CONFESSIONE
E PERDONO DEI PECCATI

di Fausto Salvoni

CAPITOLO PRIMO
IL PERDONO DEI PECCATI NEL CORSO DEI SECOLI

Indice
1) La penitenza pubblica nel II secolo
2) Dal terzo al quinto secolo
3) Dal VI al XX secolo: la confessione privata
4) Formula di assoluzione
5) Sacramento?
6) La situazione odierna

Cristo ci ha ottenuto questo inestimabile favore, quello della remissione dei peccati dopo il battesimo mediante l'istituzione del sacramento della penitenza, vero intervento della divina potenza per la resurrezione delle anime alla vita nuova e divina (Paolo VI, 1975.
Credo nella Chiesa, perché essa ha la confessione... mi sento colto fino in fondo in questo desiderio di essere perdonato da Dio.
(Chesterton, L'ortodossia)










Inizieremo l'analisi storica del periodo subapostolico per riservare l'esame del pensiero biblico al capitolo successivo. Naturalmente dovrò svolgere una sintesi assai rapida, che spero non abbia a tradire la realtà.

1) La penitenza pubblica nel II secolo

Il primitivo entusiasmo cristiano, che per altro non va esagerato qualora si pensi all'incestuoso tollerato a Corinto, andò ben presto svanendo. Erma ci dà una descrizione assai triste del suo tempo: alcuni cristiani sono usciti fuori dalla torre, che raffigura la chiesa, altri trascurano l'educazione dei figli e religiosamente assai freddi conducono una vita ipocrita, preludio della prossima apostasia. Che fare in questa condizione? «Si scacci dalla chiesa siffatta gente», dicono gli estremisti, e tale sarebbe appunto ciò che in realtà si dovrebbe fare:

Udii, dico, o Signore, da alcuni maestri che non v'è altra penitenza, se non quella di quando discendemmo nell'acqua e ricevemmo la remissione dei nostri precedenti peccati. Mi rispose: Bene udisti: così è infatti! Bisognerebbe che chi ha ricevuto la remissione dei peccati non peccasse più, ma vivesse nella santità.

Erma, tuttavia, non è di questo parere, e a nome di Dio, offre un'unica nuova occasione per mutare vita, una nuova penitenza per tutti i colpevoli; solo « pochi giusti» vi sono esenti: sono coloro che eroicamente sopportano la persecuzione, che vivono da « santi », sono i membri zelanti del clero. Ma tutti gli altri devono sottoporsi alla penitenza generale:

Il Signore conoscendo il cuore umano e prevedendo ogni cosa, sapeva che gli uomini sono deboli e preconosceva l'astuzia del diavolo, che avrebbe fatto del male ai servi di Dio, macchinando contro di loro. Tuttavia il Signore misericordioso s'impietosì per la sua creatura, dispose questa penitenza, e diede a me la potestà di indire tale penitenza. però io dico: Dopo l'appello importante e solenne del battesimo, se alcuno, tentato dal diavolo, peccherà di nuovo ha una sola penitenza; ma se poi subito dopo pecca, una nuova penitenza è inutile per tale uomo, perché difficilmente vivrà.

Si tratta quindi di una penitenza unica, possibile solo al tempo di Erma, da lui proclamata a nome di Dio, ma che non si sarebbe ripetuta mai più in seguito.

Quelli che hanno abbracciato le fede ora o l'abbracceranno in seguito, non hanno possibilità di fare penitenza per i loro peccati; essi hanno; essi hanno solo il perdono dei peccati anteriori al battesimo.

Tuttavia in seguito, anche dopo la morte di Erma, si continuò con il sistema penitenziario, benché il suo ideatore lo avesse annunziato come un dono divino concesso da Dio una volta tanto nella storia dell'umanità, vale a dire durante il tempo della sua vita.

Nonostante tale sistema penitenziario alcuni peccati vennero ritenuti così gravi da non poter essere perdonati nemmeno con la penitenza pubblica. Lo stesso Erma parla di peccatori che « non possono pentirsi » o per i quali « l'idea della conversione non entra nel cuore ». Si tratta di apostati, traditori, blasfemi, « lascivi », « privi di legge », ai quali la predetta amnistia non si estende, pare più per cattiva loro volontà che per ordine divino.

Verso la fine del 2° secolo la riconciliazione, ma non la penitenza, era rifiutata a tre grandi classi di peccatori: omicidi, adulteri, apostati. La penitenza non era invece richiesta per i peccati «minori ». per le altre colpe intermedie si concedeva la riconciliazione, ma solo dopo un tempo conveniente di penitenza.

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2) Dal terzo al quinto secolo

a) Verso la remissibilità di tutti i peccati

In questo periodo si cominciò a mettere in dubbio l'assoluta impossibilità di riconciliazione per i colpevoli dei tre peccati prima ritenuti irremissibili. Anch'essi vennero quindi sottoposti all'unica penitenza possibile durante la vita, applicando così ad ogni individuo quella penitenza che Erma aveva predicato come un'unica occasione nella storia di tutta l'umanità.

