INTRODUZIONE AI VANGELI
CAPITOLO VIII°

IL VANGELO SECONDO GIOVANNI
Influssi nel pensiero del quarto vangelo

La cosa che colpisce subito il lettore del quarto vangelo è la profonda differenza con la quale viene presentata la figura di Cristo ed il suo insegnamento rispetto ai sinottici. In modo particolare si è colpiti dal fatto che nello scritto giovanneo Cristo appare in tutta la sua divina grandezza che lo colloca al di sopra del tempo e delle opposizioni degli uomini che lo circondano. Cristo infatti si esprime con un linguaggio astratto e concettuale, caratterizzato da formule proprie, come, ad esempio, le formule proprie di rivelazione: « Io sono ».

Poiché qualsiasi autore, anche se ispirato, nel suo modo di esprimersi e di comunicare il suo pensiero, non può prescindere dai condizionamenti di un certo ambiente culturale e religioso in cui vive, è interessante anzitutto esaminare in quale misura egli ne sia stato influenzato.

Le più importanti correnti di pensiero sono lo gnosticismo , l’ellenismo ed il giudaismo . Vediamo perciò di esaminare più da vicino queste correnti di pensiero per poter stabilire se ed in quale misura esse possono aver esercitato una certa influenza sullo scritto giovanneo.

Gnosticismo

Essendo i termini " gnostico" e "gnosticismo " troppo vaghi e generici in quanto comprendono i più svariati sistemi di pensiero, cercheremo di dare ad essi un significato ben preciso dal punto di vista storico. Quando parliamo di gnosticismo dell’ epoca apostolica e sub apostolica dobbiamo anzitutto distinguere due tipi di gnosticismo:

a) Uno gnosticismo cristiano di cui abbiamo notizie attraverso gli scritti antieretici di Ireneo e di Ippolito. Si tratta di quel complesso amorfo di sistemi e di interpretazioni religiose conosciuto e combattuto dai Padri della Chiesa, che, essendo posteriore a Giovanni, non può aver esercitato su di lui alcuna influenza.

b) Uno gnosticismo precristiano di cui ci occuperemo in modo particolare e che cercheremo di ricostruire dalle fonti posteriori, almeno nelle sue caratteristiche essenziali.

1) Dati essenziali che caratterizzano lo gnosticismo precristiano

Dobbiamo anzitutto dire che questo gnosticismo ha soprattutto un carattere sincretistico. Che cosa vuol dire? Vuol dire che in esso si riscontra un miscuglio di elementi fra i più disparati. Si trovano infatti mescolate tra loro tradizioni e miti orientali, dottrine iraniche, idee religiose e filosofiche del mondo greco; successivamente questo gnosticismo ha assorbito anche elementi giudaici e cristiani.

Lo gnosticismo si fonda soprattutto sul dualisno che concepisce la realtà cosmica divisa in due mondi separati e distinti: spirito e materia, luce e tenebre, bene e male, ciò che è sopra e ciò che è sotto. Lo gnosticismo pone dei mediatori tra questi due mondi separati e distinti in modo da stabilire un rapporto tra di essi. Questi esseri intermedi, diversi per nome e per numero nei vari sistemi gnostici, sono gli eoni, tra i quali è annoverato anche il Logos.

In questa prospettiva lo gnosticismo elabora una dottrina della redenzione che è possibile unicamente attraverso la conoscenza speculativa (la gnosi), la quale è forza ed energia che redime. L’oggetto principale della gnosi sono le realtà supercosmiche, quelle cioè che stanno in alto, fuori dal mondo della materia.

Gli gnostici poi si caratterizzano per il loro insegnamento che ha lo scopo di indicare all’uomo il modo di sottrarsi al mondo della materia e alle potenze del male per essere in grado di raggiungere le realtà superiori e l’immortalità.

Questi tratti sommari con i quali abbiamo cercato di indicare le caratteristiche base dello gnosticismo non rendono certamente l’idea delle sue dimensioni dottrinali, ma ci danno soltanto un’idea del sincretismo e della complessità del movimento gnostico. Questi pochi tratti ci permettono comunque di valutare se, e in quale misura, questo movimento abbia potuto incidere nel pensiero di Giovanni.

2) Giovanni e lo gnosticismo

Nel quarto evangelo è facile osservare come l’autore distingua nettamente due ordini di realtà in contrasto fra loro e che vengono indicate con varie espressioni abbinate, quali: luce e tenebre (Gv 1, 5; 8, 12; 12, 46), spirito e carne. Tra questi due ordini di realtà vi è un’irriducibile opposizione. In Gv 3, 6 troviamo infatti scritto: « Ciò che è nato dalla carne è carne, ma ciò che è nato dallo Spirito è spirito »; oppure in Gv 8, 23 «Ed egli disse loro: "Voi siete di quaggiù, mentre io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo" »
I discorsi del quarto vangelo sembrano poi dei discorsi di tipo gnostico nei quali, ad esempio, Cristo afferma di essere la luce che è venuta nel mondo (Gv 1, 9; Gv 8, 12) e la via che conduce al Padre (Gv 14, 6).

Da tutte queste espressioni alcuni studiosi hanno pensato che nel vangelo di Giovanni vi sia una reale dipendenza ed uno diretto condizionamento dallo gnosticismo. Infatti essi affermano che proprio per questo motivo il vangelo è stato molto utilizzato dallo gnosticismo cristiano.

Va tuttavia osservato che se lo gnosticismo cristiano presenta delle strette parentele sul piano espressivo con il quarto vangelo, esso è radicalmente differenziato sul piano teologico, in quanto non vi è traccia in questo gnosticismo di una redenzione operata per mezzo di Gesù Cristo. Lo stesso dualismo di Giovanni non ha nulla di gnostico in quanto è sostanzialmente etico e non cosmologico, assai più vicino forse a quello predicato fra gli Esseni che opponevano la luce alle tenebre, la verità alla menzogna, la morte alla vita. Si tratta insomma di un dualismo di decisione. Il credente viene posto fra due alternative perché decida a quale delle due vuole appartenere. Infatti Giovanni non si sofferma a speculare sulle origini delle tenebre e del male come fanno gli autori gnostici.

Possiamo quindi affermare che le espressioni gnostiche usate da Giovanni nel suo vangelo più che dipendere dal pensiero gnostico sono semplicemente delle espressioni letterarie dettate dalla necessità di farsi comprendere nell’ambiente in cui sia l’autore che i suoi lettori vivevano. Le espressioni quindi che richiamano le dottrine gnostiche riflettono il clima generale del pensiero religioso di quel momento. Ma questo pensiero religioso dominante allora ha agito in modo sostanzialmente diverso su Giovanni da una parte e sugli gnostici, suoi contemporanei, dall’altra come è possibile constatare facendo un serio confronto fra il quarto vangelo e gli scritti dello gnosticismo cristiano.

