CONFESSIONE
E PERDONO DEI PECCATI

di Fausto Salvoni

CAPITOLO SECONDO
IL PERDONO DEI PECCATI NELLA BIBBIA

Indice
1) Il mondo del peccato
1. Tutti gli uomini sono peccatori
2. Solo Dio ha il potere di perdonare i peccati
3. L'era della misericordia
2) Il doppio volto della chiesa
1. La chiesa comunità di santi
2. La chiesa comunità di persone imperfette
3) La confessione
1. Psicologia della confessione
2. Bibbia e confessione
3. Perdono dell'offeso verso il proprio offensore
4. Preghiera non assoluzione
5. Non fraternità con il peccatore, perché si ravveda
6. Riammissione nella comunità dei peccatori pentiti
7. Conclusione

Gesù è il rimedio per i nostri peccati e non solo per i nostri, ma anche per quelli del mondo intero (Prima Giovanni)

Ecco alcune direttive che possono aiutarci per una migliore comprensione dell'insegnamento biblico:

1) Il mondo del peccato

1. Tutti gli uomini sono peccatori

Contro la negazione odierna di molti uomini che pretendono negare l'esistenza del peccato, il quale non sarebbe altro che un antico mito da superare, la Bibbia ci dice chiaramente che tutti gli uomini sono peccatori: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria (= immagine) di Dio » (Rm 3, 22 s), E altrove: « Abbiamo infatti dimostrato precedentemente che tutti, giudei e greci, sono sotto il dominio del peccato », scrive Paolo,

Non v'è nessun giusto, nemmeno uno,
non v'è sapiente, non v'è chi cerchi Dio!
Tutti hanno fuorviato e si sono pervertiti;
non v'è chi compia il bene, nemmeno uno!
(Rm 3, 9-12 da Sl 14, 1-3)

Dinanzi all'adultera portata a lui per metterne a prova il comportamento, Gesù si rivolge agli accusatori e dice loro: « Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra». Allora quelli « Udito ciò, se ne andarono uno a uno, cominciando dai più vecchi fino ai più giovani » (Gv 8, 7). Solo Gesù può lanciare la sfida: « Chi di voi mi può convincere di peccato?» (Gv 8, 46). Egli fu infatti del tutto simile a noi « ad eccezione del peccato» (Eb 4, 15). Ma tutti gli altri uomini sono schiavi del peccato. Paolo in una pagina stupenda descrive il conflitto interiore che lacera ogni uomo. Ognuno porta con sé, come se si sdoppiasse in una doppia personalità, due esseri contraddittori, cioè quella parte di noi che ci spinge al bene, e un uomo esteriore, vale a dire la parte che ci rende complici di tutte le nostre passioni e che ci fa andare contro la parte migliore della nostra coscienza. Paolo usa il pronome «io», che è l'io psicologico, l'io di ogni essere umano.

Io non riesco neppure a capire ciò che faccio: infatti non quello che voglio faccio, ma quello che detesto... Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male sta accanto a me. Infatti io acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra (Rm 7, 15-21 s).

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2. Solo Dio ha il potere di perdonare i peccati

Lo sapevano bene i giudei contemporanei di Gesù quando meravigliati al vedere quell'uomo perdonare il peccati del paralitico, osservano: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo? » (Mc 2, 7). Il perdono infatti è un atto con cui Dio misericordioso ristabilisce la sua amicizia con l'uomo colpevole, che si converte ed elimina l'elemento perturbante dell'orgoglio senza più porre se stesso al posto del suo creatore.

Dopo aver denunziato la doppia personalità che vive nel cuore di ogni uomo, Paolo si chiede: « Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? ». E lui stesso si risponde « Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (Rm 7, 24 s). Dopo aver asserito che «tutti gli uomini hanno peccato », soggiunge, « sono però giustificati gratuitamente dal favore divino in virtù della redenzione realizzata da Gesù Cristo » (Rm 3, 24). Anzi, dopo aver scritto che tanto i non ebrei quanto gli ebrei sono peccatori, conclude: « Infatti Dio ha racchiuso tutti nella disubbidienza per usare con tutti misericordia ».

Per quanto bene compia,  l'uomo con le sole sue capacità naturali non riuscirà mai a salvare se stesso dal peccato; ci vuole l'amore di Dio che solo può dargli serenità e pace. La salvezza non è frutto di opere umane, bensì di misericordia e bontà divina.

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli (per dono dello Spirito Santo) ma non ho l'amore di Dio, agisco come un bronzo che risuona o un cembalo tintinnante. E se anche avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, se possedessi perfino la pienezza della fede capace di trasportare i monti, ma non possedessi l'amore di Dio, non sono nulla. Se dovessi anche distribuire le mie sostanze e dare il mio stesso corpo ad essere arso, ma non possiedo l'amore di Dio, ebbene tutto questo a nulla mi giova (1 Co 13, 1-3).

Paolo quindi concludeva, con tutto il vigore possibile, voi non siete salvi «in virtù di opere, perché nessuno possa trarne un vanto» (Ef 2, 9).

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3. L'era della misericordia

Vi è un momento storico dell'umanità nel quale la misericordia di Dio si palesa in tutto il suo fulgore. Questa epoca fu predetta dai profeti, attesa dagli esseni, ma attuata in Gesù.

a) Profezie per il tempo messianico

Nell'Antico testamento vigeva la legge con le sue esigenze e le sue punizioni. Non era l'epoca della misericordia, ma del taglione. La legge indicava la via, ma non capacitava l'uomo a percorrerla. La misericordia di Dio è indicata come una realtà del tempo futuro, quando sarebbe venuto il Messia, che avrebbe liquidato per sempre il peccato dando inizio a un'era nuova di pace, di amore e di fratellanza universale. Ezechiele parla di un fiume che, sgorgando dal tempio di Gerusalemme, si sarebbe diretto verso oriente e che, gettandosi nel Mar Morto, ne avrebbe resa l'acqua potabile e avrebbe ridato vita a quei luoghi dove prima regnava solo la morte /Ez 47, 1-12). Evidentemente il profeta non sognava una trasformazione ecologica, ma con tale simbolo preannunziava, con immagini tratte dalla natura, il profondo capovolgimento interiore dell'animo umano. Ce lo conferma con maggiore chiarezza Isaia che, nel descrivere la felicità del tempo messianico, esclama: « Il paese è riempito della conoscenza di Dio, così come le acque riempiono il mare » (Is 11, 9). Anche Geremia indica la stessa cosa e sottolinea il perdono dei peccati che verrebbe allora donato da Di: « Essi mi conosceranno tutti, dal più piccolo al più grande – oracolo di Javè – perché io sto per perdonare il loro delitto e non mi ricorderò più del loro peccato » (Gr 31, 34).

b) Gli esseni di Qumràn

Pur essendo consci della loro miseria spirituale, gli esseni credevano vicina la purificazione e vi si preparavano ardentemente, come risulta dai brani seguenti di un inno incluso nella loro regola della comunità e che indubbiamente risale al loro maestro giusto, mistico profondo, ben al corrente della situazione umana:

Io sono simile all'uomo empio
e all'assemblea carnale perversa.
miei traviamenti, le mie colpe, il mio peccato,
come la perversione della mia mente,
mi assimilano all'assemblea dei vermi,
a quelli che camminano nella tenebra.

E ancora:

Al tempo della sua venuta egli sterminerà del tutto (l'ingiustizia) e allora la fedeltà del mondo apparirà per sempre... Allora Dio purificherà con la sua fedeltà tutte le colpe dell'uomo e renderà puro per se stesso il corpo dell'uomo, togliendo ogni spirito perverso dalle viscere della sua carne e purificandolo con lo spirito di santità in tutte le sue azioni, come se fosse acqua Israele, per togliergli tutte le abominazioni menzognere nelle quali si era contaminato a opera dello spirito impuro.

c) La realizzazione in Gesù

Il Padre affida a Gesù, il figlio di Dio, il potere di rimettere i peccati, come era già stato annunziato dal Battista chiamato appunto a precedere il Signore e a « donare al suo popolo la conoscenza della salvezza mediante il perdono dei peccati» (Lc 1, 6 s gnòsin soterìas... en afèsei amartiôn autôn). Infatti, quando gli viene portato un paralitico per essere guarito dalla sua infermità, Gesù dice: « Ti sono rimessi (= Dio ti rimette) i tuoi peccati ». E per dimostrare di avere in se stesso il potere divino di perdonare i peccati, lo guarisce miracolosamente e suscita grande meraviglia in tutti gli astanti, che dopo essersi chiesti, l'un l'altro, come mai « un uomo» potesse possedere una tale capacità, concludono: « Non abbiamo mai visto nulla di simile » (Mc 2, 5.7.10). Quale anticipo del giudizio finale, il Cristo esercita sulla terra il suo potere, graziando i colpevoli.