1, Adulterio . Fu il primo peccato ad ottenere la « riconciliazione » al tempo di Callisto I (m. 222). Tertulliano deride questo presunto «vescovo dei vescovi », che con un famoso « editto » pretende offrire la riconciliazione ai penitenti colpevoli di adulterio. La testimonianza di Tertulliano va accolta a preferenza di quella di Ippolito, avversario personale di Callisto, che attribuisce a questi la pretesa di « riconciliare ogni genere di peccati » con la scusa che anche nell'arca di Noè « figura della chiesa », stavano riuniti assieme cani, lupi, corvi e ogni specie di animali puri e impuri. Anche Origene, che riteneva l'adulterio un peccato « per la morte », si meravigliava che alcuni « vantino la loro capacità di perdonare l'adultero o il fornicatore, quasi che, tramite la preghiera attuata per chi ha osato commettere tali crimini, fossero eliminate anche le colpe gravi. Vi è un peccato che conduce alla morte: e per questo mon vi dico di pregare».

Ad ogni modo, verso la metà del 3° secolo, il rigorismo riguardante l'adulterio scomparve in Africa e in Italia. Il sinodo spagnolo di Elvira (305-306) sancì una disparità di comportamento tra donna e uomo: un'adultera non può mai venire riconciliata con la chiesa nemmeno in punto di morte (can. 8), mente lo può l'adultero (can. 7).

2. Apostasia . Non mancano nei primi secoli casi sporadici di riammissione nella chiesa di eretici: sotto il vescovo di Roma Igino (m ca. 140), Cerdone più volte confessò il suo peccato di eresia e più volte fu riaccolto nella chiesa solo per allontanarsene di nuovo. Valentino e Marcione ne furono scacciati più volte. Dionigi di Corinto, verso la fine del 2° secolo, suggeriva alla chiesa del Ponto di accogliere i penitenti « che si convertissero da qualsiasi genere di colpa, si trattasse pure di una colpa morale o di un peccato di eresia ». Verso lo stesso tempo Ireneo andò dal vescovo di Roma Eleuterio con la richiesta dei martiri di Lione perché togliesse la scomunica scagliata contro i montanisti, dietro istigazione di Prassea.

Colui che accolse gli apostati (lapsi) nella chiesa fu il vescovo romano Callisto (m. 222), specialmente dopo che molti avevano ceduto di fronte alla dura persecuzione di Decio. Cipriano incominciò a riaccogliere gli apostati in punto di morte, mentre il concilio di Elvira ancora nel 305, conservando l'antico rigorismo, nemmeno in quel momento li ammetteva alla riconciliazione. Più tardi anche gli eretici furono ammessi nella chiesa, come prova la testimonianza di Ambrogio e di Paciano; solo Novaziano e i suoi seguaci, anziché accettare il nuovo umanitarismo, preferirono separarsi dalla chiesa e il loro scisma perdurò per quattro secoli.

3. L'omicidio . Il peccato irremissibile che più a lungo restò imperdonabile fu l'omicidio. Il concilio spagnolo di Elvira (Granada a. 305), conservando la prassi antica, sostiene che una matrona, rea di omicidio preterintenzionale avveratosi tuttavia entro tre giorni dalla punizione per battiture di un suo schiavo, debba sottostare a cinque anni di penitenza (can. 5). In caso che l'uccisione dello schiavo fosse intenzionale, la colpevole dovrà fare una penitenza settennale (ivi). L'uccisione intenzionale di un uomo libero non potrà mai essere condonata dalla chiesa e il colpevole non verrà riaccolto in essa nemmeno in punto di morte (can. 6). Al tempo di Tertulliano tale prassi era normale, poiché egli si chiede, a proposito di Callisto: «Ora costui darà forse il perdono anche agli omicidi?». Ma il concilio di Ancira (a. 314) cominciò ad ammettere alla riconciliazione anche gli omicidi, però solo in punto di morte. In seguito la penitenza fu gradatamente ridotta e i colpevoli vennero accolti nella chiesa anche prima di morire.

Tale il caso di Teodosio – ma si tratta di un imperatore – che, per punire la ribellione della città di Tessalonica, aveva massacrato quattromila persone in gran parte innocenti (donne e bambini) tutti fatti appositamente venire in teatro con la scusa di una rappresentazione. Ambrogio in una lettera parla in modo assai sobrio della sua penitenza, ma la tradizione posteriore abbellì tale episodio: il vescovo milanese ferma all'ingresso del tempio il sovrano che voleva partecipare alle cerimonie: « Esci dunque e non cercare di accrescere il primo delitto con un secondo! Ricevi il legame (= la penitenza) che Dio stesso ratifica; è con tale rimedio soltanto che puoi riacquistare la santità ». Teodosio si ritira, ma verso il Natale del 390, preso da nostalgia, chiede l'ammissione ai riti sacri. Lo stesso imperatore dice al vescovo: « E' tuo compito propormi i rimedi, a me spetta solo accettarli ». Ambrogio gli chiede che si decreti per il futuro una dilazione tra la condanna a morte e la sua esecuzione, e poi, in seguito a tale consenso, accoglie l'imperatore che si prostra a terra piangendo vivamente.

