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Anno X N° 406 3/3/10 |
Commento all'Intenzione Missionaria di marzo 2010
Agenzia Fides - Vaticano - 26 febbraio
"Perché le Chiese in Africa siano segno e strumento di riconciliazione e di giustizia in ogni regione del Continente"
L'Africa è un continente pieno di speranza e di vitalità nella fede, ma allo
stesso tempo presenta alcune situazioni che devono essere risolte per poter
sviluppare pienamente tutte le potenzialità di cui dispone per il bene comune e
la diffusione dal Vangelo. Non possiamo dimenticare che molte delle carenze
attuali sono frutto degli abusi commessi in passato nei confronti dell'Africa.
Alla chiusura dell'ultimo Sinodo per l'Africa, Papa Benedetto XVI affermava:
"Pensiamo in particolare ai fratelli e alle sorelle che in Africa soffrono
povertà, malattie, ingiustizie, guerre e violenze, migrazioni forzate"
(omelia della Santa Messa, 25 ottobre 2009). I nostri fratelli africani devono
soffrire una serie di limitazioni che l'egoismo di altri ha loro imposto. E'
stato messo in rilievo che all'interno delle frontiere ereditate dalle potenze
coloniali, la coesistenza di gruppi etnici, tradizioni, lingue e anche religioni
diverse, spesso trova ostacoli dovuti alle gravi ostilità reciproche (cfr.
Ecclesia in Africa,49).
Benedetto XVI ha sottolineato che "la Chiesa riconciliata è potente
lievito di riconciliazione nei singoli Paesi e in tutto il Continente
africano" (omelia della Santa Messa, 25 ottobre 2009). Nonostante le guerre
e le divisioni etniche, la Chiesa vuole realizzare questa missione di unità,
per fare dell'Africa un'immagine dell'umanità nuova, riconciliata nell'amore.
È certo che questa riconciliazione si realizza solamente nel perdono, a volte
eroico, delle offese. "La fede in Gesù Cristo - quando è bene intesa e
praticata - guida gli uomini e i popoli alla libertà nella verità, o, per
usare le tre parole del tema sinodale, alla riconciliazione, alla giustizia e
alla pace". (ibid.)
Per conseguire l'unità e mantenere la pace, Giovanni Paolo II invitava a
mantenere all'interno della Chiesa, come Famiglia di Dio, un dialogo costante,
perché "l'atteggiamento di dialogo è il modo d'essere del cristiano
all'interno della sua comunità, come nei confronti degli altri credenti e degli
uomini e donne di buona volontà" (Ecclesia in Africa,65). Questo dialogo
deve estendersi in senso ecumenico, con tutti i fratelli battezzati delle altre
confessioni cristiane, al fine di raggiungere l'unità per la quale Cristo pregò,
e di fare in modo che il Vangelo sia più credibile agli occhi di quelli che
cercano sinceramente a Dio.
La Chiesa, nel suo servizio all'uomo, vuole percorrere il cammino della
giustizia. Per questo motivo trasmette il messaggio della salvezza coniugando
l'evangelizzazione e la promozione umana. Questo sviluppo integrale è l'unica
strada per uscire dalla schiavitú delle malattie e della fame. "Questo
significa trasmettere l'annuncio di speranza secondo una 'forma sacerdotale',
cioè vivendo in prima persona il Vangelo, cercando di tradurlo in progetti e
realizzazioni coerenti con il principio dinamico fondamentale, che è
l'amore" ha ribadito Benedetto XVI (omelia della Santa Messa, 25 ottobre
2009).
Non possiamo concludere senza ricordare una verità fondamentale: Cristo è
l'unico Salvatore degli uomini. Non sono la tecnica e lo sviluppo umano, in se
stessi, che salvano l'uomo. Pur essendo una condizione necessaria, lo sviluppo
non è tutto. La Chiesa, come popolo sacerdotale, è chiamata a portare gli
uomini all'incontro con Cristo affinché possano condividere la sua vita. Per
questo motivo, attraverso i sacramenti, li mette in contatto con il Medico
divino che è venuto non a cercare i sani, ma i malati. "Così la Comunità
ecclesiale, sulle orme del suo Maestro e Signore, è chiamata a percorrere
decisamente la strada del servizio, a condividere fino in fondo la condizione
degli uomini e delle donne del suo tempo, per testimoniare a tutti l'amore di
Dio e così seminare speranza" (Benedetto XVI, omelia della Santa Messa, 25
ottobre 2009).
Noi
e i musulmani le ragioni per provarci di Gerolamo Fazzini
Mondo
e Missione - 1 febbraio 2010
C'è
chi dà per impossibile una integrazione armonica dei musulmani. Ma la realtà
dice che esperienze positive esistono. E che val la pena di rischiare il dialogo
Il
Corriere della Sera, il più autorevole quotidiano di Milano, in prima pagina, a
firma di Giovanni Sartori, poco prima di Natale ha scritto - senza mezzi termini
- che "illudersi di integrarlo (l'islam) "italianizzandolo" è un
rischio da giganteschi sprovveduti, un rischio da non rischiare". Qualche
giorno prima Panorama, il più diffuso settimanale d'opinione italiano, aveva
messo in copertina un'immagine del Duomo di Milano con una mezzaluna islamica al
posto della Madonnina, titolando un articolo "Vade retro minareto". E
pochi giorni dopo, a seguito del fallito attentato di Natale negli Usa, la
Padania avrebbe gridato a otto colonne "Fuori gli immigrati islamici".
Questo
il clima in cui proponiamo lo speciale "Milano e l'islam: incontro
possibile". Ingenui? Utopisti? No. Qui vorremmo spiegare, in breve, le
ragioni per cui quella del dialogo franco e sereno e dell'accoglienza
intelligente ci pare l'unica prospettiva realistica per l'oggi e il futuro.
Nell'arco
di pochi anni l'immigrazione è diventata un elemento che sta plasmando le
nostre società. Nessuno ignora la complessità del fenomeno, ma occorre partire
da questo dato di fatto, pena inseguire modelli anacronistici. Un conto è
mettere in guardia contro le difficoltà oggettive e i rischi sul cammino di
un'integrazione reale degli immigrati, un altro è vagheggiare società
culturalmente monolitiche e operare perché tale sogno perverso si possa
realizzare.
Ora,
all'interno del flusso migratorio in Italia, la componente musulmana non è solo
quantitativamente numerosa (anche se non maggioritaria), ma rappresenta una
questione delicata. A differenza dei fedeli di altre religioni, i musulmani
hanno un senso di identità più forte e una coscienza di appartenenza alla
comunità (Umma) più radicata di altri, il che li porta a volte a rendere più
"appariscente" la loro identità. Secondo: essendo nella religione
islamica strettamente intrecciato l'elemento religioso con quello politico, si
danno ripercussioni sulla convivenza civile più evidenti che in altri casi.
Terzo: il clima internazionale, specie dopo l'11 settembre, non giova certo a
un'integrazione armonica dei musulmani, sovente accusati in blocco di simpatie
terroristiche, fanatismo e via di questo passo.
Detto
ciò, ci pare decisivo affermare che i musulmani che si vogliono inserire da
protagonisti in Italia non solo esistono, ma lo stanno già facendo. Come lo
Speciale cerca di documentare, questo avviene dentro una quotidianità che non
fa notizia, di cui i media colpevolmente non parlano.
Come
cittadini di una società che è già multietnica e che vorremmo diventasse
armonicamente plurale (in quel "meticciato" positivo caro al cardinale
Scola), affermiamo perciò con forza la possibilità di un incontro possibile
tra diversi, a patto che si tenda tutti al bene comune e che ciascuno sia
rispettato per quello che è, prima delle differenze (linguistiche, culturali,
geografiche...) che ci caratterizzano: un uomo o una donna, con la propria
dignità. Tale incontro chiede tempo e pazienza. Ma, proprio per questo, va
costruito e cercato fin d'ora, cominciando dai piccoli gesti.
C'è
un'altra ragione che, come credenti, rende il dialogo un dovere e un'opportunità.
Dare testimonianza della propria fede ai fratelli musulmani, senza proselitismi
ma senza pudori rinunciatari, fa bene al cristiano. Perché la fede, come il
talento evangelico, non la si custodisce seppellendola in un forziere o
difendendola a colpi di proclami altisonanti, ma scambiandola.
Il confronto con chi adora Dio chiamandolo con un nome diverso dal mio mi mette in questione, mi obbliga ad andare alle radici vere dell'identità cristiana. Una fatica, certo. Ma provvidenziale.
Storia
di una vocazione normale, eppure speciale di Gerolamo Fazzini
Mondo
e Missione - 1 febbraio 2010
Una
scommessa a tempo pieno
Padre
Gustavo Benitez, primo argentino nelle file del Pime, racconta la sua avventura
umana e spirituale: dal Sudamerica alla Cambogia
E'
il primo argentino del Pime, e già questa è una notizia. Viene da una famiglia
in cui due figli maschi su tre sono preti (il fratello Nestor è sacerdote
diocesano): anche in questo caso una piccola-grande notizia. Ma quel che più
interessa qui è il percorso che ha condotto di padre Gustavo Adrian Benitez ad
abbracciare la vocazione missionaria. Da un volontariato missionario, svolto da
ragazzo, all'impegno nella cooperazione internazionale da giovane fino alla
scelta adulta di dedizione alla missione "ad gentes". Da un servizio a
tempo alla consacrazione per la vita: una scelta controcorrente, di questi
tempi.
Nato
nel 1972 a Resistencia (nel Chaco, Nordest dell'Argentina), Gustavo ha respirato
missione fin da giovane: "Con il gruppo missionario, che si riuniva
settimanalmente, andavamo 2-3 volte l'anno nei posti più remoti della diocesi,
sugli altopiani bagnati dal Rio Paranà, per una ventina di giorni: visitavamo
le famiglie povere, organizzavamo incontri per ragazzi e adulti... Ricordo le
distanze enormi (a volte 30-40 km per raggiungere una casa)". Dopo nove
anni di questa esperienza missionaria sul campo "sentivo dentro di me
crescere la voglia di stare con la gente umile. Non era ancora chiara la scelta
vocazionale, ma è stato quello l'inizio di tutto".
Finite
le superiori, Gustavo lavora come insegnante di musica in una scuola statale e
di religione in una gestita dai salesiani, nella sua città, Resistencia, un
milione di abitanti. Parallelamente consegue un diploma per l'insegnamento ai
disabili.
UN
MOMENTO significativo del cammino è l'incontro con padre Domingo Cazon, un
prete cubano, membro di un istituto ad gentes del Canada, i cosiddetti preti S.
M. E. (Societé des Mission Etrangere du Quebe¬c). "Mi ha seguito da
vicino nel mio itinerario spirituale - spiega Gustavo -. Ed è lui che, nel
1996, mi ha coinvolto in un'esperienza significativa, promossa dal suo istituto:
un incontro per i giovani impegnati nella missione in America Latina a
Tegucigalpa, in Honduras: quattro settimane, l'ultima delle quali dedicata agli
esercizi spirituali". Padre Gustavo aveva già vissuto un altro momento
forte l'anno prima: il Comla 5 (Congresso missionario latinoamericano) a Belo
Horizonte in Brasile.
"Quella
in Honduras - sottolinea p. Gustavo - si è rivelata un'esperienza molto forte
di "immersione" nella situazione concreta dei poveri; si andava nelle
case a due a due, ospiti delle famiglie. Per me è stata anche un'occasione di
incontro con persone dal resto del continente: erano presenti giovani di molti
Paesi dell'America centrale e del sud".
Continua:
"In Honduras è nata l'idea di una commissione internazionale e io sono
stato scelto per l'Argentina. L'anno dopo ci siamo radunati in Canada e lì si
decise di promuovere un secondo incontro in Honduras per il gennaio del 1998.
Vedendomi molto coinvolto nell'impegno missionario, i padri S.M.E. mi hanno
sollecitato a continuare la mia formazione con loro (nel 1997, intanto, mi ero
laureato): mi hanno invitato ad andare a Montreal per un anno. E così,
nell'agosto sono partito per il Canada". Ogni partenza comporta un
distacco; per Gustavo ciò significa lasciare il lavoro e la famiglia di
origine. Nessun problema con i tuoi? "Problemi no, anche se non posso
negare una certa sorpresa di fronte alla mia scelta. Non si sono mai opposti, mi
sono sempre stati vicini e man mano hanno capito le mie scelte".
IN
CANADA Gustavo passa un anno di formazione e verifica in comunità, in vista di
un impegno in missione. Studia il francese e nel tempo libero lavora alla
Comunità dell'Arca di Jean Vanier, valorizzando il suo diploma nell'ambito
dell'assistenza ai disabili. Dopo aver seguito insieme ai compagni due corsi a
Ottawa all'università, a fine 1998 viene invitato ad associarsi come laico
missionario all'istituto e a partire per la Cambogia dentro un progetto di équipe
internazionale. "Era il primo gruppo internazionale dell'istituto, una cosa
molto bella, in prevalenza formato da laici. Ne facevano parte, oltre al
sottoscritto, una coppia di sposi (lei francese e lui boliviano), due ragazze
filippine e un giovane prete colombiano, missionario di Yarumal. L'accordo
prevedeva una permanenza di sei anni in Cambogia"
Prima
della partenza si rende necessario, naturalmente, un periodo di preparazione,
specie per l'apprendimento dell'inglese, cosa che Gustavo svolge insieme con la
coppia. Ad aprile 2000 finalmente la partenza per l'Asia. La prima tappa è Hong
Kong, la seconda Davao, nelle Filippine. Lì si sono aggregate le due laiche
locali, quindi a luglio l'arrivo dell'equipe in Cambogia, a Phnom Penh. La
comunità al completo comprendeva 10 persone; oltre ai sei citati, altri 4 preti
(un canadese e 3 colombiani), presenti dal 1996; costoro operavano in tandem con
la diocesi, mentre a noi laici non erano stati assegnati compiti precisi e
ciascuno stava scoprendo quali strade percorrere".
Prosegue
Gustavo: "Di lì a qualche mese ho conosciuto Cristina, della Comunità
delle missionarie laiche di Busto, legata al Pime e, tramite lei, i missionari
dell'istituto. Mi hanno parlato di un progetto di New Humanity per i disabili;
anch'io avevo in mente un centro del genere, padre Toni Vendramin lo sognava da
tempo. Sapendo della mia preparazione nel campo della disabilità, ho iniziato a
collaborare con New Humanity, part time, mentre cominciavo a studiare la lingua
khmer tre volte alla settimana. Nel 2001 sono stato assunto alla Ong del Pime,
dopo un accordo fra istituti, e ho potuto buttarmi a tempo pieno nel progetto
per disabili. Per due anni l'ho seguito da vicino: l'ufficio era in capitale, ma
i progetti nei villaggi, fra le risaie. Lì sono stati realizzati un centro per
disabili e altri progetti educativi, per le donne, per i contadini, per
l'educazione sanitaria... Siccome i ragazzi non erano accettati nelle scuole
venivano da noi per prepararsi. Un'indagine fra le famiglie dei sedici villaggi
ci permise di individuare una ventina di disabili fisici e mentali, che
diventarono i destinatari dell'intervento".
IL
CENTRO, inaugurato nel 2001, è una struttura senza pretese ma funzionale.
All'inizio vi lavoravano quattro soli dipendenti, come insegnanti; per loro
organizzavamo dei training insieme con altre Ong migliorare le competenze.
Dalle
parole di padre Benitez trapela un certo entusiasmo per tale realizzazione.
Eppure non è stato quello l'approdo della sua ricerca. Come mai? "Prima di
partire - è la risposta - il mio superiore mi aveva chiesto del mio futuro ma
io mi ero preparato come laico. Con padre Mario Ghezzi, che ho incontrato quasi
per caso, ho iniziato un accompagnamento spirituale e di discernimento. Lui mi
ha indirizzato a un filippino gesuita. Dopo un periodo di verifica, alla fine ho
deciso per il Pime. Non potrei dire che ci siano stati motivi particolari e
clamorosi, quanto piuttosto la somma di tanti fattori. Di sicuro non è stata
una scelta improvvisata, ma è maturata in un clima di preghiera".
Da
laico a tempo a prete per la vita. Come è accaduto? "In Canada non avevo
fatto molti progetti sul dopo. La "molla" è scattata in Cambogia:
rileggendo tutta la mia storia, la mia passione missionaria, ho come intravisto
un disegno. Non potevo tornare in Argentina dopo sei anni senza che fosse
successo niente. Non mi vedevo proprio a cancellare quella parentesi come se mi
accontentassi; intuivo qualcosa che mi spingeva a dare di più. Del resto, la
chiamata alla missione ad gentes era abbastanza chiara e forte dentro di me. Il
discernimento compiuto è stato più concentrato sul come viverla: da celibe,
sposato o come prete?".
Una
volta decisa la strada, nel 2002 Gustavo lascia l'istituto canadese per entrare
nel Pime. Abbandona la Cambogia per Roma, dove compie gli studi, fino a
conseguire il baccalaureato in filosofia. Quindi l'anno di spiritualità e poi
l'arrivo al Seminario teologico di Monza.
Il
resto è cronaca recente: ordinato prete il 14 agosto nella sua Resistencia, e
ricevuto il Crocefisso, a fine ottobre è ripartito per la Cambogia. Stavolta
come padre Gustavo. "Mi sento un figlio dell'America Latina inviato al¬l'Asia.
Per la mia Chiesa è stata una festa, un evento importante nel quale
concretamente si realizza il "donare della nostra povertà" auspicato
proprio dai Congressi missionari latinoamericani".
Immancabile
la domanda finale: cosa ti ha colpito del Pime? Risposta: "Il fatto che la
missione non è esclusivamente sull'aspetto puramente religioso ma che si
associa alla promozione umana. La testimonianza di vita fa parte della missione:
per me, che all'inizio avevo una visione del prete "sbilanciata"
sull'aspetto sacramentale (peraltro importantissimo), si è trattato di una
bella scoperta?. L'altro aspetto molto positivo del Pime è l'internazionalità:
una ricchezza, anche se le difficoltà non mancano. La mia classe è costituita
da otto persone di sei nazioni, alcuni dei quali provengono dalle antiche
missioni del Pime: un bel segno e un motivo di gioia in più per
l'istituto".
Quella
"guerra santa" dentro il Sepolcro di Claudio Monge
Mondo
e Missione - 1 febbraio 2010
"La
crisi del cristianesimo in Medio Oriente non è dovuta solo all'islam"
Il
9 novembre 2008, al Santo Sepolcro di Gerusalemme, le immagini di una rissa tra
monaci armeni e greco-ortodossi fecero il giro del mondo. Non si trattò di un
episodio isolato ma di un "incidente tra i tanti", che illustra la
triste storia di una "guerra santa" per il diritto alla pole position
davanti alla tomba di Gesù...
Sei
Chiese dovrebbero cooperare nell'amministrazione della basilica. Tre furono
nominate quando i crociati tenevano Gerusalemme: la Chiesa ortodossa greca, la
Chiesa apostolica armena e la Chiesa cattolica latina. Tre, con responsabilità
minori, subentrarono con un decreto di status quo emanato dagli ottomani nel
1852: la Chiesa ortodossa copta, la Chiesa ortodossa etiope e la Chiesa
ortodossa siriaca. In realtà, già l'insieme architettonico del complesso del
Santo Sepolcro - francamente assai disarmonico - sintetizza la disarmonia più
profonda che si percepisce tra riti diversi che si sovrappongono senza
incontrarsi e, a volte, addirittura "scontrandosi", quando le liturgie
oltrepassano i tempi assegnati.
Questa
esperienza di estraneità affonda le sue radici già nei primi secoli del
cristianesimo. Fin dal II secolo le chiese del Medio Oriente sono etnicamente e
culturalmente molto diverse da quelle occidentali e, spesso, anche già divise
tra di loro. Se fino al Concilio di Efeso (431 d.C.) la Chiesa dava ancora una
parvenza d'unità, quando gli elementi politico-culturali (i crescenti contrasti
tra Roma e Costantinopoli) cominciano ad essere determinanti, anche le divisioni
dottrinali diventano più marcate. Ad Alessandria d'Egitto, ad esempio, la
dottrina monofisita (la sola natura divina nel Cristo) assume le dimensioni di
un protonazionalismo che esprime il rifiuto dell'influenza politica di
Costantinopoli. Inizia una guerra aperta tra l'imperatore bizantino - che deve
far applicare le decisioni dei Concili tenuti sotto la sua autorità, che non è
certo quella di un Giovanni XXIII ante-litteram... - e le province meridionali
dell'Impero. Alle crociate bizantine contro le chiese "eretiche"
nestoriane e pre-calcedonesi, si aggiungeranno, poi, i danni delle crociate
latine per l'instaurazione dei principati Franchi del Levante. Da allora il
mondo cristiano orientale non cesserà più di sospettare delle "mire
espansionistiche di Roma", che si tradurranno anche nella strategia
dell'uniatismo (la creazione di Chiese orientali cattoliche in una certa misura
autonome, ma in comunione dogmatica con Roma e sottomesse al Papa). I rapporti
diventeranno così tesi che un certo mondo cristiano orientale (ad esempio in
Anatolia) arriverà ad accogliere con speranza la penetrazione arabo-musulmana,
denunciando così il potere centrale bizantino e la politica espansionistica di
Roma.
Basta
questo richiamo storico per mettere in crisi la teoria semplicistica di chi
vorrebbe giustificare il declino e la quasi sparizione del cristianesimo in
Medio Oriente esclusivamente con la nascita e l'espansione dell'islam, a colpi
di scimitarra luccicante... La storia stessa del Santo Sepolcro evidenzia il
risultato finale di un processo di cristallizzazione delle divisioni e del
sospetto intra-cristiani. Pochi sanno che la chiave d'ingresso alla contesa
basilica di Gerusalemme, fin dai tempi di Saladino (1192), è in possesso della
famiglia musulmana dei Nuseibeh, chiamata in causa come forza neutra, nella
speranza di favorire la pace tra le varie fazioni cristiane. È come dire che
una ritrovata armonia nel mondo cristiano mediorientale non potrà che passare
anche attraverso rapporti nuovi e non conflittuali con il mondo islamico, in
questi Paesi numericamente dominante.
Da
Lisbona a Macao il viaggio della vita di Gianni Criveller
Mondo
e Missione - 1 febbraio 2010
La
porta dell'amicizia. L'odissea
vissuta da Ricci ricalca quella, eroica, di tanti missionari del suo tempo
Era
davvero il viaggio della vita. Quello che i missionari a partire dal XVI secolo
compivano verso le Indie orientali (l'Asia) e occidentali (le Americhe) era
un'esperienza rischiosissima. Molti non giungevano a destinazione. Almeno un
terzo dei gesuiti destinati alla Cina morirono durante il viaggio. Coloro che vi
arrivarono erano già dei sopravissuti, come Matteo Ricci, che arrivò a Macao
mezzo morto. Il viaggio è stata una componente predominante nella vita di
Ricci. Tra i 9 anni trascorsi a Roma (1568-1577) e i 9 trascorsi a Pechino
(1601-1610), Matteo visse 24 anni di continui spostamenti. Nato a Macerata il 6
ottobre 1552, Matteo iniziò il suo lungo viaggio verso Pechino il 18 maggio
1577, da Roma, dove sei anni prima, studente di Legge presso l'Università La
Sapienza, aveva bussato per essere ammesso alla Compagnia di Gesù. A riceverlo
era stato Alessandro Valignano, 32 anni. Il primo incontro tra due grandi, che
passeranno alla storia come i fondatori della missione moderna cinese, fu una
singolare coincidenza: all'arrivo di Ricci, Valignano sostituiva il maestro dei
novizi, assente per una temporanea indisposizione.
Matteo
non ritornò mai a Macerata, che aveva lasciato nel 1568, nemmeno prima di
partire. Da Roma si diresse a Livorno, poi a Genova e da qui, sempre per mare, a
Cartagena, in Spagna. Nel luglio dello stesso anno giunse a Lisbona.
Esistevano
allora due "vie delle Indie", quella dei portoghesi, utilizzata dai
gesuiti, e quella degli spagnoli, impiegata da agostiniani, francescani e
domenicani. La via portoghese partiva da Lisbona, circumnavigava l'Africa e
giungeva a Goa, in India. Da lì proseguiva per Malacca e infine arrivava a
Macao, l'estremo avamposto portoghese in Asia orientale. Ma per i missionari il
viaggio non finiva a Macao: dopo qualche tempo, alcuni salpavano per il
Giappone, altri intraprendevano via terra il viaggio all'interno della Cina.
La
via spagnola partiva da Cádiz (Cadice), attraversava l'Atlantico per giungere a
Veracruz, nella Nueva España. Da Acapulco il Galeón de Manila o la Nao de
China si inoltravano sul Pacifico per giungere nelle Filippine, l'estremo
possedimento coloniale spagnolo. Queste, a ritroso, erano anche le vie percorse
dalle numerose lettere e relazioni scritte dai missionari. Le vie marittime
riproducevano la divisione del "nuovo mondo" tra i regni di Portogallo
e Spagna.
A
Lisbona Ricci e compagni dovettero attendere la primavera successiva per
imbarcarsi. Matteo trascorse la maggior parte di quel soggiorno a studiare nella
città universitaria di Coimbra. Il 23 marzo 1578 dalla torre di Belem, presso
Lisbona, tre galeoni salparono per l'India, con a bordo 14 gesuiti. Il San Luis,
il galeone di Ricci e del compagno di missione Michele Ruggieri, fu spinto dai
venti quasi fino alla costa brasiliana. Doppiato il Capo di Buona Speranza, la
nave fu sul punto di affondare. Giunse a Goa il 13 settembre, dopo sei mesi di
navigazione. A Goa era esposto alla venerazione il "corpo santo" e
incorrotto di Francesco Saverio. Forse Matteo ha riflettuto sul fatto che il
Saverio era morto alle porte della Cina nello stesso anno in cui egli nasceva. A
Goa Ricci si ammalò ripetutamente di malaria e fu inviato a Cochin per
riprendersi, per completare gli studi di teologia e ricevere l'ordinazione
sacerdotale (26 luglio 1580). Ricci ebbe il coraggio di denunciare la pratica
discriminatoria di non ammettere i gesuiti indiani a ruoli di autorità. Nel
1582 ricevette l'ordine dal Visitatore di recarsi a Macao. Valignano aveva così
accolto il suggerimento di Ruggieri (a Macao dal 1579), che indicava in Ricci la
persona più adatta per la disperata "impresa della Cina". A Macao,
dove giunse il 7 agosto 1582, Matteo si rimise in salute e diede inizio
"all'ascesa verso Pechino".