La lotta contro il male è stata vinta da Gesù, che lo ha debellato nella sua radice più profonda con una ubbidienza totale fino ad accettare per se stesso la morte allora infamante della croce.. Così egli ottenne il perdono per gli uomini « perché ha dato la sua vita in riscatto (lytron) per molti» (Mc 10, 45). Nella sua ultima cena Gesù distribuì del vino quale simbolo del sacrificio che si accingeva a subire e del sangue che egli stava per versare « in remissione dei peccati » (Mt 26, 28). Noi possiamo quindi dire di essere stati acquistati da Dio « non con oro e argento... ma con il sangue di Cristo, come agnello senza difetto e senza macchia » (1 Pt 1, 18 s). « Egli, infatti, è la vittima di espiazione (ìlasmos) per i nostri peccati e non solo per i nostri, ma anche per quelli del mondo intero » (1 Gv 2, 2).

d) La continuazione di tale compito nella chiesa, il nuovo popolo di Dio

Gesù ha però conferito ai suoi discepoli e per mezzo loro alla chiesa, la missione di rimettere i peccati a nome di Gesù. E' quanto viene insinuato nella modifica apportata da Matteo alla frase originaria di marco, dove al posto della folla che si meraviglia perché Dio ha dato tale potere di rimettere i peccati a un « uomo», vale a dire a Cristo Gesù, sostituisce: perché Dio aveva dato tale potere « agli uomini » (plurale 9, 8). Se il plurale non è dovuto allo stile mattaico, che spesso usa il plurale per il singolare, si potrebbe immaginare che egli in quel momento pensasse al potere di rimettere i peccati, lasciato in eredità da Gesù a tutti i membri della sua chiesa. E' quanto con chiarezza dice Giovanni quando scrive che il Risorto, alitando sui discepoli presenti, disse loro: « Ricevete un po' di Spirito (vi manca l'articolo determinativo greco): a chi rimetterete i peccati, Dio li rimetterà e a chi li riterrete, Dio li riterrà » (Gv 20, 22 s). Il plurale passivo che, letteralmente si trova in greco, « saranno rimessi» e « saranno ritenuti » è un modo semitico per evitare il nome di Dio che gli ebrei per scrupolo di coscienza cercavano di pronunziare il meno possibile e va quindi tradotto, come abbiamo fatto sopra, con « Dio li rimetterà » e « Dio li riterrà».

A prima vista sembrerebbe che qui si affermi il potere assolutorio e condannatorio dei capi della chiesa: sacerdoti, vescovi o altro. Occorre tuttavia chiederci in che modo tale remissione dei peccati sia stata attuata dai primi cristiani e dagli stessi apostoli per capire esattamente la portata di queste parole. Noi constatiamo con immenso stupore che essi hanno compiuto tale loro dovere mediante la predicazione con la quale suscitavano la fede in Gesù salvatore, il pentimento dei peccati con la conversione sigillata dall'immersione battesimale. In tale modo essi hanno applicato per volere di Dio alle singole persone gli effetti salvifici della morte e resurrezione di Gesù. Ciò risulta chiaramente dal commento che fa Luca nel libro degli Atti quando parla della attività di Pietro nel giorno della prima Pentecoste cristiana. Dopo aver suscitato nei giudei la fede nel Risorto e il pentimento per averlo prima crocifisso, l'apostolo cerca di provocare la loro conversione: « Pentitevi e ognuno di voi si faccia immergere per la remissione dei peccati e riceverete il dono dello Spirito Santo » (At 2, 38). Si noti l'identica espressioni in entrambi i passi: « remissione dei peccati ». Questa è la conseguenza di un processo che trae le sue origini dalla fede, si sviluppa nella conversione o cambiamento di ideali e si sigilla con l'immersione battesimale, simbolo visibile dei sentimenti interiori e della morte e resurrezione di quel Gesù con il quale il credente intende avere comunione in una vita rinnovellata.

A questo ministero di predicazione sono invitati tutti i credenti, ma in modo particolare gli apostoli, i quali sono pure i testimoni della resurrezione del Cristo da loro personalmente sperimentata. Lo afferma chiaramente Paolo quando scrive ai Corinzi: « Noi siamo dunque ambasciatori di Cristo; in noi è come se Dio stesso vi esortasse. Vi scongiuriamo in nome di Cristo: Riconciliatevi con Dio. Colui che non conobbe peccato, Dio lo ha fatto essere peccato per noi, affinché noi divenissimo giusti di fronte a Dio per la nostra unione con Gesù » (2 Co 5, 20 s). Tutti i cristiani che hanno già sperimentato l'amore misericordioso di Dio devono dire ai peccatori che « Dio con Cristo ha dato vita anche a voi che siete morti per i vostri peccati, perdonandovi tutte le colpe» (Cl 2, 13), purché abbiate a convertirvi e a farvi battezzare con fede in lui.

Che la precedente interpretazione non sia fuori strada appare dai passi paralleli dei tre sinottici che con parole proprie ci riferiscono come il Risorto abbia dato una missione alla comunità dei credenti; sia pure con espressioni diverse tutte tre le relazioni si accordano nel fare un riferimento al battesimo e agli elementi che lo costituiscono. In tal modo ci fanno capire come anche le parole di Giovanni si debbano riferire al battesimo cristiano. Matteo vi sostituisce il comando: « Mi è stato dato (= Dio mi ha dato) ogni potere in cielo e in terra (Cf Gv 20, 21). Andate dunque a tutte le genti, fatele miei discepoli immergendole (con il battesimo)... e insegnando loro a osservare tutto quel che vi ho comandato » (Mt 28, 18 ss). Marco nella finale aggiunta, che rispecchia il pensiero della chiesa apostolica, scrive: « Andate per tutto il mondo a predicare il lieto messaggio ad ogni creatura. Chi avrà creduto e, sarà stato battezzato, Dio lo salverà (lett.: sarà salvato) e chi non avrà creduto Dio lo condannerà (lett.: sarà condannato)» (Mc 16, 15 s). Luca fa profetizzare al Cristo risorto che « nel suo nome sarebbe predicato il pentimento per la remissione dei peccati a tutte le genti cominciando da Gerusalemme» (Lc 24, 47). Lo stesso concetto riappare anche nel discorso di Paolo ad Antiochia di Psidia, dove l'apostolo afferma: « Vi sia dunque ben chiaro, fratelli, che per mezzo di Gesù vi è annunziata la remissione dei peccati e che chiunque crede in lui è giustificato » (At 13, 38). Dunque ancora un'altra volta abbiamo il rimando alla predicazione che suscita fede con il conseguente battesimo; ma in nessun luogo si parla di un potere assolutorio o condannatorio da parte degli stessi apostoli per rimettere i peccati postbattesimali. E per queste eventuali colpe dei già credenti, che dice la Bibbia? Parla forse di assoluzione o non assoluzione da parte degli apostoli? E' quanto dobbiamo ora esaminare con tutta serenità.

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2) Il doppio volto della chiesa

1. La chiesa comunità di santi

La comunità primitiva, per l'alta idea della sua chiamata alla santità, si immaginava che i suoi membri non dovessero più peccare. I cristiani di Gerusalemme formavano « la santa assemblea del Signore » (At 7, 38). Dopo il fallimento dell'antico Israele, ecco ora sorgere il nuovo, che non può fallire perché ha il dono dello Spirito.Secondo il Selwyn il comando « Siate santi, perché io sono santo! » costituiva un cardine dell'insegnamento cristiano primitivo: « Quale accordo – scriveva Paolo – tra Cristo e Beliar? Quale cosa in comune tra un fedele e un infedele? Quale compatibilità tra il tempio di Dio e gli idoli?... perciò uscite di mezzo a costoro e separatevene, dice il Signore! » (1 Co 6, 15-17). Per Giovanni « chiunque è nato da Dio non commette più peccato, perché il suo seme (spérma autoû = seme di lui, cioè di Dio) dimora in lui; egli non può peccare perché è nato da Dio» (1 Gv 3, 9). Colui che è nato da Dio, che porta in se stesso una particella dello spirito divino, è al di là della sfera del bene e del male. Ma questo fatto non lo inorgoglisce perché il credente sa che tale situazione è puro dono di quel Dio, che solo può assicurare la preservazione del cristiano dal male. Pare che questo seme divino sia quello della parola di Dio più che dello Spirito Santo (cf Gv 6, 5).