Al 5° secolo più non vi sono peccati irrimessibili, anche se per molti di essi la riconciliazione con la chiesa veniva rimandata in fine di vita (articulo mortis).

b) Penitenza pubblica

Si svolgeva attraverso tre tappe:

1. Ingresso nella penitenza. Dopo aver costatato la realtà della colpa e la necessità di una sua espiazione tramite la penitenza, il vescovo, che la controllava, ne determinava l'entità e la durata.

2. Osservanza dello statuto penitenziale . Esso era umiliante in quanto escludeva dal culto. In oriente i penitenti potevano assistere solo alla prima parte della messa (detta dei catecumeni); in occidente a tutta la messa stando però nel portico o nartece, senza partecipare alla comunione.

La penitenza consisteva in penitenze assai dure, come appare da un celebre passo di Tertulliano e dal racconto di Girolamo sulla penitenza di Fabiola. Consisteva in digiuni, nell'indossare vesti ruvide (sacco), nel mettersi cenere sul capo, in preghiere costanti con pianti e lamenti, in prostrazioni di fronte ai fedeli ai quali il penitente chiedeva preghiere. Dopo la conversione dei barbari, alle precedenti umiliazioni e penitenze, si aggiunse pure la tortura del proprio corpo, come dormire su ortiche e gusci di noci o assieme a un cadavere, giacere nell'acqua fredda (Irlandesi). In un dato tempo il penitente, ridotto a una persona di secondo rango, sottostava a una specie di morte civile con interdetti draconiani: non poteva infatti esercitare il commercio o il mestiere delle armi; non comparire come testimone valido nei tribunali, non sposarsi o, se fosse già sposato, astenersi dal contatto coniugale e trascorrere una specie di esistenza monacale.

3. Atto di riconciliazione. Di essa il ministro normale era il vescovo. In Asia Minore, dalla metà del 3° secolo sino alla fine del 5°, la penitenza veniva gradualmente ridotta attraverso le varie «stazioni » (bàthmoi) o gradi di penitenza. Si iniziava con il « piangente » (prosklàion, plorans) che, quale candidato alla penitenza, doveva stare nel nartece o portico della chiesa, per chiedere preghiere ai fedeli. In seguito, promosso al rango degli « uditori » (audientes, akouòmenos), poteva assistere alla predicazione con i catecumeni. Il penitente passava poi al gruppo dei « prostrati» (substrati, hypopipton), che erano allontanati all'inizio della « missa fidelium » (messa dei fedeli). L'ultimo passo era dato dagli « astanti » (synestòi, stantes), che assistevano anche al sacrificio eucaristico senza però partecipare alla comunione.

A Roma l'ammissione alla penitenza era attuata in massa nel giorno delle ceneri, quando si iniziava la quaresima, e terminava al giovedì santo. In qualche chiesa, durante il periodo medievale, il vescovo stesso introduceva nell'assemblea i penitenti dando la mano (o il pastorale, come a Milano) al primo di loro, mentre gli altri lo seguivano tenendosi per mano. Il termine della penitenza poteva essere anticipato dal vescovo, con una nuova sentenza, ad esempio per l'intercessione dei santi (cf i martiri di Lione), sempre però con il consenso del popolo. Cipriano dice di essere stato assai indulgente e di « ottenere talvolta a stento dal popolo con la persuasione, anzi di avergliela quasi strappata, la riammissione di quelli che sono colpevoli ». talvolta infatti il popolo aveva notato che nonostante la sua opposizione taluni, accolti facilmente dal vescovo, erano divenuti peggiori di prima.

La rigidità del sistema penitenziale aveva finito con il creare un quasi completo allontanamento dei fedeli ad esso, con la tendenza di rimandare la penitenza in fine di vita quando doveva necessariamente venire mitigata e non poteva durare a lungo. Talora i vescovi, che erano anche funzionari statali, costringevano i colpevoli a sottostare per forza alla penitenza ecclesiastica, così come oggi si obbligano i colpevoli a stare in carcere. Alcuni vescovi tuttavia (Cesario e Avito) invitavano loro stessi i colpevoli a sottoporsi alla penitenza in articulo mortis; tale penitenza era detta in extremis, subitanea, momentanea. Sorgevano tuttavia dei dubbi circa la validità di una penitenza così attuata, per cui gli stessi vescovi cercavano di rassicurarne i fedeli. E' logico che in una simile situazione il livello di vita si andasse abbassando sempre più, fino a divenire un comportamento dettato più da spinte sociologiche (ambiente) che da una decisione personale.