C’è inoltre da notare che le espressioni del quarto vangelo, che potrebbero farci pensare ad una loro provenienza dallo gnosticismo, possono essere spiegate con le riflessioni che gli autori dell’Antico Testamento (in particolar modo gli autori dei libri sapienziali) hanno compiuto sulla Sapienza e con il pensiero giudaico attestato dai manoscritti di Qumran con i quali Giovanni sembra avere in comune il dualismo morale, come abbiamo già detto.

Ellenismo

L’opera del quarto vangelo, per la correttezza della lingua greca, per il vocabolario e per l’impostazione del pensiero, può far pensare all’influenza dell’ambiente ellenistico. Tuttavia quando si parla di ellenismo in Giovanni, come anche nell’ambito più vasto degli scritti neotestamentari, occorre specificare il genere di ellenismo che entra in questione.

Il problema dell’ellenismo nel quarto vangelo può essere posto in due modi essenzialmente diversi:

a) Ci si può infatti domandare se l’autore di questo scritto abbia subìto direttamente l’influsso del pensiero e della cultura ellenistici assimilandoli a tal punto da reinterpretare il messaggio evangelico alla luce dei concetti e dei termini del mondo culturale ellenistico;

b) oppure se egli invece dipenda dal giudaismo ellenistico, cioè da quel giudaismo che prima di lui aveva già assorbito molti elementi della cultura ellenistica e che, pur esprimendosi con le concezioni e con il vocabolario di questa cultura, era rimasto fondamentalmente fedele all’integrità della religione ebraica, come, ad esempio, è avvenuto per l’autore del libro della Sapienza.

Quindi se dobbiamo esaminare il problema degli influssi della cultura ellenistica sul pensiero di Giovanni, dobbiamo soffermarci su questi tre aspetti principali:

1) Giovanni ed il pensiero filosofico greco.
2) Giovanni ed il giudaismo ellenistico.
3) Giovanni e gli scritti ermetici.

1) Giovanni ed il pensiero filosofico greco

Molti studiosi hanno parlato di influssi del pensiero filosofico greco sul quarto evangelista e sono giunti alla conclusione che lo scritto di Giovanni presenta tracce manifeste di questo pensiero.

Data l’importanza e l’ampiezza del problema, occorre esaminarlo nei suoi due aspetti fondamentali:

a) In primo luogo è necessario precisare la natura degli influssi della filosofia greca nel contenuto del vangelo di Giovanni.

b) In secondo luogo, considerato il posto che occupa Filone Alessandrino nell’opera di sintesi tra il pensiero ebraico e quello ellenistico, è opportuno fare anche un accenno ai rapporti tra il quarto evangelista e lo scrittore alessandrino.

a) La filosofia greca ed il quarto vangelo

Alcuni studiosi ritengono che il quarto vangelo racchiuda delle concezioni e delle espressioni che sono caratteristiche della filosofia greca in generale e del platonismo e dello stoicismo in particolare.

Il contrasto così marcato che il quarto evangelista pone tra ciò che è sopra e ciò che è sotto (Gv 3, 31), tra lo spirito e la carne (Gv 3, 6; 6, 63), tra la vita eterna e la vita fisica (Gv 11, 25-26), tra il pane del cielo (Gv 6, 32) ed il pane naturale, tra l’acqua di vita eterna e l’acqua naturale (Gv 4, 14), ha fatto pensare ad un influsso della filosofia platonica, oppure ad un’applicazione a livello popolare delle concezioni platoniche. Infatti la concezione platonica distingue un duplice mondo: un mondo invisibile delle idee (realtà) eterne che si trovano nella mente divina ed un mondo visibile delle apparenze che è il mondo di quaggiù. Un influsso platonico è stato anche visto nel termine " verità" ( alhqeia) così caratteristico di Giovanni.

L’uso del termine Logos nel prologo di Giovanni ha indotto vari studiosi a vedere una dipendenza di Giovanni dallo stoicismo. Per gli stoici infatti il Logos si identifica con il pensiero di Dio che si trova in ogni essere ed ha il compito di dirigerlo e di guidarlo.

Va rilevato tuttavia che nello stoicismo il Logos rientra in una concezione panteistica di Dio secondo la quale Dio si identifica con la natura stessa. Nella misura in cui l’uomo riesce a cogliere questa presenza di Dio nella natura e vivere secondo il Logos, cioè secondo il pensiero di Dio, egli stesso diventa figlio di Dio.

C’è inoltre da aggiungere che questi supposti influssi del platonismo e dello stoicismo sul quarto vangelo si possono spiegare se pensiamo al giudaismo ellenistico, come avremo modo di vedere meglio in seguito.

b) Giovanni e Filone Alessandrino

Filone Alessandrino è il rappresentante di quei Giudei della diaspora, i quali vivendo in centri di cultura e civiltà ellenistici, sono stati profondamente impressionati da esse ed hanno cercato, pur rimanendo sostanzialmente fedeli alla religione ebraica, di compiere una sintesi tra il giudaismo e l’ellenismo.

Numerosi critici sostengono che il Logos di cui parla Giovanni è una derivazione del pensiero di Filone. Anche le immagini dell’A.T., che ricorrono nel quarto vangelo (scala di Giacobbe, serpente di bronzo, visione di Abramo) richiamano le immagini bibliche che lo scrittore alessandrino utilizza nel suo insegnamento sul Logos.

Infine anche il simbolismo di Giovanni è considerato come una derivazione del simbolismo di Filone; infatti in ambedue gli scrittori questo simbolismo trova un ampio uso. Filone considera Dio come luce; ora come la luce si manifesta direttamente perché splende per sé stessa, così Dio, essendo in sé stesso luce, si manifesta direttamente. Secondo il quarto evangelista Gesù è considerato come luce del mondo; di conseguenza Gesù, essendo luce divina in sé, rende vera te-stimonianza a sé stesso, egli infatti conosce donde viene e dove va (Gv 8, 12-14). Lo stesso scrittore alessandrino afferma che Dio è come una sorgente dalla quale sgorga acqua viva; anche Giovanni parla di Gesù come « acqua viva» e come « fonte d’acqua che zampilla in vita eterna» (Gv 4, 10.14. Secondo Filone Dio è pastore; Giocanni da parte sua parla di Gesù quale pastore che conduce il gregge (Gv 10, 1-16).

Le somiglianze esistenti tra Filone e Giovanni non vanno però necessariamente spiegate con una dipendenza del secondo dal primo; tali somiglianze infatti potrebbero trovare una spiegazione migliore se si ammette una comune dipendenza dei due autori dall’A.T. e particolarmente dalla letteratura sapienziale veterotestamentaria. Dalla riflessione sui fatti dell’A.T. e dalle riflessioni compiute dai saggi veterotestamentari hanno avuto origine quelle idee e quei simbolismi che successivamente hanno trovato uno sviluppo parallelo negli scritti di Filone e in vari scritti (o parte di essi) del N.T., tra i quali si distinque il vangelo di Giovanni.

