GENESI
- LA STORIA PATRIARCALE
ABRAMO (Ge 12, 1 - 25, 11)
VISITA DI DIO AD ABRAMO - RINNOVO DELLA PROMESSA
DI UN FIGLIO A SARA - PREANNUNCIO DELLA DISTRUZIONE DI SODOMA
(CAP. 18)
Visita di Dio ad Abramo (vv
1-16)
Il racconto di questo capitolo ci viene tramandato
dalla tradizione Javista che ha amalgamato assieme alcuni racconti che
all'origine dovevano essere indipendenti. La manifestazione di Jahvé
sotto forma di tre uomini é alquanto strana ed assolutamente unica
nell'A.T.. La domanda che molti si sono posti é quella di sapere se
Dio é apparso ad Abramo assieme a due messaggeri (angeli?), come
scorta d'onore, oppure se dobbiamo considerare tutti e tre questi uomini
come manifestazione di Jahvé. A favore di quest'ultima ipotesi sta
il fatto che insieme dicano di accettare l'invito di Abramo e tutti e tre
insieme chiedano notizie su Sara. In realtà siamo qui di fronte ad
una di quelle narrazioni largamente diffuse presso tutte le civiltà,
nelle quali si tratti della visita di un essere divino agli uomini: «Poiché anche gli dei beati, sotto l'aspetto di viaggiatori stranieri
e assumendo le più svariate sembianze, se ne vanno in giro per campagne
e città, a spiare le malefatte dei mortali come le loro opere buone» (Odissea, 17, 485-87). Particolarmente affine alla nostra narrazione
é la leggenda della visita che i tre dei: Zeus, Posidone ed Ermete
fecero in Beozia a Ireo, anch'egli senza prole, e dopo averne avuto cortese
ospitalità, fecero sì che avesse il figlio tanto desiderato,
cioè Orione, che venne al mondo dopo dieci mesi. Una così
palese affinità fa supporre che tale leggenda sia in qualche modo
in rapporto con nostro racconto o meglio con uno dei suoi stadi precedenti,
anche se noi oggi non siamo in grado di individuarne il filo che li unisce.
Simili narrazioni ebbero fortuna di preferenza nelle epoche per le quali l'ospitalità
è tenuta in grande considerazione. Una caratteristica di tutte queste
narrazione é la prova a cui viene sottoposto l'uomo di fronte allo
straniero di cui, almeno all'inizio, non si conosce l'identità. A
tal proposito va ricordato il passo di Ebrei 13, 2 in cui appunto si accenna
ad una simile situazione. Evidentemente Israele ha fatto proprio un episodio
narrato dai precedenti abitatori della Palestina, attribuendolo al capostipite
Abramo. Così un po’ alla volta questo motivo si é sviluppato
entro l'ambito della religione di Jahvé. Soltanto Jahvé poteva
essere la divinità che ha fatto visita al patriarca Abramo. Pur essendo
chiaro nella frase introduttiva che si tratta nient'altro che di Jahvé,
rimane tuttavia oscuro il rapporto che qui ha Jahvé con i tre uomini.
Rimane infatti poco chiaro se questa mancanza di precisione sia dovuta
ad una specie di esitazione da parte dell'autore di fronte ad una tradizione
antichissima, risalente ancora al periodo preisraelitico, o piuttosto se
non risponda ad un suo particolare punto di vista, circondando la persona
di Jahvé col velo di un misterioso incognito. Inoltre con l'inviare
a Sodoma gli altri due (Ge 19, 1 ss.), essa offriva al narratore la possibilità
di presentare in forme differenti l'azione di Dio sulla terra. Anche se
la chiesa primitiva vide nei "tre" visitatori un'allusione alla Trinità,
tale spiegazione venne ben presto abbandonata, sia per l'origine profana
del racconto, sia perché questo modo di apparire di Jahvé
é del tutto unico nell'A.T. D'altra parte il nostro narratore ha
utilizzato questo numero di tre, che ha trovato nella sua fonte antichissima,
per rappresentare l'azione divina in una forma unitaria, ma insieme differenziata
nelle persone.
Anche se il lettore, grazie alla frase di introduzione, sa già
chi sia il vero autore di quella strana visita, la formula marcatamente
anodina «tre uomini» ha il compito
di fargli guardare i tre nuovi venuti con gli stessi occhi ignari di Abramo.
