non solo nelle riunioni cultuali dell'assemblea, ma deve svilupparsi in una vita intonata a quella di cristo. Nel ricordare l'amore di Gesù che ha dato la propria vita per i suoi amici, i cristiani sentono più vivo il loro mutuo amore fraterno e percepiscono più viva la necessità di aiutare gli uomini bisognosi di aiuto materiale o spirituale che essi incontrano: « Perché vi è un solo pane, noi che siamo molti siamo un unico corpo, perché tutti prendiamo parte di uno stesso pane » (1 Co 10, 17). La comunione con il capo, Gesù Cristo, produce pure comunione con i membri del suo corpo. E' impossibile essere uniti con il capo, ma separati con le sue membra. Gesù Cristo, psicologo, precorrendo ogni scoperta umana, ha ben capito che il miglior modo per avere comunione con le persone è quello di mangiare qualcosa assieme. prendere del cibo in comune è sempre stato simbolo di amicizia e di amore.

Quando un beduino trova uno straniero, dapprima lo guarda come se fosse un nemico. Ma quando l'estraneo mangia con lui del pane o del sale, allora lo straniero cessa di essere straniero e diviene membro della sua famiglia, gode della sua ospitalità, e trova, anzi, una persona pronta a difenderlo in ogni pericolo che possa incorrere. La peggiore colpa di una persona è quella di fare del male a chi gli dà del cibo: « Persino chi ha mangiato del mio pane, ha levato il suo tallone contro di me » (Sl 41, 9).

Anche i cristiani nel mangiare alla stessa tavola di Dio costituiscono la vera famiglia, nella quale dovrebbe dominare l'amore degli uni verso gli altri. Per meglio attuare tale fraternità sino al 150 d.C. i cristiani univano alla cena del Signore un vero pasto, detto agàpe. Paolo si lamenta che in questo pasto d'amore quei di Corinto rompevano tale fraternità, perché mentre gli uni gozzovigliavano, gli altri non avevano neppure da mangiare (1 Co 11, 20)

Le comunioni prodotte dall'Eucaristia disse Paolo VI – sono due: una è con Cristo... l'altra e con gli uomini... Con quegli uomini che siedono alla stessa mensa divina. Non si può accedere all'altare con l'odio nel cuore o con il rimorso di aver offeso un fratello; e non si può lasciare la mensa del Signore, dimenticando il precetto nuovo: «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 13, 34). E l'Eucaristia diventa in noi la grande sorgente dell'amore fraterno, anzi della carità sociale (Oss. Rom. 2/3-5-72 p. 1 s).

Tertulliano ci ha tramandato una stupenda testimonianza di questo amore fraterno:

I pagani sono irritati con noi, perché ci chiamiamo gli uni gli altri con il nome di fratelli. Poi aggiunge – Proprio questo nobilissimo atto d'amore conduce molti a colpirci: guarda come si amano gli uni gli altri... come sono pronti a morire gli uni per gli altri (Tertulliano, Apologia 39).

Questo amore fraterno è reale, come reale è la loro figliolanza verso Dio: è quanto raccomandava Giovanni: « Chiunque non continua ad agire bene non è da Dio, né lo è chiunque non continua ad amare il fratello. Questo infatti è il messaggio che avete udito sin dal principio, che ci dobbiamo amare scambievolmente » (1 Gv 3, 10 s). Come diceva Cipriano è appunto « nella cena del Signore che il nostro popolo si mostra unito» (Cipriano, lettera sull'Eucaristia).