Vanno inoltre segnalate le radicali differenze che rivelano delle distanze incolmabili tra i due scrittori. Filone ama illustrare la Scrittura ed i suoi insegnamenti con un linguaggio dichiaratamente filosofico, poiché lo scopo principale delle sue opere è quello di presentare l’A.T. come un sistema filosofico molto elaborato, nel quale si trovano le verità più elevate del pensiero e della speculazione umana, anche se egli afferma che queste verità così sublimi non sono scoperte o trovate dai filosofi, ma provengono dalla rivelazione del Dio di Israele. Giovanni invece è ben lontano dal proporsi di reinterpretare con un linguaggio filosofico i fatti e le dottrine dell’A.T.; inoltre l’evangelista nelle sue allegorie, si limita ad applicare a Gesù in forma contenuta i dati e le espressioni veterotestamentarie non compiacendosi affatto, come è facile constatare negli scritti di Filone, di elaborare delle allegorie ampie e artificiose.

2) Giovanni ed il giudaismo ellenistico

Per una conoscenza più approfondita del problema dei rapporti tra Giovanni è l’ellenismo è necessario fare un accenno a quello che viene chiamato giudaismo ellenistico e che caratterizza la cosi detta epoca intertestamentaria. Il problema ha la sua importanza, anche per il motivo che gli studiosi non sono concordi nello stabilire le cause del nascere e del diffondersi del giudaismo ellenistico, né nel determinare le aree geografiche nelle quali esso si è manifestato in misura più o meno estesa.

Molti critici e storici per poter spiegare l’origine e l’affermarsi del giudaismo ellenistico, hanno rilevato che non è sufficiente parlare soltanto di influssi ellenistici nel giudaismo, ma si devono pendere in considerazione anche gli influssi del giudaimo sull’ellenismo. Non ci sono influssi in un unico senso o direzione, ma si hanno anche influssi reciproci nei due sensi o direzioni, cioè influssi dell’ellenismo sul giudaismo e viceversa.

Il primo genere di influssi è universalmente ammesso e non ha bisogno di essere provato; il secondo genere invece richiede alcune spiegazioni. In primo luogo Israele ha conosciuto un’attività missionaria nell’epoca postesilica quando si è creata e diffusa la diaspora. Il proselitismo giudaico ebbe il suo più intenso sviluppo ai tempi di Gesù e degli apostoli (Mt 23, 15). Dopo la distruzione del tempio (70 d.C.) e dopo la seconda conquista di Gerusalemme nel 135, incominciò il declino del proselistismo giudaico. Evidentemente la propaganda giudaica faceva conoscere i libri dell’A.T. e le dottrine che essi contenevano. Per questo gli Ebrei si ritenevano, come dice Paolo, « luce di quelli che sono nelle tenebre» (Rm 2, 19).
Dopo queste considerazioni è facile pensare che, in seguito a tale propaganda, le persone colte del mondo ellenistico mostrassero un interesse. Infine la traduzione greca dei Settanta indubbiamente aveva come scopo primario quella di consentire la lettura dei libri sacri agli ebrei della diaspora, tuttavia in modo indiretto ha favorito la conoscenza del giudaismo tra le persone colte ed interessate del mondo greco.

In passato quando in uno scritto neotestamentario si riscontravano influssi ellenistici, tale scritto veniva posto in epoca tardiva e gli si attribuiva un’origine extra-palestinese; ora invece questo pregiudizio è cambiato perché si sono considerati questi reciproci influssi tra questi due mondi tanto diversi, come l’ebraico e l’ellenistico, e si è constatato che l’ellenismo è penetrato nel cuore stesso del giudaismo, cioè a Gerusalemme.

Quindi quando noi parliamo di influssi ellenistici nel quarto vangelo intendiamo riferirci agli influssi del giudiasmo ellenistico. Non si tratta quindi di influssi diretti dell’ellenismo nello scritto giovanneo, come pensano alcuni studiosi, ma di influssi indiretti dell’ellenismo, cioè di quell’ellenismo che era stato già assorbito e filtrato dal giudaismo della diaspora e per di più di quell’ellenismo che a sua volta aveva ricevuto influssi dallo stesso giudaismo. Questo risulterà più chiaro nel paragrafo seguente ed in quello che illustrerà i rapporti fra Giovanni ed i testi qumranici.

3) Giovanni e gli scritti ermetici

Vari studiosi hanno affermato che tra Giovanni e gli scritti ermetici esistono degli stretti rapporti sia sul piano del vocabolario che su quello concettuale.

Vediamo anzitutto di vedere cosa sono questi scritti ermetici. Nel II e III secolo si formò in Egitto un corpo di scritti greci posti sotto il nome di Ermete Trismegisto, un saggio leggendario dell’antico Egitto deificato dopo la sua morte e considerato come l’Ermete egiziano, cioè come il dio Thoth. Tutta questa ricca letteratura tratta di astrologia, di magia e di alchimia. La dottrina contenuta in questi scritti risulta essere un sincretismo di filosofia platonica e stoica e di tradizioni religiose dell’antico oriente. I vari libri della letteratura ermetica sono indipendenti tra loro ed essi in forma dialogica propongono delle concezioni elevate su Dio, sui doveri e sui precetti morali concernenti l’uomo. L’ermetismo è distinto in ermetismo sapiente e in ermetismo popolare: l’ermetismo sapiente è rappresentato dagli scritti ermetici di contenuto filosofico, teologico e morale; l’ermetismo popolare è contenuto nei trattati che si interessano della botanica, della conoscenza delle pietre, dell’astrologia e in genere delle scienze occulte. Gli scritti ermetici qui presi in considerazione appartengono all’ermetismo sapiente. Secondo il principio affermato dall’ermetismo, l’uomo perfetto è quello che possiede la conoscenza delle verità rivelate da Dio.

Anche se gli scritti ermetici risalgono al II e III secolo ed anche ammettendo che qualche autore ermetico abbia conosciuto direttamente o indirettamente il quarto vangelo (diffuso in Egitto agli inizi del II secolo), si deve pensare che la dottrina e gli insegnamenti dei maestri ermetici sono anteriori agli scritti nei quali tali dottrine e insegnamenti sono stati raccolti. Di conseguenza tali dottrine  ed insegnamenti sono state propagandate agli inizi del II secolo, oppure anche a cavallo tra il I ed il II secolo.

Alcuni studiosi hanno fatto un elenco accurato di testi, desunti dal quarto vangelo e dai vari trattaci ermetici che presentano affinità letterarie e coincidenze dottrinali innegabili. Infatti termini come credere, pienezza ( plhroma), spirito, parola ( logoj), unigenito, gloria, mondo, grazia, ricorrono anche in questi testi ermetici. Così anche i binomi "carne-spirito", "terreno-celeste", "vita spirituale e questo mondo". trovano i loro corrispondenti negli scritti ermetici che parlano di "corpo-mente", "alto-basso", "spirito-mondo".