La corrente rigorista della chiesa primitiva appare in modo fin troppo palese nello sconcertante comportamento di Pietro con Anania e Saffira, folgoranti dalla parola dell'apostolo. Come scrive Ph. H. Menoud: « Pietro non agisce come Gesù (cf Mt 18, 15 ss; Lc 17, 3) né secondo il modo usuale della chiesa primitiva, quale risulta dalle esortazioni neotestamentarie». J. Schmitt ha segnato la via giusta per spiegare in qualche modo il racconto biblico, quando trova il punto focale non nella mancata distribuzione dei beni, che era facoltativa presso i cristiani (At 5, 4), bensì nei rimproveri fatti ai due sposi: « Anania, perché Satana ha riempito il tuo cuore, tu hai mentito allo Spirito Santo » e « Come mai vi siete messi d'accordo per tentare lo Spirito del Signore? » (peirâsai to pneûma Kyrìou At 5, 49). La colpa dei due sposi è d'ordine teologico: essi provocano Dio e mettono alla prova lo Spirito Santo per vedere se esso dimori davvero nella comunità e specialmente nei suoi apostoli. Sembra un tentativo per farla franca di fronte allo Spirito Santo. La paura che invade la chiesa (At 5, 5-11), richiama la situazione della comunità dell'esodo, la quale al vedere la punizione del peccatore, che cercava di allontanare gli altri dal vero culto, « sarà presa da paura e cesserà di fare ciò che è male agli occhi di Dio» (Dt 13, 12).

Ne deriva il fatto che, secondo il Nuovo Testamento, alcuni peccati particolarmente gravi sono presentati come irremissibili . Tra questi viene ricordata la bestemmia contro lo Spirito Santo che Gesù dichiara imperdonabile (Mt 12, 31 = Mc 3, 24). Come dimostra E. Lövestam, la controversia tra i farisei e Gesù riproduce il contrasto tra i maghi d'Egitto e Mosè al tempo delle dieci piaghe. I primi devono confessare che « qui vi è il dito di Dio » (Es 8, 15; cf Lc 11, 20), mentre il Faraone indura sempre più il suo cuore e rifiuta l'intervento di Dio a favore del suo popolo; la stessa situazione si rinnova al tempo di Gesù con i farisei. Contro la legge antica, che condannava a morte il bestemmiatore, Gesù annunzia il perdono anche a lui; solo i bestemmiatori contro lo Spirito Santo, vale a dire contro la potenza di Dio in azione, non potranno ottenere il perdono e periranno come la generazione «adultera e peccatrice» del deserto, che tentava Dio, contestava e contristava lo Spirito Santo (Is 63, 10). Infatti questi bestemmiatori, al vedere i miracoli compiuti da Gesù, li attribuivano a démoni possenti (Mc 3, 22). La frase mattaica « né in questo mondo né nel futuro» (Mt 12, 31), secondo lo stile rabbinico, non implica che sia possibile un pentimento nel mondo futuro, ma indica solo che esso non è mai possibile , come ci documentano i passi paralleli di Marco e Luca che, scrivendo ai gentili, incapaci di comprendere tale espressione rabbinica, la sostituiscono con l'avverbio « mai» (Mc 3, 28; Lc 12, 10).

Anche la lettera agli Ebrei parla dell' apostasia come di un peccato che non può essere perdonato da Dio: si tratta infatti di « illuminati » (fòtismoi), ossia di persone credenti, che hanno ricevuto la luce, hanno gustato il dono celeste, e, dopo aver sperimentato « la parola eccellente di Dio e le forze del mondo a venire», sono poi decaduti dalla fede. E' impossibile « che costoro trovino una seconda volta il rinnovamento della conversione, in quanto crocifiggono di nuovo per conto proprio il Figlio di Dio e l'espongono ad infamia » (Eb 6, 4-6). « Se volontariamente pecchiamo dopo aver avuto la notizia sulla verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati» (Eb 10, 26).

Lo stesso Giovanni, il cantore dell'amore misericordioso di Dio (1 Gv 3, 1), parla di peccati per la morte a riguardo dei quali è inutile pregare (1 Gv 5, 16). Questa espressione, che è unica in tutto il Nuovo Testamento, sembra richiamare quella veterotestamentaria riguardante i peccati compiuti con proposito deliberato di fronte ad altri commessi per inavvertenza o all'attitudine volutamente peccaminosa del colpevole. Dal contesto si può pensare che il peccato per la morte sia quello dei falsi dottori che allontanavano i fedeli dalla parola ricevuta all'inizio. E' il peccato di coloro che, staccandosi per la loro incredulità dalla sorgente della vita, non possono più venire rigenerati. Si tratta di persone che, pur essendo state nella comunità cristiano, se ne staccano « perché non erano dei nostri ». Infatti, « se fossero stati dei nostri, non se ne sarebbero andati via! » (1 Gv 2, 19). In tali condizioni non possono più trovarsi sotto la sfera della grazia e del perdono; l'intercessione della chiesa a nulla giova per loro. E' quindi inutile pregare per essi.

Di che impossibilità si tratta? Non di una conversione metafisicamente impossibile, ma solo soggettivamente tale. E' ben difficile - impossibile per un semita - che delle persone le quali volontariamente chiudono gli occhi alla luce per non vederla, possano essere illuminate dalla verità. Le eccezioni, sempre storicamente possibili per mutamento della cattiva volontà, sono ipotetiche e ben difficili. Come potevano convertirsi quei giudei che, vedendo Gesù compiere i miracoli, anziché vedervi il « dito di Dio » o la « potenza dello Spirito Santo », pretendevano trovarvi documentato l'intervento satanico? L'impossibilità del perdono non stava dalla parte di Dio, bensì dal lato degli uomini, che ostinatamente respingevano la verità per non credervi. Si tratta di una situazione paradossale simile a quella dell'Apocalisse, dove dinanzi a ogni esplosione di potenza divina, gli uomini, anziché ravvedersi, si mettono a bestemmiare ancora di più Dio (Ap 15). Come si può sperare nella loro conversione mentre perdura uno spirito di assoluta opposizione a Dio e di totale incredulità?

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2. La chiesa comunità di persone imperfette

Non tutti i peccati presentano un carattere di gravità così estrema; ve ne sono molti altri nei quali cade ogni giorno anche colui che intende seguire il volere divino e l'amore a lui manifestatosi in Gesù. Sono peccati che riconosce anche Giovanni quando scrive: « Figlioletti miei, vi scrivo così perché non abbiate a peccare; che se poi qualcuno avesse a commettere una colpa, abbiamo un avvocato presso il Padre» (1 Gv 2, 11). Sono dei peccati che « non conducono a morte », distinti quindi da quelli che al contrario conducono a morte e per i quali è inutile pregare, mentre per questi è bene « pregare perché Dio doni ai peccatori la vita» (ivi 5, 16). Come si deve agire in tali casi? Vari sono i suggerimenti che la Bibbia ci dona al riguardo e che quindi dobbiamo qui ricordare, per vedere se tra essi vi sia anche il potere assolutorio da parte di uno speciale gruppo di cristiani. Essi sono: reciproca confessione dei peccati, riconciliazione con l'offensore, preghiere, eliminazione pedagogica dei rapporti fraterni per indurre il colpevole a pentimento, riammissione nella chiesa.

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3) Confessione

La confessione dei peccati è psicologicamente comprensibile..