4. La penitenza non poteva essere compiuta che una sola volta in vita; in caso di recidiva il peccatore più non aveva alcun mezzo di riconciliazione con la chiesa, nemmeno in punto di morte. Anche questo era un'ulteriore giustificazione per rimandare la penitenza in fine di vita, per poter così evitare altri peccati gravi ad essa posteriori. Erma, Tertulliano e Giustino parlano della penitenza come di un'unica tavola di salvezza dopo il naufragio del battezzato; Ambrogio la proclama unica come è unico il battesimo; Agostino esplicitamente proibisce di ammettervi chiunque l'avesse già attuata un'altra volta.

5. La penitenza più che riguardare il perdono divino, sembra che concernesse il rapporto del peccatore con la chiesa . E' vero che Cipriano sembra ricollegare il perdono divino alla riconciliazione ecclesiastica, in quanto così scrive agli apostati: « Vi scongiuro , fratelli, che ciascuno confessi le proprie colpe mentre è ancora su questa terra, mentre la sua confessione è ancora ricevuta, la soddisfazione e la remissione fatta dai ministri sono accettevoli al Signore ». Anche uno scrittore anonimo, forse l'Ambrosiastro, afferma chiaramente che nessun peccato non ancora rimesso sulla terra lo può divenire in cielo e Leone Magno non permette di pregare per un penitente morto senza riconciliazione.

Ma in generale il perdono divino e la resurrezione spirituale del peccatore si ricollegano alla contrizione o al ravvedimento. La chiesa non fa altro che togliere le famose bende che tenevano legato Lazzaro a resurrezione già avvenuta. Basti pensare che Origene, pur riconoscendo l'esistenza di peccati irremissibili, i cosiddetti « peccati per la morte », di fatto sosteneva l'apocatastasi, vale a dire la salvezza universale di tutti gli esseri, compreso lo stesso Satana .

Il rigido Tertulliano, parlando dei peccati « capitali, più gravi, mortali», dice chiaramente che questi non possono ricevere il perdono da parte della chiesa, ma solo da parte di Dio. Girolamo afferma che « presso Dio quel che conta non è la sentenza dei sacerdoti, bensì la vita trascorsa dal peccatore». Per tutto il Medio Evo e ancora nel 13° secolo, come ad esempio nelle Decretali di Graziano e nelle Sentenze di Pier Lombardo, si discute sul valore della assoluzione e sulla sua efficacità nei riguardi della contrizione, che sola era ritenuta indispensabile dinanzi a Dio. Nei casi in cui la chiesa, pur ammettendo i colpevoli alla penitenza, non dava loro la riconciliazione nemmeno in punto di morte, non si pensava che, con tale rigidità, il peccatore fosse escluso dalla salvezza. Se così fosse stato, perché ammetterlo alla penitenza? Si trattava solo di durezza disciplinare per meglio eliminare tali peccati dalla vita dei cristiani. La penitenza a cui il peccatore si sottoponeva, era un mezzo per meglio mostrare la sua vera conversione.

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3) Dal VI al XX secolo: la confessione privata

Non si hanno prove per sostenere l'esistenza di una confessione privata dei peccati gravi durante i primi secoli della chiesa. Anche se qualche scrittore ecclesiastico suggeriva di riferire le proprie colpe al sacerdote (o a qualche altro credente) per avere la medicina conveniente, non lo faceva perché riteneva che il colpevole fosse obbligato a confessare i propri peccati per riceverne l'assoluzione, ma perché in tal modo il peccatore potesse conoscere se tali colpe erano « veniali » e quindi non sottoponibili ad alcuna penitenza pubblica o se, invece, erano «gravi » e tali da dover sottostare alla penitenza pubblica da compiersi una volta solo in vita. Non risulta che i peccati posteriori a una penitenza pubblica e quindi non più sottoponibili a un'altra penitenza siano stati confessati privatamente al vescovo o ai presbiteri.

Talvolta un presbitero poteva rimettere la penitenza pubblica a nome del vescovo, ma solo in caso di urgenza, ad esempio per malattia improvvisa: tuttavia queste riconciliazioni avevano un carattere privato, anche se compiute alla presenza di «testimoni » (« assistenti»). A Costantinopoli e forse anche in altri luoghi vi era l'ufficio del prete penitenziario che, secondo Sozomeno, «doveva fissare la penitenza, e poi rimandare il penitente lasciando che egli attuasse tale riparazione per conto proprio ». Tuttavia tale ufficio fu rimosso da Nettario (381.398) in conseguenza di uno scandalo difficile da stabilirsi: alcuni pensano che l'incaricato vescovile avesse divulgato una colpa commessa da un diacono con una nobile matrona, altri che li avesse rimandati senza penitenza, mentre sarebbe stato necessario sottoporli alla penitenza pubblica.