Le corrispondenze verbali e concettuali tra Giovanni e gli ermetici vanno spiegate risalendo a monte di esse, perché sia il pensiero del quarto evangelista sia anche l’insegnamento proposto dagli autori ermetici sono influenzati dall’A.T. e dalle tradizioni bibliche. Non ci può soprendere il fatto che gli autori ermetici conoscano la Bibbia, poiché come è stato già segnalato in precedenza, i pensatori del mondo ellenistico erano interessati alla conoscenza delle dottrine e degli scritti giudaici.
Allo stesso modo risulta ampiamente provato il dato che gli autori sapienziali dell’A.T. e gli scrittori ebrei del tardo giudaismo sono stati influenzati dalle grandi correnti del pensiero ellenistico. Non si può comunque omettere di rilevare le notevoli differenze tra il vangelo di Giovanni e gli autori ermetici. Ad esempio termini assai caratteristici della letteratura ermetica come: gnosi, mistero, immortalità, demiurgo, sono completamente ignorati dal quarto vangelo.

Giudaismo
Gli studiosi sono concordi nell’affermare che il pensiero del quarto evangelista trova la sua migliore e più soddisfacente spiegazione nel giudaismo palestinese del tempo di Gesù. Per conoscere in quale forma e misura il giudaismo del tempo evangelico abbia influenzato l’autore dello scritto giovanneo, è necessario studiare i seguenti aspetti del problema:

1) Giovanni e l’Antico Testamento
2) Giovanni e il giudaismo rabbinico
3) Giovanni ed il giudaismo qumranico.

Il giudaismo palestimese non va considerato come un blocco unico e omogeneo di principi concernenti la dottrina e la condotta pratica della vita, bensì come un complesso di elementi dottrinali e morali diversificati e contrastanti. È proprio l’esame dei rapporti tra il quarto vangelo e queste differenti espressioni del giudaismo che ci consente di chiarire il problema degli influssi del giudaismo palestinese sul pensiero di Giovanni.

1) Giovanni e l’Antico Testamento

Il quarto evangelo rivela una diretta e costante dipendenza dagli scritti dell’ Antico Testamento. Il quarto vangelo, pur presentando citazioni esplicite dall’Antico Testamento in numero inferiore rispetto a quelle dei sinottici, ha presente gli scritti veterotestamentari e li usa molto più di essi. Secondo l’edizione critica del Nestle in Giovanni si riscontrano soltanto 14 citazioni esplicite dall’Antico Testamento; secondo la lista degli autori Westcott-Hort i vangeli presentano il seguente numero di citazioni esplicite dall’A.T.: Giovanni 27, Marco 70, Luca 109, Matteo 124.
Giovanni infatti richiama le grandi tradizioni veterotestamentarie del popolo ebraico ed allude in termini più o meno scoperti a fatti e ad insegnamenti ricordati nell’A.T. in maniera molto più frequente dei vangeli sinottici.

Il quarto evangelista soprattutto rievoca le grandi tradizioni storiche del popolo ebraico trasmesse dall’A.T.: in modo particolare egli ricorda i fatti dell’esodo, quali: la manna (Gv 6, 31ss), l’acqua che scaturisce dalla roccia (Gv 7, 38), il serpente di bronzo (Gv 3, 14). Inoltre egli si richiama a Mosè (cf Gv 1, 17; 5, 46 ecc.) e ai "segni" che il grande legislatore ha operato in Egitto per la liberazione del popolo eletto; fa allusione alla "tenda" del deserto (Gv 1, 14), segno della presenza di Jhwh in mezzo al suo popolo; parla di Gesù con il linguaggio dell’antico profetismo; per l’evangelista infatti Gesù è il Messia, il Servo di Jhwh, il re d’Israele, il profeta, come si legge nell’A.T.

Giovanni nel suo scritto manifesta di aver penetrato ed assimilato i dati e gli insegnamenti veterotestamentari in un modo personale e caratteristico. Egli, nelle allegorie della vite (Gv 15, 1-6) e del buon pastore (Gv 10, 1-16), dimostra di aver meditato e di aver fatto propri i temi sulla vite e sul pastore, toccati dai profeti e dai salmisti, sviluppandoli e portandoli a livello di insegnamento cristologico.

L’evangelista infine citando esplicitamente alcuni passi dell’Antico Testamanto ha voluto sottolineare la potenza evocatrice di essi ed il valore storico della rivelazione di Cristo, la quale è compimento ultimo e perfetto di quella antica (cf Gv 1, 23 con Is 40, 3; Gv 1, 51 con con Gn 28, 12; Gv 2, 17 con Sal 69, 9).

2) Giovanni ed il giudaismo rabbinico

È necessario precisare bene cosa si intende per giudaismo rabbinico perché esso, pur avendo avuto al suo interno influssi ellenistici o comunque estranei all’ebraismo, presenta alcune caratteristiche proprie che lo distinguono dal giudaismo ellenistico di cui il rappresentante tipico è Filone Alessandrino, come abbiamo già visto più sopra.

I testi rabbinici, pur appartenendo all’era cristiana e pur essendo redatti in parte considerevole in epoca tardiva, contengono tradizioni ed insegnamenti come anche rispecchiano situazioni che risalgono al tempo di Cristo e perfino ad un’epoca anteriore. Le tradizioni raccolte negli scritti rabbinici rappresentano quell’eredità sacra del giudaismo del tempo di Gesù, custodita e tramandata dai farisei, i quali sono rimasti tenacemente attaccati alle tradizioni dei padri.

Le tradizioni rabbiniche si interessano di norme pratiche, di forme giuridiche, di casistica e di metodi esegetici per l’interpretazione della Scrittura; tutto questo materiale si trova raccolto nella Mišnah , nel Talmud  e dei midrašim . Anche il quarto vangelo, almeno in qualche parte, va posto in questo sfondo del giudaismo rabbinico; nello scritto giovanneo infatti sono ricordate delle norme giuridiche (Gv 5, 10; 5, 31ss; 7, 51; 8, 17), ricorrono delle forme dialettiche (Gv 1, 51; 7, 22ss; 8, 56; 10, 32-36), affiorano  idee e convinzioni caratteristiche del giudaismo rabbinico (9, 17-21. 24.28).

In particolar modo sono stati esaminati i rapporti fra Giovanni e il giudaismo rabbinico su tre punti e cioè sull’idea di Torah, sulla concezione del Messia e sul nome di Dio.

Riguardo alla Torah, termine ebraico che i Settanta traducono nòmos è stato rilevato che Giovanni usa questo sostantivo greco nello stesso senso dato ad esso dai Settanta in cui il termine nòmos designa sia l’intera Scrittura (Antico Testamento), sia i testi legislativi contenuti in essa, sia infine la rivelazione compiuta da Dio. In Giovanni il sostantivo nòmos ricopre gli stessi significati e conserva sempre il senso religioso che presso gli Ebrei conserva il termine Torah.
In Giovanni questo termine esclude il senso filosofico di norma o di legge morale che esso ha comunemente nella lingua greca corrente.

Per quanto riguarda il Messia, in Giovanni, come anche presso i rabbini, è attestata l’idea del Messia nascosto, cioè l’idea del Messia che è già venuto nel mondo, ma si trova nascosto in qualche angolo sconosciuto fino al giorno stabilito da Dio per la sua manifestazione (Gv 7, 27).