Colui che meglio di altri ha presentato l'amore che sgorga dalla cena del Signore è stato Paolino, patriarca di Aquileia (m. 802), il quale, durante il periodo carolingio, ha scritto un canto liturgico stupendo, anche se talora è animato da allegorismo politico religioso. Esso è stato integralmente ritrovato solo di recente. Ecco come suona in traduzione italiana:

1 Ci ha riuniti in un solo cuore – Cristo – Amore
Siamo dunque in lui esultati – siam festanti.
Iddio vivo sol temiamo
– ed amiamo,
ed amiamoci di vero
– cuor sincero.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
2 Chi l'amore in sé non sente – non ha niente,
Lui di tenebre, Lui d'ombra
– di morte ingombra.
Noi l'un l'altro che ci amiamo
– camminiamo
nella luce, ché del sole
– siamo prole
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
3 Dio ci grida nella mente – chiaramente
«Nel mio nome ove adunate
– siano
pur due sole o tre persone
– in unione,
sono presente io stesso
– nel consesso».
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
4 Quando dunque siam ciascun – nel raduno
non facciamo che sian le menti
– dissidenti.
Mettiamo via maligni attriti
– via le liti!
Fra noi Cristo è allor presente
– veramente.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
5 Come amor lega ai presenti – pur gli assenti,
la discordia anche gli astanti
– tiene distanti.
Che il sentire di ciascuno
– sia solo uno,
che non stiamo insieme assisi
– ma divisi.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
6 E' l'amore un bene intenso – dono immenso,
su cui l'ordine si regge,
– d'ogni legge,
a cui vecchia o nuova norma
– si conforma,
che nel ciel l'alma mena
– d'esso piena.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
7 Dunque a Dio con tutto il cuore – diamo amore,
e nessun amore preposto sia
– al suo posto;
per il prossimo in Dio poi
– qual per noi,
sia l'amor. Sia in Cristo amato
– chi ci ha odiato.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
8 Questo duplice precetto – dell'affetto
chi umilmente sa cercare
– e osservare,
davvero in cristo egli resta
– se poi questa
tetra notte in fuga ha visto
– sta in lui Cristo.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
9 Sol la via ch'è stretta e ardita – va in salita,
ma se scende a largo il passo
– porta in basso;
sol fraterno amor dà vita
– infinita,
mentre dà lotta fraterna
– pena eterna.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
10 Or da tutti insieme i cuori – Dio s'implori,
perché pace al dì presente,
– dia clemente;
voglia a fede e speme unire
– retto agire,
perché al regno ci si interni
– dei superni.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!
11 All'eterno Re sian canti – osannanti,
per la vita ai reggitori
– pur s'implori,
per goder con loro molt'anni
– senza affanni,
che per loro amor siam stati
– consociati.
Solo dove è il vero amore – c'è il Signore!

In occasione della cena del Signore gli schiavi mangiavano assieme ai propri padroni, il che non si avverava mai in altre circostanze (Ef 6, 9); le donne sedevano a mensa con gli uomini, il che era proibito dai rabbini; i gentili mangiavano assieme agli ebrei, il che era tollerato dai giudei non cristiani (cf Ga 2, 11; Ef 2, 15). 

Ne conseguiva pure la libera comunione dei beni (At 2, 42), l'aiuto ai poveri di Gerusalemme raccolto ogni domenica (1 Co 16, 1), l'aiuto ai missionari (Fl  4, 15-16). L'amore infatti non deve consistere in parole sterili, ma concretizzarsi nella generosità dell'azione (1 Gv 3, 15-19).

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4) La cena è una predicazione ai non credenti

I non credenti, che avevano libero accesso alle riunioni cristiane, anche se tenute originariamente in case private (1 Co 14, 23-25), tramite l'azione simbolica della cena si sentivano proclamare che anche per loro era pronta la salvezza in Cristo Gesù: « Ogni volta che voi mangiate di questo pane o bevete di questo vino voi annunziate la morte del Signore finché egli venga » (1 Co 11, 26). Il verbo greco (katàngèllete) ha la stessa forma sia all'imperativo che al presente, per cui può essere inteso come un comando: «dovete cioè proclamare agli altri» la morte del Signore, oppure come l'attuazione presente di un fatto: «con la vostra stessa cena voi annunziate agli altri la morte del Signore». Questo secondo senso mi sembra più aderente al contesto dove è l'azione stessa della cena che costituisce tale proclamazione. Questa, anziché essere un annunzio espresso solo a parole, è compiuta da parole congiunte con un gesto.