Sembra che almeno in un certo periodo anche i peccati gravi rimasti sconosciuti fossero sottoposti alla penitenza pubblica, come appare dal seguente passo di un autore ignoto identificato talora con Basilio:

Ecco un giovane educato nell'infanzia in modo assai pio: assiduo al culto, sempre pronto alle opere benefiche. Vive pensando al giudizio eterno e seguendo i precetti della dottrina cristiana. Ma un giorno cade nella dissolutezza (poernéian): svanisce così la sua virtù, si perdono i frutti della sua educazione e viene minato anche tutto il resto. Il cattivo stato della sua coscienza gli impedisce di apparire al culto, non potendo più prendere posto tra i fedeli a motivo della sua colpa. Si vergogna d'altre parte di prendere posto tra i piangenti, quindi inventa pretesti per rispondere a chi lo interroga: Un tale mi attende. Non ho tempo di assistere alla sinassi! Un'altra volta per uscire prima della preghiera dei fedeli, immagina chissà quale altra ragione, e così, per effetto dell'abitudine gli viene a poco a poco l'idea di abbandonare tutto (apostatare).

Da Alcune frasi di Giovanni Crisostomo, successore di Nettario, appare il desiderio di impedire che i peccati segreti siano sottoposti a una così «intollerabile pubblicità », per cui sorge l'idea che si abbia per essi un intervento privato e segreto del sacerdote. Egli però ammette che per una vera confessione, è necessario «andare alla chiesa ».

Mentre i peccati leggeri potevano essere rimossi con la semplice preghiera, i più gravi, sottoposti alla penitenza fissata dal sacerdote, da mortali diventano veniali.

La confessione, simile a quella auricolare odierna, ebbe origine nell'Irlanda ad opera del monachesimo celto. Quivi i monaci iniziarono una regolare confessione privata al loro superiore o a uno dei fratelli, e che era ritenuta ben più importante della stessa assoluzione. Serapione, discepolo del vecchio Teone, cadde nella colpa bambinesca di rubare ogni giorno un biscotto dalla credenza comune; convinto di ghiottoneria dall'eremita restituì l'ultimo biscotto che non aveva ancora mangiato, confessò, piangendo, di essere stato un ladro e chiese ardentemente preghiere per venire liberato da tale schiavitù. E tosto a prova di ciò, una fiamma ardente uscì dalla tunica del giovane e riempì la cella di puzza sulfurea così pungente da impedire o ognuno di restarvi, segno che il demone della ghiottoneria si era dipartito. Cassiano, nella sua ventesima Collatio, parla di penitenza e di soddisfazione, senza nemmeno ricordare la riconciliazione.

Verso il 590, specialmente attraverso il ministero dell'abate Colombano, tale uso incominciò a diffondersi anche in Europa, specialmente in alcune province della Spagna e della Gallia, nonostante le opposizioni vescovili. La prima testimonianza sicura della confessione appare nel 589 in un canone del 3° concilio di Toledo, che la chiama una « esecrabile presunzione ». Due erano infatti le principali differenza con la penitenza pubblica anteriore:

a) La penitenza privata poteva essere ripetuta ogni volta che si cadeva in peccato; quella pubblica invece, come abbiamo visto, era unica e irripetibile.

b) La riconciliazione avveniva subito , prima dell'attuazione della penitenza, compiuta più tardi, magari in segreto; invece nella penitenza pubblica la riconciliazione avveniva solo dopo che il peccato era stato completamente riparato con la penitenza stabilita.

Per facilitare l'applicazione della penitenza ai singoli peccati sorsero dei libri penitenziali ad uso dei sacerdoti, che furono diffusi specialmente ad opera di Teodolfo, vescovo di Orleans. Secondo il penitenziale attribuito a Egberto aricescovo di York (m. 993), il sacerdote così deve interrogare il peccatore:

Dimmi cosa hai fatto e pensato. Hai peccato con il pensiero, con le parole o le opere? Hai giurato per il vangelo o per l'altare? Dieci anni di penitenza. Hai giurato per la mano di tuo fratello o di un altro o per una croce consacrata? Tre anni di penitenza. Hai maledetto per ira o sei stato invidioso? Sette anni. Hai diffuso una calunnia? Sette anni. Hai detto parole vane o hai conservato odio? Digiuna a pane e acqua per quanto tempo l'offesa è continuata...