Riguardo al nome di Dio, Giovanni si fa eco delle speculazioni del giudaismo rabbinico su detto nome; secondo i rabbini dell’era presente gli israeliti non conoscevano il nome di Dio, cioè il nome di Dio pronunciato distintamente secondo le sue lettere e secondo l’esatta pronuncia di esse; Dio lo avrebbe rivelato loro nell’era futura. Da parte sua il quarto evangelista afferma che Gesù è venuto a far conoscere il nome di Dio agli uomini (Gv 17, 6.26). Allo stesso modo la speculazione rabbinica su alcuni testi di Isaia che indicano Dio con l’espressione "ani hu", tradotta dai Settanta con egw eimi (= io sono) (cf Is 43, 10; 45, 18; 52, 6), spiega le affermazioni che Cristo compie in Gv 8, 28; 13, 19; 17, 11).

Vari studiosi scorgono anche degli influssi rabbinici nei discorsi pronunciati da Cristo in occasione delle grandi feste giudaiche ricordate da Giovanni. Essi infatti ricollegano tali discorsi con le letture bibliche assegnate ai rabbini per queste feste.
Qualcuno osserva anche che il discorso sul pane di vita (c. 6) si attiene al modello dei midrašim rabbinici. Il Brown sostiene che la forte influenza del giudaismo sul quarto vangelo potrebbe essere spiegata in maniera plausibile soltanto se questo avesse avuto le sue origini in Palestina o se il suo autore fosse stato molto familiare con il giudaismo palestinese.

3) Giovanni ed il giudaismo qumranico

La scoperta dei manoscritti di Qumrân ha fatto conoscere aspetti nuovi del giudaismo dell’epoca intertestamentaria. L’importanza poi che hanno tali scoperte per lo studio del N.T. deriva principalmente dal fatto che i manoscritti ritrovati sono anteriori ai libri neotestamentari, poiché tali manoscritti furono nascosti durante la guerra giudaica, quando i solitari di Qumrân (gli Esseni) furono costretti a fuggire e a disperdersi ed il luogo da loro abitato fu distrutto (68 d.C.).

Tra i rotoli di Qumrân ed il quarto vangelo gli studiosi hanno rilevato parallelismi e somiglianze; particolarmente i manoscritti della Regola della Comunità (1QS), degli Inni (1QR), della Guerra dei figli della luce (1QM) e del Documento Sadoqita (DC; documento già noto precedentemente) offrono notevoli somiglianze con il vocabolario e con il pensiero di Giovanni.

Per quanto riguarda il vocabolario si è osservato che sia in Giovanni che nei documenti di Qumrân ricorrono delle espressioni identiche: "Figli della luce" (Gv 12, 36), "camminare nelle tenebre" (Gv 12, 35), "fare la verità" (Gv 3, 21), "opere di Dio" (Gv 6, 28-29), "collera di Dio" (Gv 3, 36), "testimoni della verità" (Gv 5, 33), "vita eterna" (Gv 17, 3).

Anche sul piano delle idee sono stati riscontrati degli stretti rapporti tra il vangelo di Giovanni e i manoscritti del Mar Morto; ci limitiamo qui a ricordare quelli relativi a tre punti particolari:

a) Il dualismo
La letteratura di Qumrân conosce due esseri creati da Dio e cioè:

– il principe della luce, chiamato anche spirito di verità e spirito santo;
– l’angelo delle tenebre, detto anche spirito di perversità e spirito di menzogna.

Questi due esseri sono in continua lotta tra loro per avere il dominio degli uomini, lotta che durerà fino al tempo in cui Dio interverrà e sterminerà i figli delle tenebre.

Il « principe di questo mondo»  (Gv 14, 30; 16, 11) di cui parla il quarto vangelo richiama l’angelo delle tenebre ed i figli delle tenebre menzionati nei testi qumranici. Inoltre il quarto evangelista afferma che Gesù è la luce, la quale viene nel mondo per abbattere le tenebre (Gv 1, 4-5.9), che gli uomini debbono scegliere tra la luce e le tenebre (Gv 3, 19-21), che lo Spirito di verità dimorerà nei discepoli (Gv 14, 17) e che ad essi lo Spirito Santo insegnerà ogni cosa (Gv 14, 26). Come negli scritti di Qumrân in Giovanni si parla di coloro che fanno la verità e vanno alla luce (Gv 3, 21) e di coloro che alla luce preferiscono le tenebre, alla verità la menzogna (Gv 3, 19; 8, 12.45).

Il dualismo (assente nell’A.T.) che caratterizza i manoscritti qumranici e il vangelo giovanneo è stato valutato in maniera diversa dagli studiosi, sia per quanto riguarda la sua origine, sia per quanto riguarda il suo significato . Indubbiamente tra il dualismo qumranico e quello giovanneo ci sono delle notevoli differenze:

– a Qumrân il dualismo è metafisico, poiché Dio crea i due spiriti opposti; di conseguenza questo dualismo implica una lotta cosmica;
– in Giovanni invece si dà un dualismo soteriologico ed etico;
– il dualismo giovanneo implica la distinzione tra il mondo che è in alto e quello che è in basso;
– nel dualismo giovanneo non si dà una lotta cosmica, ma una lotta tra Gesù e il mondo.

Tuttavia, nonostante queste differenze, dovute principalmente al fatto che per il quarto evangelista il dualismo serve ad illuminare l’opera e la missione di Gesù nel mondo, tra il dualismo qumranico e quello giovanneo si riscontrano dei parallelismi ravvicinati e delle proprietà comuni che fanno concludere per una interdipendenza fra di essi. Tale interdipendenza si fonda sulla correlazione che si nota in alcune espressioni caratteristiche ricorrenti sia negli scritti qumranici come anche nel quarto vangelo, come ad esempio: "lo Spirito di verità" (Gv 14, 26), "figli della luce" (Gv 12, 36), "vita eterna" (Gv 3, 15.16.36; 4, 14.36; 5, 24.39; 6, 27.40.47.54.68; 10, 28; 12, 25.50; 17, 2.3), "la luce della vita" (Gv 8, 12), "colui che cammina nelle tenebre" (Gv 12, 35), "non camminerà nelle tenebre" (Gv 8, 12), "l’ira di Dio" (Gv 3, 36), "gli occhi dei ciechi" ( Gv 10, 21), "pieno (abbondante) di grazia" (Gv 1, 14), "le opere di Dio" (Gv 6, 29; 9, 3), "gli uomini le cui opere sono malvage" (Gv 3, 19).
Queste correlazioni fra Qumrân e Giovanni fanno tanto più pensare ad una loro interdipendenza in quanto tali espressioni ricorrono soltanto nei testi del Mar Morto e nel quarto vangelo, fatta eccezione per la formula "figli della luce" che troviamo anche in Lc 16, 8 ed in 1 Ts 5, 5.

b) Determinismo

Negli scritti del Mar Morto si riscontra un determinismo assoluto secondo il quale Dio, creatore di tutto, stabilisce i piani che riguardano le cose prima che esse vengano all’esistenza; gli esseri poi compiono la loro opera secondo i compiti stabiliti per essi e rispondenti al piano di Dio.