Il luogo é Ebron e più precisamente il querceto di Mambre,
un santuario assurto più tardi a larga fama. Abramo siede alla porta
della tenda, che, conforme ad un uso antico ancora oggi in vigore, si trova
sempre un poco discosta dalla strada. Il fatto avviene nell'ora calda del
mezzogiorno, nella quale si suole riposare. Così lo Javista con una
sola frase ci ha informato delle circostanze di luogo e di tempo, mettendoci
innanzi un quadro vivace e ricco di particolari che invano cercheremo in
tutta la storia di Abramo secondo la tradizione sacerdotale (Cap. 17). L'apparizione
avviene ad un tratto. Abramo non li ha visti neppure arrivare. "Il divino arriva sempre di sorpresa", osserva acutamente il
Gunkel. Il patriarca si affretta incontro a loro, per fermarli al passaggio,
ma essi hanno già mostrato arrestandosi di gradire una sosta. L'invito
di Abramo che usa la terza persona é pieno di deferenza, ma nello
stesso tempo pressante. I masoreti hanno considerato il discorso come già
rivolto a Dio stesso e hanno messo la punteggiatura in tal senso. Ma come
poteva qui Abramo aver già riconosciuto Jahvé? Bisogna perciò
leggere non "Signore mio", ma piuttosto "Mio signore", mentre l'espressione "ho trovato
grazia" é da considerare senza dubbio un'espressione di cortesia,
ma per il lettore che sa già tutto, essa contiene un sottile doppio
senso. Con l'invito esuberante di parole cerimoniose contrasta in maniera
molto spiccata la risposta breve che sembra quasi data per accondiscendenza.
I preparativi vanno certo al di là di ciò che era stato
modestamente offerto in un primo tempo
«un po’ d'acqua
ed un boccone di pane». Abramo ha messo in moto con la sua premura
tutti gli abitanti della tenda. Impastare e cuocere il pane é compito
delle donne, mentre agli uomini spetta di preparare le carni. Vediamo perciò
Abramo, dopo aver dato ordini alle donne, correre verso l'armento ed occuparsi
poi del bere e di qualche altro alimento in aggiunta. Durante il pasto
Abramo attende rispettosamente in piedi e così ritorna la calma
sulla scena. Agli antichi esegeti é parso piuttosto sconcertante
che Jahvé abbia preso del cibo per «rinfrancare il cuore». Dobbiamo considerare questo marcato
antropomorfismo come una libertà che si é preso qui l'autore
contrariamente al suo solito.
Gli ospiti vanno diretti allo loro scopo senza tanti discorsi. É
strano che siano al corrente del nome di Sara e della sua sterilità;
ancor più strana la promessa di un figlio. Sara sta all'erta nella
tenda e origlia. Quel che Sara ode non può che divertirla e in
maniera alquanto cruda essa respinge la prospettiva come assurda. Gli
ospiti rivelano ancora una volta di sapere divinamente tutto, rimproverando
a Sara i suoi pensieri, mentre, come il narratore fa notare con intenzione,
non hanno certo potuto né vedere né udire nulla. Le riflessioni
di Sara in bocca alla divinità si spogliano inaspettatamente della
loro crudezza. La narrazione tocca il suo apice con la frase: «Vi é forse qualcosa che sia troppo difficile per l'Eterno?». Queste parole stanno nell'intero episodio come una gemma nella
sua incastonatura preziosa, e nella loro portata altissima si levano al
di sopra del modesto ambiente familiare del racconto per testimoniare
l'onnipotenza del volere salvifico di Dio. Il contrasto é messo
in forte risalto. Prima quel riso incredulo e forse anche un po' sgraziato,
ora la parola che biasima con sdegno una mentalità incapace di fidarsi
della onnipotenza di Dio. Certo Sara non ha contraddetto in cuor suo Jahvé
per principio e rendendosi conto della sua mancanza. Il suo riso rimane
un fatto accidentale, ben comprensibile psicologicamente, ed é così
che si manifesta assai spesso l'incredulità. Questo modo davvero
magistrale di trattare la vicenda tenendo conto dei fattori psicologici
non induce tuttavia il narratore a scusare Sara per non aver riconosciuto
il vero essere dei visitatori. Tanto per il narratore quanto per il lettore
il dato di fatto incontrovertibile e in ultima analisi decisivo, é
che si sia riso della parola di Jahvé. Sotto questo aspetto la mentalità
che spira nel racconto é assolutamente antica. Sara messa allo scoperto
dai visitatori, lascia ora il suo nascondiglio, e piena di confusione nega
avventatamente. La motivazione di questa sfacciata bugia «perché ebbe paura» é una di quelle fini motivazioni
psicologiche che troviamo così spesso nello Javista (Ge 3, 10). Il
contrasto fra l'atteggiamento di questa donnetta che, sgusciata fuori piena
di spavento, cerca di cavarsela con una bugia e la secca smentita di Jahvé
chiudono con efficacia e gravità tutta la scena. Gli ospiti che dal
principio alla fine hanno conservato una dignità austera si alzano
e se ne vanno. Nella maniera decisa ed affrettata del congedo si avverte
qualcosa che prelude al grave scopo cui ora é diretto il loro cammino.