1. Psicologia della confessione

L'uomo che è oppresso dalla colpa sente spesso il bisogno di aprirsi con qualcuno, e non di rado la polizia cerca di utilizzare il bisogno dell'autoconfessione per scoprire un colpevole. Alcuni anni fa una ragazza fu trovata uccisa e fatta a pezzi. Un giovane inglese fu incriminato del delitto, ma non si avevano prove contro di lui. L'ispettore Wensley lo convocò in questura, lo fece sedere per delle ore attorno a un tavolo circondato da alcune persone, che se ne stavano là in silenzio, mentre si udiva solo il ticchettio dell'orologio. Finalmente verso l'ora del tramonto l'ispettore condusse il giovane alla finestra e lo fece sedere in silenzio. Dopo un tempo interminabile, il giovane gridò con voce aspra: « Sì, io l'ho uccisa! ». Fuori della finestra vi era un'insegna pubblicitaria con caratteri cubitali: «Una donna tagliata in due ». L'oppressione di quel silenzio, il cartellone pubblicitario, l'oscurità della notte che si avanzava, divennero per lui insopportabili. Solo la confessione riuscì a ridonargli la pace desiderata.

Una pagina potente si legge nel romanzo " Mercoledì Santo" di M. Galvez, dove un peccatore incallito si rivolge al parroco Eudosio Solinas.

« Una voce dura giunse al suo orecchio. Per il confessore non vi erano gradi di simpatia, ma quel penitente era ripugnante.
Mio ragazzo, dimmi tutta la verità, Parla con la più ampia confidenza. Raccontami la tua vita. L'uomo si contorse come per un dolore fisico. Il suo silenzio inatteso ed ostinato conturbava il sacerdote. Egli cercò di alzarsi, ma di nuovo cadde in ginocchio.
– Voi non mi credete, ma io odio l'umanità.
– Mio Dio, come è possibile?
– Io sono rovinato. Sono avvocato ma non potei mai esercitare. La mia disposizione è repulsiva. Nessuno voleva essere mio cliente. Mi diedi al giornalismo. Io ho estorto dei ricatti, calunniando. Non lo facevo per denaro, ma per cattiveria. Sono ammalato del mio stesso veleno. Nessuno mi soffre. odio tutti gli uomini e ancor più di loro odio me stesso. Non ho la forza di darmi la morte; benché detesti la vita... Mi confesso per avere pace, ma detesto la chiesa. Non merito assoluzione, ma merito d'essere schiaffeggiato, sputacchiato... Io odio Dio, l'ho maledetto. Ho insultato Cristo. Sui giornali ho sputato cose orribili contro Dio.
Il confessore provò un'irrefrenabile afflizione. Mai aveva incontrato un uomo così triste... Il volto dell'uomo era teso. Ma tosto sgorgarono dalla sua bocca una sequenza di parole viperine.
– Io odio la vita... Io temo la pazzia, l'idiozia, una paralisi generale... Io diverrò un bruto ripugnante.
– La più grande pazzia umana – disse il sacerdote – è il legame dell'onnipotenza divina. E d'improvviso il sacerdote, con grande forza, prese l'uomo al braccio, fissandolo negli occhi. Fiamme di ardente amore brillarono nello sguardo del confessore. L'uomo nascose il volto, evitando quella valanga di pietà. Ma finalmente egli chinò il suo capo sulla spalla del sacerdote. Allora il sacerdote ricevette il premio del suo lavoro: una moneta magnifica che Dio gli inviò attraverso gli occhi di quella povera anima salvata ».

Proprio per tale motivo anche tra i protestanti sta rinascendo la confessione. Uno dei pionieri di questa riscoperta fu Cristoforo Blumhardt, il quale parlando di uno dei suoi penitenti così dice: «Si pose in ginocchio e io gli diedi l'assoluzione imponendogli le mani. Quando si rialzò era trasformato: il suo volto splendeva di gioia e di gratitudine... L'afflusso alla casa parrocchiale è così grande, tanto che io sono occupato a ricevere le persone dalle sette del mattino sino a tarda ora della notte... Più volte ho dato l'assoluzione; e ho pensato di poter ripetere questo gesto, vedendo quei cuori così contriti. Inoltre ho chiesto a parecchie di quelle persone di ritornare » I militanti del movimento di Oxford, che ha dato origine al « riarmo morale » , usano l'esame di coscienza, la confessione – talora anche pubblica – e ritengono utile il sostegno di un direttore spirituale liberamente scelto. Anche la comunità di Taizè e di Grandchamp in Svizzera praticano la confessione e l'assoluzione è divenuta un fatto normale per coloro che vi si recano in un ritiro spirituale.

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2. Bibbia e confessione

La Bibbia parla anch'essa della confessione, ma non come di uno sfogo psicologico (quasi fosse una specie di psicanalisi moderna), ma come di un mezzo per stare nell'umiltà, per riconoscere i propri torti e ottenere dal Dio misericordioso il proprio perdono. Deve essere necessariamente congiunta con la conversione o la volontà di non ricadere più nei medesimi peccati, e include anche il pentimento per aver errato. Sotto questo aspetto si diversifica dalle confessioni dei peccati, così diffuse in tutto l'oriente mediterraneo antico, dove sussistevano delle liste di peccati già bell' e pronte perché la persona non avesse a dimenticare nessun peccato, che anche inconsciamente poteva aver compiuto. Bastava recitarne una per placare gli dei irati, anche senza il pentimento interiore o la conversione dei cuori. E' sufficiente, come esempio, presentare qui la confessione che si recitava ad Eliopoli d'Egitto e che così suonava:

Tu solo e unico Harachti, al quale nessuno è uguale, tu solo sei difensore di miriadi, salvatore di centinaia e di migliaia, scudo di quanti ti implorano, signore di Eliopoli. Non punirmi per i miei numerosi peccati. Io sono l'unico essere a non avere giudizio, ad agire da stolto. Durante il giorno seguo la mia bocca come un bue che va dietro all'erba e, durante la notte, vado dietro alla mia bocca, come un bue va dietro all'erba.

Vari sono i tipi di confessione che appaiono nella Bibbia e che sono presentati sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento.

a) Antico Testamento

Vi si riscontra una confessione generica , compiuta da tutto il popolo nel giorno solenne dell'espiazione (kippùr), nella quale il sommo sacerdote, dopo aver espiato i propri peccati con l'immolazione di un vitello, scacciava nel deserto un capro sul quale imponeva le mani per far ricadere su di esso i peccati di tutto il popolo. Immolato infine un olocausto, il sommo sacerdote aspergeva con quel sangue il luogo sacrosanto, dove si trovava l'arca, simbolo della divina presenza. Ecco alcune formule per tale occasione, che si leggono nel Talmud babilonese:

Per il sacerdote: O Eterno, io fui malvagio, ho peccato, ho commesso delle colpe dinanzi a te, dinanzi a me e dinanzi alla mia famiglia.

Per il popolo: O Eterno, ho peccato, ho commesso delle colpe: io, la mia famiglia, i figli di Aronne e il tuo popolo santo. O Eterno, perdonami tutte queste iniquità.

Per il capro espiatorio: O Eterno, il tuo popolo, la casa di Israele, ha commesso dei peccati, ha peccato contro di te. O Eterno perdona loro queste malvagità (Joma 3, 7).