Al
centro l'uomo: ecco la chiave per una reale integrazione di Paolo
Nicelli
Mondo e Missione - 1 febbraio 2010
Identità
nella diversità
La
mia riflessione parte dall'esperienza diretta che ho con le comunità musulmane
in Italia. Ma trova la sua origine nei 7 anni passati in missione, sia nelle
Filippine, nell'isola di Mindanao, che altrove (Malaysia, Indonesia, Turchia,
Egitto, Algeria). Ho vissuto anche un'esperienza accademica, molto positiva per
i contatti che si sono creati, al Markfield Institute of Higher Education
(Mihe), un centro di studi islamici in Gran Bretagna. A me pare che oggi in
Italia e a Milano chi, più di tutti, soffre la fatica dell'integrazione, siano
i musulmani autoctoni, perché nati in Italia, o perché convertiti all'islam.
Essi hanno bisogno di tempo e di spazi pubblici per scoprire la loro identità
di musulmani italiani, chiamati a vivere in un contesto in cui il pregiudizio e
il reale timore del terrorismo li costringe ai margini della società.
Proprio
a questi desideriamo rivolgerci come missionari impegnati sul territorio, con
quell'attenzione tipica di chi vuole incontrare la persona umana. Questi giovani
o giovani famiglie vivono la frustrazione di chi è italiano per diritto di
nascita (ius soli), ma non lo è ancora legalmente (ius sanguinis). Persone che
non sono pienamente accettate all'interno della loro comunità musulmana, perché
nate in Italia (e quindi non parte di culture e tradizioni islamiche arabe o
asiatiche). Fuori da questo contesto tradizionalmente musulmano, i giovani di
seconda e terza generazione non trovano quell'accoglienza necessaria alla loro
integrazione, per via della diffidenza e di una comprensibile paura del
terrorismo, o più semplicemente perché la gente rigetta una certa
intransigenza legata alla propaganda islamica tesa al proselitismo.
Le
proposte di possibili modelli di integrazione non possono solo trattare la
questione da un punto di vista della sicurezza e della legalità. C'è bisogno
di affrontare alla radice il problema della formazione di una comunità
autoctona musulmana ai valori democratici e occidentali. Per formazione intendo,
innanzitutto, quella religiosa musulmana, che in un contesto europeo e italiano
non può e non deve riprodurre i modelli mediorientali o asiatici, ma deve
trovare una sua forma religiosa e sociale islamica, tale da favorire
l'integrazione nel contesto occidentale. In questo senso sarà necessario
considerare seriamente una formazione civica che sottolinei la netta separazione
tra lo Stato e la moschea, nello spirito dei valori democratici e della laicità.
Considero
decisivo il fatto di porre più attenzione alla persona umana, come la realtà
centrale nel processo d'integrazione. Intendo la persona in tutti suoi aspetti,
primo tra tutti la sua dignità di soggetto amato da Dio e capace di amore verso
il prossimo. Il soggetto è importante, perché attore creativo nel contesto
sociale e quindi creatore di cultura. Se il soggetto sparisce all'interno di una
visione collettivista della comunità islamica, si avrà un individuo passivo,
incapace di creatività. Il lavoro di formazione, però, tocca anche la comunità
autoctona non-musulmana, la quale ha bisogno di approfondire i suoi valori più
importanti, quali: l'accoglienza, l'ospitalità e l'identità. L'identità
culturale e religiosa non si identifica mai con il rifiuto di accogliere i
valori positivi di popoli e culture diverse, quando tesi al perseguimento del
bene comune. In una società plurale, identità e diversità devono essere i
fattori portanti del processo d'integrazione. "Identità nella diversità"
per il bene comune, dove la diversità può promuovere l'unità, senza scadere
nel relativismo o nel conflitto.
Anche
i poveri saranno più vecchi - Che l'Onu lo dica a se stesso di Davide
Rondoni
Avvenire
- 7 febbraio 2010
Le
previsioni demografiche sul mondo del 2050. Poveri e belli, si diceva una volta.
Ora
si dovrà dire poveri e vecchi. Secondo le stime del rapporto Onu
sull'invecchiamento della popolazione, non sta invecchiando solo la parte ricca
del pianeta, ma ( qui sta la sorpresa) anche la parte più povera.
Insomma,
anche nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo si registra un processo di
invecchiamento preoccupante della società. Si aprono dunque delle crepe in
quell'immagine- feticcio agitata da sempre dai fautori del controllo forzato
delle nascite, e imposto dai ricchi ai poveri, secondo cui il futuro è popolato
da orde di giovani pronte a invaderci, battelli carichi di ragazzetti disposti a
tutto pur di sbarcare in Occidente.
All'Onu
i corridoi sono lunghi e i palazzi grandi.
Occorre
però che i funzionari dei vari uffici, e i politici che li governano, si
parlino. Infatti mentre in certe stanze si continua una miope politica di
forzato controllo delle nascite, in altre si mostrano dati secondo i quali la
popolazione povera del mondo sta pericolosamente invecchiando.
Percorrano
il corridoio, dunque. Si trovino davanti alla macchinetta del caffè. Si mettano
d'accordo tra loro. Le cifre parlano chiaro: nel 2050 gli anziani nei Paesi
poveri costituiranno l' 80% della popolazione. Secondo la tendenza attuale, gli
anziani in quelle terre aumenteranno del 340%. Chiunque può capire quali
conseguenze dal punto di vista dell'equilibrio sociale, del rischio di un
ulteriore impoverimento ne può derivare: si tratta di terre dove la rete di
protezione sociale per gli anziani è debole o nulla, e dove una fascia esigua
di persone in grado di lavorare - per di più in situazioni disagiate - dovrebbe
sobbarcarsi il peso non solo dei figli, ma di questi molti nonni. Non a caso già
ora gli anziani che lavorano sono nei Paesi più poveri oltre il 30%, molto di
più che in Occidente. E possiamo immaginare in che diversità di condizioni.
I
movimenti demografici sono processi lenti. E disomogenei. Il rapporto Onu mostra
che nelle nazioni asiatiche e latinoamericane la frenata demografica è più
forte rispetto all'Africa, dove la natalità è comunque ancora alta. Il
Continente Nero, perciò, potrebbe trovarsi ancora una volta a vivere la
condizione peggiore: molti bimbi e molti vecchi da mantenere, e poco lavoro da
fare. Con il risultato che la via della migrazione o della fuga affascinerà
ancora di più molti giovani di quelle terre.
Dal
rapporto vediamo che noi, i ricchi, gli europei, stiamo andando verso un 2050
con il 33% di anziani, un aumento del 60%. Nei nostri Paesi ci saranno 416
milioni di ' vecchi' contro i 264 milioni di oggi. I Paesi poveri ci stanno
seguendo sulla strada dell'invecchiamento, non certo dello sviluppo. E questo è
dissennato.
Dissennata
la nostra corsa, dissennato l'inseguimento.
I
dati demografici dell'Onu, dunque, smentiscono le politiche demografiche
dell'Onu. Sarebbe preoccupante se una contraddizione del genere accadesse, che
so, tra l'ufficio studi e le scelte di un Comune italiano. I suoi cittadini,
giustamente, s'arrabbierebbero. Ma i cittadini del mondo come fanno ad
arrabbiarsi con l'Onu? Beh, intanto almeno l'Italia batta un colpo. Non chieda
chissà cosa, dimissioni o gesti eclatanti. Ma che almeno si trovino quelli che
lavorano sullo stesso corridoio, o due piani sotto. L'Italia faccia la prima
mozione di questo tipo: per il ritrovo alla macchinetta del caffè, se c'è. Ci
sembra importante che l'organismo che intende armonizzare il governo del mondo
non sia schizofrenico su un argomento così vitale per i suoi destini.
Dopo
Copenaghen: dal Marocco, per uno sviluppo sostenibile
Misna
- 2 febbraio 2010
Un
invito alla solidarietà internazionale, basata sul concetto di responsabilità
condivisa, è stato rivolto dai partecipanti al primo Forum internazionale
sull'ambiente organizzato a Rabat dal Partito dell'ambiente e dello sviluppo
sostenibile (Pedd), un partito politico marocchino. "Il vertice di
Copenhagen è stato un'occasione mancata" a causa dell'incapacità dei
governanti mondiali di trovare un'intesa sulla protezione dell'ambiente, ha
detto Ahmed Alami, presidente del Pedd, sottolineando che i paesi arabi, come
tutti i paesi del Sud del mondo, non sono responsabili del surriscaldamento
globale ma ne subiscono le conseguenze maggiori. Unanime il plauso
all'iniziativa del re del Marocco, Mohamed VI, di redigere una "Carta
nazionale per l'ambiente e lo sviluppo sostenibile" che indichi diritti e
doveri dei cittadini nel rispetto dell'ambiente e a favore di uno sviluppo in
armonia con la natura e le risorse naturali. "È un'iniziativa senza
precedenti, un'azione costruttiva e positiva, di cui seguiamo la realizzazione
con grande interesse" ha commentato Amr Moussa, presidente della Lega
araba, in un messaggio ai partecipanti al Forum.[CC]
Contro
la logica delle armi una nuova cultura della pace di Giulio
Albanese
Avvenire
- 5 febbraio 2010
La
crescita dell'industria bellica e l'impegno cristiano
"Si
vis pacem para bellum", recita l'antica locuzione romana, eppure mai come
oggi si avverte l'esigenza di affermare il diritto alla pace. È quanto indica a
chiare lettere l'ampio magistero sociale della Chiesa, affermando innanzitutto e
soprattutto, alla luce del Vangelo, il principio della fraternità universale
che lega tutti i popoli, promuovendo la cultura della 'non violenza' e il
disarmo. Non v'è dubbio che la proliferazione di armi e il loro commercio
illegale rappresentino fenomeni inquietanti, dalla valenza planetaria. È bene
rammentare che, nonostante gli effetti della crisi che ha colpito le piazze
finanziare di mezzo mondo, l'industria bellica mondiale continua ad essere
l'unica a non temere alcuna forma di recessione. Basti pensare che nel solo 2008
le spese militari nel mondo sono cresciute del 4%, raggiungendo i 1.464 miliardi
di dollari. Sta di fatto che, come succede spesso in questi casi, sono i Paesi
più poveri quelli maggiormente penalizzati dalla violenza: dalla Somalia alla
martoriata regione sudanese del Darfur; per non parlare del settore orientale
dell'ex Zaire. A ciò si aggiungano le aree di crisi sul versante mediorientale
e caucasico. E cosa dire poi della crisi afghana e più in generale del
terrorismo globale? Si tratta di situazioni di fronte alle quali la comunità
dei credenti non possono rimanere indifferenti essendo in gioco il sacrosanto
valore della vita. Da questo punto di vista, come scriveva don Tonino Bello
durante la sua presidenza italiana di Pax Christi: "La pace non è il
premio favoloso di una lotteria che si può vincere col misero prezzo di un solo
biglietto. Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di lacrime,
di incomprensione e di sangue. La pace è il nuovo martirio a cui oggi la Chiesa
viene chiamata...".
Benedetto
XVI, in continuità con l'insegnamento dei suoi predecessori, ha lanciato nel
primo giorno dell'anno un messaggio toccante "alle coscienze di quanti
fanno parte di gruppi armati di qualunque tipo. A tutti e a ciascuno dico:
fermatevi, riflettete, e abbandonate la via della violenza!" (Angelus, 1°
gennaio 2010). Prendendo lo spunto da queste parole del Papa, s'è svolto presso
l'Università Lateranese un convegno organizzato dalla Commissione episcopale
per i problemi sociali e del lavoro, la giustizia e la pace, assieme a Caritas
Italiana e Pax Christi. Proprio questi tre soggetti, che insieme promuovono
l'accoglienza del Messaggio del Papa per l'annuale Giornata della pace e per la
marcia di fine anno, hanno testimoniato l'esigenza di affermare una
responsabilità ecclesiale. Come è stato ricordato in una missiva letta ai
partecipanti, a firma di monsignor Giovanni Giudici, presidente di Pax Christi,
oggi è "una sfida pastorale il fatto che nelle nostre comunità cristiane
trova acritica accoglienza la giustificazione della guerra e della violenza,
della legittima difesa armata e della ingerenza umanitaria con gli eserciti e
non è altrettanto presente l'attenzione per la difesa popolare nonviolenta, la
passione per la verità e i concreti gesti di amore che danno prospettive a un
mondo nuovo e possibile, secondo le parole dei Profeti". Il presule ha poi
ricordato che il cristiano non distoglie il volto dalla brutalità
dell'oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole 'nemico'
perché altri lo hanno definito come tale. I sentieri di pace segnati in questi
anni da alcune Chiese locali italiane a Novara e Vicenza costituiscono un motivo
di speranza.
Occorre
comunque, alla luce delle suggestioni del Magistero, progettare itinerari
specifici di formazione teologica, morale, spirituale alla pace che accompagnino
adeguate scelte di denuncia, di rinuncia e annuncio per una nuova civiltà
dell'amore. Nella consapevolezza che, a differenza dei nostri predecessori,
crediamo che "Si vis pacem para pacem".
Una
donna per le donne, nominata inviata contro violenze
Misna
- 4 febbraio 2010
L'ex-commissaria
europea, la svedese Margot Wallström, è stata nominata rappresentante speciale
dell'Onu per lottare contro le violenze sessuali di cui sono vittime donne e
ragazze minorenni nelle zone di conflitto. Lo ha annunciato il Segretario
generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, sottolineando come la nuova
rappresentante è chiamata ad intervenire in particolare in Kivu (est
congolese), in Somalia e in Sudan dove "stupri e violenze vengono
utilizzati come arma di guerra". La nuova figura avrà il mandato di
coordinare le attività dei vari organismi Onu per rafforzare la lotta contro le
violenze e di svolgere campagne informative per sensibilizzare la comunità
internazionale. La nomina del rappresentante speciale era stata decisa lo scorso
Ottobre all'unanimità dei 15 Stati membri del Consiglio di sicurezza che, nella
risoluzione 1888, chiesero nuovamente ai paesi dove sono in corso o si conclusi
di recente conflitti armati di porre fine alle violenze sessuali e di punire i
responsabili con adeguate sanzioni. La nomina della Wallström interviene mentre
a Kinshasa donne congolesi, ugandesi e senegalesi sono riunite in un forum che
si propone di creare un organizzazione panafricana in difesa dei diritti delle
donne del continente, in particolare per lottare contro la discriminazione nei
loro confronti e le violenze subite in zone di guerra. [VV]
Primo
rapporto globale su popoli indigeni, per conoscerli e difenderli
Misna
- 1 febbraio 2010
Rappresentano
il 5% degli abitanti del pianeta gli appartenenti a popolazioni indigene, circa
370 milioni in 70 paesi, ai quali è dedicato lo "State of the world's
indigeneous peoples", primo rapporto globale in materia stilato dalle
Nazioni unite. Presentato nei giorni scorsi da Victoria Tauli Corpuz, presidente
del Forum permanente dell'Onu sulle questioni indigene, il documento intende
riempire una lacuna sulla conoscenza dei popoli autoctoni, che troppo spesso
vengono dimenticati o discriminati dai propri governi, forse a volte anche per
mancanza d'informazioni. Si tratta di circa 5000 gruppi - indica il rapporto -
ognuno dei quali ha una propria storia, una propria lingua, una propria cultura,
una propria identità, proprie credenze e un proprio sistema 'politico'. Ma
"nonostante i progressi realizzati negli ultimi 40 anni, per molti di
questi popoli, il riconoscimento dei diritti rimane un'utopia" sostengono
gli autori della ricerca. Nel corso degli ultimi tre decenni, sottolineano,
molti hanno abbandonato le loro terre ancestrali spostandosi verso i centri
urbani, in parte per trovare nuove opportunità educative e lavorative, ma anche
perché costretti a farlo da aziende o governi interessati allo sfruttamento di
risorse naturali o nell'ottica di politiche di assimilazione forzata. Nel 2007
le Nazioni Unite hanno adottato una Dichiarazione dei diritti dei popoli
indigeni, che dovrebbe servire di base universale. [CC]
Storia
di Shazia, 12 anni, cristiana di Antonio Socci
Libero
- 31 gennaio 2010
Nessuno
a Hollywood le dedicherà un film (che pure sarebbe da Oscar), nessuno scrittore
la immortalerà in un romanzo, nessun giornale occidentale - che dedica pagine e
pagine al burqa in Francia - ha sollevato clamore.
Perché
i cristiani sono tornati come al tempo di san Paolo: "siamo diventati la
spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti". Dunque la triste storia di
Shazia Bashir, 12 anni, cristiana, non può far notizia.Come non fa notizia che
proprio i cristiani siano il gruppo umano più perseguitato del pianeta. Nemmeno
i credenti lo sanno e si fanno semmai bersagliare dalle accuse opposte.
L'Avvenire
di Dino Boffo aveva mostrato una certa sensibilità per il dramma dei cristiani
oppressi, in decine di paesi del mondo (250 milioni di cristiani ogni giorno a
rischio e migliaia di vittime ogni anno): era un forte incentivo ad aprire gli
occhi. Ma di recente Boffo è stato ingiustamente indotto alle dimissioni dopo
un'assurda polemica.
Detto
questo la storia di questa ragazzina cristiana, Shazia Bashir, non si può
tacere. Oltretutto è solo la punta dell'iceberg.
L'ha
fatta emergere dal silenzio, una settimana fa, l'agenzia missionaria Asianews
(del Pontificio istituto missioni estere), che fa un lavoro eccezionale, ma come
una voce che grida nel deserto. Ha lanciato la notizia così, dal Pakistan:
"Lahore, domestica cristiana 12enne torturata e uccisa". L'agenzia
riferisce che viene accusato il padrone musulmano: "La giovane lavorava
presso la famiglia di un potente avvocato della città, dove era soggetta a
violenze sessuali, fisiche e psicologiche. La morte della ragazza ha scatenato
le proteste della comunità cristiana, che chiede giustizia. Attivista per i
diritti umani: il 99 per cento delle giovani cristiane che lavorano per
musulmani sono vittime di violenze e abusi".
Vedremo
se e come le autorità arriveranno a individuare e punire il o i colpevoli. Ma
non ci si possono fare illusioni sulla tutela dei cristiani in un paese come il
Pakistan.
L'agenzia
Asianews aggiunge: " 'I genitori di Shazia non hanno potuto vedere la
figlia' denuncia Razia Bibi, 44 anni, zia della vittima. La 12enne è morta il
22 gennaio scorso in ospedale a causa delle ferite subite. Sohail Johnson,
(attivista per i diritti umani, nda) conferma che il cadavere presentava i segni
delle torture in 12 punti diversi del corpo ed è stata ricoverata 'con la
mandibola fratturata'. In un primo momento la famiglia dell'avvocato ha proposto
un risarcimento di 250 dollari ai genitori per non sporgere denuncia; poi si
sono dati alla fuga. La polizia li ha arrestati dietro pressioni del governo
federale".
Il
giorno dopo la morte di Shazia i cristiani hanno manifestato di fronte agli
uffici dell'Assemblea provinciale del Punjab. "L'associazione dei legali di
Lahore, invece, si è schierata a difesa del potente avvocato musulmano. La
minoranza cristiana" scrive ancora Asianews "esprime dubbi
sull'indipendenza e l'efficacia delle indagini avviate dalla polizia".
Va
detto che non stiamo parlando di un paese marginale: il Pakistan ha 180 milioni
di abitanti, è addirittura una potenza nucleare e si trova in una posizione
geopolitica strategica, fondamentale nella lotta occidentale al terrorismo
islamico.
Ma
gli Stati Uniti sbagliano profondamente se si illudono di potere vincere quella
guerra solo tramite la via militare, in alleanza col regime pakistano.
Anche
perché il Pakistan, che dovrebbe essere un pilastro di questa lotta al
terrorismo, è uno dei paesi più integralisti, quello dove è stata inventata
ed è tuttora in vigore la vergognosa "legge sulla blasfemia" che dà
praticamente diritto di vita o di morte sui cristiani o su chi non si riconosca
nel credo coranico.
I
cristiani lì sono una minoranza ridotta alla miseria, vessata in ogni modo. Le
famiglia cristiane sono così povere che per sopravvivere sono costrette a
mandare le figlie a lavorare già da bambine e in genere l'unico lavoro che
possono fare è quello delle serve presso le ricche famiglia musulmane.
Dove
però - scrive Asianews - "sono sovente vittime di abusi e violenze
fisiche, sessuali e psicologiche".
Secondo
un'organizzazione per i diritti umani "in alcuni casi i loro padroni le
danno in spose a domestici musulmani, obbligandole a convertirsi
all'islam". In sostanza "queste vulnerabili ragazze cristiane non
godono di alcuna protezione".
La
Chiesa italiana e il Vaticano si sono spesso (anche in queste ore) pronunciati
in difesa degli immigrati. Giustamente. Ma chi si occupa dei poveri cristiani di
quei paesi, così poveri da non poter neanche tentare di emigrare?
Ragazzine
come Shazia sono costrette a subire una vita infernale per una paga di 12
dollari al mese, a volte neanche corrisposta: perché la Chiesa, tramite le
parrocchie, la Caritas o tante altre organizzazioni, non lancia una grande
campagna per le "adozioni a distanza" di queste ragazzine cristiane?
Io
credo che tantissimi sarebbero disposti a dare 12 dollari al mese, cioè 8 euro
al mese, per salvare queste povere fanciulle da un simile inferno. La vita di
una fanciulla cristiana di dodici anni vale almeno 8 euro?
Mi
chiedo perché gli stessi cattolici, che nei primi secoli onoravano e veneravano
le giovani cristiane martirizzate dai pagani, ignorano la sorte terribile e il
martirio di tante fanciulle in molti paesi.
Nei
primi secoli addirittura i padri della Chiesa scrivevano pagine immortali in
onore di queste fanciulle: penso al caso di sant'Agnese, martire a 16 anni.
Sant'Ambrogio, san Girolamo e san Damaso esaltarono il suo esempio, la Chiesa la
venera da 1700 anni, a lei ha dedicato chiese e memorie liturgiche.
Mentre
noi cristiani del XXI secolo neanche conosciamo i nomi dei martiri di oggi. Nel
tempo dell'informazione planetaria globale i cattolici stessi ignorano la vastità
e la crudeltà dell'odio anticristiano e delle persecuzioni nel mondo.
Così
nessuno ha mai pensato di aiutare le povere famiglie cristiane di questi paesi,
né di realizzare un qualche osservatorio internazionale o un'agenzia di difesa
sul modello dell' "Anti defamation league" o di Amnesty international.
Non
si potrebbe sostenere di più il lavoro di associazioni come "L'Aiuto alla
Chiesa che soffre"? Non si potrebbero moltiplicare gli sforzi e le
organizzazioni di questo tipo?
Non
potrebbero i cattolici e il Vaticano, anche in accordo con le organizzazioni
cristiane protestanti (questo sarebbe il vero ecumenismo), creare ad esempio un'équipe
di avvocati specializzati con la missione di fornire assistenza legale gratuita
a livello internazionale, per patrocinare le cause dei cristiani perseguitati in
ogni sede giuridica, politica o amministrativa?
Sono
domande che personalmente pongo da anni, con articoli, libri e conferenze. Ma
non ho mai avuto il barlume di una risposta. Forse perché i molti uffici del
Vaticano sono impegnati con tanti altri problemi delicati.
Ma
siamo sicuri che la tragedia dei cristiani perseguitati sia una questioncella
secondaria? Siamo sicuri che non si possa fare di più?
Quando
leggo articoli come quello apparso ieri sul Foglio, dove Vittorio Feltri rivela
che è stato "un informatore attendibile, direi insospettabile" che,
riassume il Foglio, "ha spacciato per vero un documento falso sull'ex
direttore di Avvenire Dino Boffo, creando il caso" e portando alle sue
dimissioni, e che tutto questo è nato quando - aggiunge Feltri - "una
personalità della chiesa della quale ci si deve fidare istituzionalmente mi ha
contattato", viene da chiedersi con amarezza: veramente ci sono
"personalità della chiesa" che si dedicano a questo?
Si
deve sperare che si faccia chiarezza assoluta. E che i cattolici dedichino le
loro energie ai poveretti che, nel mondo, soffrono a causa della loro fede
cristiana e aspettano aiuto.
Fao: dall'Aquila solo promesse di Paolo M. Alfieri
Avvenire
- 19 febbraio 2010
Diouf: "Dei 20 miliardi del G8 a noi neanche un centesimo"
"Non abbiamo avuto un centesimo ", sibila Jacques Diouf. Già perché se durante il G8 dell'Aquila era tutto un fiorire di comunicati stampa che celebravano quei 20 miliardi di dollari in tre anni promessi dai Paesi ricchi per sostenere lo sviluppo e l'agricoltura nei Paesi poveri, a distanza di sette mesi la Fao non ha ricevuto nulla. "Il mio è soltanto un campanello d'allarme - ha precisato ieri il direttore generale dell'agenzia Onu, Diouf - Non sappiamo se i soldi siano andati altrove. Mi rendo conto che ci vuole tempo affinché gli impegni si traducano in realtà, e l'impegno era triennale. Certo è che il 2009 è già passato e ancora non si è visto niente". Una svista? Un rallentamento dovuto alle solite lungaggini burocratiche? Chissà. Per una volta, quanto meno, l'Italia non è sola per il mancato versamento degli aiuti allo sviluppo. Magra, magrissima "consolazione". "Non escludo - ha aggiunto Diouf - che gli aiuti siano andati a governi, ai canali regionali, a strutture multilaterali, ad altre agenzie. Ma la Fao non ha visto niente. Abbiamo avuto a disposizione 400 milioni di dollari per l'acquisto di sementi, ma si è trattato di denaro stanziato prima del G8 dell'Aquila ". Il richiamo di Diouf è giunto ieri da Roma, in occasione della presentazione del rapporto sullo 'Stato dell'agricoltura 2009'. Per il direttore generale della Fao si è trattato di un vero e proprio appello alla responsabilità: "Ormai il 2009 è alle spalle - ha avvertito - e per realizzare i nostri obiettivi restano solo il 2010 e il 2011". Già lo scorso novembre, peraltro, si era capita l'antifona. |
Il
vertice mondiale sulla fame organizzato proprio dalla Fao a Roma a poco tempo
dal summit dell'Aquila si era infatti rivelato un mezzo flop: nessun capo di
Stato del G8 si era fatto vedere (a parte il 'padrone di casa' Berlusconi) e
nella dichiarazione finale non erano stati inclusi né impegni dettagliati per
fondi umanitari né tempi certi per il loro stanziamento. I 60 capi di Stato che
si erano visti a Roma si erano impegnati a sradicare la fame nel mondo "il
prima possibile". Scadenze vuote che per gli analisti non hanno ormai alcun
senso. Soprattutto
quando, come nel caso dei fondi promessi all'Aquila, un'agenzia Onu come la Fao
non ottiene un centesimo dei miliardi promessi mesi prima.