La giustificazione di questa penitenza si trovò nel fatto che in ogni peccato, oltre all'offesa a Dio condannata mediante il dolore (ravvedimento), vi è pure un piacere illecito, che deve essere espiato con una sofferenza. Se questa espiazione non è sufficiente durante la vita terrena, deve essere continuata in purgatorio. La penitenza successiva all'assoluzione consisteva in digiuni a pane e acqua il lunedì, il mercoledì e il venerdì, nel portare abiti ruvidi non di lino, nello stare a piedi scalzi, in pellegrinaggi, nel farsi monaco, nello stare in piedi a lungo nei templi, in flagellazioni, introdotte da Domenico Loricato e Pietro Damiani. Penitenze più lunghe potevano essere sostituite con altre più brevi ma più gravi: un giorno di digiuno con la recita di 50 salmi. Al suo posto, secondo il sistema longobardico di sostituire una penitenza con del denaro (Wiedergeld), le penitenze anche nella chiesa si trasformarono in offerte di denaro: così un giorno di digiuno si poteva scambiare con « tre denari » e un anno con «22 soldi » (solidi) dati ai poveri. Secondo il sistema teutonico, che dava valore alla riparazione in se stessa e non all'individuo espiante, un peccatore poteva pagare un altro perché lo sostituisse nelle penitenze oppure poteva essere condonato anche se un altro pagava per il colpevole.

Le due forme penitenziali, pubblica e privata, si fecero concorrenza a lungo, per cui le troviamo ancora affiancate fino all' 11° secolo, quando la privata, assai più facile, finì per soppiantare totalmente l'altra. Un ricordo rimase per molti secoli nelle indulgenze (40 giorni, un anno, 7 anni, totale) che indicavano il condono della penitenza pubblica per un periodo di tempo equivalente.

Tuttavia inizialmente tale confessione privata non era ritenuta obbligatoria: il concilio di Châlon (tra il 644 e il 656) la presentò come «una medicina dell'anima utile a tutti gli uomini » ma non indispensabile. Crodegango, vescovo di Metz (m. 766) suggeriva di praticarla ogni due anni., il sinodo di Liegi dell' 8° secolo, la rese obbligatoria una volta l'anno. tale consuetudine fu sancita per tutta la chiesa dal Concilio Lateranense IV del 1215, che impose di confessarsi al «proprio sacerdote » almeno una volta l'anno, ma segretamente (solus).

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4) Formula d'assoluzione

Fino al 12° secolo la formula penitenziale era solo deprecativa quale si usa tuttora presso gli orientali, in accordo con l'insegnamento di Pietro: «Prega, perché, se sia possibile, ti sia perdonato il pensiero della tua mente». Ecco alcuni esempi di formule deprecatorie: a Toledo nel 133 i presbiteri intonavano delle suppliche per i peccatori alle quali tutto il popolo rispondeva con la parola « perdono»:

Noi ti chiediamo, Signore: perdono!
A tutti purifica i peccati: perdono!
Ai penitenti sia dato il perdono!
Dai peccati gli erranti siano risuscitati per il perdono!
Che noi siamo riconciliati con il Padre per il perdono!
Che possiamo essere membri dei santi con il perdono!

A Roma sino al 12° secolo si pregava così:

Signore ti imploriamo, ti preghiamo e ti chiediamo: perdona tutti i peccati e tutte le colpe di questo tuo servo e donagli, o Signore,perdono al posto della supplica, gioia al posto del dolore, vita al posto della morte. Colui che per impulso satanico andò in rovina, dalla tua pietà sia condotto alla misericordia e possa raggiungere il premio eterno.

Per tale motivo in un primo tempo (e ancora oggi presso gli orientali) la confessione poteva essere effettuata anche a un laico. Alberto magno riteneva il laico ministro vicario del sacerdote per la confessione.. Una sentenza del Pseudo-Agostino diceva: « Il premio della confessione è così grande, che quando manca il sacerdote, il peccatore deve confessarsi a un altro cristiano ». Thietmar (m. 1019), vescovo di Merschburg in Sassonia, narra che un duca tedesco, in punto di morte, si confessò ai suoi soldati. « Esempio questo – osserva il prelato – che dovrebbe essere seguito dai morenti in mancanza di un sacerdote ». Donato di Besançôn nel 7° secolo, parlando di una confessione compiuta dinanzi a una badessa, dice che essa « libera dalla morte».

Ma con il 12° secolo, quando la formula divenne assolutoria con le parole: «Ego te absolvo a peccatis tuis», l'autorità del sacerdote, che assolve a nome di Dio, divenne così importante da far scomparire totalmente la confessione ai laici, i quali, non essendo sacerdoti, mancano di tale potere vicario. Tale sistema perdurò invece presso gli orientali, che conservano tuttora la formula deprecativa e possono confessarsi anche a monaci laici. Tommaso d'Aquino, pur suggerendo al colpevole di confessarsi a un laico in mancanza di un sacerdote, perché è pur sempre meglio fare qualcosa anziché nulla del tutto, riteneva questo modo di procedere un sacramento incompleto.

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5) Sacramento?