L'azione non sarebbe capita da un non cristiano, se non fosse spiegata verbalmente, il che si attuava mediante la benedizione che l'accompagnava. Paolo parla infatti del « calice di benedizione», sul quale cioè si pronunciava una benedizione.Questa benedizione (eulogia 1 Co 10, 16) non consisteva – come spesso si crede erroneamente – nel chiedere la benedizione a Dio dicendo, ad esempio: «Padre benedici questo pane... questo vino», quasi che i due elementi dovessero ricevere una certa consacrazione. Essa consisteva, secondo l'uso dei pasti ebraici, in un « ringraziamento» rivolto a Dio per il dono di se stesso che Gesù ha compiuto e che sta simboleggiato nel pane e nel vino. per tale motivo al « benedire » di Matteo, Marco, Paolo l'apostolo e l'evangelista Luca sostituiscono il verbo eucharistèo che significa « ringraziare », e dal quale proviene il termine « eucaristia ». nella cena del Signore, cioè del Gesù risorto e glorificato, tutti, maschi e femmine, proclamano ad ogni persona presente che Gesù è donatore di salvezza con la sua morte e resurrezione. Nella cena del Signore la chiesa fa propria la lode a Dio padre e al Cristo, ricordata nell'Apocalisse: « A colui che siede sul trono (Dio) a all'agnellino (Gesù Cristo) siano lode, onore e gloria e potenza per i secoli dei secoli» (Ap 5, 13).

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5) La cena preludio del convito finale

La vita cristiana è un paradiso: i cristiani sono già redenti, ma continuano ad attendere la redenzione del corpo; essi sono già nel regno, ma continuano a pregare: «Venga (nella sua completezza) il tuo regno»; sono già rivestiti di Cristo, ma camminano  sulla terra lungi dal Signore (Fl 1, 23); credono nel Gesù che è già venuto a salvarli, ma ne attendono il ritorno glorioso. Anche nella pasqua giudaica si attende ancora oggi la venuta del Messia, per il quale si lascia vuota una sedia, perché quando egli giungerà possa trovare il posto pronto. Nel Targum palestinese su Es 12, 42, detto « il poema delle quattro notti», si commenta il testo biblico ricordando i quattro interventi divini al 14 Nisan (data della Pasqua ebraica): creazione del mondo, promessa ad Abramo, liberazione dall'Egitto e finale liberazione messianica della quale così si dice:

La quarta notte verrà quando il mondo sarà giunto al momento della sua fine per essere liberato. I gioghi di ferro saranno spezzati e le generazioni di iniquità saranno annientate. E Mosè uscirà dal deserto... L'uno camminerà in testa al gregge e l'altro (Messia) in capo al suo gregge e la sua parola camminerà tra i due, ed essi cammineranno insieme. E' la notte di Pasqua per il nome di Jahvè; notte fissata e riservata per la salvezza di tutte le generazioni di Israele (R. Le Deut, la nuit pascale, Roma, istituto Biblico 1963, pp. 64-65).

Per il tempo messianico i profeti annunziano la sazietà: « Essi non avranno né fame né sete, non li abbatterà l'arsura e il sole, perché li guiderà colui che ha pietà di loro; alle sorgenti delle acque ci guiderà» (Is 49, 99). Anche il salmo 22, dopo aver descritto le sofferenze del Messia, ne nota il trionfo finale sotto il simbolo di un banchetto: « Mangeranno gli umili e si sazieranno; loderanno Jahvè coloro che lo cercano » (Sl 22, 26; Is 55, 1).