Illustrando ieri il rapporto mondiale sull'agricoltura, Diouf ha inoltre
spiegato che le malattie animali che si trasmettono sempre più frequentemente
all'uomo e i cambiamenti climatici legati all'impatto degli allevamenti
intensivi "pongono rischi sistemici che vanno affrontati con investimenti
adeguati". Servono, insomma, "maggiori investimenti nella salute
animale e nella sicurezza igienico-sanitaria delle infrastrutture". Il
rapporto evidenzia, inoltre, la necessità di rafforzare l'efficienza nell'uso
delle risorse naturali del settore e ridurre l'impronta ecologica della
produzione animale.
Nei prossimi dieci anni il settore zootecnico crescerà del 20% e del 50% entro
il 2050, con un pesante impatto sulle risorse ambientali. Quel che serve,
secondo Diouf, è una "governance di settore ", perché finora c'è
stata una situazione "di vuoto istituzionale", che ha creato un
divario tra "i grandi operatori commerciali e i piccoli allevatori, che
rischiano di restare tagliati fuori dalle opportunità di sviluppo".
Nasce
fondo per le donne africane, l'UA in difesa dei loro diritti
Misna
- 3 febbraio 2010
Si
è tradotta nella creazione di un 'Fondo per le donne africane' la volontà dei
capi di Stato e di governo dell'Unione Africana (UA) di concretizzare e
approfondire le politiche a favore dei diritti delle africane. La nuova
iniziativa è stata annunciata in conclusione del XIV vertice dell'UA, ad Addis
Abeba, con una risoluzione 'ad hoc'; la Commissione ha ricevuto il compito di
definire una strategia di mobilitazione attorno al nuovo fondo, che, in un primo
momento, verrà finanziato dai contributi degli Stati membri dell'UA. "La
nuova iniziativa è emblematica del ruolo determinante delle donne nelle nostre
società. I loro diritti vanno promossi, rispettati e garantiti su scala
continentale" ha detto il neo-presidente dell'UA, il capo di Stato del
Malawi, Bingu Wa Mutharika; in particolare chiede ai suoi omologhi di aderire al
Fondo, di ratificare e applicare gli strumenti giuridici relativi ai diritti
delle donne, in primo luogo l'apposito protocollo dell'UA adottato nel Luglio
2003 a Maputo. Infine, ad Addis Abeba capi di Stato e di governo hanno deciso
che sosteranno con decisione le future candidature femminili - e di paesi
africani - alla direzione di organizzazioni internazionali. [VV]
Vertice
UA: misure per prevenire golpe e difendere democrazia
Misna
- 2 febbraio 2010
Misure
per prevenire colpi di stato e aumentare il potere negoziale dell'Unione
Africana (UA) nei casi di cambi di regime incostituzionali sono state adottate
ad Addis Abeba dove si sta svolgendo la XIV assemblea dei capi di stato e
governo dell'organismo che riunisce 53 paesi del continente. Le nuove misure, ha
sostenuto Ramtane Lamamra, a capo della Commissione pace e sicurezza dell'UA,
prevedono maggiori spazi di intervento e di impegno diplomatico per prevenire o
risolvere crisi politiche e la possibilità di autorizzare più pesanti sanzioni
contro quei paesi in cui un governo democraticamente eletto sia stato esautorato
con la forza. Nel vertice sono stati esaminati in particolare i casi del
Madagascar e della Guinea, paesi al centro di diverse e complesse crisi
politiche da circa un anno. Nel corso dell'assemblea si è anche parlato del
Niger, dove il mandato del presidente Mamadou Tandja è stato esteso in seguito
a un controverso referendum, e sono state esaminate le condizioni di sicurezza
della Somalia (confermando il sostegno al governo di transizione in carica da un
anno) e del Sudan, dove cresce l'attesa per le elezioni di quest'anno e per il
referendum che nel 2011 sottoporrà ai cittadini la questione dell'indipendenza
del sud del paese. Sottolineando invece i progressi fatti dal governo di unità
nazionale di Harare, l'assemblea ha approvato la scelta della regione australe
di affidare allo Zimbabwe un seggio nella strategica Commissione pace e
sicurezza.[GB]
Concluso
il Vertice dell'UA:...
al
centro dei lavori le crisi in Somalia e Madagascar e il mantenimento della pace
in Sudan
Agenzia
Fides - Addis Abeba - 3 febbraio 2010
Il
conflitto in Somalia, il mantenimento della pace in Sudan e la crisi politica in
Madagascar sono stati i temi principali del Vertice dell'Unione Africana che si
è chiuso ieri, 2 febbraio, ad Addis Abeba, capitale dell'Etiopia.
Secondo
il Presidente della Commissione dell'UA, Jean Ping, in Sudan "sono stati
compiuti dei progressi notevoli nell'applicazione dell'Accordo di Pace inclusivo
del 2005, ma delle sfide di una grandezza senza precedenti richiederanno
un'attenzione continua da parte della comunità internazionale". Il Sudan
si appresta alle elezioni presidenziali e parlamentari nell'aprile di
quest'anno, mentre nel 2011 è previsto il referendum sull'indipendenza del Sud
Sudan. È proprio l'eventualità di una vittoria dei sostenitori
dell'indipendenza sud-sudanese a preoccupare gli osservatori internazionali.
"Dobbiamo lavorare con i responsabili sudanesi per promuovere la pace nel
Paese" ha sottolineato il Commissario alla Pace e alla Sicurezza dell'UA,
Ramtane Lamamra, mentre il Segretario Generale dell'ONU, Ban Ki-Moon, si è
espresso a favore del mantenimento dell'unità del Sudan. "Facciamo questo
rispettando pienamente la volontà dei popoli sudanesi, ma dobbiamo in ogni caso
rendere attraente l'unità del Paese" ha affermato Ban. Dalle dichiarazioni
rilasciate alla stampa da esponenti sudanesi emerge però la consapevolezza che
il Sud Sudan si sta ormai avviando verso l'indipendenza. Secondo un funzionario
sudanese il ruolo della comunità internazionale dovrebbe essere quello di
garantire un pacifico periodo post referendario.
L'UA
ha chiesto " al regime illegale del Madagascar di mettere fine ai tentativi
di imporre delle soluzioni unilaterali alla crisi" minacciando
l'imposizione di sanzioni. L'uomo forte dell'Isola, Andry Rajoelina, ha indetto
unilateralmente le elezioni legislative il prossimo marzo, mettendo fine ai
negoziati con gli altri movimenti politici malgasci.
Per
quel che riguarda la Somalia durante il Vertice l'IGAD (Autorità
intergovernativa per lo Sviluppo, che raggruppa 6 Paesi dell'Africa dell'est),
ha pubblicato un comunicato nel quale esprime preoccupazione per l'estensione
delle azioni dei gruppi terroristici somali alle regioni relativamente stabili
del Somaliland e del Puntland.
Il
Presidente del Malawi, Bingu wa Mutharika, è stato eletto Presidente dell'UA,
in sostituzione del leader libico Gheddafi. Il nuovo Presidente dell'UA ha
dichiarato che tra le priorità del suo mandato vi saranno la sicurezza
alimentare del continente, lo sviluppo delle infrastrutture e dell'energia.
(L.M.)
L'Africa
dei figli di papà di Anna Pozzi
Mondo e Missione - 1 febbraio 2010
Fotografia
di un continente dalla politica malata. Tra "democrature" e nuove
dinastie, l’Africa si allontana progressivamente dalla via democratica. E così,
sempre più spesso, il potere si tramanda in famiglia
Sarà
pure un piccolo Paese, ma le prossime elezioni presidenziali in Togo, previste
il 28 febbraio, rappresentano una sorta di cartina di tornasole. Diranno se la
tendenza che si sta consolidando in questi anni in Africa è qualcosa di più di
un caso, ma rappresenta - come denunciano molti - un'inquietante certezza: il
consolidamento di una serie, ormai abbastanza nutrita, di nuove dinastie
africane. Ovvero, quando il potere passa di padre in figlio, magari dopo che il
padre è rimasto ai vertici dello Stato per tutta la vita. È il caso di
molti dittatori africani, che spesso si sono imposti con la forza e non
raramente con la benedizione delle ex potenze coloniali. Insomma, la negazione
su tutta la linea di qualsiasi velleità democratica, sepolta - per salvare
almeno la forma - dietro l'apparenza di pseudo-elezioni, ad uso e consumo
soprattutto della comunità internazionale.
Il
caso del Togo è emblematico. Il padre, Etienne Gnassingbé Eyadéma, è stato
uno dei grandi "dinosauri" della politica africana. Arrivato al potere
con un colpo di Stato nel 1967, ha "regnato" con pugno di ferro e
sanguinaria brutalità, sino alla morte nel 2005. Istantanea la reazione del
figlio, Faure Gnassingbé, che non con la forza delle armi, ma con quella del
diritto, è riuscito a ordire, nell'arco di poche ore, una sorta di "colpo
di Stato costituzionale". Da ministro viene nominato deputato e quindi
eletto presidente dal Parlamento, carica che gli ha permesso di gestire
l'interim sino alle elezioni dell'aprile 2005 che, in un clima di guerra civile,
lo hanno consacrato presidente. Nel frattempo, un altro figlio di Eyadéma (di
un'altra moglie), ex ministro della Difesa dal 2005 al 2007, veniva arrestato
per un tentativo di colpo di Stato. Insomma, sporchi affari di famiglia, che
tuttavia continuano ad avere pesanti ripercussioni su questo piccolo Paese
dell'Africa occidentale, dove il rispetto dei diritti umani e delle libertà
fondamentali - di opinione, stampa, associazione - restano ancora un miraggio.
Inutile
dire che Faure Gnassingbé è il candidato favorito pure nella prossima tornata
elettorale di fine febbraio. Anche perché il suo apparato, consolidato da quasi
quarant'anni di dittatura paterna - ampiamente sostenuta dalla Francia - ha
messo in campo tutta una serie di misure intimidatorie per scoraggiare la gente
dal recarsi alle urne.
SCENDENDO
un po' più a sud, verso l'Africa centrale, la situazione non cambia di molto.
Anzi, esistono parecchie analogie con le vicende del Gabon e del suo vecchio
patriarca Omar Bongo Ondimba, detto "Obo". Pure lui al potere dal
1967, ha gestito a suon di petroldollari le relazioni interne, con i suoi fin
troppo malleabili oppositori, ed esterne, specialmente con l'inossidabile
alleato francese e le sue compagnie petrolifere Elf e Total. Sino alla morte, lo
scorso giugno, a 73 anni d'età e 42 di potere. Lascia un Paese che potrebbe
essere tra i più ricchi al mondo (è il quarto produttore di petrolio in Africa
subsahariana e il secondo esportatore di legname pregiato), dove la metà dei
suoi abitanti (un milione e mezzo!) vive al di sotto della soglia di povertà.
Anche
in questo caso, la transizione è stata un mero affare di famiglia. Il figlio,
Ali Bongo Ondimba, ex ministro della Difesa, è succeduto al padre, in seguito
alle elezioni vinte lo scorso 30 agosto e contestate dalle opposizioni. Si è
presentato come un riformatore e per questo i suoi concittadini lo hanno
ribattezzato "TsunAli". Ma sta di fatto che la gestione del Gabon
resta ancora oggi sostanzialmente un affare di famiglia. Innanzitutto perché la
potentissima grande soeur, la sorella maggiore Pascaline, braccio destro del
padre e direttore del suo gabinetto, continua ad avere un enorme peso: non solo
nella gestione della fortuna di famiglia, ma anche in veste di vice-presidente
di Total-Gabon e di presidente di Gabon Mining Logistic. E a chiudere il
cerchio, il suo compagno, Jean-François Ndongou, riconfermato da Ali al
ministero dell'Interno, dopo vent'anni di vari incarichi governativi con Omar.
Quanto all'altro fratello, Christian Bongo, mantiene la direzione generale della
Banca gabonese di sviluppo (Bgd), nonostante alcune frizioni che gli hanno
impedito di mettere le mani anche sulla compagnia aerea di Stato.
Resta
lo strascico di quattro inchieste aperte dalla magistratura francese, che
vedevano coinvolto Omar Bongo. Una di queste, per malversazione di fondi
pubblici e acquisto di beni in Francia per 160 milioni di euro, coinvolge anche
il presidente della Repubblica del Congo Sassou Nguesso (di cui Omar Bongo aveva
sposato la figlia) e il presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang
Nguema. Ovvero altre due importanti famiglie-Stato africane.
QUELLA
di Obiang Nguema, succeduto con un colpo di Stato allo zio Francisco Macías
Nguema nel 1979, è una vera e propria cleptocrazia familiare, che sta
dissanguando la piccola isola del golfo di Guinea, ricchissima di petrolio (è
il terzo produttore subsahariano). La rivista Forbes stima il patrimonio
personale di Obiang attorno ai 600 milioni di dollari e lo colloca all'ottavo
posto nella classifica degli uomini più ricchi al mondo. Il figlio Teodorin,
probabile successore, dichiara un reddito di cinquemila dollari al mese, ma
possiede una casa da 35 milioni dollari a Malibu, due Ferrari, tre Bugatti, una
limousine Rolls Royce e due Maserati.
Anche
qui, il presidente-padrone Obiang Nguema non ha rinunciato alla farsa delle
elezioni e, nel novembre del 2009, si è presentato alle presidenziali
boicottate dall'opposizione. I dati ufficiali parlano di un 95,37 per cento dei
consensi (nel 1996 aveva ottenuto il 99 cento!) e di un tasso di partecipazione
pari al 93 per cento degli aventi diritto.
PIÙ
RECENTE, ma non meno inquietante, la dinastia dei Kabila che si è instaurata in
Repubblica Democratica del Congo, dopo la caduta del maresciallo Mobutu Sese
Seko, nel maggio del 1997. Storia, in entrambi i casi, di grandi entusiasmi e
grandi delusioni. Laurent-Dèsiré Kabila porta al potere l'anelito di un popolo
che chiede una svolta, dopo la trentennale dittatura di Mobutu. Viene
assassinato nel gennaio del 2001 e, in maniera alquanto acrobatica, il potere
passa al giovane figlio Joseph Kabila, allora ventinovenne. Kabila junior
riesce, sì, a organizzare, nel 2006, le prime elezioni libere nella storia del
Paese. E anche a farsi eleggere con una parvenza di democrazia. Ma lascia aperti
tanti fronti oscuri, legati specialmente allo sfruttamento delle enormi risorse
del Paese. Sfruttamento che vede coinvolti i Paesi limitrofi, con Ruanda in
testa, nelle regioni orientali, destabilizzate da quindici anni di guerra e
violenza (cfr dossier M.M., dicembre 2009) e sempre più dalla onnipresente
Cina.
UN
CASO A SÉ è quello del Botswana, dove Ian Khama è stato confermato lo scorso
16 ottobre capo dello Stato. Cinquantasei anni, meticcio e celibe,
"eredita" la carica del genitore Seretse Khama, re della tribù dei
bamangwato, primo presidente del Botswana e "padre della patria". In
realtà, tra padre e figlio si sono alternati i governi di Ketumile Joni Masire
e Festus Mogae. Tuttavia, già all'età di 24 anni Ian Khama guida l'esercito,
nonché concentra nella sua figura di primo ministro, all'epoca di Mogae, gran
parte dei poteri. I suoi detrattori ne parlano come di un antidemocratico, più
vicino allo spirito dei regni tradizionali e dell'esercito. Ma il fatto che non
sia sposato - e che ufficialmente non abbia figli - è perlomeno garanzia che
con lui la dinastia appena iniziata possa presto finire.
Altre,
invece, potrebbero essere inaugurate a breve. Persino in Stati dalla reputazione
democratica come il Senegal. Qui, per la prima volta in Africa, il principale
oppositore al partito di Léopold Sédar Senghor e Abdou Diouf, l'attuale
presidente Abdoulaye Wade, è riuscito a vincere le elezioni nel 2000, mostrando
al mondo interno che anche in Africa un'alternanza politica è possibile. Solo
che ora l'"era Wade" (che oggi ha 83 anni) potrebbe concludersi con...
un'altra "era Wade". Da Abdloulaye a Karim, il figlio quarantenne che,
nonostante abbia perso le elezioni per diventare sindaco di Dakar, viene
proposto come futuro presidente del Senegal nel 2012. Nel frattempo, il padre
gli ha ritagliato un ministero ad hoc: quello della Cooperazione internazionale,
del Territorio, dei Trasporti aerei e delle Infrastrutture.
E
DI POSSIBILI successioni in famiglia si parla anche nel Nordafrica. Cosicché
quelle che molti definiscono "democrature" - ovvero
democrazie-dittature - potrebbero presto trasformarsi in una sorta di monarchie
ereditarie. In Algeria, ad esempio. Qui il presidente Abdelaziz Bouteflika, 72
anni, ha cambiato la Costituzione per farsi eleggere per la terza volta
nell'aprile del 2009 (ufficialmente con il 90,4 per cento dei consensi). Da
tempo, però, a causa di una grave malattia, circolano voci circa un possibile
passaggio dei poteri al fratello.
Anche
nella vicina Libia si parla del figlio per prendere il posto dell'intramontabile
padre, il colonnello Muammar Gheddafi, 77 anni, al potere da mezzo secolo.
Mentre in Egitto il presidente Hosni Moubarak, 81 anni, che invece governa
(solo) da trent'anni, starebbe preparando il figlio Gamal, 46, a prendere il suo
posto nel 2011, sempre che non decida lui stesso di ricandidarsi.
Intanto,
in Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali, 73 anni, secondo presidente del Paese dal
novembre 1987, è stato rieletto per la quinta volta nell'ottobre 2009 con
(solo) l'89,62 per cento dei voti. In passato aveva fatto meglio (nel '94 aveva
ottenuto il 99,81 per cento delle preferenze!) e forse spera di rifarsi in
futuro. Lui, per il momento, continua imperterrito a candidare se stesso
La
donna in Asia, fra violenza e povertà, trova forza nell'Eucarestia
Agenzia Fides - Dacca - 2 febbraio 2010
"La
violenza sulle donne è molto diffusa in Asia meridionale. La povertà delle
donne è fortissima. Nelle società dei paesi dell'Asia meridionale il
pregiudizio e la discriminazione delle donne sono nella cultura dominante. La
religione, e in particolare la fede cattolica, sono per le donne una strada per
recuperare la propria dignità, autostima e identità": è quanto afferma
in un colloquio con l'Agenzia Fides Virginia Saldhana, responsabile dell'ufficio
dedicato alle donne, nell'ambito del Ufficio per il Laicato e la Famiglia della
Federazione delle Conferenze Episcopali Asiatiche (FABC), a margine di una
recente seminario della FABC dedicato alle donne in Asia del Sud.
Al
Forum, tenutosi a Dacca (in Bangladesh), e intitolato "Donne che vivono
l'Eucarestia in Asia meridionale", hanno partecipato religiosi, laici e in
prevalenza donne cattoliche dei paesi dell'area. Il Seminario ha focalizzato i
principali problemi che toccano la condizione femminile, incoraggiando le Chiese
locali a rispondere con impegno alle sfide imposte dalla mancanza di diritti e
dignità delle donne.
"Abbiamo
cercato di spiegare alle donne che possono vivere l'Eucarestia con un senso e un
significato nuovo: non solo come rifugio per le loro sofferenze, ma come
sorgente di forza per agire nella promozione umana e sociale della loro
condizione", spiega a Fides Virginia Saldhana.
"Impegnarsi
e prendere l'iniziativa a volte comporta dei rischi. Ma dall'Eucarestia le
nostre donne possono attingere il coraggio di farsi pane spezzato per gli
altri" aggiunge, come hanno spiegato le esperienze raccontate da diverse
donne durante il meeting.
"Abbiamo
riflettuto sulla vita di Maria e su come la Vergine ha vissuto l'Eucarestia
nella sua vita. Il suo esempio è stato di forte impatto su tutte le donne
partecipanti, che hanno apprezzato il modello di Maria come donna che parla loro
nel XXI secolo", nota la responsabile FABC.
"Le
donne sono parte essenziale della missione della Chiesa e per loro vivere in
pienezza la vita cristiana significa anche portare avanti senza paure il
discorso sulla propria dignità", sottolinea Saldanha.
"Da parte nostra vogliamo incoraggiare ogni Chiesa locale in Asia e riconoscere il ruolo fondamentale della donna nella missione della Chiesa: nella famiglia, nella comunità, nella pastorale ecclesiale, nel dialogo interreligioso", conclude. (PA)
Immigrazione:
Consiglio d'Europa, "non chiamateli illegali"
Misna - 4 febbraio 2010
"La
criminalizzazione relativa all'ingresso e alla presenza di immigrati irregolari
nei paesi europei contravviene ai principi stabiliti dalle norme di diritto
internazionale": lo afferma il commissario per i diritti umani al Consiglio
d'Europa Thomas Hammarberg in un documento presentato oggi a Bruxelles sulle
ricadute, in termini di violazione dei diritti umani, delle politiche che
criminalizzano l'immigrazione. "Ho constatato con crescente preoccupazione
il diffondersi di questa tendenza presentata addirittura come uno dei punti
portanti delle strategie di gestione dell'immigrazione" precisa Hammarberg,
aggiungendo che "i paesi hanno un diritto legittimo a controllare le loro
frontiere, ma la criminalizzazione è una misura sproporzionata, che può avere
come conseguenza la stigmatizzazione e marginalizzazione dei migranti". Il
commissario raccomanda inoltre di abolire l'uso del termine "immigrazione
illegale" sia nelle dichiarazioni pubbliche sia sulla stampa sottolineando
che "la scelta del linguaggio è molto importante per l'immagine che le
autorità inviano alla loro popolazione e al resto del mondo". L'essere
immigrato può in tal modo associarsi, attraverso un uso improprio del
linguaggio, "ad atti illegali previsti del codice penale - avvisa
Hammarberg - con la conseguenza che tutti gli immigrati vengono macchiati col
sospetto". Il documento fa un quadro delle norme vigenti nei 47 paesi del
Consiglio d'Europa e sulle direttive Ue, rilevando "una crescente presenza
dell'aspetto illegale dell'immigrazione a partire dal 2003". Lo studio cita
esplicitamente l'Italia ricordando la legge, approvata nel 2008, che fa
diventare reato l'affitto di locali a immigrati irregolari e ricorda la proposta
avanzata nel 2009 per eliminare dal cosiddetto 'pacchetto sicurezza' l'obbligo
per il personale medico di informare le autorità sulle richiesta di assistenza
da parte di immigrati irregolari. Hammarberg sollecita inoltre i governi "a
non introdurre reati che si applicano 'esclusivamente' a cittadini
stranieri" in modo da "separare i cittadini europei dagli stranieri
[...] facendo passare il messaggio che il contatto con loro è rischioso e può
portare ad azioni penali". Il commissario osserva inoltre "nessuno
dovrebbe essere sottoposto a detenzione per il solo fatto di non essere
cittadino di un certo paese" così come non ci dovrebbero essere
"differenze di accesso di servizi sociali sulla base esclusiva della
nazionalità". [AdL]
Migranti
e diritti, voci contro la "fortezza Europa"
Misna
- 5 febbraio 2010
"Si
negano i diritti fondamentali ai cittadini non comunitari" dice Don Fredo
Olivero, direttore regionale della Pastorale per i migranti in Piemonte, dopo la
pubblicazione del documento del Consiglio d'Europa che denuncia la tendenza a
"criminalizzare" i cosiddetti "irregolari". Nel rapporto,
diffuso ieri dal Commissario per i Diritti umani Thomas Hammarberg, si prendono
in considerazione le norme in vigore nei 47 paesi membri del Consiglio,
organismo distinto dall'Unione Europea, costituito nel 1949 con il Trattato di
Londra per promuovere la democrazia, i diritti dell'uomo, l'identità culturale
europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali. "I paesi hanno un
diritto legittimo a controllare le frontiere - si afferma nello studio - ma la
criminalizzazione è una misura sproporzionata, che non può avere come
conseguenze la stigmatizzazione e la marginalizzazione dei migranti". Nel
rapporto si evidenzia in particolare il rischio di una discriminazione fondata
sulla "nazionalità" nell'accesso ai servizi sociali di base. Questi
timori hanno attraversato il dibattito italiano prima e dopo l'entrata in vigore
ad Agosto del cosiddetto "pacchetto sicurezza", un complesso di norme
che introducono tra l'altro il reato di cosiddetta 'immigrazione clandestina'.
"Questa nuova fattispecie - sottolinea don Olivero - è lo strumento
attraverso il quale si vogliono negare diritti essenziali, nel campo
dell'istruzione come della salute". Da Agosto i genitori senza permesso di
soggiorno che iscrivano i loro bimbi a scuola rischiano un processo penale,
mentre medici e responsabili di strutture ospedaliere possono denunciare agli
organi di polizia pazienti privi di regolare permesso di soggiorno. Alla MISNA
don Olivero dice che l'applicazione di queste norme risulta a volte difficile.