La teologia scolastica si trovò in difficoltà nel chiarire quali fossero gli elementi propri del sacramento della penitenza o confessione e come agissero nel peccatore. Abelardo (m. 1142) pur essendo stato condannato nel sinodo di Sens (a, 1140), egli influì grandemente sulla posteriore indagine dei canonisti insegnava che l'assoluzione non è altro che una dichiarazione davanti agli uomini di purità di coloro che erano già stati purificati con la contrizione di fronte a Dio.. per Tommaso d'Aquino (m. 1274) sono necessarie le disposizioni del penitente (contrizione, confessione, soddisfazione), che però non bastano da sole, se non sono vivificate dall'assoluzione sacerdotale. Scoto (m. 1308), al contrario, accentuando l'efficacia dell'atto sacramentale si sé stesso, asserì che la penitenza consiste nell'assoluzione sacerdotale, mentre le disposizioni del peccatore bob sono parte del sacramento ma solo condizioni previe. Paolo VI il 6 marzo 1975 ricordò la efficacia rianimatrice della contrizione per se stessa, « quando sia motivata dalla offesa alla bontà di Dio, da un lato, e dalla deformità della malizia del peccato, dall'altro », quando il dolore del fallo commesso sia « perfetto», La contrizione così concepita è già di per se stessa causa del perdono di Dio, purché sia accompagnata dal proposito di ricorrere alla virtù del sacramento della penitenza, appena possibile (Paolo VI in Oss. Roma. 6-3-75 che cita Tommaso, Suppl. 5, 1).

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6) La situazione odierna

Come si vede il dogma della penitenza o confessione ha una storia piena di controversie, dubbi, reazioni e progressi, che tentano di raggiungere la precisione della dottrina teologica e la sua espressione, benché la facciano scostare sempre più dal pensiero biblico. Dopo la negazione di tale sacramento ad opera dei protestanti, il concilio di Trento si occupò a fondo della penitenza nella sessione XIV (ott. nov. 1551) con nove capitoli e quindici canoni e le rivendicò il carattere sacramentale pari a quello del battesimo: il suo effetto principale consiste nel rimettere totalmente la pena eterna e, almeno in parte, quella corporea da subirsi in riparazione della colpa. L'assoluzione sacramentale fa pure rinascere i meriti prima acquisiti ma che il peccatore aveva perso con il peccato (reviviscenza dei meriti) e dona al penitente il diritto alle grazie che sono necessarie alla sua vita cristiana. Non è obbligatorio, ma utile, confessare i peccati veniali, ed è, teologicamente certo che essi sono rimessi anche con molti altri mezzi. La dottrina tridentina si è mantenuta fino ad ora, perché il Vaticano II non ha espressamente parlato del sacramento della confessione o penitenza. Paolo Vi, nel suo Credo del popolo di Dio , il 30 giugno 1968 non ha nemmeno accennato alla penitenza o confessione.

Recentemente, dopo la pubblicazione del Novus Ordo Missae, alcuni teologi si sono chiesti se non sia possibile riformare la confessione che il fedele rende al sacerdote nel segreto del confessionale. Costoro vorrebbero assolvere i fedeli con un'assoluzione generale durante la messa quando la comunità recita quello che prima si chiamava il Confiteor e pensano che papa potrebbe permettere la comunione anche senza confessione sacramentale purché vi sia la contrizione ossia il dolore perfetto, dei peccati, basato sull'amore di Dio offeso, riservando la confessione a « circostanze familiari particolarmente toccanti ». Pur non negandola del tutto, Marcellino Zalba ritiene tale ipotesi alquanto difficile. Si noti il persistente compromesso: pur volendo tornare alle origini e all'evangelo, i teologi non hanno il coraggio di disfarsi di tutte le sovrastrutture posteriori. Continuano a parlare di « assoluzione » da parte del sacerdote anche senza confessione specifica (quindi il sacerdozio rimane) e mantengono pur sempre la confessione auricolare con la conseguente assoluzione sacerdotale, solo riducendone la frequenza.

Tentativi un po' più avanzati sono stati proposti da A. Turck per il quale, secondo diversi passi biblici, il potere di rimettere i peccati spetta a tutti i cristiani (remissione fraterna); il sacerdote non farebbe altro che rappresentare la chiesa nella sua funzione mediatoria. Per F.J. Heggen la remissione del peccato avviene nel prossimo, vale a dire là dove il peccato è sorto. La confessione sacramentale è solo una liturgia per « far trasparire, di fronte alla comunità dei fedeli, ed eventualmente al cospetto dei suoi rappresentanti più qualificati, la propria colpevolezza personale ».