In Giovanni varie affermazioni sembrano contenere una prospettiva deterministica secondo la quale si accentua la volontà del Padre che agisce su tutto e su tutti (Gv 6, 37.44.65; 17, 2).

Indubbiamente una forma di determinismo (mitigato) si riscontra nel linguaggio di Giovanni; tale determinismo tuttavia non è mai assoluto nel senso di predestinazione come negli scritti di Qumrân. Ad esempio in Gv 6, 37, dove è detto: « Tutto quello che il Padre mi dà verrà a me », non si vuole affermare che una parte di uomini non sarà data a Cristo, ma semplicemente che nell’andare a Cristo l’azione di Dio è precedente a quella dell’uomo. D’altronte il quarto evangelista pone molto in luce anche la parte che ha l’uomo nella fede, affermando più volte che l’uomo deve «andare», «seguire», «ascoltare», «credere» a Gesù.

c) L’amore

Sia i manoscritti di Qumrân sia il quarto vangelo accentuano le caratteristiche dell’amore, dell’unione e della solidarietà che debbono regnare tra i membri della comunità del Mar Morto da una parte e tra i discepoli di Gesù dall’altra (Gv 13, 34-35; 15, 12.17). Questi insegnamenti comuni sia agli scritti di Qumrân che al quarto vangelo emergono ancora più nettamente se si confronta lo scritto di Giovanni con i vangeli sinottici: infatti mentre quest’ultimi insistono sull’amore che il discepolo di Gesù deve avere indistintamente per tutti gli uomini, il primo accentua l’amore che i discepoli di Gesù devono nutrire gli uni per gli altri (Gv 13, 34; 15, 12). Una curiosità: alcuni studiosi interpretano simbolicamente il numero 153 di Gv 21, 11 in questa prospettiva dell’amore che deve caratterizzare la vita dei discepoli di Gesù. Essi infatti affermano che l’evangelista ricorda il numero 153 ricorrendo al procedimento rabbinico della gematria, secondo la quale le cifre di detto numero, ritradotte in lettere ebraiche, compongono un’espressione ebraica che significa "assemblea (società) dell’amore".

Non si può tuttavia pensare ad una dipendenza diretta dai testi di Qumran, bensì ad una indiretta, tramite il Battista di cui Giovanni era discepolo; è possibile infatti che egli durante il suo discepolato al seguito del Precursore, sia venuto a conoscenza della vita e delle dottrine degli Esseni con i quali il Battista era in relazione. Oppure è possibile anche che qualche esseno, convertito al cristianesimo, abbia fatto conoscere al quarto evangelista il mondo ed il pensiero qumranico.

Tra i due movimenti vi sono poi delle differenze sostanziali:

– A Qumrân La Regola della Comunità impone ai membri che la compongono di amarsi e di mostrarsi solidali gli uni con gli altri; tuttavia la stessa regola aggiunge anche di odiare quelli che non ne fanno parte e che le sono estranei. In Giovanni, pur essendo incoraggiato in modo particolare l’amore reciproco fra i discepoli di Gesù, non viene mai fatto alcun cenno ad un eventuale sentimento contrario contro coloro che non fanno parte della loro cerchia. Anzi nel vangelo di Giovanni troviamo un’apertura nei confronti degli estranei, inconcepibile negli scritti di Qumrân, non solo nei confronti dei farisei come nel caso di Nicodemo (Gv 3, 1), ma addirittura anche nei confronti di non giudei, come nel caso della Samaritana (Gv 4, 5ss). C’è dunque nel vangelo di Giovanni un respiro universalistico che non riscontriamo invece negli scritti del Mar Morto presso gli Esseni.

– Gli Esseni di Qumrân attendevano ancora il Messia, mentre per Giovanni esso era già venuto.
– Gli Esseni si preparavano alla guerra escatologica, per Giovanni questa aveva già avuto inizio con il Cristo (escatologia realizzata).

GLI INSEGNAMENTI DEL QUARTO VANGELO

Gesù è la manifestazione di Dio Padre

Come abbiamo già detto i vangeli non sono una biografia di Gesù, ma sono scritti destinati a suscitare la fede. Il vangelo di Giovanni lo afferma esplicitamente: « Queste cose sono state scritte affinché crediate che Gesù è il Cristo, vale a dire Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate vita nel suo nome» (Gv 20, 31). Il vangelo di Giovanni quindi in modo particolare e più di ogni altro mette in risalto la divinità di Cristo e come Dio si sia manifestato agli uomini per mezzo di Cristo.
Dopo aver detto che nel principio c’era la Parola e che questa Parola era presso Dio, anzi Dio era la Parola stessa per mezzo della quale è stato creato il mondo, Giovanni continua ricordando che questa «Parola si è fatta carne ed ha abitato fra di noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, come gloria dell’unigenito proceduto dal Padre, piena di grazia e di verità» (Gv 1, 14). Indubbiamente abbiamo qui una chiara identificazione della Parola di Dio con Cr-sto stesso che ci viene anche confermata dalla 1 Gv 1, 1-3 dove leggiamo: « Quel che era da principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della Parola di vita (e la vita è stata manifestata a noi e noi l’abbiamo vista e ne rendiamo testimonianaza, e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e che è stata manifestata a noi), quello che abbiamo visto e udito ve lo annunziamo, affinché anche voi abbiate comunione con noi; e la nostra comunione è col Padre e col suo Figlio; Gesù Cristo ». In questo passaggio l’apostolo afferma di aver non solo udito, ma anche visto, contemplato e toccato la Parola di Vita. Egli quindi ribadisce la concretezza storica, spaziale e temporale  di ciò che si è manifestato e di cui rende testimonianaza. Non si tratta quindi soltanto delle parole che egli ha udito dal Gesù che parla ed insegna, ma dell’evento stesso del Cristo che è morto e risorto per l’espiazione dei nostri peccati. In Cristo quindi si è materializzata la Parola di Dio, quella stessa parola che ha creato il mondo e che ora ci rigenera per mezzo di Lui. L’apostolo Pietro nella sua prima epistola ci ricorda che siamo stati « rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile per mezzo della Parola di Dio vivente e che dura in eterno» (1 Pt 3, 23). La nostra rigenerazione è avvenuta per mezzo della Parola di Dio che si è storicamente concretizzata in Cristo e nella sua opera redentrice. Come infatti Paolo scrive a Tito « Egli ha salvati non per mezzo di opere giuste che noi avessimo fatte, ma secondo la sua misericordia, mediante il lavacro della rigenerazione ed il rinnovamento dello Spirito Santo che egli ha copiosamente sparso su di noi, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Salvatore » (Tt 3, 5-6).