Una convenzione dell'Onu a tutela dei minori, sottoscritta nel 1992 anche
dall'Italia, impone di accogliere a scuola bambini figli di
"irregolari". Grazie alle norme della Costituzione che riservano
competenze legislative esclusive in materia di sanità alle Regioni, dal
Piemonte in giù diverse amministrazioni hanno emesso circolari con le quali
vietano le denunce e ribadiscono che non si possono utilizzare prestazioni
mediche per riferire di un reato. Piccole buone notizie per i migranti, che non
mutano però un quadro reso ancora più difficile dalla crisi economica. "A
partire dai sussidi di disoccupazione - dice il direttore della Pastorale
piemontese - per gli immigrati irregolari i servizi sociali restano tabù".[VG]
Discriminazione
e intolleranza religiosa i mali del paese di Nirmala Carvalho
AsiaNews - New Delhi - 5 febbraio 2010
Cristiano
di origini indiane, O'Connor ha trascorso sette mesi nelle carceri del regno con
la falsa accusa di proselitismo. Egli sottolinea che i "poteri
illimitati" della polizia religiosa perpetrano crimini e violenze. E prega
ogni giorno per il Paese, i governanti e gli amministratori.
Nella
società saudita "discriminazioni e intolleranza" sono un dato di
fatto "evidente", aggravato dai "poteri illimitati" di cui
gode la muttawa - la polizia religiosa del regno - che perpetra crimini,
violenze e favorisce un sistema diffuso di corruttela. È quanto afferma Brian
Savio O'Connor, cristiano di origini indiane, per 7 mesi e 7 giorni
prigioniero, incatenato e torturato, in un carcere saudita con l'accusa di
proselitismo.
Per
la sua liberazione AsiaNews aveva lanciato una campagna internazionale. Al
41enne cristiano del Karnataka - che ha avviato un centro per bambini orfani,
aperto a ogni fede religiosa - abbiamo chiesto di commentare i
risultati di un'inchiesta sulla situazione politica e sociale dell'Arabia
Saudita, realizzata con un sondaggio effettuato nel novembre 2009 da Pechter
Middle East Polls, istituto demoscopico privato con base a Princeton (Stati
Uniti).
Di
seguito riportiamo l'intervista di Brian Savio O'Connor ad AsiaNews:
Signor
O'Connor, dove nasce il problema legato alla corruzione?
Fino
a quando il regno non permetterà una piena libertà religiosa e non rispetterà
lo spirito di reciprocità, la corruzione continuerà ad affliggere la società
saudita e avrà conseguenze disastrose a livello sociale. La muttawa gode di
poteri illimitati e sfrutta la propria posizione per colpire i fedeli di altre
religioni; pregare in abitazioni private è causa di arresti e condanne al
carcere.
Quali
episodi di corruzione ha testimoniato durante la prigionia?
[Il
carcere] è il paradiso per la corruzione, per i secondini ogni favore può
essere "comprato al prezzo giusto", e per i non-musulmani la
situazione è anche peggiore. Le autorità carcerarie utilizzavano mezzi sottili
per convincermi ad abiurare la mia fede e abbracciare l'islam. E questo accadeva
a moltissime persone, imprigionate con accuse del tutto inventate. Il solo fatto
di cambiare il proprio nome in Mohammedan poteva servire per godere di alcuni
benefici. Il potere arbitrario della polizia religiosa ha contribuito ad
innalzare il livello del fondamentalismo, che ha delle ripercussioni nello
sviluppo sociale, nella giustizia e nei diritti umani.
Può
descrivere ai lettori le sue giornate in Arabia Saudita?
Nella
società saudita la discriminazione e l'intolleranza verso i non-musulmani sono
evidenti e hanno raggiunto livelli preoccupanti. La mancanza di trasparenza
causa violenze arbitrarie verso i non musulmani, che portano poi a violazioni
dei diritti umani. A mio parere, la rigidità della società saudita e la
negazione della libertà religiosa portano alla diffusione del fondamentalismo.
Comunque, dalle ultime testimonianze che ho ricevuto a Riyadh, la città dove ho
vissuto, la muttawa ha allentato la morsa, attacchi e intimidazioni sono in
diminuzione e questo è incoraggiante.
A
suo parere, cosa può aiutare il Paese a liberarsi dall'estremismo e dalla
corruzione?
È
risaputo che in Arabia Saudita non vi è un riconoscimento legale della libertà
religiosa e questo apre la strada a pene per corruzione imposte in base
all'ordinamento giuridico. Al fine di sradicare la fonte di corruzione, è
urgente una legge che assicuri protezione per i fedeli di tutti i gruppi
religiosi, mettere fine agli attacchi verso i gruppi religiosi e promuovere il
valore della tolleranza.
Cosa
ci può dire dei musulmani. La loro situazione è migliore?
Per
i nostri fratelli e sorelle musulmani, il problema religioso non si pone.
Tuttavia, un contesto legislativo così rigido in materia di libertà religiosa
ha ripercussioni anche per loro. Per quanto concerne la mia esperienza, da un
lato gli esperti di legge islamica cercano di imporre una visione dogmatica del
mondo, e una visione dogmatica nell'interpretazione della realtà, dei testi
religiosi, al fine di controllare il singolo individuo e l'intera società.
Dall'altra parte, essi scoraggiano quanti sfidano la loro visione del mondo e si
oppongono in maniera ferma ai valori democratici e al pluralismo.
E
la sua vita, come è cambiata dopo la prigionia nelle carceri saudite?
Mi
sono sposato. Io e mia moglie Liza abbiamo due bambini. Vivo a Hubli, nel
Karnataka e abbiamo avviato un centro intitolato: "Disciple Training
Centre". Vogliamo diffondere la fede fra i pastori e i laici. Prego ogni
giorno per il regno saudita, per i governanti e gli amministratori, affinché
concedano la libertà religiosa, per il bene della nazione e di tutto il popolo.
Medici italiani al St. Vincent Hospital di Dinajpur di Bruno Guizzi
Dinajpur - 17 febbraio 2010
Da
qualche anno, nel mese di novembre, all’ospedale St. Vincent di Dinajpur
arriva puntualmente un’equipe medica. I
dott. Giuseppe Vincelli, chirurgo e Fabrizio Pugliero, anestesista, hanno
deciso di donare al Bangladesh parte delle loro vacanze e della loro
esperienza. Con loro arriva anche un gruppo di infermieri con l’aiuto dei quali, unitamente al personale locale, è possible effettuare 4/5 operazioni al giorno, essenzialmente nel campo ginecologico/ostetricio. Come
è noto agli amici di Banglanews l’Ospedale, dopo la scomparsa nel
febbraio 2003 di p. Faustino Cescato che, per vari anni lo aveva
amorevolmente diretto, è sotto la direzione di p. Giulio Berutti che,
oltre a quest’incarico ed a quello della direzione delle Credit Unions
(Cooperative di risparmio) della diocesi di Dinajpur ha recentemente, dopo
le dimissioni per limiti di età di p. Adolfo L’Imperio, assunto anche
la responsabilità del Programma diocesano di prevenzione della lebbra.
Quest’ultimo ha un ospedale a Dhanjuri e 17 piccoli dispensari che
vengono visitati dai dottori almeno una/due volte per settimana. |
L’Ospedale
St. Vincent ha 90 posti letto e nel 2009 ha accolto 27602
pazientixgiorno ed effettuato 1280 operazioni chirurgiche di vario
genere. L’ospedale,
unica struttura di questo tipo della nostra diocese, è naturalmente
aperto a tutti e la stragrande maggioranza dei malati è musulmana ed
indù. Particolarmente attrezzato è il reparto ostetricia, nel quale nascono 5/6 bambini al giorno, talvolta anche con parto cesareo. (vedi foto a lato) Recentemente è stata istituita nella diocesi anche un’assicurazione medica che permette, con una cifra irrisoria (1,50€ all’anno) a tutte le famiglie di coloro che sono soci delle Credit Unions (ben 17 uffici nelle parrocchie della diocese) di poter usufruire, per tutta la famiglia, di cure mediche completamente gratuite. E’
bene ricordare che, in Bangladesh, le strutture ospe- daliere
governative sono sovraf- follate, spesso i pazienti per mancanza di
spazio sono costretti a dormire anche per terra, i loro accompagnatori
devono provvedere alla pulizia, ai pasti ed all’acquisto di
medicinali. Strutture private sono invece spesso all’avanguardia, in vari campi della medicina, ma i costi dei ricoveri e degli interventi sono a totale carico del paziente e quindi oltre il 90% della popolazione non può assolutamente permetterseli. |
Il St. Vincent colma un po’ questa lacuna, se le strutture dell’ospedale non permettono determinate cure o analisi, l’ospedale si fa carico di mandare, a proprie spese, il paziente nelle cliniche specializzate. La
venuta di equipe mediche straniere porta sempre anche una ventata di
simpatia, di amicizia, di solidarietà, di scambio reciproco di
esperienze. A Khulna, dove le Suore di Maria Bambina hanno un attrezzatissimo ospedale, ed a Jessore nell’ospedale dei Saveriani, la venuta di equipe mediche italiane è molto più frequente e talvolta anche da Dinajpur i pazienti sono inviati a queste due strutture che, nel corso di tutto l’anno, assicurano la presenza di personale altamente specializzato in molti campi della medicina. |
Non
possiamo infine dimenticare I quattro anni di servizio dei dott. Gildo Coperchio
e Claudio Modanutti, fratelli saveriani che hanno portato nell’ospedale tutta
la loro esperienza (medica e missionaria!) e la loro vitalità.
A
loro e a tutti i medici e gli operatori sanitari italiani che vengono in
Bangladesh un grazie di cuore dap arte di tutti i malati di questo paese.
Sarebbe
in futuro auspicabile la venuta in Bangladesh di fisioterapisti, per curare I
bambini con disabilità di vario genere, attualmente ospitati a Dhanjuri, ma
privi di assistenza da parte di personale specializzato.
Schegge di Bengala - 53 (prima parte) di p. Franco Cagnasso
Dhaka - 23 febbraio 2010
Randagi
Tempo
fa una “Scheggia” segnalava l’approvazione di una legge che proibisce la
mendicità in Bangladesh, chiedendosi (senza trovare risposta) che cosa mai
avesse spinto il parlamento a prendere un provvedimento che tutti sanno essere
assolutamente impraticabile. Lo scetticismo della “Scheggia” era
ingiustificato. Dopo molti mesi in cui nulla è cambiato, ora si passa ai fatti:
ogni tanto un camion della polizia parte e raccatta i mendicanti di una strada o
di un quartiere, fino a esaurimento (dei posti sul camion). Li porta in
periferia, li fa scendere tutti, e se ne va...
20
febbraio
A
Dhaka, e in tutte le città del Paese, la sera centinaia di migliaia di persone,
soprattutto giovani, convergono – a piedi nudi – al Shahid Minar, il
principale monumento ai martiri. A mezzanotte in punto, quando scatta l’inizio
della giornata che nel 1952 vide morire i primi martiri in difesa della lingua
bengalese, depongono corone di fiori, cantano, esprimono il loro amore per la
cultura bengalese.
Viste
dal caldo
Giornalista, opinionista, commentatore politico e sociale, tuttologo, Fakhruddin Ahmed ha lo stesso nome dell’ex primo ministro del governo speciale – ma non è lui. Sul Daily Star del 22 febbraio 2010 vivacemente si chiede: chi partecipa alle Olimpiadi Invernali? Quelli del Nord: Norvegia, Svezia, Germania, Canada e compagnia bella non solo hanno un sacco di soldi, ma pure il freddo necessario a divertirsi sulla neve. Ma potrà mai un Bengalese, un Ciadiano, un Cambogiano, un Congolese prepararsi e partecipare? Neve e soldi vanno insieme, e i ricchi hanno imposto ai giochi sulla neve il titolo di “Olimpiadi”, che invece dovrebbero essere universali. Continuino pure a scivolare sui ridicolissimi slittini, ma non usurpino un nome che dev’essere per tutti!
Gli 80 anni di p. Adolfo di Bruno Guizzi
Dhanjuri - 28 febbraio 2010
Oggi,
28 febbraio 2010, padre Adolfo ha compiuto ottanta anni, oltre metà dei
quali passati in Bangladesh. Il mese di febbraio, iniziato con la
benedizione della nuova casa vescovile di Dinajpur non si poteva
concludere meglio! Lo
abbiamo gioiosamente festeggiato, a Dhanjuri, sua prima destinazione in
Bangladesh nel lontano 1969. Allora
il Bangladesh non esisteva ancora, il paese infatti si chiamava East
Pakistan e la capitale era Karachi, ad oltre duemila chilometri di
distanza. Nella spartizione del subcontinente indiano infatti gli
inglesi, ansiosi di ... scappare, avevano diviso l’enorme paese in due
stati, in base alla religione. Il
governo pakistano aveva sempre sfruttato il Bengala orientale e già nel
1952 era scoppiata una rivolta per proteggere la loro madrelingua (i
lettori di Banglanews avranno letto qualcosa sul numero della scorsa
settimana). Appena
due anni dall’arrivo di padre Adolfo scoppia la guerra di liberazione
che termina con la creazione di uno stato indipendente, il Bangladesh. |
Sono
anni terribili: fame, carestia, calamità naturali, ma pian piano con mille
difficoltà il paese riesce a risollevarsi.
Allora
contava 70 milioni di abitanti e la capitale: Dhaka appena 500.000. Oggi la
popolazione sfiora i 150 milioni e Dhaka, con i suoi 15 milioni e con il ritmo
di urbanizzazione attuale sarà, secondo le stime dell’ONU, nel 2025 una delle
quattro megalopoli più popolose di tutto il pianeta.
Negli
anni settanta padre Adolfo ha diretto le operazioni della Caritas nel nord del
paese e, quindi, non ha potuto restare a lungo nella sua Dhanjuri, con i suoi
Santal ed i suoi lebbrosi.
In
tutti questi anni ha un po’ girato come una trottola in tutta la diocesi di
Dinajpur, costruendo scuole, chiese, ostelli, dispensari.
Per
una decina di anni è anche stato parroco della Cattedrale di Dinajpur e
direttore del progetto lebbra, ma recentemente ha dato le dimissioni da entrambi
gli incarichi, per limiti di età. Come se non bastasse ha anche costruito una
cattedrale in Myanmar (Birmania) e per qualche anno è stato economo generale
del Pime.
Quando
in Italia uno va in pensione (spesso vent’anni prima di quando ci è andato
padre Adolfo), normalmente si riposa e al limite porta a spasso i nipotini o
passa il tempo con qualche hobby.
Padre
Adolfo è andato in pensione soltanto “sulla carta” nel senso che
continua imperterrito a lavorare come e più di prima, aiutando in
particolare malati, bisognosi, giovani in attesa di inserirsi nella
società etc etc... Dhanjuri
è sempre stato il suo primo amore (corrisposto!!) ed è qui che, negli
ultimi anni, si è maggiormente impegnato. Ricordiamo soltanto che lo
scorso anno è stato inaugurato il nuovo boarding dei bambini, la nuova
chiesa e la nuova scuola, poco prima aveva realizzato il fabbricato per
la fisioterapia, i due refettori e la lavanderia, all’interno del
lebbrosario. Ed inoltre sta terminando i lavori di rifinitura del nuovo
palazzo vescovile, da poco inaugurato. Ora
potrebbe essere soddisfatto e godersi un po’ di tranquillità ma i
lavori che ha in cantiere sono ancora molti e sarebbe addirittura troppo
lungo elencarli. Particolare
cura viene da lui data ai ragazzi del boarding di Dhanjuri, che
finalmente possono vivere in un ambiente sano ed accogliente. La sfida
adesso è quella di migliorare il livello dell’istruzione,
senz’altro più alto di tante scuole governative, ma non ancora
accettabile secondo i nostri criteri. Sarà un processo lungo e per
fortuna l’arrivo di padre Michele Brambilla darà sicuramente ad esso
un contributo determinante. |
La
festa a Dhanjuri si è svolta... secondo programma..., a farne le spese
purtroppo è stato un maiale di un centinaio di chili, sacrificato per
l’occasione... ma c’era da far mangiare oltre cinquecento persone... un
pezzettino per uno non fa male a nessuno.
Le
foto mostrano qualche momento della festa (qui si chiama Onustan).
Alla
sera ritorno a Dinajpur e prosecuzione dei festeggiamenti nella Pime House di
Suihari, con tanti confratelli.
Domani
è un altro giorno ma già ho sentito che i bambini della cattedrale vogliono
anch’essi fare una festicciola al loro vecchio parroco.
Ed allora BUON COMPLEANNO ed a rivederci al 28 febbraio 2011!
Piano
decennale di sviluppo delle forze armate di William Gomes
AsiaNews - Dhaka -5 febbraio 2010
Gli
investimenti per 490 milioni di dollari complessivi serviranno per ammodernare
le difese aeree, navali e terrestri. Il programma lanciato dall'esecutivo
criticato da una fetta dell'opinione pubblica, che chiede maggiori risorse per
la sanità e i trasporti. In Bangladesh circa metà della popolazione vive sotto
la soglia di povertà.
Il
governo del Bangladesh ha presentato un piano decennale di sviluppo per le forze
armate, che interessa l'esercito, la marina e l'aviazione. Un investimento
complessivo che comprende l'acquisto di armi e veicoli militari, presentato ieri
a Dhaka da A.k. Khandker, Ministro per la pianificazione con delega alla difesa,
per un volume di affari pari a 338 miliardi di taka (circa 490 milioni di
dollari). Intanto la popolazione resta fra le più disagiate al mondo, con metà
circa dei cittadini che vive sotto la soglia di povertà.
Il
ministro ha spiegato che il denaro verrà utilizzato per comprare carri armati,
armi, elicotteri, raddoppiare la fabbricazione interna di armamenti attraverso
investimenti pubblici, caserme e centri per l'alloggio di veicoli militari. Egli
ha inoltre aggiunto che è in programma l'acquisto di due aerei per il
pattugliamento dei mari e la costruzione di cinque imbarcazioni, già avviata
nei cantieri navali di Khulna, la terza città per importanza del Bangladesh.
Il
governo, nel piano decennale di sviluppo, ha inserito pure l'ammodernamento
delle difese aeree grazie all'innesto di jet da caccia, missili aria-aria, un
sistema missilistico terra-aria, un sistema di controllo radar e due elicotteri.
Gli
investimenti nelle forze armate rientrano in un quadro più ampio di sviluppo
mirato a sostenere, entro il 2017, un livello di crescita del Prodotto interno
lordo (Pil) del 10%. L'esecutivo ha avviato al contempo una campagna di lotta
alla povertà e alla corruzione; la scelta di investire in maniera massiccia
negli armamenti, tuttavia, ha incontrato numerose critiche nell'opinione
pubblica del Paese.
Nell'anno
fiscale 2008/9 il bilancio per la difesa ha rappresentato l'ottavo settore di
investimento nazionale, con un volume di spesa pari al 6,4%. Esso supera altri
settori essenziali quali i Trasporti e le comunicazioni (6,1%), la Sanità
(5,9%), la Sicurezza pubblica (5,6%).
Il
Bangladesh ha una popolazione di circa 143 milioni di abitanti ed è al 140°
posto al mondo nell'indice di sviluppo umano. Stime del 2007 riferiscono che
solo 3,2 abitanti su mille hanno accesso a internet e l'analfabetismo si attesta
attorno al 59%. Il reddito annuale pro-capite è di circa 470 dollari Usa.
Il
tasso di abbandono dalla scuola deve essere ridotto
New
Age - 5 febbraio 2010
Libera
traduzione ed adattamento a cura di Banglanews. L'articolo
originale sull'edizione
inglese
L'istruzione
per tutti è una delle principali responsabilità del governo nei confronti dei
suoi cittadini. Anche se l'iscrizione scolastica dei bambini e la parità di
genere siano notevolmente migliorate in Bangladesh, i tassi di abbandono dalla
scuola sono ancora allarmanti.
Secondo
un rapporto di New Age del 4 febbraio, oltre il 41 per cento delle studentesse
iscritte alla classe IX nell’anno accademico 2008-2009 hanno abbandonato la
scuola, in quanto non si sono iscritte agli esami che inizieranno l’11
febbraio 2010. Un tale tasso di abbandono, anche per una singola sessione, è
allarmante, ma quando la maggioranza di questi studenti inadempienti sono di
sesso femminile, le preoccupazioni sono doppie.
Non
è solo il numero di studenti iscritti ogni anno, nelle scuole e nelle università,
in grado di garantire l'istruzione nel suo vero senso. Ciò che è altrettanto
importante è se gli studenti iscritti hanno terminato il corso completo e,
sopratutto, se hanno ricevuto un’istruzione di qualità. Ciò dipende da loro
stessi, dai genitori, così come da molti altri fattori che vengono a giocare un
ruolo importante.
Alcune
delle cause principali di tale allarmante tasso di abbandono, come individuato
dal ministero dell'istruzione, sono il matrimonio precoce delle studentesse,
l'iscrizione di un numero significativo di studenti di sesso femminile solo per
ottenere borse di studio che, per alcune scuole e madrasse, sono
elargite non in base al merito ma alla falsificazione del numero delle
iscrizioni onde mantenere la propria licenza.
Siccome
la maggioranza della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, è
naturale che i genitori desiderino che i loro figli guadagnino qualcosa il più
presto possibile e che le loro figlie si sposino quanto prima.
Questi
genitori prenderanno in considerazione l'invio dei loro figli a scuola solo se
ci sarà un adeguato incentivo. E’ quindi estremamente importante che
l’istruzione gratuita lo sia nel vero senso del termine.
Impartire
un'istruzione di qualità dipende anche dalla capacità e dalla formazione degli
insegnanti, onde rendere le lezioni più interessanti. Se gli insegnanti non
sono qualificati, o sufficientemente motivati e ben addestrati, il risultato sarà
non una diminuzione ma un aumento del tasso di abbandono.
Mentre
da un lato il Bangladesh ha fatto notevoli progressi nell’aumentare il tasso
di iscrizione alla scuola primaria e parallelamente la parità di genere, se non
si abbasserà il tasso di abbandono il risultato finale sarà insoddisfacente.
Due
seminaristi Khasia diventano i primi sacerdoti del loro gruppo etnico
Ucan
- Moulovibazar - 2 febbraio 2010
Libera traduzione ed adattamento a cura di Banglanews. L'articolo originale sull'edizione inglese
L'ordinazione
sacerdotale di due seminaristi Khasia è un momento "storico" per la
Chiesa del Bangladesh, ha detto l'arcivescovo di Dhaka.
"Una
nuova storia inizia per la tribù Khasia. E' una grande gioia per la Chiesa del
Bangladesh, in quanto abbiamo due nuovi sacerdoti di questo gruppo etnico
tribale, " ha detto Paulinus Costa, Arcivescovo di Dacca, durante
l'ordinazione sacerdotale dei diaconi Oblati di Maria Immacolata Pius Pohdueng e
Valentine Bawel Talang.
Hanno
partecipato alla cerimonia circa 5.000 cattolici tribali e bengalesi, altri
cristiani ed appartenenti ad altre religioni .
"Ora
il popolo Khasia sarà in grado di prendere parte alla Messa nella nostra
lingua, tradizione e cultura", ha detto padre Talang, 34. Padre Pohdueng ha
poi aggiunto che i suoi fedeli Khasia potranno finalmente partecipare pienamente
alle funzioni ed in particolare al sacramento della penitenza, in quanto la loro
lingua, abbastanza difficile, è poco nota ai sacerdoti bengalesi e i tribali si
vergognavano di parlare in bengoli, una lingua che non conoscono bene.
Un
altro problema dei Khasia è il grado di istruzione molto basso ed il loro
isolamento. Dei 30.000 Khasia presenti in Bangladesh l’80% è cattolico o
presbiteriano, una piccola percentuale è battista.
I
Khasia traggono il loro sostentamento, per la maggior parte, dalla vendita delle
foglie di betel, una droga leggera che si trova in tutti i bazar del paese.
Giubileo
d’oro della prima scuola cattolica di Rajshahi
Ucan
- Natore - 3 febbraio 2010
Libera traduzione ed adattamento a cura di Banglanews. L'articolo originale sull'edizione inglese
La
prima scuola cattolica nella diocesi di Rajshahi, nota per il suo contributo
all’innalzamento del tasso di alfabetizzazione nel nord-ovest del Bangladesh,
ha celebrato i suoi 50 anni.
Circa
4.000 studenti, inclusi gli ex-allievi, ospiti ed autorità, alla presenza del
Vescovo di Rajshahi e del Nunzio apostolico hanno partecipato alla celebrazione
della St. Louis High School nella Chiesa di Borni. La scuola è stata il frutto
dell’instancabile lavoro di Padre Angelo Canton, del Pontificio Istituto
Missioni Estere.
Il
missionario italiano era stato nominato parroco della parrocchia cattolica di
Borni, a maggioranza bengalese, nel 1956 e aveva scoperto che quasi tutte le
persone della zona erano analfabete.
Padre
Canton ha iniziato con 40 studenti nel 1960 e ora la scuola ha ben 700 studenti.
Gli studenti sono in gran parte cattolici bengalesi e tribali, ma la frequentano
anche studenti appartenenti ad altre religioni.
Nel
corso degli anni circa 2.000 studenti hanno superato l'esame finale.
Molti
di loro occupano ora posizioni di prestigio ed uno addirittura è diventato un
membro del Parlamento, ha aggiunto Padre Gomes.
Secondo
il locale ufficio dell’istruzione del governo, il tasso di alfabetizzazione
nel settore è di circa il 75 per cento e quando la Chiesa ha iniziato la scuola
era praticamente nullo: l’1%.
Sujit
Sarkar, un ex-studente indù, oggi professore alla Rajshahi University, ha detto
a UCA News, "Questa scuola ha acceso la candela dell’istruzione, quando
l'intera area era nel buio dell'ignoranza." Ha aggiunto il suo
apprezzamento, dicendo: " Vorrei ringraziare tutti coloro ed in particolare
i missionari cattolici, che ci hanno spianato la strada onde ottenere successo
nella vita attraverso l'educazione ".
Secondo
i dati del Catholic Directory, la diocesi Rajshahi ha un totale di 53.151
cattolici bengalesi e tribali suddivisi in 14 parrocchie e sei sub-parrocchie.
Dhaka
dà il via libera all'esportazione di coccodrilli di William Gomes
AsiaNews - Dhaka - 1 febbraio 2010
Il
governo autorizza l'unica azienda specializzata del Paese a inviare 67 esemplari
in una università tedesca. Essi saranno utilizzati per studi scientifici e
ricerche. Manager della Reptile Farm Ltd.: fonte di valuta estera
"importante". L'obiettivo è raggiungere un volume di affari di 5
milioni di dollari entro il 2015.