Conclusione.
Da una parte il nostro racconto, come abbiamo accennato, introduce
direttamente a ciò che segue. Il nome di Sodoma é già
stato fatto e con esso compare nella chiusa medesima della pericope un
motivo di interesse nuovo e vivo. La serie dei fatti, che hanno per centro
la comparsa di Jahvé sulla terra, non é ancora esaurita.
D'altra parte si ha l'impressione che col v. 16 si arrivi in un certo senso
a una conclusione e abbiamo visto che la battuta di arresto che si fa
a questo punto é in relazione con la storia antecedente dei vari
nuclei narrativi che ora compaiono intrecciati insieme, a formare una
grande composizione. Bisogna ammettere che in uno stadio molto più
antico, quando il nostro episodio era ancora a sé stante, fu proprio
qui che la promessa di un figlio venne fatta ad Abramo per la prima volta.
Ma poi, quando il racconto fu inserito nel grande complesso delle vicende
di Abramo, la sua portata sotto questo aspetto si fece profondamente diversa
poiché nessuno poteva leggere la promessa del v. 10 senza metterla
in relazione con Ge 12, 2 e 13, 6; 15, 18. Con la ripetizione, anzi col magnifico
accrescersi della promessa stessa, contrastava la posizione materiale di
Abramo. Dopo la sua migrazione a Canaan, le porte della realizzazione non
si erano affatto spalancate, anzi qui lo aveva accolto una carestia. La constatazione
della sterilità parve escludere Sara dal poter essere madre e la
scappatoia usata per arrivare ad un erede della promessa mediante Agar
non aveva trovato consenso in Jahvé. Infine la vecchiezza stessa
di Abramo aveva demolito ogni speranza a giudizio umano. Ma ecco che Dio
si mette in cammino e rinnova la promessa in una forma ora perfettamente
precisa «fra un anno». Questa linea
della narrazione, che a dire il vero nel testo attuale é alquanto
disturbata dal racconto parallelo della redazione sacerdotale che precede
a Ge 17, 15, mette in evidenza un grave problema. Il ritardo dell'adempimen-to
della promessa, fino a farla apparire completamente irrealizzabile. D'altra
parte i racconti rivelano un vivo interesse per l'atteggiamento umano, per
tutte le tentazioni cui vanno incontro gli uomini proprio nella loro qualità
di detentori della promessa. Nel nostro episodio Sara col suo riso dà
risalto ad Abramo che invece ascolta, muto (la donna come figura di contrasto
con valore negativo é un elemento molto usato per la drammatizzazione;
cfr. Gb 2, 9). Bellissimo é questo silenzio di Abramo che lascia
libero corso ai più diversi pensieri. Fino a qual grado di certezza
il patriarca sia giunto, dopo il primo affiorare di un certo presentimento,
é una questione che resta in sospeso. Il narratore conserva un delicato
velo di mistero non facendo dire da nessuna delle persone interessate una
parola che serva veramente a identificarle (un po' come Gdc 6, 22; 13, 21
s.). Ciò che il racconto vuol mostrare é che Abramo Ha avuto
di fronte agli stranieri un comportamento esemplare. Senza che la promessa
di un figlio cessi di essere un vero dono, é tuttavia significativo
che colui che lo riceve debba prima dar prova sicura di osservare i più
che elementari comandamenti di Dio.
Soliloquio di Dio (vv. 17-19)
Quando abbiamo detto più sopra e cioè che al v. 16 si
deve riconoscere la fine di una unità narrativa che in origine
era indipendente, ci induce a chiederci dove cominci il successivo dei
nuclei ora fusi nel grande insieme della storia di Abramo. Il breve soliloquio
di Jahvé non può aver rappresentato mai un episodio per
sé stante, dato che presuppone ciò che precede e ciò
che segue. Lo stesso dobbiamo dire del famoso dialogo che segue (vv. 20-33)
che anche per la sua povertà di azioni e la sua concentrazione su
un motivo dottrinale astratto non può in nessun modo essere ritenuto
una entità leggendaria antica come il racconto di Ge 19, 1 ss. Ci
troviamo quindi davanti a questo dato di fatto. Fra i due grandi blocchi
di Abramo = Mambre e Lot = Sodoma sono state inserite due pericopi più
brevi, aventi per argomento un discorso, le quali non risalgono certo ad
una tradizione altrettanto antica e sono quindi atte a rivelarci i pensieri
del nostro compilatore molto meglio dei lunghi racconti nei quali egli
si trovava inchiodato alla tradizione fin nella espressione verbale.