Leggendo quindi il prologo di Giovanni non dobbiamo pensare che il Logos, la Parola che era presso Dio, che era Dio e per mezzo della quale è stato creata ogni cosa, sia una specie di entità metafisica che ad un certo punto si è personificata in Gesù.  È fuori discussionecone che la Parola di Dio è la manifestazione della sua potenza mediante la quale è stato creato l’universo e per mezzo della quale egli agisce ancora in Gesù Cristo per la nostra salvezza. La Parola di Dio ha agito nel principio nella prima creazione ed agisce ora in Cristo per dare inizio ad una nuova creazione . Come dice lo stesso Giovanni al v. 1, 12 « a tutti coloro che lo hanno ricevuto (cioè coloro che hanno ricevuto la Parola (= Cristo), egli ha dato l’autorità di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome (cioè in Cristo che è la Parola di Dio), i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, ma sono nati da Dio (nuona nascita dall’alto [Gv 3, 3])».
Questo è avvenuto perché si realizzasse il disegno che Dio aveva prestabilito dentro di sé fin dall’inizio per farci conoscere, come dice Paolo agli Efesini, «la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi che crediamo secondo l’efficacia della forza della sua potenza che egli ha messo in atto in Cristo, risuscitandolo dai morti e facendolo sedere alla sua destra nei luoghi celesti, al di sopra di ogni principato, potestà, potenza, signoria e di ogni nome che si nomina non solo in questa età, ma anche in quella futura, ponendo ogni cosa sotto i suoi piedi, e lo ha dato per capo sopra ogni cosa alla chiesa, che è il suo corpo, il compimento di colui che compie ogni cosa in tutti » (Ef 1, 19-23)

In questo senso dunque Cristo è la Parola di Dio che si è fatta carne ed ha abitato in mezzo a noi per portare a compimento l’opera rendentrice di Dio. Giovanni aggiunge che «noi abbiamo contemplato la sua gloria, come gloria dell’unigenito proceduto dal Padre, piena di grazia e di verità» (v. 14). Il prologo è un sommario di tutta l’opera che Gesù compierà e che verrà poi sviluppata nel resto del Vangelo di Giovanni. La gloria quindi viene vista in Gesù come una realtà già conseguita, anche se tale gloria è strettamente legata alla sua morte ed alla sua resurrezione che si compirà solo al termine della sua vita pubblica. La gloria di Gesù è rappresentata dalla sua resurrezione, che è intimamente legata alla morte, così come la spiga di grano è legata al chicco che muore (Gv 12, 24) e la nascita di una nuova creatura alle doglie del parto (Gv 16, 21). La morte è quindi «l’ora di Gesù» che già include germinalmente la gloria (Gv 2, 3; 7, 30; 7, 39; 12, 23; 13, 1; 16, 32; 17, 1).

Il suo amore, superiore a quello di ogni altro eroe, sta nel fatto che egli prevedeva la sua fine; ma sapeva pure che quando sarebbe stato elevato sulla croce, avrebbe tratto a sé tutti (Gv 12, 32ss). La morte è quindi il momento in cui il Maligno, dominatore di questo mondo, sarebbe stato debellato e scacciato dal suo regno (Gv 12, 31; 16, 33).

L’ora decisiva della storia umana si è quindi attuata a Gerusalemme il 7 aprile dell’anno 30: iniziatasi con una cena pasquale, continuò in un orto al di là del torrente Cedron, poi nella sede del governatore Ponzio Pilato, infine su di una croce innalzata dai romani sul Golgota, e da ultimo culminata con il sepolcro vuoto e la resurrezione di Gesù. Nulla di veramente importante e decisivo può più accadere all’umanità, perché «tutto si è già compiuto » nel Cristo (Gv 19, 30).

Di questo Gesù, talora chiamato «Dio» (Gv 1, 18; 20, 28 Tommaso), si dice che, pur essendo «inferiore» al Padre (Gv 14, 28), è uno con lui (Gv 17, 21); di conseguenza chiunque vede Gesù vede il Padre (Gv 14, 9). Da queste affermazioni che sembrano contrastanti è difficile dedurre l’identità «sostanziale» con il Padre. Più che di sostanza si parla di relazione: egli è Dio per noi in quanto in lui si palesa l’amore del Padre e la potenza del Padre, la salvezza che il Padre ci dona. Più che parlare di unione sostanziale Giovanni vuole esaltare l’unione di volontà tra Gesù e il Padre (Gv 4, 34), e il fatto che in lui dimorava e si esprimeva la parola eterna di Dio (Gv 12, 48ss), che in lui operava la potenza di Dio (Gv 14, 12ss). Anche noi compiendo la volontà di Dio possiamo diventare simili a lui, formare un’unità con lui (Gv 17, 20s) e compiere gli stessi prodigi suoi, anzi compierne di maggiori, perché il suo Spirito dimora in noi (Gv 14, 12). Perciò Giovanni non riferisce molti miracoli, ma ne sceglie alcuni più significativi, ai quali innesta dei discorsi che ne mettono in risalto il valore e confermano come Gesù sia l’inviato del Padre. I miracoli sono per lui dei sêméia, dei segni. Guarendo il cieco nato si mostra come la luce del mondo, risuscitando Lazzaro si presenta come la sorgente di vita, presentandosi come il buon pastore si autodefinisce guida, moltiplicando i pani si offre come cibo alle anime.

Per i sinottici i miracoli significano che il regno di Dio ha fatto il suo ingresso nel mondo, sono delle azioni che conducono alla fede. Per Giovanni possono servire per una fede esitante e provvisoria, ma in genere sono manifestazione della presenza divina percepita però solo da chi ha già la fede. La presentazione stessa dei miracoli è diversa: nei sinottici si segue uno schema costante: descrizione della situazione (gravità del caso), azione del guaritore che ha come risultato di far nascere la fede nei presenti. Presso Giovanni il terzo elemento è sostituito da un dialogo complicato con gli increduli nel quale si sviluppano i temi propriamente giovannei. I discorsi e i fatti qui riferiti sono una realtà e non una semplice finzione, anche se talora i discorsi mostrano la profondità della meditazione compiuta da Giovanni sotto la guida dello Spirito Santo, nella quale si intrecciano assieme parole di Gesù e riflessioni giovannee. Così nella frase: «Nessun è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo» (Gv 3, 13) si suppone già avverata la resurrezione che invece era ancora futura quando Gesù parlava con Nicodemo. Il vangelo di Giovanni serve quindi per penetrare più profondamente nella conoscenza del Cristo.

2. Gesù è una realtà vera come lo siamo noi

Al tempo di Giovanni cominciavano a sorgere delle dottrine che, trovando indegno per Gesù possedere un corpo umano come il nostro, gli attribuivano un corpo solo apparente e non reale (doceti). Contro costoro Giovanni sottolinea che la « parola di Dio si è fatta carne », vale a dire ha assunto un corpo mortale e suscettibile alla sofferenza ed alla morte non diverso dal nostro:

« La parola di Dio si è fatta carne e ha abitato per un tempo fra noi » (Gv 1, 14). «Ogni spirito che confessa Gesù Cristo venuto in carne è da Dio, e ogni spirito che non confessa Gesù non è da Dio » (1 Gv 4, 2s).