Per
la prima volta nella sua storia, il Bangladesh avvia l'esportazione di
coccodrilli a fini commerciali. Il 21 gennaio scorso, infatti, il Dipartimento
governativo delle foreste ha autorizzato l'unica azienda specializzata del
Paese, la Reptile Farm Ltd., a vendere i rettili in Germania. Il settore degli
animali esotici offre un vasto mercato in Europa, Stati Uniti e in diversi Paesi
asiatici. L'obiettivo è raggiungere una rendita di almeno 5 milioni di dollari
entro il 2015.
Mushtaq
Ahmed, direttore commerciale e CEO della Reptile Farm Ltd., spiega che il 31
agosto scorso l'azienda ha chiesto il permesso al governo di esportare 67
coccodrilli "ibernati" in Germania e di importarne 10 vivi dalla
Malaysia. Dopo mesi di attesa, "il Dipartimento delle foreste ha dato il
nulla osta" aggiunge il manager.
Ahmed
conferma l'accordo raggiunto con l'università tedesca di Heidelberg, alla quale
verranno consegnati 67 esemplari di varie dimensioni: da 22 cm a un metro e
mezzo circa. Essi verranno utilizzati dai ricercatori per esperimenti e studi
scientifici. "L'esportazione - commenta - partirà dal mese prossimo".
La Reptile Farm Ltd., situata nel villaggio di Hatiber (distretto di
Mymensingh), possiede 825 esemplari di coccodrillo d'acqua salata, di cui 67 di
grossa taglia e i restanti di dimensioni medie e piccole.
Il
manager sottolinea che il commercio dei rettili può costituire "una fonte
di valuta estera importante" per il Paese. L'obiettivo è esportare più di
5000 pelli di coccodrillo all'anno e gettare le basi per guadagni che possono
arrivare "fino a 5 milioni di dollari entro il 2015". Vi è infatti
una massiccia richiesta di esemplari in diverse nazioni europee fra cui Francia,
Germania, Italia e Spagna.
Pelle,
carne, ossa dei rettili sono un bene ambito, insieme ai frammenti tratti dallo
scheletro, che vengono utilizzati nell'industria dei profumi. Per rispondere
alla domanda, aggiunge, è necessario creare "più aziende sul
territorio".
Fine dell’allarme tsunami. In Cile oltre 700 morti
Asianews
- Tokyo - 1 marzo 2010
Nel Pacifico orientale onde fino a un metro, ma in alcuni villaggi della costa cilena lo tsunami ha fatto almeno 350 morti. Molto provate popolazione ed economia del Paese latinoamericano. Sale il prezzo del rame. La Cina promette 1 milione di dollari in aiuti d'emergenza.
L'allarme tsunami issato in tutto il Pacifico a causa del terremoto in Cile è stato levato. Per i Paesi del Pacifico orientale l'onda anomala non ha avuto effetti disastrosi, ma in Cile, vicino all'epicentro del sisma, lo tsunami ha spazzato via interi villaggi e fatto raddoppiare il numero di morti della catastrofe.
In un villaggio vicino a Conception, sono stati trovati almeno 350 corpi. Nel porto di Talcahuano le onde hanno trascinato per le strade della città 20 navi. Anche nel gruppo di isole Juan Fernandez, vicine alla costa cilena, vi sono cinque morti e diversi dispersi.
L'allarme tsunami era stato levato dopo il terremoto di sabato 27 febbraio in molti Paesi: Hawaii, Australia, Nuova Zelanda, Filippine, Giappone, ma le onde che sono arrivate sulle coste erano di circa un metro.
Il governo cileno ha dichiarato che finora vi sono 711 morti. Ma vi sono edifici crollati che contengono ancora morti o persone intrappolate. Oltre 10 mila truppe sono nella zona per mantenere l'ordine e un coprifuoco per evitare razzie di negozi e supermercati da parte dei sopravvissuti che cercano cibo e acqua.
Il sisma ha danneggiato centinaia di migliaia di case, sconvolto autostrade, distrutto ponti; comunicazioni ed elettricità non sono garantite.
L'economia è molto provata. Il Cile è il primo produttore mondiale di rame e sebbene il lavoro nelle miniere è stato ripreso da ieri stesso, oggi i mercati hanno fatto crescere il prezzo del metallo fino al 6% in più nel timore di una riduzione della produzione.
A Shenzhen e a Shanghai, le azioni delle miniere di rame cinesi sono cresciute del 6%.
La Cina ha diramato oggi un comunicato in cui promette il dono di 1 milione di dollari Usa per aiuti d'emergenza al Cile.
Ieri Benedetto XVI ha invitato la comunità internazionale alla solidarietà con le popolazioni cilene.
Continuano
gli arresti dei dissidenti e lo scontro per le terre
AsiaNews
- Pechino - 2 febbraio 2010
Le
due maggiori minacce alla stabilità sociale cinese sembrano essere imbattibili.
Nonostante gli sforzi di facciata del governo centrale, infatti, si moltiplicano
i casi di confronto violento.
Nonostante
le aperture di facciata concesse dal governo centrale cinese, continuano senza
sosta la repressione nei confronti dei dissidenti e gli scontri fra popolazione
civile e agenti di pubblica sicurezza. Motivati principalmente dall'esproprio
forzato delle terre, soprattutto nelle aree rurali delle province meridionali e
centrali.
Il
governo municipale della capitale ha messo sotto "detenzione leggera"
due attivisti cinesi, Cha Jianguo e Gao Hongming. I due sono soggetti al
controllo dell'autorità dal 27 e dal 29 gennaio. Sono guardati a vista, ma
hanno avuto il permesso di rimanere nei propri appartamenti; se devono
spostarsi, possono farlo soltanto su macchine della polizia.
L'unica
spiegazione fornita dagli agenti è che i due sono sotto sorveglianza
"perché così hanno ordinato le autorità superiori". Ovviamente, ai
due dissidenti è ora impossibile contattare la comunità degli oppositori
politici di Pechino. Entrambi hanno aiutato a fondare il Partito democratico
cinese, nel 1998. Per questo, sono già stati entrambi arrestati con l'accusa di
"sovversione anti-statale".
Il
27 gennaio, inoltre, un gruppo di operai del Gruppo Jiahe per lo sviluppo del
Guangxi - una compagnia privata di investimenti terrieri - ha picchiato a sangue
un uomo di 76 anni che aveva chiesto perché stessero strappando dei cavi
elettrici dal suo terreno. Gli operai, armati di mazze e scudi, hanno attaccato
Huang Jianxian senza preavviso. La popolazione locale è intervenuta in suo
aiuto, ma senza successo.
La
polizia, chiamata da alcuni residenti, è arrivata soltanto un'ora dopo. Più
tardi, circa 200 residenti hanno manifestato davanti agli uffici della compagnia
ma sono stati dispersi da agenti della pubblica sicurezza. La famiglia di Huang
ha spiegato che il Gruppo ha fatto firmare all'anziano (analfabeta) un contratto
di vendita del terreno e lo ha picchiato per le sue proteste.
La
questione dell'esproprio dei terreni è una spina nel fianco del governo
centrale cinese. Il 29 gennaio, Pechino ha pubblicato una bozza di
regolamentazione che garantisce maggiori diritti ai venditori e meno impunità
agli acquirenti, e ha chiesto alla società civile di commentarla. Per adesso,
sembra che essa rappresenti un passo in avanti: ma la legislazione cinese viene
molto spesso ignorata da chi, poi, la deve mettere in pratica.
Cinquant'anni
d'indipendenza, è tempo di "riflessione"
Misna
- 1 febbraio 2010
Dando
il via alle celebrazioni per il cinquantenario dell'indipendenza che
accompagneranno la vita del paese per tutto il 2010, il presidente Laurent
Gbagbo ha invitato a una profonda riflessione sul passato e sul futuro, sulla
nozione d'indipendenza e sull'uso che se ne fa. Per farlo, in un discorso
pronunciato ieri da Abidjan, ha parafrasato la favola del poeta francese Jean de
la Fontaine 'La cicala e la formica': "Credo che in Africa abbiamo ballato
troppo, cantato troppo e riso troppo. Ora - ha detto Gbagbo - dobbiamo sapere da
dove veniamo e dove andiamo". Le relazioni della Costa d'Avorio con il suo
ex colonizzatore, la Francia, si sono deteriorate a partire dal tentato golpe
contro Gbagbo del Settembre 2002; l'episodio segnò l'inizio di una crisi
politico-militare che dovrebbe essere archiviata con le prossime elezioni,
previste tra fine Febbraio e Marzo. I festeggiamenti del cinquantenario
culmineranno il 7 Agosto, anniversario dell'indipendenza, con un incontro di
intellettuali internazionali nella capitale politica, Yamoussoukro. [CC]
Il
record dei cristiani di Philip Jenkins
Avvenire
- 7 febbraio 2010
Nel
Paese africano nel 2050 vi saranno 100 milioni di fedeli in Cristo, facendone la
più grande comunità del mondo: gli eredi di Lalibela, considerata la seconda
Gerusalemme, potranno vincere il cliché dell'irrilevanza storica
Lalibela,
in Etiopia, dovrebbe occupare i primi posti tra i contendenti al titolo di sito
più straordinario nella storia dell'arte e dell'architettura cristiana.
Immaginate
di camminare su una collina e di vedere quel che è simile a una bassa struttura
monolitica in pietra che sporge per poco dal terreno. Andando più vicino
potrete notare una specie di ampio fossato - e solo in questo momento accorgervi
che quel che state osservando a livello di suolo è il tetto di una possente
chiesa a torre che si estende per circa 12 metri sotto la superficie.
Per
molti anni gli operai scavarono la chiesa nel granito usando solo il martello e
lo scalpello. L'edificio conserva i ricchi colori della roccia, che paiono
mutare con le varie ore del giorno.
Lalibela
è il sito con 11 di queste chiese, compresa la più grande che esista al mondo,
realizzata da una sola pietra. Pochi etiopi dubitano che gli angeli abbiano
avuto un ruolo in questo progetto di vaste costruzioni. Le origini dell'area
sono misteriose. Prende il nome da un re famoso, Gebre Mesqel Lalibela, che
governò intorno al 1200 e che presumibilmente volle dare ai cristiani una meta
di pellegrinaggio alternativa rispetto a Gerusalemme.
Certamente
Lalibela aspira ad essere una seconda Gerusalemme riproducendo molti nomi di
luoghi ed edifici celebri, ma non sappiamo la sua esatta data di nascita. Alcune
delle chiese potrebbero essere più vecchie di secoli nei confronti del re
Lalibela.
Per
quanto sia antico, da secoli il sito riempie di stupore i viaggiatori. Quando il
primo visitatore europeo ne parlò intorno al 1520, lottò per trovare le
parole. Non voleva frenare l'entusiasmo ma sapeva anche che nessuno avrebbe
creduto al racconto sui dettagli e le dimensioni di Lalibela. E i lettori
sarebbero stati sorpresi apprendendo che questo luogo cristiano miracoloso era
in Africa! Lalibela è solo un luogo tra le molte chiese e santuari di
pellegrinaggio evocativi d'Etiopia - ed è secondo per santità e prestigio nei
confronti di Axum ( Etiopia), famosa per l'arca dell'alleanza. Come le sue
controparti Lalibela da secoli è conosciuta ed amata. Gli etiopi hanno un senso
profondo delle radici religiose del loro paese. Tutti i grandi centri - le
chiese scolpite nella roccia, i monasteri, i luoghi miracolosi - attraggono
masse di pellegrini nei momenti centrali dell'anno, come a Timqat ( epifania).
Gli
studiosi moderni si sono sforzati di superare la prospettiva limitata
dell'Europa occidentale che per così tanto tempo forzò la scrittura della
storia della Chiesa, ma pure gli sforzi meglio intenzionati raramente rendono il
senso della fede ardente e complessa degli africani al tempo di ciò che gli
europei chiamano Medioevo e primo periodo moderno ( o, di fatto, fino al
presente). Come è ancora possibile scrivere libri di storia dell'architettura
cristiana senza includervi pagine su Lalibela? Quando gli storici ricordano la
selvaggia invasione italiana d'Etiopia negli anni Trenta del secolo scorso, la
definiscono un'istanza della brutalità fascista e non una campagna devastante
contro una terra centrale del cristianesimo, un violento assalto segnato dalla
strage di massa di monaci e preti etiopici.
Gli
studiosi tendono a scrivere come se il cristianesimo africano sia qualcosa di
nuovo e di sperimentale più che la ripresa di una realtà antica. Alcune chiese
africane più recenti stanno lottando per superare questo mito. Uno dei punti di
svolta nella storia della Chiesa africana moderna fu la vittoria etiopica sulle
forze di invasione italiane nella battaglia di Adua del 1896, un raro esempio di
opposizione all'apparente espansione irrefrenabile della supremazia europea.
Quello fu il momento in cui le chiese nere nell'Africa meridionale iniziarono a
definirsi etiopiche per affermare che avrebbero potuto accettare la fede come
fenomeno africano non costretto da norme europee preimpacchettate.
Il
cristianesimo etiopico fa notizia oggi e non solo per la sua storia. La nazione
possiede uno dei più alti tassi di natalità al mondo; la sua popolazione è
aumentata dai 33 milioni nel 1975 agli 85 milioni attuali, e potrebbe passare ai
180 milioni nel 2050. Oggi ci sono 50 milioni di cristiani in Etiopia; nel 2050
potrebbero essere 100 milioni, il che farebbe dell'Etiopia la culla delle
comunità cristiane più grandi al mondo. In misura sempre maggiore questi
credenti migrano nel mondo, specialmente in Europa e negli Stati Uniti. Lontani
dal cadere nell'irrilevanza storica, gli eredi di Lalibela avranno una parte
significativa nella popolazione cristiana mondiale.
Dopo
terremoto: tra cordoglio e aiuti, la sfida della scuola
Misna - 2 febbraio 2010
Sono
circa un milione e mezzo, secondo Joel Jean Pierre, ministro dell'Istruzione, i
bambini e i giovani condizionati ad Haiti affetti dalla chiusura delle scuole
dopo il terremoto del 12 Gennaio. A Port-au-Prince, ma anche in altre località
meridionali colpite, la maggior parte degli istituti scolastici, pubblici,
privati o religiosi, sono stati totalmente o parzialmente distrutti. Da ieri,
nelle regioni risparmiate dal sisma sono riaperte le scuole mentre altrove il
dicastero dell'Istruzione sta conducendo un'indagine per valutare la situazione
e la possibilità di montare tendoni per le lezioni. A Port-au-Prince il liceo
francese Alexandre Dumas, che accoglie oltre 700 alunni di diverse nazionalità,
è stato il primo a riaprire le porte ieri. Pochi 'fortunati', su iniziative
delle famiglie, sono stati mandati all'estero, in Repubblica Dominicana, Canada,
Guadalupe o negli Stati Uniti, nella speranza di poter in qualche modo
continuare un anno scolastico compromesso. Mentre si cerca timidamente di
riprendere una vita 'normale', continuano le espressioni di cordoglio per le
vittime del sisma: stamani decine di magistrati e avvocati si sono raccolti
davanti al Palazzo di giustizia per rendere omaggio ai 15 loro colleghi morti
sotto le macerie; ieri, un'analoga cerimonia si era svolta al ministero per la
Condizione femminile e i diritti della donna con un omaggio a sette impiegate
rimaste uccise, tra cui la direttrice Myriam Merlet. Marjorie Michel, titolare
del dicastero, ha annunciato la costituzione di un'unità speciale per la
protezione delle donne da possibili violenze in questo periodo di confusione e
difficoltà. Esperti in sismologia, intanto, richiamano l'attenzione sul rischio
di una nuova di scossa nella zona.[CC]
Una
terra d'asilo in Africa, se ne parla al vertice UA
Misna
- 1 febbraio 2010
Sarà
esaminata in questi giorni, durante il XIV vertice dell'Unione Africana (UA), la
proposta del presidente senegalese Abdoulaye Wade di creare in terra africana
uno stato per accogliere le persone colpite del terremoto del 12 Gennaio ad
Haiti. "È il senso del dovere, della memoria e della solidarietà a
imporci la proposta del presidente Wade di creare in Africa le condizioni per il
ritorno degli haitiani che vorrebbero venire dopo il disastro che ha colpito il
loro paese" ha detto ieri in apertura del vertice Jean Ping, presidente
della Commissione dell'UA. Un conto corrente per partecipare alla ricostruzione
del paese caraibico è stato aperto presso la Banca africana per lo sviluppo
(Bad), ha aggiunto Ping. Ricordando i legami storici che uniscono il popolo di
Haiti, le cui origini risalgono alla tratta degli schiavi - il primo ad aver
"osato alzare la bandiera della liberazione del popolo nero", secondo
le parole di un deputato senegalese - Wade con l'appoggio di buona parte della
classe intellettuale del suo paese aveva proposto una terra d'asilo per i
terremotati.[CC]
Wharf Jeremie, lo slum dove vivono "gli ultimi" di Claudio Monici
Avvenire
- Port au Prince - 21 febbraio 2010
Nella baraccopoli alla periferia di Port-au-Prince regnano violenza e miseria:
l'Onu non ci entra. La gente si ciba dei rifiuti
Sono cominciate le piogge e l'emergenza raddoppia. Oltre un milione di
persone vive in strada a Port-au-Prince in condizioni che richiedono un
intervento assistenziale urgente prima dell'intensificarsi della stagione degli
uragani nei Caraibi in estate. A lanciare il drammatico appello è stato a New
York l'ambasciatore di Haiti presso le Nazioni Unite: intervenendo al Consiglio
di Sicurezza, Leo Merores ha detto che il sisma del 12 gennaio ha provocato la
morte di 270mila persone, ha causato la distruzione di 250mila edifici, ed ha
lasciato oltre un milione di haitiani senza casa: "Le cifre parlano da sé".
Non c'è luogo come questo dove si può cadere più in basso di così, con la
vita e i piedi che sprofondano in una palude di cloaca. I bassifondi di Wharf
Jeremie, al margine estremo della capitale, si tuffano nella baia portandosi con
loro tutto quello che la grande città scarta, la sua immondizia e i suoi
rifiuti, compreso il dolore umano della malattia e della solitudine di chi ci
vive. Più appropriato sarebbe dire che è una vita che arranca. Come quella
degli "uomini cavallo", padri di famiglia, con la fronte che quasi
sfiora terra, mentre trainano enormi e pesanti carri, resi ancora più gravosi
dal carico che trasportano. Prima che il molo venisse spezzato dal terremoto,
scaricavano dalle navi, adesso trasportano sacchi di carbone ammonticchiati sul
pianale, mentre la pancia resta sempre per metà vuota. È la miseria che
tormenta se stessa e che crea altra miseria, ancora più emarginata, ancora più
povera. Una periferia stracciona di uno slum dove non entra nessuno che non sia
l'abitante di quelle catapecchie di lamiera arrugginite che stanno in piedi come
una teoria di carte da gioco. Una accostata all'altra e che sembrano lì per lì
pronte a crollare da un momento all'altro. Ma è un gioco che dentro non ha
nulla perché non c'è nulla che si possa portare, quando i pochi spiccioli
raccimolati servono per nutrirsi di pietanze preparate sulla strada, non si sa
bene con quali ingredienti e soprattutto come siano stati conservati. Spesso per
giaciglio c'è solo il pavimento e i suoi enormi insetti, oppure una vecchia
rete senza materasso, anche questa mangiata dalla ruggine.
Nessuno, nemmeno i Caschi blu della missione di stabilizzazione delle Nazioni
Unite "Minustah", in massa sull'isola dal 2004 per sradicare le bande
criminali che hanno violato Haiti per anni, entrano a Wharf Jeremie. L'ordine è
chiaro questo luogo resta da Codice rosso.
Tranne che per una suora italiana, di Busto Arsizio, che qui vive da quattro
anni e che prima del terremoto mandava avanti un piccolo ambulatorio e un centro
educativo. Missionaria della fraternità francescana, suor Marcella Catozza, la
sfida l'aveva cominciata sapendo che "questo posto non è un luogo indicato
per chi non è dell'ambiente: ma qui siamo proprio gli ultimi e se li si va a
cercare qua si trovano".
La casetta ambulatorio della suora si è piegata su un fianco, ha ceduto al
terremoto del 12 gennaio. Da qualche giorno l'attività è ripresa, è stata
trasferita sotto due tende messe a disposizione della Protezione civile
italiana, con l'aiuto del Genio alpini. In una c'è la suora che così può
continuare la sua attività, soprattutto nutrizionale per i minori, e
nell'altra, un consultorio per adulti, assistito dal personale medico imbarcato
sulla portaerei Cavour, coordinato dal direttore sanitario, il capitano di
vascello Aldo Ciufo.
"I soldati italiani e la protezione civile mi stanno dando una grossa mano.
Qui non c'è mai stato nessuno e nulla. Niente. Non è mai venuto nessuno
nemmeno nei giorni successivi al terremoto, se non quelli che ho incontrato io
come gli operatori locali di Cisp, Cesvi e Terres des hommes, tanto questa zona
è considerata particolarmente poco sicura", racconta suor Marcella.
In questo cuore di tenebra e lamiera, girano ancora parecchie armi e sono attive
le bande rimaste fedeli all'ex presidente Jean Bertrand Aristide.
Violenza pronta a farsi risentire pur di assistere al ritorno dell'ex
seminarista dal suo esilio dorato in Sudafrica, anche se per il momento il
terremoto sembra avere messo un freno sugli episodi delinquenziali.
Quando arrivò in questo luogo perduto, quattro anni fa, unica bianca, donna,
sola, in un mare di pelle nera e ogni tipo di dolore, con ancora le bande armate
in azione a fare rapimenti, la francescana provò a fare un conto di quanta
popolazione ci poteva stare a Wharf Jeremie. Dicevano che c'erano 70 mila
persone. Mentre seguiva il suo progetto nutrizionale per i più piccoli, di
vicolo in vicolo, la suora annotava numeri, nomi. Poi si accorse che non era
ancora arrivata a metà dell'intera zona da scrutare che aveva già raggiunto la
cifra di 150mila presenze: "E qui - adesso dice sorridendo - ho lasciato
perdere".
"Come quattro anni fa, i problemi di oggi sono ancora legati alla
denutrizione. Quando cominciai, solo nella prima settimana di attività, 12
bambini mi morirono tra le braccia - racconta la suora - . Diarree, polmoniti,
tutto quello che la mancanza di acqua potabile e igiene può causare, qui c'è.
Aids e sifilide, anche nei bambini con le infezioni tipiche trasmesse da
genitori malati cronici e che mai sono stati curati. La febbre dengue. Mentre in
questi giorni ho avuto notizia che la malaria sta tornando in maniera
esponenziale. In tutto il tempo che sono stata qui avrò riscontrato non più di
5 casi. Adesso negli ospedali di Port au Prince ogni giorno si segnalano dai 15
ai 20 casi. Qui il mare è uno schifo e forse i ristagni d'acqua dopo il sisma
hanno contribuito alla diffusione del parassita".
La sera quando la suora chiude le due tende che dentro hanno, brande, tavoli,
medicinali, qualche strumento sanitario, e altri oggetti che potrebbero fare
gola a qualcuno, non prova ansia. Non accadrà nulla fino al giorno dopo:
"La mattina ritrovo tutto come ho lasciato. Perché questa è gente, che
seppure è povera più dei poveri, è analfabeta, è disperata, è malata,
saranno sempre loro i primi a darti una mano, un aiuto e un sostegno, anche in
questo modo. Perché sanno che è qualcosa che facciamo per loro, che sono gli
ultimi degli ultimi".
Suor Marcella da 4 anni aiuta la gente della bidonville. Il suo
"ambulatorio", distrutto dal sisma, è ora una tenda messagli a
disposizione dalla Protezione civile: "Qui non è mai venuto nessuno dopo
il terremoto". L'ambasciatore haitiano alle Nazioni Unite: uccise 270mila
persone, un milione senza casa Ora la paura è la stagione delle piogge.
Lotta
alla corruzione: che cosa possiamo fare? di Card. O.R. Maradiaga
Mondo
e Missione - 1 febbraio 2010
C'è
un circolo vizioso tra frodi e povertà. La trasparenza è l'unica vera risposta
Emergenze
politiche come quella che attraversa il mio Paese, l'Honduras, non devono far
perdere di vista i nodi cruciali da cui dipende l'avvenire dell'America Latina.
Per avere un futuro migliore dobbiamo, prima di tutto, spezzare il circolo
vizioso della corruzione e della povertà. Lo splendore della verità, il
principio del bene comune, la dignità umana, la giustizia, la libertà e la
solidarietà sono la via migliore per arrivare a una governance fondata
sull'onestà, l'etica e la trasparenza nella gestione pubblica.
In
Honduras sono anni che lavoriamo, attraverso Transparencia Honduras -
un'organizzazione non governativa indipendente - per creare un sistema nazionale
di integrità e un programma di educazione ai valori cristiani, con meccanismi
di responsabilità e di controllo sociale, attraverso la partecipazione dei
cittadini. L'obiettivo è ridurre la vulnerabilità ecologica e sociale, con un
approccio integrato di trasparenza e di governance, che permetta il
consolidamento della democrazia, il decentramento, il rispetto dei diritti
umani, lo sviluppo locale e la sostenibilità.
Per
attuare le convenzioni contro la corruzione dell'Organizzazione degli Stati
Americani e delle Nazioni Unite urgono pratiche di prevenzione della corruzione
e codici di condotta per funzionari pubblici e per il settore privato, con
misure che garantiscano l'accesso del pubblico alle informazioni. Perché ci sia
una vera sicurezza giuridica è necessario garantire l'indipendenza della
magistratura, l'accesso ai tribunali, l'equità, la trasparenza, l'efficienza
nell'attuazione della legge, costruire la fiducia nelle istituzioni.
È
la prevenzione il fattore più importante della sicurezza: la repressione del
crimine e la sua condanna legale devono essere accompagnate da una
riabilitazione e dal reinserimento sociale degli autori dei reati che mostrino
il desiderio di cambiare vita. Dobbiamo inoltre continuare a sostenere il
Commissariato nazionale dei diritti dell'uomo; potenziare le capacità degli
organi di Stato responsabili di investigare e denunciare gli abusi e i crimini;
tutelare gli interessi generali della società.
