di *Robert Reich |
13 Maggio 2003 - New York
ore 16,50 |
L’attuale politica americana in Iraq ripropone una delle questioni
fondamentali del capitalismo: chi possiede cosa? Sarebbe a dire, chi ha il
diritto di vendere il petrolio iracheno? E chi quello di decidere quali
delle grandi compagnie petrolifere del mondo può investire nello sviluppo
dei giacimenti iracheni e da essi trarre profitto?
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Miliardi di dollari se ne stanno in sospeso. Proprio come il futuro
dell’Iraq e le somme che serviranno per ricostruire il Paese. Nel sottosuolo
dell’Iraq si trova la seconda più grande riserva di petrolio del mondo. E
questo materiale rappresenta la prima e la più grossa opportunità da decenni
a questa parte per le compagnie petrolifere che intendano guadagnare milioni
e milioni dalla sua estrazione.
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Prima
dell’attacco americano l’Iraq vendeva circa due milioni di barili al giorno.
Questa vendita avveniva sotto l’autorità delle Nazioni Unite. Dopo la prima
guerra del Golfo l’Onu aveva proibito all’Iraq di vendere petrolio, in
conseguenza delle sanzioni imposte per indurre Saddam ad abbandonare
il potere. Ma poi, nel 1995, l’Onu aveva deciso di permettere la vendita del
petrolio al fine di procurare cibo e assistenza al popolo iracheno.
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Il
programma «Oil-for-food» è ancora teoricamente sotto il controllo delle
Nazioni Unite. Ma il personale che amministrava il programma per conto dell’Onu
ha lasciato l’Iraq due giorni prima che iniziassero i combattimenti, e
nessuno li ha ancora richiamati. Per quel che riguarda i potenziali
acquirenti del petrolio iracheno bisogna dire che, almeno per il momento,
nessuno che abbia una mente sana vuole comprare il greggio proveniente da
questo paese perché senza interlocutori affidabili, i compratori
rischierebbero di gettare i loro soldi in un pozzo... nel deserto.
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La
questione più urgente sembra essere quella della modernizzazione dei campi
petroliferi iracheni e dei nuovi trivellamenti. È molto probabile che non
saranno le Nazioni Unite a svolgere questi compiti, e nemmeno gli Stati
Uniti. Questo lavoro dovrà essere affidato alle grandi compagnie private. Ma
l’unica maniera di convincerle a compiere i necessari investimenti è
assicurar loro, dal punto di vista legale, la possibilità di sfruttare il
petrolio estratto per almeno dieci anni, il periodo minimo necessario a
recuperare i mezzi investiti in imprese simili.
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Ed ecco
che viene a galla il nocciolo della questione. Francia e Russia non
vogliono lasciare l'amministrazione dell’industria petrolifera nelle mani
degli americani. Ciò significherebbe negare alle loro stesse compagnie
petrolifere la possibilità di investire e fare profitti nell'area. La più
grande compagnia francese già dichiara di aver stipulato contratti d’affari
su due campi petroliferi con il regime di Saddam. La Russia afferma che la
sua gigantesca compagnia petrolifera ne ha conclusi innumerevoli su molti
altri. E poi ci sono la Exxon, la British Petroleum e la Royal Dutch/Shell
che reclamano per sé una parte nel gioco.
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George W. Bush dice che il petrolio iracheno appartiene al popolo
iracheno. E in questo ha ragione. Ma la sua affermazione evade la questione
principale, cioè chi farà gli investimenti necessari per tirar fuori il
petrolio dal sottosuolo e chi ne riceverà i benefici finanziari, prima di
affidare i guadagni futuri all’Iraq stesso. Se gli Usa dicessero all’Onu di
farsi da parte e dessero le concessioni, diciamo, alla Exxon, ciò
confermerebbe in pieno le peggiori supposizioni degli iracheni e di molti
altri nel mondo sui motivi primari del nostro intervento in Iraq.
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*Robert
Reich è stato segretario del Lavoro degli Stati Uniti durante
l'amministrazione Clinton; oggi è professore di politica sociale ed
economica alla Brandeis University
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Traduzione di Gabriele
Dini |
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Fonte:
http://www.wallstreetitalia.com/ |
Originale:
http://www.unita.it/ |