Si tratta in questa pericope di una importante questione teologica:
Dio non vuole che Abramo si renda conto del terribile fatto di Sodoma
solo dall'esterno. A lui, che ha chiamato ad un rapporto di intimità,
Dio vuole confidarsi, perché gli sia chiaro anche l'intervento
di Dio nella storia, che rimane di solito celato agli uomini; egli invece
deve capire quel che accadrà a Sodoma. Il motivo di questo singolare
volere di Dio é espresso particolarmente dal v. 19. Abramo ha un
mandato di magistero verso i suoi discendenti e la catastrofe di Sodoma assume per tutte le età un valore di esempio e di ammonimento (2
Pt 2, 6).
Colloquio di Abramo con Dio (vv. 20-33)
Il mistero degli ospiti che Abramo accompagna viene ora chiarito.
Jahvé, nella frase con la quale introduce il patriarca nell'intimità
dei suoi pensieri, si rivela come colui che presiede alla giustizia in
tutti i paesi. Ciò comunque appare del tutto naturale, perché
dopo i fatti di Mamre non ci poteva più essere alcun dubbio in Abramo
circa l'identità dei suoi ospiti. Una grave lagnanza è giunta
a Jahvé su Sodoma e Gomorra. "Lagnanza" è un termine tecnico
del linguaggio giuridico e indica l'invocazione di aiuto che lancia colui
che è danneggiato nel suo diritto con un atto di violenza (Gr 20,
8; Ha 1, 2; Gb 19, 7). Con tale grido ci si appellava alla protezione del
corpo giuridico. Qualora poi questo non udisse o non vi rispondesse
immediatamente,
esso giungeva al cospetto di Jahvé, vindice di ogni diritto violato.
Vedi, ad esempio, il sangue di Abele che grida a Dio dalla terra (Ge 4, 10).
Comunque non si tratta ancora di punire Sodoma, ma di fare una inchiesta
sul caso che si presenta grave.
Al v. 22 ci troviamo di nuovo di fronte al problema del rapporto di
Jahvé con i tre uomini e sembra che questa volta sia possibile
porlo in maniera più chiara che non in Ge 18, 1-16. Due infatti
si dirigono verso Sodoma, mentre Jahvé resta indietro da solo. Molto
probabilmente il narratore si trova di fronte ad una narrazione relativamente
più recente ed ha quindi maggiore libertà di espressione. Il
rapporto però non è spiegato nel senso di un "due" e di "uno"
che si escludono. In Ge 19, 13 i due parlano infatti come se fosse Jahvé
e ancora più chiaramente questo avviene in Ge 19, 21ss. Del resto
Jahvé stesso aveva detto di voler scendere a Sodoma (Ge 18, 21);
proposito questo che non viene affatto abbandonato o che è divenuto
impossibile a causa della separazione dai due. Comunque non si deve a tutti
i costi voler trovare una spiegazione razionale. L'importante è che
Jahvé abbia visitato personalmente Abramo e ricorra invece ai due
messaggeri per trattare il caso di Sodoma.
Al v. 23 si svolge un colloquio molto interessante fra Jahvé
e Abramo: I due si trovano su una delle alture ad Est di Ebron da dove
si scorge in lontananza nella vallata sottostante la città peccatrice,
ancora completamente ignara di quanto le sta per accadere. Questo colloquio
certamente tende a mettere in risalto che la giustizia di Dio non ignora
il perdono. È prevalente in Dio la volontà di salvare piuttosto
che quella di punire. Tanto è vero che un esiguo numero di innocenti
agli occhi di Dio conta più di una maggioranza di colpevoli. Il dialogo
si interrompe ad una cifra di «dieci innocenti». Ma dietro
al silenzio di Abramo, cioè alla sua rinuncia a scendere ancora
più giù, dai dieci giusti fino ai cinque e fino all'uno,
non c'è l'intenzione di interrompere la conversazione lasciando
aperto il problema. Con la risposta di Jhavé al versetto 32 è
chiaro che per Abramo è stata raggiunta ormai una posizione finale
ed estrema, oltre la quale non viene neppure in mente al patriarca di
interrogare ancora, perché la risposta sarebbe stata sempre la
stessa indipendentemente dal numero degli innocenti. Il questo modo il
racconto si inserisce molto bene nello spirito delle intenzioni di Dio
le quali sono tutte rivolte ad operare la salvezza dell'umanità
(Is 53) piuttosto che la sua punizione. Dopo una simile disponibilità
al perdono, si deve necessariamente riconoscere che il verdetto su Sodoma
è pienamente giustificato.