La
globalizzazione della solidarietà esige la difesa dei diritti umani e la
pianificazione in base al principio della destinazione universale dei beni e di
uno sviluppo integrale e solidale. Inoltre, come diciamo da anni, è necessario
un Piano nazionale per lo sviluppo umano sostenibile per trasformare
positivamente l'Honduras entro il 2021, quando si compiranno i 200 anni
dell'indipendenza nazionale.
La
corruzione, però, è un fenomeno non solo del settore pubblico: incide anche
sul settore privato. L'abuso della posizione di monopolio, la mancanza di
rispetto per gli azionisti di minoranza, le carenze nel funzionamento della
libera concorrenza e dei mercati sono solo alcuni dei problemi. La
partecipazione della società in materia di prevenzione e controllo della
corruzione dovrebbe essere rafforzata con misure volte ad aumentare la
trasparenza e a promuovere la partecipazione dei cittadini, garantire un
efficace accesso del pubblico alle informazioni, la realizzazione di programmi
di educazione ai valori e il rispetto, la promozione e la tutela della libertà
di informazioni sulla corruzione.
In
Honduras ci sono troppe leggi che non vengono rispettate. Viviamo in un mondo
individualista che misura tutto con il denaro e il potere. Con una visione
del futuro e all'interno di un Piano nazionale per lo sviluppo umano
sostenibile, dobbiamo cercare di costruire la convivenza democratica che
vogliamo.
Delegazione
Ue in visita tra i cristiani perseguitati dell'Orissa di Nirmala Carvalho
AsiaNews - New Delhi - 3 febbraio 2010
I
delegati sono stati contestati al loro arrivo da ultranazionalisti indù. Domani
andranno nel martoriato Kandhamal. Mons. Cheenat: molti cristiani ancora sono
profughi, la situazione sarà normale solo quanto potranno vivere a casa loro e
pregare senza paura.
Dura
contestazione degli ultranazionalisti indù del Vhp contro i rappresentanti
dell'Unione europea in visita in Orissa per constatare la situazione dopo la
violenta persecuzione anticristiana scoppiata nel Natale 2008 e proseguita anche
l'estate scorsa. Gli attivisti hanno ieri contestato la delegazione, al suo
arrivo in aeroporto, con slogan come "delegati andate via".
La
massiccia presenza della polizia ha tenuto i manifestanti lontani dai delegati,
provenienti da Ungheria, Polonia, Irlanda, Italia, Olanda, Gran Bretagna,
Finlandia e Svezia. Domani gli inviati incontrano i rappresentanti del governo
dell'Orissa e della polizia, poi lo stesso giorno andranno in Kandhamal, per
tornare alla capitale statale il 5 febbraio. La contestazione segue la dura
presa di posizione contro la visita posta in essere dai leader nazionali Vhp,
che hanno persino chiesto al governo dell'Orissa di proibire la visita.
Mons.
Raphael Cheenath, arcivescovo di Cuttack-Bhubaneswar, ha commentato ad AsiaNews
che "queste persone non vogliono che sia accertata la verità. Hanno paura
che la verità sia conosciuta e che l'Ue affronti questo problema" della
persecuzione anticristiana in Orissa.
Il
prelato osserva che la situazione nel Kandhamal è ancora molto difficile e che
"molti cristiani vivono fuori dei villaggi, non gli è stato più permesso
vivere nei villaggi, molti di loro hanno paura della minaccia di conversioni
forzate all'induismo, in alcuni villaggi è chiesto di essere induisti per
poterci vivere. Non abbiamo dati precisi, ma sappiamo che una grande percentuale
di cristiani sono tuttora profughi, alcuni vivono in ripari provvisori nel
Bhubaneswhar, altri sono migrati verso altri Stati del Paese alla ricerca di
sicurezza". "La nostra gente vive ancora in modo precario, nel timore
e nella paura. Le intimidazioni della maggioranza contro la comunità cristiana
sono ora molto minori, ma continuano costanti".
"Nel
Kandhamal sarà tornata la normalità solo quanto tutti saranno potuti tornare
ai loro villaggi, potranno vivere in pace nelle loro case, potranno pregare in
sicurezza nelle loro chiese. Ora procedono i processi contro i responsabili, ma
i veri delinquenti, coloro che hanno scatenato la violenza di massa, sono ancora
impuniti".
Inedito:
gruppo buddista premia un prete
MissiOnLine
- 4 febbraio 2010
Padre
Muttungal, di Bhopal, insignito per il dialogo interreligioso. Dove la Chiesa è
sotto attacco
Negli
ultimi 5 anni la minoranza cristiana (1% della popolazione) nello Stato indiano
del Madhya Pradesh ha subito oltre 150 attacchi violenti.
Ma
questo non ha impedito a padre Anand Muttungal, portavoce della Chiesa cattolica
della regione, di lavorare intensamente per promuovere il dialogo tra le diverse
religioni del Paese.
E
così si è meritato - assommando due novità assolute - un importante premio da
parte di un gruppo buddista internazionale.
Nei
giorni scorsi, infatti, padre Anand è stato insignito del premio "World
Peace and Harmony" da parte del monaco buddista Bhadant Arya.
È
la prima volta che tale onorificenza viene assegnata ad non buddista e la prima
volta che viene premiato un prete cattolico.
"Ho
visto personalmente il lavoro di padre Anand e mi sono convinto riguardo al suo
impegno personale in favore dell'armonia religiosa" ha dichiarato il monaco
buddista Arya.
Padre
Muttungal ha dichiarato, durante la cerimonia di premiazione avvenuta a Bhopal
davanti a 15 mila fedeli buddisti, che ha accettato il premio "Pace e
Armonia" come "riconoscimento del servizio della comunità
cristiana".
Il
38enne sacerdote cattolico, infatti, nel suo lavoro pastorale assiste le vittime
delle violenze interreligiose, compresi i non cristiani, e offre loro assistenza
legale davanti alla giustizia.
Anche
il presidente del raduno buddista di Bhopal, Bhante Sakyaputra Sagar, ha lodato
lo sforzo di padre Anand per "l'armonia religiosa" nel Madhya Pradesh,
teatro di attacchi non solo contro i cristiani, ma pure verso la minoranza
islamica.
Orissa,
arriva una delegazione Ue e il governo sgombera i cristiani
AsiaNews - Gudaigiri - 4 febbraio 2010
Un
gruppo di 91 profughi cristiani, vittime delle violenze religiose
dell'agosto del 2008, è stato costretto a lasciare il villaggio di
provenienza per le minacce degli estremisti. Vivevano in un campo
profughi, ma sono stati sgombrati per "ripulire" la zona in
vista della visita della euro-delegazione. Il
governo statale dell'Orissa ha costretto un gruppo di 91 cristiani -
vittime delle violenze religiose del 2008 - a spostarsi in una sorta di
campeggio alla periferia di G Udaigiri; ora vogliono cacciarli anche da
lì. Lo spostamento forzato è stato deciso nell'ambito di una
operazione "di pulizia" in vista dell'arrivo di una
delegazione europea, che dovrebbe visitare lo Stato oggi e domani. Il
Consiglio dei cristiani indiani ha espresso la propria ansia per la
decisione e ha inviato una lettera sia alla delegazione dell'Unione
europea che al governo statale. John
Dayal, segretario generale del Consiglio e membro del Consiglio
nazionale per l'integrazione, spiega nel testo della missiva chi sono i
rifugiati e perché sono perseguitati: "Si tratta di cristiani che
provengono dai distretti di Killaka, Kutuluma, Rotingia-Porakia,
Kiramaha, Dokadia, G-Mangia, Ratingia, Dhangarama, Lorangia, Dakapala,
Rudiangia e Raikia. Sono stati costretti a lasciare i loro villaggi dopo
l'ondata di violenza anti-cristiana che ha colpito l'Orissa il 25 agosto
del 2008". Subito dopo i primi attacchi, "le famiglie cristiane sono state rilocate in un campo profughi governativo. Dopo alcuni mesi, però, l'esecutivo dell'Orissa ha chiuso il campo e ha disperso I suoi abitanti. Alcuni degli uomini del gruppo hanno trovato lavoro nei negozi e nei campi della città di G Udaigiri, ma nessuno di loro ha ricevuto il sostegno o l'aiuto del governo". |
Anzi, aggiunge Dayal, "hanno subito sempre e solo molestie da parte degli
abitanti locali".
Il
motivo è semplice: "Soltanto convertendosi all'induismo, queste famiglie
avrebbero ricevuto assistenza. Ora però, con l'arrivo della delegazione
europea, il governo locale ha cambiato marcia: il Segretario locale, Jeevan
Pattnaik, si è presentato accompagnato da uomini in uniforme nel campo profughi
e l'ha sgombrato. I cristiani, ancora una volta, sono stati costretti ad
andarsene ed hanno montato le loro tende per le strade".
Ma
le disavventure di questi 91 cristiani non sono ancora finite: "Quando me
ne sono andato, alle dieci di mattina, un rappresentante del governo è arrivato
dicendo che sarebbe tornato per spianare le tende dalle strade. Qualcuno ha
protestato, ma inutilmente. Ora chiediamo che la loro situazione venga risolta,
e che questi cristiani non siano costretti a convertirsi all'induismo per poter
vivere in maniera dignitosa".
Suicida
col fuoco - Il grido disperato di Sergio parla a noi di Dino Greco
Liberazione
- 2 febbraio 2010
In
una luminosa giornata di domenica, Sergio Marra, operaio bergamasco, dopo essere
stato licenziato in tronco, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco,
uccidendosi. In un modo orribile. Sergio non si è spento silenziosamente. Il
suo è stato un grido acutissimo, in faccia a una violenza insopportabile. Ora
vi sarà chi, prima di consegnare all'oblio questa tragedia, spiegherà che non
si può mai sapere quali siano le ragioni reali di atti come questo e che è
riduttivo attribuirne le cause alla "sola" perdita del posto. Chi
disinvoltamente pontifica in questo modo ha di solito le terga ben al caldo, non
ha la più pallida idea di cosa significhi - materialmente e socialmente -
essere deprivati dei mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia e,
ad un tempo, essere spogliati della propria identità, della speranza stessa in
una via di uscita. La morte di Sergio parla anche a noi, della sua solitudine
disperata, di un calvario che riflette una condizione collettiva condivisa in
sorte da tante persone. E della sciagurata irresponsabilità con cui chi comanda
continua a sottovalutare, a nascondere, la gravità della crisi, esimendosi da
qualsiasi iniziativa di contrasto. Fatti come questo bucano l'impersonale
asetticità delle percentuali, delle statistiche con le quali si prova a dar
conto di ciò che accade. E raccontano che c'è un pezzo di società - esseri
umani in carne ed ossa - che va in rovina. Se ne ha davvero contezza? Se ne
comprendono le proporzioni? Guardate che non c'è solo la disoccupazione
conclamata. C'è quella precaria non censita. Poi c'è quella mascherata dalla
cassa integrazione che, in gergo, si definisce "a perdere", quella
propedeutica alla collocazione in mobilità e non alla reintegrazione nel posto
di lavoro. Poi c'è quella che non risulta perché, ufficialmente, chi lavora
due giorni la settimana, o una settimana al mese, è computato fra i lavoratori
in attività, anche se fa la fame. Inoltre, dentro la crisi, anche le aziende
che si ristrutturano mutano pelle: all'espulsione dei lavoratori con maggiore
anzianità e mediamente più protetti subentra l'ingresso dei forzati della
precarietà. Un esercito di lavoratori "interinali", "a
progetto", "somministrati", "occasionali", "a
chiamata", privi di tutele e di diritti. In fondo alla catena, l'ultimo
anello, quello del lavoro servile, schiavistico, appannaggio
"privilegiato" degli immigrati.
Ecco,
il gesto di estremo autolesionismo di Sergio dissolve l'effetto ipnotico di una
rappresentazione mediatica della realtà che più fasulla non potrebbe essere.
Ma dice anche - per contrasto - della insopportabile vacuità della politica
politicante, del distacco abissale fra la realtà e i dibattiti irretiti dalle
geometrie elettoralistiche nelle quali si consumano le sfide politiche. Mentre
il Paese, stremato, non trova risposte. Non ne trova, almeno, la sua parte più
debole, che con ogni evidenza deve sfangarsela da sola. Operai sui tetti,
giovani e non più giovani, scolarizzati e non, tutti orbati di una prospettiva
che abbia un brandello di credibilità. Un cul-de-sac, un corto circuito non
solo politico, ma morale. Servirebbe qualcosa di eccezionale: come drenare
risorse dalle sacche di opulenza e impiegarle in un piano senza precedenti di
sostegno al reddito e al lavoro. O come disporre il blocco dei licenziamenti,
attraverso un massiccio ricorso ai contratti di solidarietà tale da consentire
un'immediata redistribuzione del lavoro che c'è. O come ripensare, dalle
fondamenta, la presenza, quasi estintasi, della mano pubblica, dello Stato nei
settori nevralgici dell'economia, sciaguratamente lasciati in balia degli
interessi privati e del mercato, o consegnati all'opacità di un mondo
finanziario che si scompone e ricompone attorno ai "soliti noti". Per
concepire ed operare in controtendenza serve una svolta culturale e politica. E
servono i soggetti collettivi capaci di farsene carico. Il paradosso è che se
questa strada è occlusa, se la crisi sociale rimbalza su se stessa senza
risposte progressive, è fatale lo scivolamento rapido verso soluzioni politiche
autoritarie. Scriveva Mario Tronti, qualche tempo fa, che quando si esaurisce la
spinta propulsiva di grandi movimenti di trasformazione sociale e politica,
quando se ne prosciuga e se ne disperde l'idealità, è la storia remota,
profonda, a riemergere dal passato come forza inerziale e a prendere il
sopravvento. Che per noi ha voluto dire balcanizzazione, trasformismo,
opportunismo. E fascismo.
Se
il mondo va in «nomination» di Giorgio Bernardelli
MissiOnLine
- 1 febbraio 2010
A
rischio chiusura sedi Rai di Asia, Africa e America Latina. Un gesto miope di
un'Italia chiusa su se stessa
La
Rai sta per chiudere cinque delle sue quindici sedi di corrispondenza nel mondo.
Visti i tempi che corrono nel servizio pubblico radiotelevisivo italiano si
potrebbe pensare a un reality-show: c’erano quindici metropoli, cinque
andavano in nomination. Si sono salvate Bruxelles, Berlino, Parigi, Londra,
Madrid, Mosca, Gerusalemme, Istanbul , Pechino e New York. Ma sembrano destinate
a sparire le sedi Rai di Il Cairo, Nairobi, Beirut, New Delhi e Buenos Aires.
Dunque la Rai si appresterebbe a chiudere entrambe le sue sedi in Africa,
l’unica in America Latina e quelle di due Paesi non proprio insignificanti
oggi come sono l’India e il Libano.
Si potrebbero citare - e c’è chi prima di noi l’ha già fatto (clicca
qui per leggere l’articolo) - i contratti miliardari di tanti divi che non
vengono mai messi in discussione quando c’è da far quadrare i conti. Ma anche
a volere restringere lo sguardo entro il perimetro dei bilanci
dell’informazione Rai, si potrebbero andare ad analizzare i costi di
certi talk-show, dove alla fine le chiacchiere sono spacciate per notizia. Si
potrebbe poi infierire facendo notare che tutto questo avviene proprio quando
presidente del Consiglio di amministrazione della Rai è un giornalista come
Paolo Garimberti, che pure il mondo un po’ dovrebbe conoscerlo. E proprio
mentre con la diffusione del digitale terrestre aumentano i canali a
disposizione.
Noi preferiamo, però, mettere a nudo soprattutto la miopia di questa scelta: in
Europa tutte le grandi reti televisive puntano su canali all-news che
trasmettono ormai anche in lingue diverse rispetto alla propria. All’opposto
la Rai - specchio di un Paese in cui contano solo le nostre beghe - si ritira
nel suo guscio. Già nel febbraio 2006 le riviste missionarie italiane riunite
nella Fesmi avevano lanciato un appello intitolato «Notizie, non gossip», in
cui chiedevamo alla Rai una risposta alla «carestia di notizie» da intere aree
del Pianeta. Ancora nel maggio 2007, quando la Rai aveva aperta la sede di
Nairobi, avevamo salutato con interesse questa scelta. «Se la Rai ha aperto una
sede in Africa, molto lo si deve alla mobilitazione del mondo missionario»,
aveva detto in quell’occasione Enzo Nucci, corrispondente Rai da Nairobi. E
noi rilanciavamo, chiedendo che fosse l’inizio di un impegno serio a dare poi
spazio davvero alle notizie provenienti da queste aree del mondo. Purtroppo non
è stato così. E a due anni di distanza quell’investimento è diventato un
ramo secco. E ora si rischia di tornare non uno, ma cinque passi indietro.È uno
scenario inaccettabile. Per questo lanciamo un appello affinché la Rai torni
sui propri passi rispetto a questa decisione. Ma la questione va comunque al di
là di cinque sedi Rai aperte o chiuse in cinque città dell’Asia,
dell’Africa e dell’America Latina. Tocca anche la qualità del lavoro che in
questi centri viene svolto, gli spazi effettivi presenti nelle scalette dei tg,
il tipo di sguardo sul mondo che ci circonda. Il terremoto ha fatto scoprire ai
telespettatori italiani i problemi drammatici di un Paese come Haiti: dov’era
la Rai prima? E dove sarà domani, quando i riflettori (già oggi meno accesi di
ieri) si saranno definitivamente spenti? «Notizie, non gossip». È tempo
di tornare a pretenderlo. Per non ritrovarci all’improvviso tagliati fuori e
incapaci di capire ciò che si muove nel mondo di oggi.
Clicca
qui per leggere l'editoriale Fesmi «Notizie, non
gossip» del febbraio 2006
Clicca
qui per leggere l'editoriale Fesmi «Da telespettatori
a cittadini del mondo» del maggio 2007
Energia
dalla Terra: la sfida del Vesuvio di Antonio Giorgi
Avvenire
- 3 febbraio 2010
Al
via le prime trivellazioni per sfruttare il calore endogeno profondo
Ad
aprile le trivelle entreranno in azione cominciando a perforare il terreno nella
zona attorno all'ex area industriale di Bagnoli. Obiettivo: realizzare un
pozzo-pilota che raggiungerà una profondità di 500 metri. A partire dal
febbraio del prossimo anno, sulla base delle esperienze e della verifiche rese
possibili da questo primo impianto esplorativo, la perforazione entrerà nel
vivo: dal pozzo- pilota le sonde lavoreranno con una pendenza di circa 25 gradi
rispetto alla verticale, percorreranno almeno 1.500 metri fino a raggiungere il
centro della caldera flegrea sotto il mare di Pozzuoli e toccheranno una
profondità massima di 4mila metri, nel cuore di una struttura geologica
instabile dove le temperature sono comprese tra i 500 e i 600 gradi centigradi.
Gli occhi dei vulcanologi di tutto il mondo saranno puntati sull'area napoletana
e su una campagna di ricerche mirata alla individuazione delle possibilità di
mitigazione dei rischi vulcanici e allo studio dell'utilizzo a fini energetici
del calore endogeno della Terra. Due obiettivi che da soli dicono come il gioco
valga la candela. È dunque ai blocchi di partenza il Progetto Cfddp ( Campi
Flegrei Deep Drilling Project) al quale aderiscono il Consorzio internazionale
per le perforazioni crostali profonde (Icdp, International Continental Drilling
Program), istituti di ricerca di una decina di Paesi, il nostro Cnr, alcune
università italiane, la Regione Campania. Il progetto comporterà un
investimento valutato tra i 12 e i 15 milioni di dollari solo per le operazioni
di perforazione, ma le sue ricadute si prevedono di enorme impatto per la
vulcanologia e per lo studio del sistema geotermale non soltanto flegreo.
" Sarà - sottolineano alla Sezione di Napoli dell'Istituto nazionale di
geofisica e vulcanologia - un esperimento unico al mondo per le difficoltà
connese alla trivellazione in presenza di altissime temperature, soltanto in
Islanda infatti si stanno pianificando operazioni in condizioni termiche
similari". Sarà soprattutto - questo va messo in evidenza - un progetto a
guida italiana, coordinato dal professor Giuseppe De Natale, con la
collaborazione della dottoressa Claudia Troise, entrambi dell'Osservatorio
vesuviano dell'Ingv. Grazie all'installazione nel pozzo di 4mila metri di
sistemi in fibre ottiche per il monitoraggio continuo della temperatura e della
deformazione delle rocce, oltre ad apparati di prelievo di acqua e gas per
l'analisi delle variazioni geochimiche dei fluidi, la comunità scientifica
internazionale ritiene di poter individuare la profondità alla quale è
localizzato il magma ( si ipotizza a circa 7,5 chilometri sono il livello del
mare) e di ottenere informazioni di enorme importanza vulcanologica non solo per
la caldera flegrea ma anche per comprendere il funzionamento delle altre aree
affini nel mondo, fare luce sul fenomeno del bradisismo, individuare gli eventi
premonitori di una eruzione, studiare le ragioni per le quali le rocce in certe
circostanze cedono plasticamente senza rompersi.
Le caldere, e quella dei Campi Flegrei ne è un tipico esempio, costituiscono le
zone vulcaniche potenzialmente più esplosive della Terra, suscettibili di
generare eruzioni di massima energia ("eruzioni ignimbritiche", le
chiamano i tecnici, e sono le stesse che poi formano le depressioni calderiche)
in grado di provocare catastrofi globali.
Eventi statisticamente rarissimi, certo, ma dalle conseguenze più pesanti di
quelle indotte dall'eruzione di un vulcano attivo, paragonabili all'impatto di
un meteorite di grosse dimensioni sulla superficie del Pianeta. La comprensione
dei meccanismi di genesi di queste super- eruzioni è un passaggio chiave
nell'approfondimento delle tematiche connesse alla difesa dai disastri naturali.
Questo vale a maggior ragione per un'area estremamente popolata come quella
napoletana, al cui interno anche eruzioni di modeste entità comporterebbero
rischi rilevantissimi.
Il Progetto Cfddp aprirà infine interessanti prospettive di natura pratica, darà
preziose informazioni sulla possibilità di sfruttamento geotermico dell'area,
sicuramente una delle più "calde" del mondo. I fluidi a temperatura
supercritica (500- 600 gradi centigradi) delle maggiori profondità potrebbero
fornire energia termica con rendimenti di gran lunga superiori a quelli
ricavabili delle attuali metodologie di sfruttamento della geotermia,
consentendo a parità di flusso potenze di un ordine di grandezza superiore. La
tecnologia a fluidi supercritici è ancora nella fase della sperimentazioni
iniziale, ma le ricerche da qualche anno condotte in Islanda sono di grande
interesse.
Medici
Senza Frontiere presenta "Al di là del muro"
www.medicisenzafrontiere.it - Roma - 2 febbraio 2010
Secondo
rapporto sui centri per migranti in Italia
Servizi
scarsi e scadenti, mancano beni di prima necessità. Assenti le autorità
sanitarie, negato a MSF l'ingresso ai centri Lampedusa e Bari. MSF chiede la
chiusura dei CIE di Trapani e Lamezia Terme
A
più di dieci anni dall'istituzione dei centri per migranti in Italia, la
gestione generale sembra ispirata a un approccio ancora emergenziale. I servizi
erogati, in generale, sembrano essere concepiti nell'ottica di soddisfare a
malapena i bisogni primari, tralasciando le molteplici istanze che possono
contribuire a determinare una condizione accettabile di benessere psicofisico.
Al momento dell'entrata in vigore del pacchetto sicurezza e con il conseguente
allungamento dei tempi di detenzione nei CIE da 2 a 6 mesi, non erano previsti
adeguamenti nell'erogazione dei servizi.
È
quanto emerge dall'indagine svolta da Medici Senza Frontiere, che a distanza di
5 anni, unica organizzazione indipendente a scrivere un rapporto sui CIE e CARA,
è tornata nei luoghi di detenzione per i migranti privi di permesso di
soggiorno e di transito per i richiedenti asilo.
"Al
di là del muro" rappresenta la seconda fotografia della realtà che si
vive all'interno dei CIE (Centri di identificazione ed espulsione), CARA (Centri
di accoglienza per richiedenti asilo) e CDA (Centri di accoglienza) in Italia.
Il rapporto indaga gli aspetti socio-sanitari e le condizioni di vita
all'interno di queste strutture. Con "Al di là del muro" MSF intende
far conoscere la realtà di questi spazi chiusi ad osservatori esterni e far
emergere la quotidianità vissuta da migliaia di persone.
L'
indagine è basata su due diverse visite condotte da MSF a distanza di otto mesi
tra il 2008 e il 2009, quando sono stati visitati 21 centri tra CIE, CARA e CDA
disseminati sul territorio nazionale. In alcuni centri, gli operatori di MSF si
sono trovati di fronte a un atteggiamento ostile da parte dei gestori,
incontrando difficoltà nel condurre liberamente l'indagine, subendo limitazioni
e dinieghi nell'accedere in determinate aree: emblematici i casi dei centri di
Lampedusa e del CIE di Bari dove è stata negata dalla Prefettura
l'autorizzazione a entrare nelle aree alloggiative, nonostante la visita di MSF
fosse stata comunicata con diverse settimane di preavviso.
"Rispetto
alle visite condotte nel 2003 poco è cambiato, molti sono i dubbi che
persistono, su tutti la scarsa assistenza sanitaria, strutturata per fornire
solo cure minime, sintomatiche e a breve termine. Stupisce inoltre l'assenza di
protocolli sanitari per la diagnosi e il trattamento di patologie infettive e
croniche. Mancano soprattutto nei CIE, come ad esempio in quello di Torino, i
mediatori culturali senza i quali si crea spesso incomunicabilità tra il medico
e il paziente. Sconcerta in generale l'assenza delle autorità sanitarie locali
e nazionali", dichiara Alessandra Tramontano, coordinatrice medica di MSF
in Italia.