L'apocalisse nel descrivere la felicità finale, non trova di meglio che presentarla sotto l'immagine di un banchetto: « E vidi la città sante, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da presso Dio, come una sposa rivestita per il suo sposo. Non vidi in essa alcun santuario, perché suo santuario è il Signore Dio onnipotente, insieme all'agnellino (Cristo Gesù)» (Ap 21, 2-22 s). Allora avverrà il banchetto nuziale di Gesù con i credenti: «Rallegriamoci ed esultiamo, diamo a lui gloria perché sono giunte le nozze dell'agnellino e la sua sposa è preparata... Poi l'angelo mi disse: Felici gli invitati al banchetto nuziale dell'agnellino» (Ap 19 7.9).

Nell'attesa di tale convito celestiale, tra il tempo dell'ascensione di Gesù e la sua comparsa finale, i cristiani pregustano nella vena del Signore la gioia del banchetto finale. Essi infatti la celebreranno fino al momento della sua venuta: «finché egli venga », quando questa anticipazione simbolica avrà termine. In presenza della realtà cessano i simboli. Per cui ogni volta che i cristiani celebrano la cena del Signore professano la loro fede e la loro speranza nella sua venuta. Anzi, se si dovesse accettare la traduzione di Joachim Jeremias: «affinché egli venga», nella cena i cristiani, non solo professano tale attesa, ma pregano perché la sua venuta si realizzi al più presto.

Lo conferma l'invocazione aramaica che vi si ripeteva « Maran-ata» («Vieni, o Signore »). Tale senso escatologico è pure ricordato dalla Didachè (fine primo secolo):

Come questo pane spezzato era sparso qua e là per i colli e dopo la raccolta (dei chicchi) divenne una cosa sola, così dai confini della terra, la sua chiesa si raccolga nel regno perché tua è la gloria e la potenza di Gesù nei secoli... Osanna al figlio di Davide. Chi è santo si accosti, chi non lo è faccia penitenza. Maranatha (Didachè 9, 4).

Si può quindi sintetizzare il significato della cena del Signore con le note parole di C.H. Dodd:

In ogni culto eucaristico noi siamo nella notte in cui Gesù è stato tradito, siamo nel Golgota, siamo di fronte alla tomba vuota nel giorno di Pasqua e siamo pure al momento della sua venuta, con gli angeli, gli arcangeli, in compagnia di tutti gli esseri del Cielo, siamo alla vigilia della tromba finale (C.H. Dodd, The Apostolic preaching and its Developments, Londra, Hodder and Soughton 1944 p. 94).

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6) Conseguenze teologiche della cena cristiana

Si riducono fondamentalmente a tre: presenza di Cristo nella comunità, non nel pane; ricordo, non ripetizione, del sacrificio di Gesù; inesistenza di un sacerdozio ministeriale.

a) Cristo è presente nella comunità, non nel pane

Gesù ha detto che sarebbe stato presente in mezzo ai suoi ogni qualvolta due o tre si sarebbero riuniti nel suo nome (Mt 18, 20). Ora, quale momento migliore per attuare questa unione se non nella cena eucaristica? In questo atto mangiando il segno del corpo e bevendo quello del sangue di Cristo, ossia il pane e il vino, i credenti entrano in comunione più intima con il Cristo, lo sentono presente in modo tutto particolare.

Ma, terminato quel momento, il pane e il vino cessano di essere segni del corpo e del sangue di Cristo e tornano a presentarsi come pane e vino comuni, senza alcun altro significato particolare.

Resta quindi escluso ogni gesto idolatrico, come l'adorazione dell'ostia consacrata, la processione, la visita al S. S. Sacramento, la genuflessione dinanzi ad essa.. Ne viene esclusa la speciale abitazione « Dell'Iddio con noi» (Emmanuele) nei templi specialmente consacrati a Dio. Tutto questo s'accorda con il fatto che Gesù è venuto ad abolire il tempio sia giudaico sia pagano. Non più a Garizim o a Gerusalemme, o in un tempio particolare, ma dovunque si adorerà il Signore in modo verace, perché il culto di adorazione seguirà l'impulso dello Spirito Santo:

Donna, credimi– disse Gesù alla Samaritana – l'ora viene ed è adesso, nella quale i veri adoratori adoreranno il Padre per mezzo dello Spirito e in verità: poiché tali sono gli adoratori che il Padre vuole. Dio è spirito, quelli che l'adorano devono adorarlo per mezzo dello Spirito, secondo la verità (Gv 4, 23 s).