On seguito alla precedenti proposte si è andata diffondendo la convinzione che la chiesa sarebbe addivenuta a modificazioni sostanziali in materia di confessione, accogliendo una forma meno individualista e più comunitaria; accontentando si di una confessione generica della comunità da concludersi poi con un pubblico atto assolutorio e sacramentale. Sarebbe tuttavia sussisstente l'obbligo, per singolo fedele, di sottoporsi più tardi a un'accusa particolareggiata dei soli peccati pubblici. Si iniziarono anzi delle vere celebrazioni penitenziali comunitarie in concorrenza antagonistica e sostitutiva della confessione privata individuale.

Ma le recenti norme edite dalla S. Congregazione per la Dottrina della Fede , il 16-6-72 (Oss. Roma. 14-7-72) tagliarono la testa al toro. Le eccezioni vi sono, ma sono quelle già consentite anche prima: le confessioni collettive valgono solo in pericolo di morte (come nel caso di soldati che stiano per andare all'assalto, in caso di incendio, di naufragio).

Il documento raccomanda ai vescovi e ai parroci di provvedere a un numero di confessioni sufficiente per le necessità dei singoli fedeli; suggerisce pure che « la confessione individuale non sia riservata soltanto ai peccati gravi », perché « ciò priverebbe i fedeli dell'ottimo frutto della confessione ». Le norme contengono poi un rimprovero per quei sacerdoti che « attendono ad altre occupazioni secolari o ad altri ministeri non altrettanto necessari », ma « trascurano questo nobile ministero della confessione ».

Quanto era stato asserito dalla Commissione pontificia trovò la sua concreta realizzazione nel nuovo Ordo Penitentiae pubblicato dalla Tipografia Vaticana nel febbraio 1974 con la data del 2 dicembre 1973 ( Decreto Reconciliationem inter Deum et homines ). Pur parlando di sacramento di « riconciliazione » con Dio e con la chiesa, pur mostrando il desiderio di inserire la confessione anche privata in un contesto comunitario, pur sostenendo che il sacerdote deve essere maestro, medico e padre, di fatto la nuova norma mantiene tutta la realtà di prima.

Pur esprimendo meglio che la riconciliazione del penitente è un dono dell'amore divino, di fatto le parole essenziali per l'assoluzione dei peccati rimangono identiche in forma assertiva e non deprecativa come si ha invece in oriente. Viene poi da chiederci se nella ressa delle confessioni pasquali, sia possibile leggere al penitente qualche brano biblico come viene suggerito dal nuovo ordinamento e come sia possibile inserire la confessione individuale di più peccati in una celebrazione comunitaria.

Non sarà certo facile con l'attuale crisi delle vocazioni commentava Fra Nazzareno Fabretti – far fronte al problema. Nemmeno tenendo conto che se sono in crisi le vocazioni, sono dovunque in crisi anche le confessioni individuali. L'indifferenza religiosa da una parte, il successo crescente della psicoanalisi dall'altra pongono, soprattutto per il futuro, problemi di ardua soluzione. La confessione era la psicoanalisi dei poveri, mentre la psicoanalisi sta diventando la confessione dei ricchi.

L'assoluzione generale è consentita pure tutte le volte che vi sia una necessità grave, quando ad esempio, il numero dei penitenti è così grande da non consentire l'ascolto dei singoli penitenti in tempo debito, con la conseguenza che i peccatori, senza loro colpa, rimangono privati della grazia sacramentale « a lungo» (diu).

Diu è un termine relativo; non indica necessariamente un anno o un mese o una settimana. Può anche essere un giorno (...). Le condizioni per il ricorso alla assoluzione generale non si realizzano solo in terra di missione, ma anche altrove.

Ad ogni modo si deve inculcare la necessità di confessare poi individualmente tutti i peccati gravi al sacerdote; perché l'integrità della confessione è richiesta « per diritto divino» (de jure divino).

Paolo VI, parlando del nuovo Ordo Penitentiae, ha ribadito le norme precedenti. Contro il relegamento dei confessionali in soffitta, auspicato da molti per dare alla confessione la possibilità di un colloquio, Paolo VI ha ribadito il suo no:

Il confessionale, in quanto diaframma protettivo fra il ministro e il penitente, per garantire l'assoluto riserbo della convenzione loro imposta e loro riservata, è chiaro, deve rimanere.

Comunque la flessione numerica delle confessioni individuali, soprattutto da parte dei giovani, va assumendo proporzioni allarmanti. Fra le cause vi è certamente da includere l'automatismo dell'assoluzione (senza vera conversione) congiunto con la concezione troppo individualistica del sacramento, che mette l'individuo solo in contatto con Dio anziché indurre il colpevole a riparare il male fatto ai fratelli danneggiati. E' poi sicuro, si chiede qualcuno, che Dio ratifica davvero, ciò che il sacerdote afferma?

Penso che anche qui sia necessario rimuovere le sovrastrutture umane introdottesi nel corso dei secoli e tornare al perdono biblico dei peccati, che meglio si adegua con le esigenze moderne.