"Tra
i CIE, Trapani e Lamezia Terme andrebbero chiusi subito perché totalmente
inadeguati a trattenere persone in termini di vivibilità. Ma anche in altri CIE
abbiamo riscontrato problemi gravi: a Roma mancavano persino beni di prima
necessità come coperte, vestiti, carta igienica, o impianti di riscaldamento
consoni", continua Tramontano.
"Nei
CARA abbiamo rilevato invece servizi di accoglienza inadeguati. Il caso dei
centri di Foggia e Crotone ne è un esempio: 12 persone costrette a vivere in
container fatiscenti di 25 o 30 metri quadrati, distanti diverse centinaia di
metri dai servizi e dalle altre strutture del centro. Negli stessi centri
l'assenza di una mensa obbligava centinaia di persone a consumare i pasti
giornalieri sui letti o a terra", conclude Alessandra Tramontano.
La
gestione complessiva dei centri per migranti, sia dei CIE che dei CARA e dei
CDA, appare dunque in larga parte inefficiente. I servizi erogati sono spesso
scarsi e scadenti e non si riesce di fatto a garantire una effettiva
identificazione, protezione e assistenza dei soggetti vulnerabili che
rappresentano una parte consistente (se non prevalente) della popolazione
ospitata.
Il
Vangelo radicale - Armi, pace e nonviolenza: quale pastorale è possibile?
di Fabio Corazzina
www.peacelink.it
- Mosaico di pace - Gennaio 2010
Dall’inizio
del terzo millennio ci aspettavamo qualcosa di meglio. Per lo meno il secolo
breve dell’odio e della guerra speravamo potesse essere semplicemente materia
di storia contemporanea, sostituito dal secolo della pace. E invece... “Nel
terzo millennio perdura l’abitudine di rubare cioè di perpetuare
comportamenti ingiusti nei confronti del bene e dei beni altrui, del bene e dei
beni di tutti. ...Perdura l’abitudine di mentire, cioè di parlare e operare
non secondo verità ma secondo convenienza. ...Perdura l’abitudine di
dimenticare o di negare i poveri, la civiltà della ricchezza non può
sopportare una convivenza sgradevole. ...Perdura l’abitudine di uccidere, cioè
di non rispettare la vita o di considerarla come una variabile dipendente da
altri valori ritenuti superiori: la guerra, in tutte le sue espressioni, è la
struttura che rivela il massimo di devastazione umana” (cfr d. V. Nozza,
direttore Caritas Italia). In questo perdurare le nostre comunità cristiane si
affannano a sopravvivere, si vendono alla paura e dimenticano il testimoniare.
GESTI
DI PACE COME TESTIMONIANZA
Il desiderio umano di pace rivendica alcune scelte e gesti coerenti anche da parte delle nostre comunità cristiane e delle parrocchie. Scelte e gesti nei quali sia possibile riconoscere germi di futuro e di speranza.
1. Il rifiuto della logica delle armi e del riarmo. Dire armi
significa dire produzione, commercio, finanza armata, uso, guerra, criminalità,
difesa violenta, mafia, paura, sopruso, corsa al riarmo, bambini soldato,
ferite, morte, controllo sociale, eserciti. Non è sufficiente mascherare questo
fenomeno con la logica degli interventi umanitari, con la scusa della protezione
dei deboli, con la legittimità della difesa armata.
Come comunità cristiane, parrocchie, Chiese non ci è più permesso benedire,
approvare, sostenere, giustificare la logica delle armi e del riarmo, troppo
spesso recanti il marchio di fabbriche italiane, in cui tranquillamente lavorano
operai, dirigenti, ricercatori e tecnici cristiani. In fondo è il Vangelo che
ce lo chiede.
2. La scelta della nonviolenza evangelica come linguaggio, progetto
sociale e politico, testimonianza e primizia del Regno di Dio. Resta
strano il fatto che nelle nostre comunità cristiane trova maggiormente
accoglienza la giustificazione della guerra e della violenza, della legittima
difesa armata e della ingerenza umanitaria con gli eserciti piuttosto che la
difesa popolare nonviolenta, la passione per la verità e i concreti gesti di
amore che danno prospettive a un mondo nuovo e possibile che lo stesso Gesù ha
inaugurato. Il cristiano nonviolento non distoglie il volto dalla brutalità
dell’oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole
“nemico” perché altri lo hanno definito come tale. Resta un mistero e uno
scandalo il motivo per cui la Chiesa cattolica non si definisca evangelicamente
e nei comportamenti come nonviolenta. Forse teme di pagare un prezzo troppo alto
di fronte a poteri politici ed economici che hanno altri fini e obiettivi.
3.
L’obiezione di coscienza a tutto ciò che calpesta la vita.
Inutile nascondere che l’obiezione di coscienza è invocata nelle nostre
comunità cristiane solo in riferimento a questioni di bioetica, e rivolta a
medici o a farmacisti. Che l’economia uccida, che la politica uccida, che
l’industria uccida, che l’informazione uccida, che l’educazione uccida,
che certa legalità uccida, che la religione uccida per noi è irrilevante.
Credo che pochi ordini del giorno dei nostri consigli pastorali presbiterali
prevedano la questione dell’obiezione di coscienza al servizio militare
volontario, alla produzione e commercio di armi, al sostegno di politiche
immigratorie omicide, alla approvazione di leggi inique, alle alleanze
trono-altare che rilanciano lo scontro di civiltà come criterio di letture del
tempo presente. In tal senso ci rendiamo conto che non è più sufficiente
semplicemente sostenere la scelta del Servizio Civile.
4. Una liturgia che da’ vita e non che sacrifica. I testi liturgici e il nostro modo di celebrare Dio troppo spesso contengono termini sacrificali. Ci si è abituati, nella preghiera, a contemplare la necessità del sacrificio come generatrice di futuro e salvezza. Che Cristo ci abbia detto “non voglio più sacrifici ma solo misericordia, giustizia, amore, riconciliazione”non è che ci conforti molto. Molto più congeniale alle nostre comunità è la logica pagana (vorrei dire padano-leghista, o mafiosa) che qualcuno deve morire per il popolo, e chi deve morire lo decidono i potenti di turno, non certo gli ultimi e gli esclusi.
5.
La riconciliazione come stile e impegno. Non solo la società
secolarizzata, ma anche le nostre comunità cristiane sono sempre più divise,
incapaci di dialogo, accusatorie, “l’un contro l’altra armata”.
Scegliere la pace significa fare ogni sforzo per riuscire a essere presenza di
riconciliazione, facilitatori di incontro, generatori di dialogo, tessitori di
perdono. Se è ormai consolidata l’idea che ogni parrocchia abbia al proprio
interno la Caritas attenta alle povertà del territorio e alle politiche sociali
oppure un gruppo di catechisti, è sempre più urgente che ogni parrocchia si
attrezzi di un “gruppo di verità e riconciliazione” capace di ricucire le
fratture senza che il prezzo sia quello dell’avvocato, dei giudici di pace o
dei tribunali penali. Quante energie e denaro risparmiati e quanta comunione
preservata!
6.
Un rapporto evangelico con il denaro e i contributi economici e non.
Con troppa facilità gestiamo le nostre economie senza criterio. Abbiamo soldi
in banche armate o che sostengono il commercio di armi, investiamo in fondi
immorali e omicidi, accettiamo contributi da tutti convinti che noi possiamo
“lavare e purificare” ogni cosa attraverso il bene che facciamo. Accettiamo
accordi e convenzioni che ci privilegiano e ci mettono in cattiva luce sul piano
sociale e umano. Tacciamo su ciò che non funziona pur di poter sopravvivere,
pieni di timori più che di parresia. Laici e sacerdoti, gruppi e associazioni
cristiane dovranno pur domandarsi cosa significa essere Chiesa “povera e
libera”.
7.
La giustizia prima della solidarietà e della sussidiarietà. In
effetti siamo più abituati a vivere la solidarietà (vedi la quantità
incredibile di gruppi, movimenti, Onlus, parrocchie, oratori, patronati... che
fanno cooperazione internazionale o interventi solidali sul territorio) e quindi
a rivendicare la sussidiarietà (ci pensiamo noi, dateci spazio e fondi)
piuttosto che accettare la sfida della giustizia. Chiede coraggio politico,
intelligenza sociale e progettuale e scelta del bene comune nonché della
priorità dei poveri rispetto ai “nostri” interessi, fossero pure di
territorio o di Chiesa.
8.
Non primi ma ultimi. Si tratta di superare il complesso di
“primogenitura” di Caino che rivendica per se stesso un pericoloso “esser
primo”. Primogenitura che si esprime in una serie di complessi che mettono in
croce natura e umanità e non danno pace: complesso di orgoglio nei confronti di
se stessi, complesso di superiorità nei confronti del prossimo, complesso di
sottomissione della natura, complesso di dominio nei confronti dei popoli.
Ultimi, ci dice Gesù. Capaci di incontro e dialogo con tutti in atteggiamento
di “compagnia” coscienti che la Chiesa non esiste per sé e per tutelarsi,
ma per annunciare e testimoniare il Vangelo a ogni creatura.
9.
Coraggiosa nelle sfide che scrivono e provocano il suo quotidiano:
la sfida della speranza contro la disperazione, la sfida della povertà contro
la dissipazione, la sfida della nonviolenza contro la vendetta , la sfida della
giustizia contro l’elemosina, la sfida della partecipazione contro il potere
autoritario e populista, la sfida della comunità contro l’egoismo, la sfida
del disarmo contro la guerra, la sfida della Pasqua contro la morte, la sfida
dell’abitare contro la sopravvivenza, la sfida dell’accoglienza contro la
paura, la sfida della conversione contro la rigidità, la sfida della vita
contro la morte.
10.
Cristo è la nostra pace e la Chiesa è erede di una Parola pericolosa per
la violenza. Le radici sono importantissime, ma il Signore ci giudica a
partire dalle radici non meno che dai fiori e dai frutti che queste radici
realizzano. Costruire un mondo nuovo significa porre attenzione alle truffe
edilizie troppo frequenti. Si mette più sabbia che cemento nell’impasto e
tanti edifici dopo un po’ di anni cominciano a sfaldarsi… Non possiamo
continuare a parlare di pace in tutte le salse, preghiere, incontri e non
metterci il collante della nonviolenza evangelica. Si sfalda tutto, e la storia
continua a mostrarcelo. Tu rispondi al male con il bene.
Immigrazione:
presentato rapporto Caritas
Misna
- 4 febbraio 2010
"La
riflessione sugli immigrati è inquinata, c'è bisogno di essere più
sereni": lo ha detto oggi Franco Pittau, coordinatore del gruppo
redazionale per conto della Caritas diocesana, presentando il VI Rapporto
dell'Osservatorio Romano sulle Migrazioni. Invitando tutti a scardinare il
binomio "immigrazione-criminalità" - messaggio che un certo tipo di
politica e di media continua a veicolare da anni - Pittau ha fornito alcuni dati
diffusi dal ministero dell'Interno che smentiscono chiaramente l'associazione
tra immigrazione e criminalità: "Prendendo in esame i dati del quadriennio
che va dal 2005 al 2008 - ha detto Pittau - a Roma e Provincia a fronte di un
aumento del 60% della popolazione immigrata si è verificato un aumento della
criminalità inferiore al 5%". Il rapporto entra nel dettaglio della
presenza di immigrati: 293.948 residenti stranieri nel Comune di Roma, 123.635
nei restanti Comuni della Provincia, 83.791 nelle altre Province laziali.
Diversi i fenomeni messi in evidenza: l'età media bassa (31,4 anni), la
prevalenza delle donne (53,8%), il consistente apporto degli occupati immigrati
(165.000), i nati da entrambi i genitori stranieri (5.290), il consistente
numero di minori (71.170, dei quali circa sette su 10 nati in Italia), l'aumento
delle aziende con titolare straniero anche in periodo di crisi (23.018), l'aiuto
ai paesi di origine attraverso le rimesse (un miliardo e 700 milioni di euro) e
l'interesse alla nostra lingua attraverso la frequenza a corsi di italiano per
adulti (13.514 solo a Roma). In generale in tre anni la popolazione di stranieri
residenti è cresciuta del 60%. Il rapporto contiene una serie di
approfondimenti sulle diverse collettività, analizzando le più numerose
(quella romena, cinese e marocchina) e le più piccole (capoverdiani e
malgasci), soffermandosi poi sulla delicata questione dei rom e dei sinti.
Lorenzo Tagliavanti, vice-presidente della Camera di commercio di Roma, ha
detto: "L'immigrazione è decisiva per soddisfare la domanda di personale
in settori in cui l'offerta italiana scarseggia. Nella maggioranza dei casi sono
persone desiderose di affermarsi socialmente ed economicamente e anche per
questo costituiscono la parte più dinamica del nostro tessuto produttivo, tra
l'altro mantenendo in vita antichi mestieri artigiani che fanno parte della
nostra tradizione".[MZ]
P.
Sorge: "Non è il tempo di chiuderci in casa e di rinunciare a
partecipare" di Giuseppe Delfrate
www.unimondo.org
- 3 febbraio 2010
Dobbiamo,
per responsabilità, contribuire a dare un indirizzo al nostro futuro. Non
possiamo essere soltanto degli spettatori. Rosarno: perché è successo quel
putiferio?
La
crisi può essere congiunturale o strutturale. Noi, ora, stiamo vivendo una
profonda crisi che è strutturale in quanto è finita la rivoluzione industriale
ed è iniziata quella tecnologica. Un esempio: la casa. Quando anche il
pavimento crolla, cade la struttura e viene a mancare ogni riferimento. Oggi
siamo in questa situazione e c'è urgente bisogno di costruire un cambio di
civiltà; un nuovo pavimento sul quale costruire la casa.
Anche
la crisi della famiglia è strutturale; quale famiglia, come costruirla?
Crisi
del lavoro e della scuola. Esuberi nel mondo del lavoro, cosa produrre e per chi
produrre. La scuola che manca di un indirizzo completo in merito a cosa serve
conoscere per vivere nel futuro e saperci rapportare con i vari soggetti
sociali?
Siamo
alla quinta crisi strutturale in duemila anni; la precedente ha avuto inizio con
l'era industriale, nel "settecento". Anche la Dottrina sociale della
Chiesa, con la Caritas in Veritate dell'attuale Papa, proclama la
"Populorum Progessio" come la Magna carta del 21° secolo. Si tratta
del Documento di Paolo VI° che ha trattato dello sviluppo globale ed integrale.
E' la globalizzazione che determina lo sviluppo, quindi il modello sociale, così
pure le malattie (l'influenza asiatica), le mafie ed altro? Attraverso le
comunicazioni planetarie il mondo si va unificando, nel bene e nel male. La
globalizzazione produce certamente cultura; ma quale cultura? Occorre essere
presenti per contribuire a definire le nuove culture: che siano, sempre ed
ovunque, a misura d'uomo.
Un
mondo migliore è possibile
La
situazione attuale che c'è nel mondo non può continuare: l'83% delle risorse
vengono utilizzate soltanto da 900 milioni di persone, mentre gli altri 6
miliardi dispongono soltanto del 17%. E' un problema strutturale che va
affrontato e risolto.
Giovanni
Paolo II° ebbe a scrivere, nel 2001, che non è più tollerabile che ci siano
ancora queste pesanti ingiustizie. Sono 120.000 le persone che ogni anno muoiono
di fame. La gente, poi, reagisce, anche in modo violento.
Sul
tema della sicurezza, collegata all'immigrazione, c'è stata una forte
degenerazione; non si può considerare l'immigrato un problema di ordine
pubblico.
Questa
cultura dominante è pericolosa. Il problema è complesso, ma, come ha scritto
il Papa nel 2008, deve essere affrontato responsabilmente per costruire una
nuova civiltà, che includa gli immigrati, non a creare paure e tensioni
sociali. L'immigrato è sempre una persona, non solo un lavoratore disposto a
lavorare a poco prezzo.
Siamo
in una società avvelenata da alcune affermazioni insensate. C'è ancora bisogno
di Dio nel contesto attuale? - Si, dice il Papa. Dobbiamo dare un anima alle
nuove tecnologie; serve un etica che comprenda tutto lo sviluppo fatto
dall'umanità. Connessione tra etica personale ed etica sociale. Ci vuole
coerenza morale ed un giusto equilibrio per far crescere un anima etica nella
cultura nichilista che pare essere dominante.
L'ora
dei laici è suonata con il Concilio.
Oggi
l'impegno dei cristiani va declinato attraverso la libertà collegata alla
responsabilità. Nessuna struttura umana può essere valida e produrre benefici
alla persona se manca la libertà e la responsabilità.
Poi
ricorda come PaoloVI° nel 1967 ammoniva come il male peggiore del mondo fosse
la mancanza di fraternità e di solidarietà. Tutti abbiamo bisogno di amore,
verità e di tanta solidarietà reciproca. Senza una forte socialità non si può
vivere bene; almeno in quest'era globale. Pensiamo e decidiamo quali strumenti
adottare per uscire dalla palude nella quale siamo immersi e crescere bene
insieme.
Verso
quale Italia stiamo andando?
Bisogna
innanzitutto conoscere e riflettere sulla situazione italiana. Nella Caritas in
Veritate, al n° 61, il Papa tratta il ruolo dello Stato: non ci può essere
sviluppo se non c'è la capacità di impegnare l'economia per il bene comune di
tutti.
Il
modello imperante, oggi, è preoccupante, e nessuno si sente contento.
Personalmente non sono tranquillo di come si sta evolvendo la società attuale.
C'è
troppa rassegnazione, sfiducia, si crede che non ci sia nulla da fare, che anche
con il nostro impegno non cambi nulla. I cattolici, oggi, sono disorientati
politicamente, dicono che sono "tutti uguali". No: questo non è il
tempo di chiuderci in casa e di rinunciare a partecipare, a riflettere, a
valutare e a scegliere.
Padre
Bartolomeo passa ad esaminare alcuni dati ed alcuni fatti avvenuti di recente.
Alle
elezioni Europee il 39% dei cattolici non hanno votato; e qui era possibile
esprimere tre preferenze. Certo, l'attuale sistema elettorale è una finzione,
bisogna dirlo. Con il voto gli italiani possono soltanto ratificare ciò che i
rappresentanti dei partiti hanno deciso, ossia chi mettere in lista e con quale
ordine. Vuol dire che gli eletti sono alla mercé dei capi partito e che chi
detiene la maggioranza del consenso può fare tutto quello che vuole. Questa non
è più democrazia, ma populismo. Non soltanto quello di Berlusconi; c'è anche
il comico Beppe Grillo ed altri. Il populismo nega nei fatti l'esercizio della
democrazia; è una forma di dittatura con il consenso, ed è anche più
pericolosa.
Ecco
perché ci vuole un bilanciamento ed il controllo del potere politico, che
avviene attraverso il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale.
Solo nella situazione attuale il potere giudiziario diventa nemico del Premier.
Si dimentica che il giudizio di legalità, anche delle leggi, appartiene alla
Magistratura.
L'equilibrio
è necessario, anche perché la cultura politica che si sta diffondendo è
aberrante, individualista e sta avvelenando ogni germe di civiltà. Quanto è
avvenuto nel 2009 non è civiltà; la caccia al "nero" ed altre
persone; il clima di odio che si sta diffondendo non è certo civiltà, meno
ancora amore cristiano. Ci sono troppi esempi.
Dobbiamo
fermare questo piano che vorrebbe considerare gli immigrati cittadini di serie
B, che alimenta la paura e crea inutili contrapposizioni e tensioni sociali. Si
punta sull'effetto psicologico della gente attraverso proposte che sono inique e
che, di fatto, non possono venire realizzate, perché vanno contro la
Costituzione italiana.
Come
si può tacere, oggi, di questa puzza? - A Milano danno l'Ambrogino d'oro ai
Vigili che maggiormente sono andati alla caccia dello straniero, fermandolo,
magari, dieci volte per niente.
Abbiamo
assistito a pesanti attacchi al cardinale Tettamanzi da parte di uomini di
Governo; per di più che questi si dichiarano difensori del cristianesimo e si
pongono, aspramente, contro l'Arcivescovo lombardo che presta troppa attenzione
e da spazio ai mussulmani che vivono nella Diocesi di Milano. Quanta ipocrisia
si sta diffondendo, anche nelle nostre comunità, senza che qualcuno se ne
accorga e ci aiuti ad aprire gli occhi; distinguendo la verità dalla menzogna!
L'Italia
ha bisogno di laici maturi, responsabili verso i fratelli, incominciando dai
cristiani.
Ricorda
come il Concilio già aveva affidato ai Laici il compito di svolgere la loro
attività singolarmente e in gruppo. La Dottrina sociale della Chiesa ci indica
come testimoniare nelle opere e con la vita i principi cristiani. E' la
professionalità che aiuta a compiere le "opere buone", ed è
indispensabile per quanti entrano a far parte delle varie Istituzioni. Non si può
usare la politica per fini religiosi, o per fare gli interessi della Chiesa
altrimenti si cade nel fondamentalismo.
In
politica, il cristiano agisce come laico. Dall'unica Fede si possono trarre
scelte diverse. Il Catechismo della Chiesa cattolica dice che non ci sarà mai
un partito in piena sintonia con lo stesso Catechismo. La religione di stato
porta all'assolutismo, e non è libertà democratica.
Nell'attuale
situazione italiana, ritengo che i cristiani possano militare nelle varie
formazioni politiche, pur diverse nelle loro dichiarazioni e nei loro programmi.
Nella
Lega ritiene che sia possibile un'eventuale testimonianza, rischiando molto
personalmente; ciò perché la cultura della Lega è, oggi, individualista; non
parla neppure del bene comune ed è marcatamente xenofoba.
Ricordo
diversi esempi di persone che storicamente si sono impegnate politicamente,
mettendosi al servizio dei cittadini e delle Istituzioni che rappresentavano. Da
De Gasperi, La Pira, Lazzati, Moro, Zaccagnini, Pertini ed altri. Laici che
hanno agito con rettitudine morale, rispondendo, non alla Chiesa o al Partito ma
alla propria coscienza, ampiamente formata. Persone che in percentuale non
avevano ampi consensi, ma per la forza delle loro idee riuscivano a far passare
le loro proposte.
L'esempio
più conosciuto per il contagio delle idee riguarda Aldo Moro.
In
merito alle prospettive ha ricordato che, in Italia, il bipartitismo
all'americana è impossibile, mentre il bipolarismo ha bisogno di nuove
iniziative, negli spazi intermedi, per recuperare quei dieci milioni di italiani
che non votano più, perché delusi o perché non hanno ancora maturato l'idea
che il sistema democratico si alimenta attraverso la partecipazione popolare.
Concludo.
V'è la necessità che la Chiesa continui ad illuminare le coscienze e non dia
mai indicazioni in merito alle alleanze politiche. Certo, ha rimarcato, ci vuole
un laicato cattolico maturo. E' una illusione pensare alla difesa del crocifisso
contro i mussulmani. Gesù vuole diffondere l'Amore, non essere piantato al
muro! Il Magistero della Chiesa dica chiaro ciò che si deve fare in coscienza,
la quale è trascendenza, secondo una celebre frase di Sandro Pertini.
In
merito ai mezzi di informazione, richiamo al pericolo della manipolazione ed
auspico che le notizie abbiano a circolare maggiormente e liberamente,
incominciando
da ciò che è utile per una crescita culturale, sociale e di relazione, perché
tutte le persone siano poste nella condizione di conoscere, quindi di pensare e
di riflettere, sapendo che il futuro dell'Italia e del mondo sarà ciò che noi
oggi decidiamo che sia.
(Relazione
raccolta al cinema "Agotà" di Ospitaletto. Sintesi non rivista dal
relatore)
Sbarca
in Italia la banca di Yunus
Avvenire
- 3 febbraio 2010
Potrebbe
essere operativa già entro la fine del 2010 la Grameen Bank italiana per la
promozione del microcredito. Ad annunciarlo è stato il fondatore dell'istituto
di microcredito più famoso al mondo, Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace
nel 2006, che ha fatto tappa in questi giorni in Italia, a Milano, dopo aver
partecipato al World economic forum di Davos. Grameen Bank Italia partirà
grazie a un accordo con Unicredit e con l'Università di Bologna, prima a Milano
e poi anche in altre città italiane.
Ma
Yunus intende portare il modello Grameen, che ha già dato prova di essere
efficace sia nei Paesi poveri, sia nelle economie industrializzate (come Stati
Uniti e Francia), anche nei Paesi dell'Est. Motivo per cui dopo Milano il
'banchiere dei poveri' sarà impegnato in un tour europeo (fra le tappe pure
Londra e Stoccolma) per creare una rete di realtà che operino con l'obiettivo
di favorire lo sviluppo contrastando la povertà.
Insieme
al sindaco di Milano, Letizia Moratti,Yunus ha anche annunciato la prossima
nascita nel capoluogo lombardo di Grameen creative Lab, un laboratorio per la
promozione non solo di buone pratiche di microcredito ma anche di imprese che
pongano alla base della loro attività obiettivi sociali prima ancora che
economici. In vista di Expo 2015, quindi, la città di Milano, che è già la
capitale italiana del volontariato (con 900 organizzazioni attive e oltre 42mila
volontari impegnati), si propone di diventare un incubatore per il business
socialmente orientato.
L'ultima
idea, utopica quanto affascinante, di Yunus (che ha trovato accoglienza nel
sindaco Moratti) è quella di creare dei "musei della povertà". Perché,
se si arriverà a farli, vorrà dire che la povertà sarà stata archiviata,
appunto, a...reperto da museo.
Uno sciopero per difendere la dignità degli immigrati di don Paolo Farinella
Micromega.net
- 23 febbraio 2010
Mi rivolgo a voi, Donne e Uomini che provenite da ogni paese del mondo, dando
forma alla visione del profeta che alla fine del sec. I contemplava "una
moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo
e lingua" (Ap 7,9). Voi siete Arabi e Asiatici, Indiani e Pakistani,
Latinoamericani e Romeni, Orientali e Occidentali. Non possiamo più
considerarvi "ospiti", perché i vostri figli nascono e crescono in
terra d'Italia e voi a buon diritto siete cittadine e cittadini, parte
integrante del popolo italiano. La grande maggioranza della città di Genova e
dell'Italia lo sa e ne è consapevole. Sappiamo che voi saldate in positivo il
rapporto tra nascite e morti, impedendo che la Liguria diventi sempre più una
regione vecchia senza speranza. I vostri bambini salvano molte nostre scuole che
la precaria intelligenza della ministra Gelmini vorrebbe chiudere. Accompagnate
i nostri anziani nella fatica dell'ultimo miglio, accudite i nostri bambini
nelle case, curate i malati e vi umiliate a fare i lavori che gli Italiani e le
Italiane non voglio più fare: lavori manuali pesanti come muratori,
raccoglitori di frutta, contadini, operatori nelle stalle e nelle fattorie, ecc.