Oltre a questa confessione generale vi erano vari sacrifici per i peccati personali, fossero essi volontari o involontari, che variavano a secondo del grado di dignità del peccatore: un vitello per un sacerdote, un capro per un principe, una capra per un uomo comune, due tortorelle per un poveretto. Essi includevano talora anche la confessione pubblica come quella di aver toccato una cosa impura, o di aver giurato con leggerezza (Lv 5, 1-6). Anche il delitto commesso contro le cose consacrate a Dio, oppure contro il prossimo (furto), doveva essere espiato con il sacrificio di un montone (Lv 5, 14 ss; 6, 1-7). A questi sacrifici bisognava unire – predicavano i profeti – pentimento e volontà di non peccare più: « Io amo la pietà e non i sacrifici » (Os 6, 6). «Praticare l'equità è cosa che il Signore preferisce ai sacrifici » ( Pr 21, 3). «Che m' importa della moltitudine dei vostri sacrifici?... Lavatevi, purificatevi, rimuovete la malizia delle vostre azioni dinanzi ai miei occhi; cessate di fare il male; imparate a fare il bene » (Is 1, 11-20; cf Gr 6, 20; Is 42, 23; ecc.).

b) Nel Nuovo Testamento

Vi appaiono varie confessioni che si possono così sintetizzare:: confessione a Dio, a Gesù, pubblica e reciproca.

a. Confessione a Dio . E' quella che attuò il figlio prodigo quando, pentito, tornò da suo padre (Lc 15, 21) e che il pubblicano pronunciò chiedendo perdono al creatore mentre se ne stava umilmente in fondo all'atrio del tempio (Lc 18, 13). Anche Giovanni raccomanda nelle sue lettere di confessare a Dio i propri peccati, « poiché egli è fedele e giusto da perdonarci i nostri peccati e da purificarci da ogni ingiustizia » ( 1 Gv 1, 9 s). Tale richiesta si rinviene pure nella preghiera del Padre nostro: « Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori ».

b. Confessione a Gesù. Era riservata al tempo in cui Gesù trascorse la sua vita terrena in Palestina: è la confessione di Pietro che si riconobbe peccatore dopo la pesca miracolosa ottenuta in obbedienza alla parola di Gesù (Lc 5, 8); della peccatrice che bagnò di lacrime i piedi del Salvatore ( Lc 7, 37 s); del buon ladrone sulla croce (Lc 23, 41); di Zaccheo, l'esattore, nel suo incontro con il Maestro (Lc 19, 8). Oggi tale confessione, non più possibile, si identifica con quella rivolta a Dio.

c. Confessione pubblica . Assai comune presso i vari popoli, appare anche nel Nuovo Testamento, benché qui sia congiunta con il pentimento senza il quale la confessione a nulla vale. Confessione pubblica era quella che attuarono i discepoli di Giovanni al tempo del loro battesimo (Mt 3, 6; Mc 1, 5); quella compiuta dai cristiani di Efeso, quando distrussero i loro libri magici (At 18, 18 s).

Tali confessioni pubbliche era compiute globalmente prima del culto liturgico, e corrispondevano al cosiddetto confiteor o confessione prima della messa. Già la Didachè (scritta verso la fine del 1° secolo o l'inizio del 2° secolo) affermava:

Nella adunanza farai la confessione dei tuoi peccati e non ti recherai alla preghiera in cattiva coscienza... Nel giorno del Signore, riuniti, spezzate il pane e rendete grazie, dopo aver confessato i vostri peccati affinché il vostro sacrificio sia puro (Didachè 4, 14; 14, 1).

Anche Clemente Romano agli istigatori della ribellione contro i presbiteri (ossia i vescovi) di Corinto, esorta « a piegare le ginocchia del proprio cuore » perché è « miglior cosa confessare i peccati che indurire il cuore ». Non di rado la confessione pubblica avviene ancora oggi durante le assemblee dei credenti, nelle quali alcuni cristiani pentiti confessano la propria colpa e si dedicano al Signore.

d: Confessione reciproca . Con essa il colpevole si riappacifica con l'offeso, secondo il suggerimento di Gesù (Mt 5, 23). E' il metodo raccomandato da Giacomo quando scrive: «Confessate scambievolmente i peccati gli uni agli altri » (Gc 5, 16). Infatti chi ha offeso il prossimo deve ristabilire con lui una relazione amichevole, riconoscere il torto fatto, chiedere scusa all'offeso, il quale, se è un vero cristiano, dovrà sempre essere pronto a perdonare (Mt 18, 21 s).

Non ho nulla da obiettare sul valore psicologico e pedagogico della confessione, riconosciuto dallo stesso Voltaire:

Si può considerare la confessione come il maggior freno dei delitti occulti. Essa è eccellente per indurre i cuori ulcerati dall'offesa a perdonare, e quanti hanno rubato a rendere al prossimo ciò che gli appartiene. (Cathéchisme in «Dictionnaire philosophique»)

Tuttavia secondo il Nuovo Testamento la confessione dovrebbe essere libera, non obbligatoria; attuata dinanzi all'offeso o a qualche persona spiritualmente matura – non necessariamente il vescovo – o il sacerdote (inesistente per la Bibbia) – e per ottenere preghiera e aiuto spirituale, non assoluzione.

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3. Perdono dell'offeso verso il proprio offensore

La chiesa è come una famiglia di persone che si amano. Quando uno sbaglia, tutti soffrono e dovrebbero tentare ogni mezzo per ricondurre il colpevole sulla via della verità. E' opera di carità cristiana la correzione per convertire i fratelli che errano: « L'amore – osserva Pietro – copre una moltitudine di peccati » (1 Pt 4, 8). Giacomo adopera la stessa massima, tratta dal libro dei Proverbi (10, 12), quando scrive:

Fratelli miei, se uno di voi si svia dalla verità e qualcuno lo converte, sappia costui che chi converte un peccatore dalla sua via di errore, salva la sua anima dalla morte e copre una moltitudine di peccati (Gc 5, 19 s).

Chi per amore di Dio e dei fratelli fa di tutto per salvare l'errante copre con il suo amore una moltitudine di peccati. Qui non ci interessa sapere quali siano i peccati coperti, se del fratello che è stato riguadagnato o di colui che ha salvato il fratello. Qui basta solo osservare come il peccatore sia ricercato e portato sulla retta via da un fratello senza bisogno di assoluzione personale. Chi copre i peccati è Dio e solo Dio.

Alla medesima soluzione ci riconduce anche il suggerimento di Cristo, riportato da Matteo, che così suona:

« Se un tuo fratello pecca contro di te, convincilo del suo torto, ma fra te e lui solo. Se ti dà ascolto, avrai guadagnato il tuo fratello. Ma se non ti ascolta, prendi con te una o due persone, affinché per bocca di due o tre persone sia regolato ogni problema. Se però non ascolta nemmeno questi, dillo alla comunità; che se non ascolta nemmeno la comunità, ti sia come il pagano e l'esattore delle tasse (Lett. il pubblicano)» (Mt 18, 15-17).

Il passo presenta un piccolo problema testuale, perché le parole: «contro di te » mancano in alcuni codici (B, Sin) e negli scritti di qualche padre della chiesa (Cirillo, Basilio, Origene). Tuttavia la maggioranza dei codici è in loro favore; inoltre il contesto generale del capitolo ne è favorevole: il verso di me del v. 21 (eis emè) richiama il verso di te del v. 22, e il perdono suggerito da Gesù verso l'offensore, « non solo sette volte, ma settanta volte sette » (v. 22), conferma che anche prima si era parlato di un peccato personale. E' poi difficile capire come mai una norma, che Gesù avrebbe espresso in forma generale, sia stata ristretta dai copisti a un caso particolare. E' invece possibile che le parole contro di te (o verso di te) siano state soppresse da qualche copista per uniformare l'espressione mattaica con quella lucana, dove mancano appunto le parole « contro di te»: «Se il tuo fratello pecca, rimproveralo» (Lc 17, 3). Ma che anche in Luca tali parole riguardino un'offesa personale e non un peccato in genere, appare implicito nel contesto; infatti Luca continua dicendo: « se si pente, perdonagli ». Come posso perdonare un'offesa che non è stata rivolta a me? La continuazione della frase: « Se pecca sette volte al giorno contro di te », perdonagli (Lc 17, 4)=, ci fa capire che anche le parole precedenti si riferivano a un'offesa rivolta contro un fratello.

Si noti come Gesù imponga all'offeso di prendere lui stesso l'iniziativa, per ristabilire i buoni rapporti con l'offensore. Questo collima con l'altro insegnamento di Gesù che suggerisce di lasciare l'offerta dinanzi all'altare e di andare prima a ristabilire l'armonia con « il fratello » che ha qualcosa « contro di te» (Mt 5, 23 s).

Gesù propone qui una procedura a tre gradi, secondo gli usi del tempo: colloquio a tu per tu con il colpevole, mediazione di due o tre persone, il ricorso all'assemblea locale. Un simile procedimento era anche suggerito agli esseni:

Chiunque tra coloro che sono entrati nell'alleanza porta contro il suo prossimo un'accusa senza averlo prima rimproverato alla presenza di testimoni e la sostiene con ardente collera o la presenta agli anziani per attirare su di lui il disprezzo, manifesta con ciò che si vendica e conserva rancore (Documento di Damasco IX, 2-4).