Perciò egli ci può compatire e perdonare in quanto ha potuto nella sua vita sperimentare le nostre stesse debolezze e le nostre miserie, le prove e le stesse nostre tentazioni. Anche se l’evangelo non lo esprime chiaramente ciò è una conseguenza logica del suo essere divenuto « carne» sofferente e suscettibile a peccare come noi, anche se, a differenza di noi, non commise peccato.

3. Giovanni è il vangelo della vita

L’uomo moderno aspira a divenire immortale, a non morire. Gli scienziati scoprono sempre nuove medicine che allungano la vita. Oggi si compiono sempre più operazioni di trapianto degli organi per cambiare le parti deteriorate del corpo e dare nuovo vigore all’organismo. Ma si tratta pur sempre di vita terrena. Lazzaro torna in vita per morire di nuovo, anzi, proprio per la sua resurrezione corre maggior pericolo perché il Sinedrio lo vuole uccidere per togliere di mezzo una prova della potenza di Gesù (Gv 12, 10). Gesù invece non ci offre una continuazione dell’attuale vita terrena, bensì una vita eterna nello spirito come ci insegnano le Scritture  dell’Antico e del Nuovo Testamento (Dan 12, 2; Gv 3, 16; Rm 2, 6ss; Rm 6, 22-23; ecc).

La vita eterna è diversa qualitativamente da quella terrena ed è riservata alla nuova era attesa dagli Ebrei per il futuro: è vita vissuta totalmente alla presenza divina e colma del favore divino, è vita che non teme la morte perché è vita di Dio. Giovanni tenta di definire questa vita eterna quando dice: «E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17, 3). Questa conoscenza non consiste in una dottrina teologica su Dio o Gesù Cristo, bensì nell’avere un’esperienza personale con Dio per mezzo di Gesù Cristo.

4. L’escatologia realizzata

I vangeli sinottici parlano di un futuro regno di Dio o del cielo che, pur essendo già embrionalmente esistente nella chiesa, di fatto rimane pur sempre una realtà del futuro. Per tale motivo sono meno graditi alla gente di oggi abituata a guardare alle realtà attuali e non ai sogni futuri spesso utopistici. Sotto tale aspetto il vangelo di Giovanni è qualcosa più corrispondente ai bisogni attuali in quanto insiste sui beni presenti, pur non negando i futuri. Anch’esso parla dell’ultimo giorno e della separazione finale, come risulta dai seguenti passi innegabili:

« Non vi meravigliate di questo! Sta infatti per venire l’ora nella quale tutti coloro che sono nelle tombe udranno la sua voce e ne usciranno, quelli che hanno operato bene per una resurrezione di vita e quelli che hanno agito male per una resurrezione di condanna» (Gv 5, 28s).

Nel vangelo di Giovanni vi è un progresso, in quanto da tale aspetto futuro il suo autore passa a dimostrare che già sin d’ora si attua la separazione, la crisi, la salvezza o la condanna, e gli uomini stessi si autocondannano respingendo il Cristo, mentre coloro che lo accettano non passano nemmeno per il giudizio.
« Poiché Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unico figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita eterna. Dio infatti ha mandato il suo figlio nel mondo non per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo suo. Chi crede in lui non è condannato. Chi non crede è già condannato, perché non crede nella persona dell’unico figlio di Dio» (Gv 3, 16-18).

La vita eterna è già una realtà presente per coloro che credono in Gesù.
« Gesù le disse: "Tuo fratello risusciterà". Marta gli disse: "Lo so che risusciterà nella resurrezione all’ultimo giorno. Gesù le disse: "Io sono la resurrezione e la vita; chiunque crede in me anche se dovesse morire, vivrà. E chiunque vive e crede in me, non morrà mai in eterno» (Gv 11, 23-26).
E’ già su questa terra che si avvera la cosiddetta la decisione personale.

5. La risposta del’uomo

La risposta dell’uomo è duplice: fede e amore.

a) Fede: In Giovanni la parola «credere» ricorre più di cento volte contro le 300 volte che la troviamo nel Nuovo Testamento, vale a dire un terzo del suo uso. La fede giovannea non è l’adesione astratta a un sistema dottrinale – come potrebbe esserlo un credo – ma è un atto personale del credente che si dona a Gesù e si abbandona a lui con fiducia. È donazione di chi crede alla persona di Gesù, è l’inizio della comunione con Dio. È un amore fiducioso verso Gesù. Per questa fede i credenti sono uniti a Gesù come i tralci alla vite (Gv 15), come pecore che seguono il Cristo, l’unico loro pastore (Gv 10).

Siccome la fede poggia sulla testimonianza che ha dato lo Spirito Santo, il quale ha guidato gli apostoli in tutta la verità, ne viene di conseguenza che non conta la trasmissione della dottrina dagli apostoli ad oggi tramite la gerarchia, bensì solo la fedeltà a ciò che sta ora scritto nel vangelo (Gv 20, 30s). Per questo Giovanni insiste fortemente che il giudizio si attua già nel presente e con questo voleva forse rettificare le dichiarazioni escatologiche tradizionali. Egli sembrerebbe perciò dare ragione ai sostenitori dell’escatologia già realizzata, pur non escludendo del tutto l’atto finale di questa escatologia (Gv 5, 28s).

b) Amore. Evidentemente l’amore di Gesù che dà la vita per i fratelli è, non solo il modello, ma anche la fonte del fraterno amore cristiano (Gv 13, 14-15.34-35; cf Gv 1, 11). Questo amore riguarda principalmente i credenti e non include il mondo che è già condannato da Dio. Per questo Giovanni non mette in rilievo l’esigenza della missione, in quanto la comunità dei salvati dev’essere separata dal mondo che giace nelle tenebre. I credenti sono affidati al Cristo fin dall’eternità e lui li custodisce con cura in modo che nessuno si perda (Gv 17, 6.9.12).

6. Fiducia

Alla gente sfiduciata dei nostri tempi, Giovanni dice che la vita sta in Gesù. Non è dallo sforzo individuale che proviene la vita: invano la cercano i rabbini con il loro zelo e con l’osservanza scrupolosa della legge. Non la raggiunsero gli stoici con i loro ideali di fratellanza umana. Anche oggi il cristianesimo puramente sociale non può servire allo scopo. Occorre agire in unione con Gesù, rivivendo il suo amore sotto la spinta del suo Spirito. Così il cristiano sarà capace di risollevare la società odierna. In Giovanni traspare un grande amore per il Dio vivente e il desiderio di donare per mezzo della propria esistenza la nuova vita da lui ricevuta mediante Gesù Cristo (1 Gv 1, 3). Se la chiesa di oggi non vive al livello di questa esperienza vissuta dai primi cristiani, ciò non si deve al fatto che Dio si è ritirato, ma al fatto che gli uomini non sanno più apprezzare e godere il dono di Dio.