Dinanzi agli aeropagiti di Atene, Paolo affermò in modo chiaro:

Quel Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mano d'uomo, né si fa servire da mani umane, egli che dà a tutti la vita, respiro e ogni cosa (At 17, 24).

Il vero tempio per i cristiani è il Cristo, il cristiano e tutta la chiesa riunita. Gesù cristo è personalmente il tempio del Signore, come egli affermò dinanzi ai giudei con la frase enigmatica: « Distruggete questo tempio e io lo riedificherò in tre giorni » E' infatti in lui che ora noi incontriamo Dio. Giovanni, illuminato dallo spirito di Dio, spiegò tali parole aggiungendo il commento: «Egli parlava del tempio del suo corpo » (Gv 2, 19). Fanno eco a tali affermazioni le chiare professioni della lettera agli Ebrei, quando affermano che il vero nostro tempio si trova in cielo, dove si entra per mezzo del Cristo (Eb 9, 11 s; 10, 19 ss; Ap 21, 22).

Dopo l'assunzione di Cristo presso il Padre, il tempio di Dio continua a sussistere in terra dove è costituito dai cristiani, non da sassi e mattoni. I credenti, uniti come sono a Cristo, tramite la fede coronata dal battesimo, trasformano il loro corpo individuale in un tempio del Signore. Ma anche collettivamente i cristiani, riuniti in comunità (chiesa), formano un tempio divino: «Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio dimora in voi?» (1 Co 3, 16). «Noi siamo infatti il tempio di Dio vivente, come Dio stesso ha detto: Abiterò e camminerò con loro, sarò loro Dio ed essi saranno mio popolo» (2 Co 6, 16; Rm 8, 9).

Quindi, accostandoci a cristo, pietra vivente, i cristiani « sono eretti in un edificio spirituale» e costituiscono in tal modo il «nuovo tempio di Dio» (1 Pt 2, 5).

Se si pensa all'importanza che il tempio materiale di Gerusalemme aveva assunto in seno al giudaismo contemporaneo, il silenzio dei libri neotestamentari e della tradizione più antica sugli edifici cultuali dei cristiani è altamente significativo. La casa o basilica, inizialmente, erano solo luoghi di riunione del vero «tempio » costituito dai cristiani. Ma, ad un certo momento della storia ecclesiastica (4° secolo), fu di nuovo assolutizzato il concetto del tempio materiale e la «chiesa» divenne così un edificio, dove dimora il Gesù eucaristico, mentre passò in sottordine la dottrina biblica della comunità cristiana, vero tempio di Dio, perché unita al Cristo.

b) Unicità del sacrificio irripetibile del Cristo

Il Nuovo Testamento in diversi passi è assai esplicito nell'asserire l'unicità del sacrificio di Cristo; non ci resta che l'imbarazzo della scelta:

Noi siamo stati santificati mediante l'offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre. Egli non ha quindi bisogno di offrire ogni giorno dei sacrifici... perché questo egli ha compiuto una volta per sempre, quando ha offerto se stesso (Eb 7, 27)

Perciò Cristo, quale sommo sacerdote dei beni futuri (giunti con lui), attraverso la più grande e perfetta tenda – non fatta da mani d'uomo e non di questa creazione – è entrato una volta per sempre nei luoghi santi, non mediante il sangue di capri e torelli, ma mediante il suo proprio sangue, assicurandoci in tal modo una redenzione eterna (Eb 9, 11 s).