E altrove:

Nessuno parli al suo fratello con ira... non lo deve odiare nell'incirconcisione del suo cuore, bensì nello stesso giorno lo riprenda senza addossare su di sé una colpa per causa sua. Inoltre nessuno introduca una causa contro il suo prossimo dinanzi ai molti (= assemblea) se prima non vi è stata una riprensione dinanzi a testimoni (Regola della Comunità (1 Q S) 5, 25 - 6, 1).

Si noti la differenza del procedimento di Gesù e di quello dei qumraniti: Gesù suggerisce tale comportamento per ristabilire la concordia e l'amore, a Qumran domina invece il desiderio di mostrare come si abbia ragione e il tutto sia fatto per punire il colpevole, non per convertirlo. Non è poi indicato il colloquio personale, che invece per Gesù è il primo passo per ristabilire la concordia e l'amore. Più che di correzione fraterna, si tratta in Matteo di « guadagnare il fratello », vale a dire di ristabilire con lui una unione di amore. Anche la presenza di testimoni, che si riallaccia a Dt 9, 15 (« sulla parola di due o tre testimoni l'affare sarà regolato »). non ha lo scopo di stabilire chi dei due abbia colpa, quanto piuttosto di utilizzarli quali mediatori del tentativo di raggiungere l'accordo. Abbiamo in Matteo un intento ben diverso da quello del Deuteronomio, anche se le parole sono identiche: qui si cerca di stabilire la colpevolezza dell'indiziato, in Matteo si agisce per ristabilire una comunione di amore con il perdono del colpevole.

Il terzo passo, necessario in caso di ostinazione del fratello, consiste nel ricorso all'assemblea locale, sempre con l'intento di riconciliare il fratello offensore con l'offeso e non di emettere una sentenza di assoluzione o di condanna. Nel caso che anche questo estremo tentativo fallisse, il colpevole «sia per te come il pagano e l'esattore delle tasse », ritenuto quest'ultimo un pubblico peccatore. Usualmente si intende questa frase come una scomunica: « sia il peccatore cacciato fuori dalla chiesa », ma in tal caso vi sarebbe stata la frase generica « sia come il pagano... » senza la limitazione «sia per te ». Si tratta quindi di una questione personale non comunitaria.

Che senso ha questa frase? Ce lo ha indicato assai bene il Galot in un suo recente studio: anche se non ascolta la chiesa e quindi automaticamente si ritiene al di fuori di essa, tu devi ancora fare qualcosa per lui. Devi cercarlo come Gesù ha cercato i pubblici peccatori, come tu stesso fai con i pagani che cerchi di condurre alla fede. Gesù infatti ha amato i pagani; ne ha elogiato la fede che supera talvolta quella degli stessi israeliti, come dice al centurione: « In verità vi dico che in nessun israelita ho trovato una fede così grande » (Mt 8, 10 s). Anche alla cananea dice: « Donna, grande è la tua fede. Ti avvenga come desideri » (Mt 15, 29). Gesù osserva come Elia si sia rivolto a una vedova pagana di Sarepta e non a una vedova ebrea (Siria); come Eliseo abbia guarito un lebbroso siro e non qualcuno dei molti che vivevano in Israele (Lc 4, 24). Egli profetizza poi che « numerosi (non ebrei) sarebbero venuti dall'oriente e dall'occidente... mentre i figli del regno (= israeliti) sarebbero stati cacciati fuori » (Mt 8, 11). Gesù biasima, sì, le preghiere lunghe e ripetute dei gentili; il loro amore riservato solo agli amici, ma dice così solo per sottolineare che anche gli ebrei non ne sono diversi (Mt 6, 7; 5, 46 s). A differenza dell'ebraismo che proibiva lo stesso contatto con i colpevoli per non esserne contaminati, Gesù ha cercato di essere « l'amico degli esattori delle tasse e dei peccatori » (Mt 11, 9). Li ha perfino preposti ai sacerdoti e agli anziani del suo popolo, quando dice: « In verità vi dico che gli esattori di tasse e le meretrici vi precederanno nel regno di Dio » (Mt 21, 31). Egli ha anzi elevato alla dignità di apostolo l'ex esattore di tasse Matteo, per questo il primo evangelista doveva essere ben più sensibile degli altri al richiamo di Gesù: « Ti sia come un esattore e un pagano» In tale contesto anche il cristiano è invitato a comportarsi come Gesù verso il proprio offensore che si allontana dalla chiesa; a ricercarlo e a mostrargli il medesimo amore che Gesù ha avuto verso i peccatori da lui perdonati. Abbiamo qui un suggerimento simile a quello di Paolo: « Vinci il male con il bene » (Rm 12, 20).

Nonostante l'apparente somiglianza verbale di queste parole con le altre rivolte da Gesù a Pietro: « Tutto ciò che legherai o slegherai... sarà legato o slegato in cielo » (Mt 16, 19), non si può concludere che, non si può concludere che « dal momento che nel versetto precedente si usa il singolare e in Mt 18, 18 il plurale, il medesimo potere delle chiavi dato a Pietro sia stato poi trasmesso al collegio degli apostoli » (H. Vorgimler, Matthieu 16, 18s et le sacrament di pénitence, in l'homme devant Dieu, Melanges H. de Lubac I, Paris, Aubier 1963, pp. 57-61), Ce lo impedisce il contesto che nel caso di Pietro si riferisce alla fede cristiana e nel brano di Matteo 18 si ricollega con il perdono che l'offeso deve essere pronto a dare all'offensore. In questo secondo caso non vi è poi allusione al collegio degli apostoli, perché si tratta di singoli cristiani, i quali al più chiedono la collaborazione in questo loro intento di pace a dei testimoni o alla collettività intiera, non agli apostoli. Il « voi », qui usato, va inteso nella identica maniera del successivo: « Se due di voi si accorderanno sulla terra per chiedere qualcosa in preghiera, sarà loro concesso dal Padre mio che sta nei cieli » (Mt 18, 19), e si riferisce quindi, non agli apostoli soltanto, bensì a tutta la comunità.

Tale connessione è pure ribadita dall'avverbio « pure, di nuovo» (pàlin) che ricollega le due frasi tra loro e che quindi riguardano tutta la chiesa e non solo il gruppo dei dodici, Dal momento che il contesto, come abbiamo già visto più sopra, non parla della scomunica, l'espressione « legare e slegare » vuol solo suggerire che quando i cristiani seguono la via dell'amore e del perdono tracciata da Gesù con mano maestra, Dio stesso ratifica il loro comportamento e lui pure dona o rifiuta il perdono concesso o rifiutato (non per colpa dell'offeso ma per colpa dell'offensore che lo respinge). L'azione dell'offeso ha quindi lo scopo di condurre il colpevole al perdono e all'amore non solo con il prossimo ma anche con lo stesso Dio.

Non ha quindi colto nel giusto il Concilio di Trento, quando condanna l'ipotesi di coloro che ne passo sopra citato ritengono concesso a tutti i cristiani il potere di perdonare i peccati. E' chiaro che i cristiani non hanno alcun potere assolutorio, ma è anche chiaro che il passo mattaico si riferisce a tutta la collettività e non solo agli apostoli e tramite loro ai successori, che sarebbero i sacerdoti. Così infatti suona il canone del concilio:

Se uno dirà che non solo i sacerdoti sono ministri dell'assoluzione, ma che a tutti i fedeli Cristo ha detto: Tutto ciò che legherete in terra sarà legato in cielo e tutto quel che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo (Mt 18, 18)... sia scomunicato (Sess. 14 can. 10 Denz. Sch. 1710).

Il contesto del vangelo non riguarda affatto l'assoluzione, della quale mai il vangelo parla, per cui nessun cristiano (nemmeno un vescovo o un apostolo) può assolvere autoritativamente nel nome di Gesù i peccati commessi. Da esso appare soltanto che tutti i fratelli devono tentare ogni mezzo possibile per donare il perdono al proprio offensore (chi è stato offeso deve infatti dare il suo perdono) e che di conseguenza tale perdono è pure accolto da Dio. Se invece, per cattiva volontà dell'offensore, il perdono non può essere concesso, nemmeno Dio lo concede a chi ha peccato. Che la riflessione sopra riferita sia vera, lo possiamo sapere dal passo parallelo di Luca, il quale, parlando a dei pagani incapaci di comprendere le espressioni semitiche racchiuse nel brano, ce ne ha presentato la sostanza con terminologia diversa:

Se un fratello commette un peccato (dal contesto appare che si tratta di un peccato commesso contro un altro fratello), rimproveralo9 e, se si pente, perdonagli. Anche se pecca contro di te sette volte al giorno e sette volte torna a te dicendo: Mi pento, lo devi perdonare (Lc 17, 3 s).

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4. Preghiera non assoluzione

Se nel caso del peccato a me rivolto, io posso dare personalmente il mio perdono, quando si tratta di peccati non rivolti contro di me, io non posso fare altro che pregare Dio per i peccatori (mai assolvere) e anche il peccatore pentito non può fare altro che chiede a Dio il perdono con la preghiera. Si tratta di un insegnamento ben chiaro nel Nuovo Testamento:

Confessate dunque a vicenda i vostri peccati e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto può la richiesta di un giusto (Gc 5, 16).

Pietro si incontra con Simone il mago, colpevole di voler comperare con del denaro il potere di compiere miracoli (simonia) e senza alcuna reticenza gli fa capire la gravità della sua colpa: « Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché tu hai creduto di poter acquistare con denaro il dono di Dio... Pentiti, quindi, di questa tua malvagità e prega il Signore che ti perdoni, se possibile, il proposito del tuo cuore» (At 8, 20-22), Dunque il perdono non viene dall'assoluzione di Pietro, bensì dal Signore che il colpevole pentito invoca nella preghiera. Lo capisce anche l'ex-mago, che al sentirsi dire come egli « fosse avvolto dai legami dell'iniquità » (ossia legato da essa), non chiede affatto il perdono da Pietro, ma domanda preghiere: «Pregate voi il Signore per me, affinché nulla di quel che mi avete detto mi cada addosso » (v. 24).

Anche Giovanni, pur avendo riferito nel suo vangelo che Gesù ha affidato ai suoi discepoli la missione di rimettere i peccati, suggerisce ai colpevoli di rivolgersi a Gesù Cristo e non agli apostoli. « Figlioletti miei, vi scrivo perché non abbiate a peccare; che se poi qualcuno avesse a peccare, abbiamo un avvocato presso il Padre, Cristo il giusto. Egli è il rimedio per i nostri peccati e non solo per i nostri, ma anche per quelli del mondo intero » (1 Gv 2, 1 s). Egli suggerisce ai fratelli di pregare per i peccatori: « Se uno vede il proprio fratello compiere un peccato che non conduce alla morte, preghi e Dio gli donerà la vita » (Ivi 5, 16). Senza alcun bisogno di assoluzione sacerdotale « il sangue di Gesù, figlio di Dio, continua a purificarci da ogni peccato », purché vi sia il pentimento e la volontà di cambiare vita (1 Gv 1, 7-9 s).

Per questo una tradizione di epoca posteriore, ma che probabilmente ha un fondo di verità, narra che Giovanni, già vecchio e ansimante, avrebbe rincorso sui monti circonvicini un giovane da lui convertito, il quale sembrava una meravigliosa promessa per una chiesa non lontana da Efeso, ma che durante una sua lunga assenza era divenuto un ladrone.

L'apostolo gli si fa garante, l'accerta con giuramento che egli ha già trovato misericordia presso il Signore... gli bacia la (mano) destra per significare che era stata detersa dal ravvedimento, lo introduce nella chiesa, intercede per lui con moltiplicate preghiere, gli si fa commilitone con prolungati digiuni... e non se ne parte prima di averlo restituito alla chiesa, offrendoci in tal modo un modello magnifico di vero ravvedimento, un esempio di rinascita spirituale, un trofeo di resurrezione visibile (Eusebio, Hist. Eccl. 3, 23, 19, Del Ton p. 201).

Mai un gruppo di credenti (nemmeno gli apostoli) ha dato l'assoluzione dei peccati a nome di Dio. Non Pietro al peccatore Simone di Samaria; non Paolo né Giovanni ai peccatori del loro tempo. Il « ministero di riconciliazione» non consisteva nel dare l'assoluzione sacerdotale, bensì nel predicare a tutti – ebrei e gentili – che in cristo noi tutti possiamo divenire giusti:

Noi siamo – scriveva Paolo – ambasciatori al posto di cristo, come se Dio supplicasse per mezzo nostro. Quali sostituti di Cristo noi imploriamo: Siate riconciliati con Dio. Colui che non conobbe peccato, egli li ha fatto essere vittima del peccato per noi, affinché Dio ci rendesse giusti per mezzo suo (2 Co 5, 20).

In due passi di Paolo appare il termine « dare in balìa a Satana»: così nel caso di Imeneo e Alessandro, due eretici, il cui sbaglio consisteva nel negare la resurrezione corporale per sostenere che essa si era attuata nella interiore trasformazione battesimale (cf 2 Ti 2, 12 s). Si tratta però di un'attività esclusivamente apostolica, non attuata, almeno secondo i dati biblici che possediamo, da altri, nemmeno dalla chiesa. « Per essere liberati (dalla fede e dalla buona coscienza) alcuni hanno naufragato dalla fede; tra di essi Imeneo e Alessandro, che io (= Paolo) ho dato in balìa di Satana perché imparino a non bestemmiare più » (1 Ti 1, 19 s). Come si vede si tratta di un potere riservato all'apostolo, che non può essere svolto nemmeno da Timoteo e, tanto meno, dalla chiesa.

Anche l'altro passo riguardante l'incestuoso di Corinto, presenta un'azione posta sotto la diretta responsabilità personale di Paolo. Dal momento che la comunità lo tollera, anziché allontanarlo, l'apostolo prende lui la decisione e nome della chiesa:

Per conto mio, pur lontano con il corpo ma vicino con lo spirito, ho già condannato, come se fossi presente, chi ha commesso un simile fatto: nel nome del Signore Gesù, essendo riuniti voi e il mio spirito, con il potere del Signore nostro Gesù, quel tale sia dato (= Dio lo lasci) in balìa di Satana per la distruzione del corpo, affinché il suo spirito sia salvo nel giorno del Signore (1 Co 5, 3 ss).

Si tratta di una scomunica che si richiama al « togliete i perversi di mezzo a voi » (Dt 13, 6 citato in 1 Co 5, 13). Che significano le parole « per la distruzione della carne »? Alcuni autori (Godet, Lietzmann, J. Weiss, ecc.) vi vedono la condanna alla morte, come nel caso di Anania e Saffira ad opera di Pietro (At 5). Altri (Cornely) pensano a una punizione corporale da attuarsi da parte di Satana, al quale il colpevole viene dato in balìa con l'autorità apostolica di Paolo. Vi soggiace l'idea che il mondo è diviso in due campi: quello di Gesù e di Satana. Chi non è protetto da Gesù, sta sotto la schiavitù di Satana, il quale infierisce sui suoi anche con malattie o con possessioni demoniache (Ap 2, 21). Coloro che sono in potere di Satana, sono da lui legati (1 Ti 3, 7; 2 Ti 2, 26; cf 1 Ti 6, 9; 2 Pt 2, 20); la paralitica di cui parla Luca e che Gesù guarì di sabato « era tenuta legata (da Satana) per diciotto anni » (Lc 13, 6). Paolo, allontanando assieme alla chiesa, l'incestuoso di Corinto, gli toglie la protezione di Gesù dandolo così in balìa di Satana, che lo può quindi torturare con malattie. Ad ogni modo, anche se Paolo con il suo potere apostolico, dà costui in balìa a Satana, già prima di lui i cristiani avrebbero dovuto essere addolorati « per dover togliere di mezzo a loro chi avesse fatto una simile azione » (1 Co 5, 2); essi avrebbero già dovuto espellere dalla comunità cristiana colui che aveva commesso un'azione così grave da convivere con la sua stessa matrigna.