«Come è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio, cos' anche Cristo dopo essere stato offerto una volta sola per portare i peccati altrui; apparirà una seconda volta, senza peccato, a quelli che l'aspettano per la propria salvezza» (Eb 9, 27 s). « Gesù dopo aver offerto un unico sacrificio per i peccati e per sempre, si è posto a sedere alla destra di Dio» (Eb 10, 11).

Per ben comprendere il sacrificio di Gesù, presentato dalla lettera agli Ebrei, occorre ricordare che la funzione principale del sommo sacerdote non era quella di uccidere un animale, bensì di prenderne il sangue e di portarlo nel Santissimo. L'uccisione della vittima non era compiuta dal sacerdote, ma da semplici leviti, oppure dallo stesso offerente; l'atto propriamente sacerdotale consisteva nell'offrire il sangue:

L'animale era ucciso non perché la sua vita fosse uccisa (poiché «il sangue è la vita»), ma perché questa vita offerta nella morte,divenisse adatta al santo scopo del sacrificio (A.G. Herbert, A Root of Difference and of Unity, in Intercommunion, ed. D. Baille and J March, p. 239).

Il sangue costituiva per il Sommo Sacerdote il biglietto d'ingresso del Santissimo, così come per il Cristo il suo proprio sangue fu il biglietto d'ingresso nel santuario del cielo.. Quivi egli, come sacerdote eterno, continua a presentare l'offerta del proprio sangue. La croce più che essere il sacrificio, fu la preparazione, la fonte da cui sgorgò il perenne sacrificio ministeriale del Cristo.

Essa non fu l'altare sul quale il sacrificio di Gesù ebbe inizio e fine, ma solo l'elemento preparatorio, perché il ministero del nostro Sommo Sacerdote si attuasse in cielo:

Cristo è il sacerdote eterno, che offre una volta per tutte il sacrificio nella tenda celeste. E questo sacrificio eterno, introdotto nel mondo, ha un'eterna qualità. Così – come osserva A.G. Herbert – l'autore della lettera si rivolge ai suoi lettori perché si avvicinino a Gesù e a lui di uniscano nella liturgia cristiana, non per immolare il cristo un'altra volta, perché tale nozione gli sembrerebbe blasfema; non per offrire alcuni sacrifici addizionali al suo sacrificio, perché questo sarebbe un tornare indietro alle manipolazioni levitiche dei sacrifici; ma per unirsi come partecipanti all'unico sacrificio che il Signore compì sull'altare del cielo. Essi sono sulla terra, perciò egli li esorta ripetutamente a elevare con fede i loro occhi e ad avere comunione con lui dove egli si trova ( (W.E. Brooks, The Perpetuity of Christ's sacrifice a.c. p. 212).

Ora per i cristiani non rimangono altri sacrifici che quelli personali consistenti un una vita conforme al volere di Dio (Rm 12, 1), nella lode (1 Pt 2, 5.9) e nella beneficenza con cui essi danno ad altri parte dei loro beni, « perché è di tali sacrifici che Dio si compiace » (Eb 13, 12-16).

Mantengono quindi tutto il loro valore le parole di Lutero, che, dopo aver addotto i passi sopra citati della lettera agli Ebrei, dove si afferma l'unicità del sacrificio di Cristo, così continua:

Avete udito? Cristo si offrì una volta sola, non volle essere offerto di nuovo da alcuno, ma volle che fosse compiuta la memoria del suo sacrificio. E a voi donde viene l'audacia di trasformare in sacrificio quella memoria?

c) Non sacerdozio ministeriale

Ne viene come logica conseguenza che la casta sacerdotale, alla quale apparterebbe in modo particolare l'azione liturgica sacrificale dell'eucaristia, non ha più motivo di essere secondo il Nuovo Testamento. La cena del Signore, che è un segno commemorativo della morte e della resurrezione del Cristo, si compie mangiando del pane e bevendo del vino per rendervi presente il Cristo, ma è un pasto di comunione con il Cristo e con i fratelli, nel quale tutti i credenti, e non solo alcuni cristiani dotati di poteri arcani (sacerdoti), mangiano e bevono.