Va però ricordato che tanto l'attività dei cristiani, quanto quella dell'apostolo Paolo, sono suggerite non dalla brama di punire, bensì da quella di salvare il colpevole. Costui, spinto sia dalla  malattia, sia dai fratelli che più non lo salutano né lo trattano fraternamente come prima, dovrebbe essere mosso a riconoscere il proprio torto, a tornare a Dio e a porsi sotto la protezione di Gesù. Alcuni vorrebbero trovare un segno dell'effetto benefico della sua precedente scomunica nel fatto che Paolo raccomanda di usare indulgenza verso un offensore innominato ( 2 Co 2, 5-11); ma non sembra esatta una simile identificazione perché costui, a quel che pare, avrebbe di recente « rattristato » Paolo e gran parte della comunità sarebbe stata solidale con l'apostolo. Quindi è difficile ravvisarlo nell'incestuoso prima ricordato (1 Co 5).

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5. Non fraternità con il peccatore, perché si ravveda

Nel caso di colpevoli, che possono divenire un cattivo esempio a tutta la comunità, come gli oziosi di Tessalonica che in attesa del finale ritorno di Cristo, da loro ritenuto imminente, non volevano più nemmeno lavorare contro i suggerimenti paolini, l'apostolo scrive di non associarsi con loro: « Tenetevi lontano da costoro ». « notatelo quel tale e non abbiate rapporto con lui » (2 Te 3, 6.14).. Non si tratta ancora di scomunica, perché egli rimane pur sempre un fratello: « Non lo considerate però come un nemico, ma ammonitelo come fratelli » (v. 15). E' il medesimo suggerimento che veniva ripetuto dalla Didaché (1/2 secolo): « Se alcuno ha offeso un fratello, che nessuno gli rivolga la parola, né gli dica nulla, fino a quando si penta » (15, 3). I primi cristiani, riuniti com'erano in piccoli raggruppamenti dalla solidarietà assai viva, risentivano duramente la rottura temporanea delle relazioni sociali.

Il tono diviene ancora più duro con l'eretico: « Quanto all'uomo eretico, dopo una prima e una seconda ammonizione, rompila con lui; un tale individuo come sai è un pervertito che, continuando a peccare, si condanna da sé » (Tt 3, 19 s). Qui non si parla più di lui come di un fratello, bensì come di uno che sta già al di fuori della chiesa; « che si condanna da sé ». Anche Giovanni non vuole che si saluti un eretico, perché « colui che lo saluta partecipa alle sue opere malvagie » (koinonèi tois ergòis autoû tois poneròis, 2 Gv 11). Non si tratta però del saluto odierno, segno di pura educazione, bensì del saluto orientale, pieno di effusione che mostrava una piena solidarietà con il fratello anche nelle sue opere malvagie.

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6. Riammissione nella comunità dei peccatori pentiti

La Bibbia non dice apertamente come i peccatori rimossi dalla comunione fraterna (con la cosiddetta scomunica) vi venivano riammessi. Dall'inciso di Paolo, che suggerisce ai Corinzi di accogliere « quel tale» dopo « la punizione inflittagli dai molti » (vale a dire dalla comunità) e li esorta ad usare nei suoi riguardi « indulgenza perché non abbia a soccombere per una eccessiva tristezza » (2 Co 2, 6), sembra poter dedurre che fosse la comunità stessa ad accogliere quelli che prima aveva espulso, purché si fossero ricreduti.

Da un altro passo (però discutibile) si pensa di poter affermare che Timoteo avesse lui l'incarico di riammettere i peccatori, prima separati dalla chiesa, mediante l'imposizione delle mani. Ecco il brano:

Quelli che persistono nell'errore, riprendili dinanzi a tutti, affinché anche gli altri ne abbiano timore... Non imporre le mani ad alcuno con troppa fretta per non divenire complice dei peccati altrui: conservati puro (1 Ti 5, 10-22).

Di solito vi si vede un invito a Timoteo perché non ordini affrettatamente dei presbiteri indegni, per non dover poi portare la responsabilità dei loro eventuali peccati futuri. Tuttavia dal momento che delle qualità necessarie ai vescovi-presbiteri, l'apostolo aveva già parlato prima a sufficienza (cap. 3, 1-10), non si vede il motivo per cui l'apostolo abbia a ritornarci sopra in questo brano. Il contesto sembra invece riguardare il peccato (v. 19), che riguarda tre gruppi di persone: anziani di età (5, 1 s), vedove (vv. 3-16), presbiteri (vv. 17 ss); da ultimo Paolo si ferma a parlare dei peccatori in generale (vv.. 20 ss). Come ben scrive lo Zerwick, l'imperativo presente «non farti partecipe » (koinònei) sembra indicare peccati già commessi e non eventuali colpe future. Il monito è rivolto a Timoteo, perché, quale rappresentante di Paolo, si prenda cura di una chiesa non ancora perfettamente organizzata, con vescovi non del tutto coscienti, tant'è vero che egli riceve delle orme sul modo di scegliersi i vescovi degni e deve essere cauto nel ricevere accusa (che quindi vi erano) da parte della comunità contro i presbiteri che vanno anzi onorati se agiscono bene.

Ad ogni modo si deve ricordare che l'imposizione delle mani era allora, tra l'altro, un rito di aggregazione alla comunità, non un sacramento per donare il perdono dei peccati: essa riguardava la comunione con i fratelli non con Dio. Coloro ai quali Timoteo imponeva le mani dovevano essere già in amicizia con Dio, non avere più peccati (quindi dovevano già aver avuto il perdono direttamente da Dio) perché solo in tale caso Timoteo non si sarebbe reso partecipe di peccati ormai inesistenti. Se invece i peccati ancora sussistevano, Timoteo non avrebbe dovuto imporre le mani, perché anziché dare lui il perdono con tale mezzo, lui pure ne sarebbe divenuto partecipe. L'imposizione delle mani non dava quindi il perdono dei peccati a nome di Dio, ma presupponeva già esistente tale perdono, per cui, una volta che il peccatore era stato ristabilito in armonia con Dio, poteva entrare in comunione anche con i fratelli, figli tutti di Dio.

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7. Conclusione

La Bibbia non accenna affatto al potere di perdono concesso a nome di Dio da parte di una particolare categoria di cristiani. Tutti i credenti hanno responsabilità verso i loro fratelli, che devono aiutare, se colpevoli, con la preghiera e l'incoraggiamento personale. I colpevoli possono (non « devono »!) confessare i propri peccati alla comunità o a qualche fratello più maturo e del quale hanno fiducia, non a una particolare categoria di cristiani creata apposta da Gesù con poteri superiori a quelli degli altri cristiani. Si possono confessare, non per ottenere l'assoluzione o il perdono dei peccati a nome di Dio (solo Dio può dare il suo perdono!), ma solo per chiedere e ottenere preghiere e incoraggiamento. Si devono particolarmente confessare al fratello da loro offeso (anzi è « l'offeso stesso che li deve per primo ricercare ») e costui ha il dovere di perdonare non solo sette volte ma settanta volte sette, vale a dire per sempre. L'unica condizione per ottenere il perdono dei peccati è il pentimento congiunto con la vera conversione e il ricorso all'avvocato divino, Cristo Gesù, l'unica persona priva di peccato.

Quando la Bibbia dice che Dio si dimentica dei peccati commessi, vuol dire che non intende più punirli, che tratta l'uomo come se non li avesse commessi. Pur sapendo che il peccato, una volta compiuto non può essere reso inesistente, il cristiano non cade in preda alla disperazione come Giuda, perché Dio non gli appare più il contabile che tiene accuratamente il bilancio delle coscienze, bensì colui che per vie misteriose adopera lo stesso male per realizzare il progresso della signoria divina (« regno di Dio »). Il cristiano sa per esperienza personale che « la benevolenza di Dio e il dono conferito per mezzo di Gesù Cristo è superiore » ad ogni colpa umana (Rm 5, 15). Ne sgorga quindi un grande amore, che, anziché esserne causa è segno del perdono conferito: « Colui che poco ha ricevuto poco ama, ma chi ha ricevuto molto, ama grandemente! » (cf Lc 7, 47). Quindi i grandi peccatori pentiti sono quelli che meglio amano Gesù e il Padre. « Io ti amo, Signore – scrive Agostino l'ex-peccatore africano divenuto poi vescovo di Ippona – e ti ringrazio. Io lodo il tuo nome per avermi perdonato opere orrende e malefiche; io debbo alla tua grazia e alla tua misericordia d'aver fatto sciogliere i miei peccati come il ghiaccio che si fonde al tepore del sole luminoso » (Agostino, Confessioni 11, 7).

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