La cena del Signore è una «proclamazione della morte e resurrezione del Cristo compiuta da ciascun credente in un atto comunitario. E' un pregare assieme il Signore, «finché venga», auspicandone in tal modo il ritorno. Tale atto è perciò comune a tutti: a tutti Paolo rivolge i suoi rimproveri nella lettera ai Corinzi, dove probabilmente a quel tempo non sussistevano neppure i vescovi-presbiteri. Infatti a tutti egli dice:

Ogni volta che voi mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore, finché (o affinché) egli venga (1 Co 11, 26).

Sono concetti che timidamente affiorano in espressioni come quelle del consiglio pastorale olandese del 1970 nelle quali si dice che, eccezionalmente chiunque potrebbe presiedere alla celebrazione eucaristica.

Si deve investigare più particolareggiatamente in quali casi si possa dare a coloro che non hanno ricevuto la consacrazione ministeriale tradizionale l'incarico di presiedere alla celebrazione dell'Eucaristia (Aanbevekingen [= Raccomandazioni] IV, 6 Pastoral Concilie van de Nederlamdise Kerk provicie. Intwerps-rapport, Rotterdam 1969).

A queste parole fanno eco quelle del cattolico R. J. Bunnik, il quale, pur con cautela, attesta che come sacerdoti di cristo tutti i credenti potrebbero celebrare l'Eucaristia:

Tenendo conto del fatto che il ministero è essenzialmente costituito anche «dal basso», si potrebbe con altrettanta logica affermare che il potere di celebrare l'Eucaristia fu concesso per sé la sacerdozio comune, ma che, per motivi in massima parte disciplinari, non è mai esercitato, se non eccezionalmente, dai non ministri (R.J. Bunnik, C'è un prete per il domani? Brescia 1969 p. 94).

Lo studio sistematico della Bibbia, privo di preconcetti, dovrebbe condurre alla eliminazione del sacerdozio ministeriale e ridurre i vescovi a sorveglianti delle singole chiese locali, dotati di un sacerdozio che è pari a quello di tutti gli altri fedeli.

Solo quando i partecipanti al banchetto del Signore si sentiranno del tutto uguali, senza attribuire poteri miracolistici a un gruppo di essi, si avrà il banchetto veramente comunitario di fratelli e sorelle che si sentono tra loro uniti dall'unica fede in Cristo Salvatore. Ma sino a quando, per la validità della cena del Signore, si esigerà la presenza di un sacerdote, sia pure ministeriale, che solo può celebrare l'eucaristia validamente, questa azione comunitaria non sarà mai davvero comunitaria.

La cena del Signore è quindi un mangiare del pane e un bere del vino in ricordo di Cristo; con tale gesto si raffigura la comunione con la morte e la resurrezione del Cristo, pane di vita; si predica il suo messaggio di salvezza con atti e non solo a parole; se ne invoca ardentemente il ritorno. E' l'atto compiuto non da alcuni cristiani soltanto, insigniti di un sacerdozio ministeriale, ma è opera di tutta la comunità credente, che in quel momento si sente particolarmente unita a Dio nella fede. Fu la concezione fisicista cattolica che portò a materializzare gli effetti del sacramento eucaristico.

La grazia appare il più delle volte una forza che, dall'esterno, attraverso un rito opportuno viene a raggiungere l'uomo esausto del suo travaglio quotidiano. Essa lo rinnova, lo santifica. Dopo il sacramento egli acquisisce qualcosa (qualità, abiti, doni) che non aveva in precedenza o aveva solo in modo incipiente, imperfetto. Ci si può invece chiedere che l'azione sacramentale non sia da concepire più che come un'ondata che viene dal di fuori, come una risposta che preme e sale dall'interno dell'uomo. I segni stabiliti da Cristo intendono appunto suscitare nell'intimo della coscienza umana un dialogo sempre più proficuo tra Dio e l'uomo (R. J. Bunnik, o.c. ivi).

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