Senza di voi, noi saremmo già morti, sì, perché una parte del vostro lavoro
garantisce la pensione alle donne e agli uomini italiani nel rapporto di uno a
tre. Vi dovremmo essere riconoscenti concedendovi, trascorsi cinque anni di
permanenza, il diritto alla cittadinanza come diritto basilare perché
collaborate e contribuite alla crescita e allo sviluppo del nostro/vostro
popolo.
Eppure, voi sapete che così non è perché una parte, una minoranza che per
nostra disgrazia e maledizione governa la nostra nazione, ha paura di voi, della
vostra pelle, della vostra religione, se ne avete una, e si oppone con veemenza
al diritto dei Musulmani e delle Musulmane di avere una moschea. Farebbero lo
stesso per una pagoda giapponese o un tempio buddista. Dicono di credere in Dio,
invece sono pagani perché se credessero, saprebbero che la libertà religiosa e
il diritto alla preghiera in un tempio/chiesa/moschea/pagoda, ecc. è il
fondamento della religione e della civiltà. Il giorno 17 gennaio 2010, il papa
cattolico è andato nel tempio ebraico di Roma e ha detto parole importanti:
"Mai più l'antisemitismo" che è la madre e il padre di tutte le
forme di razzismo, di cui i nostri cuori sono ancora intrisi e macchiati. Quel
grido significa molto anche per noi e per voi: mai più discriminazione in nome
del colore, della religione, del sesso, del paese di provenienza. Sta scritto
nell'articolo 3 della nostra Legge fondamentale, la Costituzione, che è il
nostro orgoglio e la nostra civiltà: "Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza,
di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali". I nostri Padri scrissero quel comma per voi, per darvi il
benvenuto, per dirvi che nel III Millennio non esistono più confini nazionali,
ma solo cittadine e cittadini del mondo. Credenti e non credenti. Tutti uguali
nei diritti e nella dignità. Non considerate la Lega che è la vera
extracomunitaria della storia.
Poiché però alcuni fanno fatica a capire tutto ciò, è necessario che voi ci
aiutiate a comprendere l'importanza della vostra presenza nella nostra città.
Per questo io vi invito a partecipare in massa allo sciopero del 1 marzo 2010
per "dimostrare" al popolo di Genova e all'Italia intera quanto siete
importanti. Cessate per un giorno ogni attività, ogni servizio. Lasciate gli
anziani da soli, i bambini a casa, le case da pulire, i lavori deserti. Vi
supplico in nome della vostra e nostra dignità di incrociare le braccia e di
riposarvi un giorno. Lo pagherete economicamente, ma dimostrerete a tutti che
senza di voi, l'Italia cola a picco. Un abbraccio affettuoso e riconoscente.
Il
Regno di Dio nel cuore dell'Asia:...
"Le
nuove restrizioni non toccano la piccola Chiesa kyrgysa", dice a Fides
l'Amministratore Apostolico
Agenzia
Fides - Bishkek - 1 febbraio 2010
Le
nuove restrizioni sulla libertà religiosa applicate nei giorni scorsi dal
governo del Kyrgyzstan "non toccano la piccola Chiesa cattolica del paese,
che prosegue il suo cammino, nella cura pastorale fedeli, nell'opere sociale e
umanitaria", dice all'Agenzia Fides S. Ecc. Mons. Nikolaus Messmer, Sj
Amministratore Apostolico del Kyrgyzstan.
Il
governo ha diramato di recente un nuovo regolamento sulla presenza e l'attività
dei gruppi religiosi nel paese. La nuova legge prevede che ogni gruppo, per
essere registrato ufficialmente e dunque operare legalmente, debba avere un
minino di 200 fedeli. Il provvedimento mette in difficoltà alcune denominazioni
cristiane di area protestante che contano piccoli gruppi di fedeli. Ma ha
sollevato proteste anche da gruppi musulmani (spesso piccoli) che intendono
aprire nuove moschee e scuole islamiche. Il capo della Commissione governativa
sulle religioni, Kanibek Osmonaliyev, ha spiegato che il governo intende
soprattutto controllare e limitare il proliferare delle sette, riconducibili a
qualsiasi credo religioso.
"La
Chiesa cattolica non viene invece toccata in alcun modo - spiega all'Agenzia
Fides Mons. Messmer - in quanto siamo già ampiamente riconosciuti e abbiamo più
di 200 fedeli".
"Certo,
il numero dei cattolici resta ancora molto basso. Siamo meno di mille in tutto
il paese, e per la maggioranza i fedeli sono di estrazione polacca o tedesca. Va
detto anche che molti cittadini cattolici di origine tedesca negli anni scorsi
hanno preferito lasciare il paese e tornare in Europa, e così il numero di
cattolici è diminuito. Ma in ogni caso non abbiamo alcun problema con le
autorità civili. Qualche difficoltà esiste nel rilascio dei visti per i
missionari, che devono essere rinnovati ogni sei mesi".
La
piccola comunità cattolica nel paese "continua nel suo cammino, operando
soprattutto per l'assistenza spirituale e la cura pastorale dei fedeli. Inoltre
siamo impegnati in opere sociali e lavoro umanitario, aiutando chiunque abbia
bisogno, senza alcun discriminazione".
Le
risorse sono comunque limitate: la Chiesa in Kyrgyzstan, su circa cinque milioni
di abitanti, ha 6 sacerdoti, 2 religiosi e 4 suore. Solo due preti sono di
nazionalità kyrgysa, gli altri sono missionari. "Dobbiamo crescere, con
l'aiuto della Provvidenza, per portare la Buona Novella del Regno di Dio nel
cuore dell'Asia", conclude l'Amministratore. (PA)
Berlusconi
non ha visto il muro di Raniero La Valle
domani.arcoiris.tv
- 4 febbraio 2010
Con
mezzo governo Berlusconi è andato in Israele per fare affari e per promettere
che non ne farà più col nemico iraniano. Diligentemente è andato a visitare
il museo della Shoah, scrivendo un'apposita frase che attesta il suo orrore per
quella ignominia. Poi dall'hotel King David dove con il suo seguito occupava una
"suite regale" con altre 170 stanze e vestiva un accappatoio bianco
con su scritto a lettere d'oro "Silvio Berlusconi", si è spostato
alla Knesset per dire che Israele è la migliore democrazia del mondo e che bene
ha fatto a punire i palestinesi con l'operazione "Piombo fuso" e con
il massacro di Gaza, nonostante la condanna ufficiale dell'ONU da cui l'Italia
del resto già si era dissociata votando contro di essa.
Tutto
questo il nostro presidente del Consiglio ha fatto nel giorno in cui a Roma alla
Camera faceva votare dai suoi devoti la legge-beffa che, unica nelle democrazie
dell'Occidente, sancisce la legittima latitanza sua e dei suoi ministri dalle
aule giudiziarie nelle quali fossero processati anche per i più gravi reati;
una legge così ingegnosa (si raffina con il ripetuto esercizio l'arte di
Ghedini) che questa latitanza non ha nemmeno bisogno di essere consumata
all'estero, come almeno fece Craxi, ma può essere meramente figurativa e
vissuta allegramente in Italia.
Nello
stesso giorno Berlusconi si trasferiva nei Territori occupati per una doverosa
visita all'infelice Abu Mazen. Per passare da Israele nei Territori bisogna
imbattersi nel Muro che sigilla i palestinesi nel loro "apartheid" e
sfregia la Terra santa e la stessa Gerusalemme. Ma ai giornalisti che gliene
chiedevano le impressioni lo statista ha detto di non averlo veduto, occupato
com'era a riordinare le idee per l'incontro con l'Autorità palestinese. Ma non
si può avere alcuna idea da scambiare con i palestinesi, se non si vede il
Muro, che è come la trave ficcata nel loro occhio. Non vedere il Muro che è la
più imponente opera edilizia della regione, è come andare in Egitto e non
vedere le piramidi, è come essere andati nella Germania divisa e non aver visto
il Muro di Berlino, è come essere andati ad Auschwitz senza aver visto il
cancello con la scritta sul "lavoro che libera".
Non
vedere il Muro che uccide la Palestina e ghettizza Israele è come non vedere
gli operai licenziati di Termini Imerese che salgono sui tetti, o quelli
dell'Alcoa, o i disoccupati e i cassintegrati che assediano palazzo Chigi, per
proteggere il quale il centro di Roma si è trasformato in un bivacco della
polizia.
Non
vedere il muro che da Nazaret impedisce di andare a Betlemme, e da Gerusalemme
blocca la strada per Emmaus, è come non vedere che c'è la crisi economica che
si abbatte su milioni di famiglie, e dire che tutto va bene, basta dare qualche
condono ai ricchi che evadendo le tasse hanno messo le mani in tasca agli
italiani poveri.
Non
vedere il Muro che modernizza la Terra promessa è come non vedere altri
monumenti della modernità: lo Stato di Diritto, il Cesare Beccaria dei delitti
e delle pene, la divisione dei poteri, la funzione della magistratura,
l'universalità della legge penale, l'eguaglianza di tutti davanti alla legge.
Non
vedere il Muro oltre il quale è ricacciato l'intero mondo arabo e islamico vuol
dire rovesciare la politica estera italiana che ha intessuto legami e gettato
ponti in tutto il Medio Oriente; significa distruggere l'immagine dell'Italia
che per decenni ha compiuto il miracolo di praticare l'amicizia con Israele
senza rompere la solidarietà con i palestinesi; significa ignorare che il
Parlamento italiano votò a suo tempo per l'ingresso non del solo Israele, come
oggi vorrebbe Berlusconi, ma dei due Stati della Palestina e di Israele nella
Comunità europea, intesa non come una fortezza per lo scontro con gli arabi, ma
come uno spazio in cui le frontiere si abbassano e Israele e Palestina potessero
vivere insieme come Stati indipendenti e sovrani, non confusi ma non divisi nel
godimento dello stesso territorio.
Non
vedere il Muro che umilia i palestinesi vuol dire andare da loro a promettere
non la libertà, ma un po' di soldi di un ipotetico "piano Marshall"
per un impossibile "benessere".
Il
primo ministro Netanyau ha detto che Israele non ha un altro amico pari a
Berlusconi in tutta la comunità internazionale. Povero Israele. Se amico di
Israele è chi non vede il Muro, allora vuol dire che Israele vive nella irrealtà,
in un mondo che non è quello vero, in un mondo dove non c'è nessun altro che
lui, un mondo che esiste solo nel sogno di chi è senza ragione. Questo sogno è
molto pericoloso. Se ne può morire. E quello di far entrare il solo Israele
nella Unione europea, per meglio combattere tutti insieme l'Islam, non è un
sogno, è un incubo.
Poliziotti
compiono torture, uccisioni e stupri nella regione del Tarai
AsiaNews
- Kathmandu - 3 febbraio 2010
Organizzazione
per i diritti umani denuncia i continui abusi di polizia e forze armate nelle
carceri di 11 distretti del Tarai (Nepal meridionale). Colpite soprattutto le
minoranze etniche e religiose. Tra i torturati anche bambini di 9 anni.
Aumentano
le esecuzioni sommarie e l'utilizzo della tortura nelle carceri della
regione del Terai (Nepal meridionale), caratterizzata da scontri etnici.
A dirlo è l'organizzazione per i diritti umani Advocacy Forum (Af) che
in un report di 93 pagine pubblicato ieri documenta le ripetute
violenze - omicidi, stupri, sequestri, torture - compiute tra gennaio e
settembre 2009 da polizia e forze armate a danno delle minoranze etniche
presenti nella regione. Il
rapporto di Af dal titolo "Torture and extrajudicial excecutions
amid widespread violence in the Tarai" fa riferimento a un totale
di 15 esecuzioni sommarie rimaste impunite. Secondo l'organizzazione la
Nepal police (Np) sarebbe responsabile di ben 13 uccisioni, mentre due
sarebbero state commesse da membri della Armed Police Force (Af). Le
persone uccise appartengono per la maggior parte a gruppi politici
legati alla comunità madeshi, etnia della regione che si batte per
l'autonomia. Testimoni affermano che le vittime sono state arrestate
durante scontri tra polizia ed esponenti madeshi e uccise sul posto
dagli agenti. |
"Ancora
una volta vediamo come il governo nepalese abbia fallito nel condurre indagini
credibili e nel perseguire i responsabili di questi crimini", afferma
Mandira Sharma, direttrice dell'Af. "L'impunità - continua - manifesta la
mancanza di un adeguato sistema di sicurezza. Tutto questo non fa che aumentare
il risentimento dei gruppi etnici verso il governo centrale di Kathmandu".
Nel
documento è presente anche un'indagine basata su interviste a 1473 detenuti.
Questa mostra la diffusione della tortura nelle carceri in 11 distretti: Banke,
Barda, Dhanusha, Jhapa, Kanchapur, Kapilvastu, Morang, Siraha, Sunsari,
Rupandehi e Udayapur. Nella prigione del distretto di Dhanusha oltre il 30%
degli intervistati ha ammesso di essere stato torturato. In particolare le donne
denunciano continui abusi sessuali da parte delle guardie. Le torture riguardano
anche il 52% dei minori, in alcuni casi di soli 9 anni di età. Oggetto delle
torture sono soprattutto le minoranze etniche e religiose. I detenuti
appartenenti alle etnie del Tarai e i musulmani sono i più colpiti, mentre agli
indù è riservato un migliore trattamento.
Nel
luglio 2009 il governo nepalese ha varato uno speciale piano di sicurezza per
limitare le violenze compiute dalle forze dell'ordine, soprattutto nella regione
del Tarai. Nonostante ciò esso non è stato ancora applicato e nessun
provvedimento è stato preso nei confronti dei poliziotti responsabili delle
violenze.
"Finché non sarà applicata la legge e non vi sarà un maggiore controllo su questi fatti - dice Mandira Sharma - la polizia continuerà a utilizzare l'elettroshock nelle carceri, a compiere esecuzioni sommarie e violenze sui detenuti, inclusi i bambini, senza dover rendere conto a nessuno".
Attivisti
pakistani: l'omicidio della 12enne cristiana a rischio impunità di
Fareed Khan
AsiaNews
- Islamabad - 2 febbraio 2010)
Il
delitto della giovane domestica, stuprata e uccisa dal padrone, bloccato da
ritardi e ostacoli alla giustizia. L'assassino, un ricco avvocato di Lahore, è
trattato dalla polizia come un "ospite di Stato". Cattolici e membri
per la tutela dei diritti umani parte civile a sostegno della famiglia.
Leader
cattolici e attivisti per i diritti umani in Pakistan lanciano l'allarme: lo
stupro e l'omicidio della 12enne cristiana Shazia Bashir, del 23 gennaio scorso,
rischia di restare impunito. Il principale indiziato è un ricco e potente
avvocato musulmano di Lahore, Chaudhry Muhammad Naeem, presso il quale la
giovane lavorava come domestica. L'associazione dei legali della città si è
schierata a difesa dell'uomo - ex presidente della Lahore Bar Association - che
riceve un trattamento di tutto riguardo dagli agenti che lo hanno in custodia.
La giustizia, intanto, continua a rimandare l'incriminazione.
I
parenti di Shazia affermano di non credere al comitato istituito da Shahbaz
Sharif, Capo ministro del Punjab, accusato di rimandare i tempi della giustizia.
Un gruppo di familiari della vittima e attivisti si sono costituiti parte civile
e hanno inscenato proteste di fronte al Circolo della stampa di Lahore.
Peter
Jacob, segretario esecutivo di Giustizia e pace della Chiesa cattolica pakistana
(Ncjp), sottolinea ad AsiaNews la "debolezza" del governo nel
garantire giustizia ai più poveri e punire i colpevoli. L'attivista cattolico,
insieme a membri per i diritti umani, è impegnato nel "mantenere viva la
lotta per la giustizia" perché gli assassini di Shazia rispondano del loro
crimine.
Il
29 gennaio scorso un giudice ha prolungato di altri sei giorni i termini di
custodia cautelare a carico di Chaudhry Muhammad Naeem. La polizia ha spiegato
imponenti misure di sicurezza attorno all'uomo; il team di legali che lo difende
ha ottenuto il bando dei media dall'aula di tribunale. All'esterno (nella foto)
i familiari della giovane uccisa e membri della società civile scandivano
slogan di protesta.
Intanto
la All Pakistan Minorities Alliance (Apma) e la Pakistan Masihi League (Pml),
due organizzazioni cristiane, hanno lanciato un appello al Capo della Corte
suprema pakistana, perché intervenga in prima persona contro i criminali.
Il
professor Salamat Akhtar, presidente della Pml, denuncia una manomissione del
certificato di morte e accusa la polizia di trattare l'imputato come un
"ospite di Stato", che gode di tutti i favori. Egli aggiunge che
l'associazione degli avvocati di Lahore "può difendere l'amico in
tribunale", ma "non può danneggiare o distruggere la giustizia con
minacce o azioni contrarie all'etica e alla legge".
In
un comunicato congiunto mons. Lawrence John Saldanha, presidente di Ncjp, e
Peter Jacob ribadscono che la morte di Shazia "non è un incidente
isolato" perché i domestici sono spesso "vittime di violenze e
coercizioni dai loro padroni", mentre il governo nazionale e provinciale
non sono in grado di "assicurare giustizia". Essi chiedono
all'esecutivo di introdurre una norma contro il lavoro minorile e garantire
"la velocità nei processi a carico dei colpevoli".
Avvocati
musulmani: "bruceremo vivo" chi difende la 12enne cristiana uccisa
di Fareed Khan
AsiaNews
- Islamabad - 6 febbraio 2010
Nessun
legale intende assumere la difesa di Shazia Bashir, la giovane domestica uccisa
dal suo datore di lavoro. La potente associazione degli avvocati di Lahore,
schierata a difesa dell'assassino, lancia minacce di morte e impedisce l'accesso
all'aula di tribunale. Associazione cristiana: condanniamo questa nuova forma di
terrorismo.
A
causa delle minacce lanciate dalla potente Lahore Bar Association -
organizzazione che riunisce i legali della città - nessun avvocato cristiano o
musulmano è pronto ad assumere le parti della difesa nell'omicidio della 12enne
Shazia Bashir. È quanto denunciato ieri da un'associazione cristiana pakistana
che si occupa di assistenza legale.
La
ragazza, di fede cristiana, è morta il 23 gennaio scorso in seguito alle
violenze - anche sessuali - inflitte dal suo datore di lavoro, un ricco e
potente avvocato musulmano di Lahore. Il presunto assassino, Chaudhry Mohammad
Naeem, è un ex-presidente della Lahore High Court Bar Association. La giovane,
di soli 12 anni, negli ultimi sei mesi aveva lavorato come domestica
nell'abitazione di Naeem.
Il
Centre for Legal Aid Assistance And Settlement (Claas) denuncia l'impossibilità
di accedere all'aula del tribunale dove si sono svolte le udienze a carico
dell'imputato, perché un gruppo di avvocati musulmani (nella foto) ne ha
"impedito l'ingresso". L'associazione che si batte - a titolo gratuito
- per la difesa dei diritti dei più poveri ed emarginati ha subito le minacce
di migliaia di legali - amici dell'assassino - che promettono di "bruciare
vivo chiunque voglia rappresentare la vittima in tribunale".
M.
Joseph Francis, direttore di Claas, chiede a membri della società civile,
leader politici e religiosi di ribellarsi e assumere in prima persona
l'iniziativa per "condannare questa nuova forma di terrorismo" ad
opera di avvocati che "dovrebbero garantire la giustizia". Il
quotidiano pakistano The News riferisce che il 4 febbraio scorso la polizia ha
condotto l'imputato davanti ai giudici fra "rigide misure di
sicurezza". E, come di consueto, gli agenti hanno impedito ai giornalisti e
ai parenti della vittima di entrare in aula per "motivi di sicurezza".
I
familiari di Shazia Bashir non hanno potuto accedere al tribunale non una, ma
tre volte; un fatto anomalo, per quanto concerne il sistema giudiziario
pakistano. Gli ufficiali di polizia spiegano che "non sarebbe
possibile" impedire scontri e violenze, nel caso in cui "i parenti di
Shazia e i rappresentanti delle minoranze entrassero in aula".
Nel
frattempo Ashgar Ali, titolare dell'inchiesta, ha chiesto la comparizione
dell'imputato davanti ai giudici e un prolungamento dei termini di custodia
cautelare per altri sei giorni. Il magistrato aggiunge che non è ancora stata
recuperata l'arma usata per il delitto e l'accusato potrebbe fornire i nomi dei
complici, che hanno partecipato alle torture e all'omicidio della 12enne
cristiana. Il tribunale, tuttavia, ha accolto in parte la richiesta, disponendo
solo quattro giorni di carcere.
Chiesa
ortodossa russa, vicina ai cattolici, ma lontana dai protestanti
AsiaNews - Mosca - 4 febbraio 2010
Il
Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill riscontra la vicinanza tra Roma e
Mosca sulle maggiori sfide della modernità: globalizzazione, secolarizzazione,
erosione dei principi morali tradizionali. Aumentano invece le distanze con i
protestanti accusati di tradire l'eredità cristiana adeguandosi agli standard
del mondo.
Mentre con la Chiesa cattolica riscontra una vicinanza di visioni almeno sulle maggiori sfide poste dalla contemporaneità, il Patriarcato di Mosca non può dire lo stesso dei protestanti.
Parla
così il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill, intervenendo
all'incontro dei vescovi che si è svolto nella capitale il 2 febbraio
scorso. "Con la Chiesa di Roma - ha detto - abbiamo posizioni
simili su molti problemi che affrontano i cristiani nel mondo moderno.
Come ad esempio la secolarizzazione, la globalizzazione e l'erosione dei
principi morali tradizionali. Bisogna notare che in molte questioni
Benedetto XVI ha preso posizioni vicine a quelle ortodosse". Sembrano,
invece, aumentare le distanze con le varie denominazioni protestanti.
Negli ultimi anni, "c'è stata una diminuzione della collaborazione
delle comunità protestanti nello sforzo di preservare l'eredità
cristiana" e questo a causa della "costante
liberalizzazione" del loro mondo, ha spiegato Kirill. "Non
solo - aggiunge il Patriarca - hanno fallito nel propagare in modo
concreto i valori cristiani nella società laica, ma molte comunità
protestanti preferiscono adeguarsi a quegli standard". Il
riferimento sembra essere alla recente elezioni della donna vescovo,
Margot Kassmann, come capo della Chiesa evangelica in Germania. Kirill
spiega chiaramente che nel dialogo con i protestanti la Chiesa ortodossa
deve cercare il modo di superare le differenze fondamentali e se questo
non sarà possibile, "rimarranno molti altri importanti questioni,
non direttamente legate al raggiungimento dell'unità nella fede e alla
struttura ecumenica, ma importanti in termini di collaborazione per il
bene della pace, della giustizia, del Creato e importanti per risolvere
altri problemi che richiedono uno sforzo comune da parte di coloro che
credono nella Trinità". |
I
Paesi vicini temono un'estensione del conflitto somalo alle aree finora
risparmiate dalle violenze
Agenzia Fides - Mogadiscio - 1 febbraio 2010
Mentre
dalla capitale somala, Mogadiscio, continuano a giungere notizie di nuovi
scontri, i Paesi limitrofi esprimono la preoccupazione per una possibile
estensione del conflitto ad aree finora risparmiate dalle violenza.
"I
gruppi terroristici hanno di recente esteso le loro azioni alle regioni
relativamente stabili del Somaliland e del Puntland" afferma un comunicato
dell'IGAD (Autorità intergovernativa per lo Sviluppo, che raggruppa 6 Paesi
dell'Africa dell'est), pubblicato a margine del Vertice dell'Unione Africana che
si tiene ad Addis Abeba (Etiopia).
L'IGAD
"fa appello alle autorità del Somaliland e del Puntland di coordinare la
loro risposta e di lavorare in stretta unione con il governo di transizione
somalo, per far fronte alla minaccia comune rappresentata dagli Shebab e dall'
Hezb al-Islam". Si tratta dei due gruppi islamisti che si oppongono al
governo di transizione (installato a Mogadiscio e riconosciuto dalla comunità
internazionale), che controllano buona parte della Somalia centro-meridionale.
Il Puntland, regione centro-settentrionale, ha un'amministrazione autonoma dal
resto del Paese. Il Somaliland corrisponde al territorio della ex colonia
britannica, nel settentrione del Paese, che venne unito alla ex Somalia italiana
nel 1960 per formare lo Stato unitario, dissoltosi con la caduta del dittatore
Siad Barre nel 1991. Proprio in quell'anno il Somaliland ha proclamato la sua
indipendenza, non riconosciuta dalla comunità internazionale. I due territori
hanno finora goduto di una relativa pace e stabilità, anche se il Puntland è
la base dei pirati che rendono insicuro il Golfo di Aden e un'ampia area
dell'Oceano Indiano.
Nel frattempo continuano gli scontri a Mogadiscio dove 12 civili hanno perso la vita e altre 55 persone sono rimaste ferite nel corso di uno scontro a colpi d'arma da fuoco nel distretto di Suqa Holaha, fra i caschi blu dell'Unione Africana e un gruppo di ribelli islamici. (L.M.)
La
scomparsa del "p. Gandhi" italiano di Melani Manel Perera
AsiaNews
- Colombo - 6 febbraio 2010
Ieri
a Lewella, nel centro dello Sri Lanka, si sono svolti i funerali del missionario
p. Angelo Stefanizzi. Il sacerdote ha trascorso 58 anni nell'isola, lavorando a
contatto con gli agricoltori della zona. Provinciale dei gesuiti: "un cuore
grande e una profonda educazione".
Moltissimi
agricoltori della provincia di Kandy, nello Sri Lanka centrale, hanno
partecipato ai funerali del missionario italiano p. Angelo Stefanizzi, scomparso
il 3 febbraio scorso. Le esequie di "p. Gandhi" - questo il soprannome
dato dai fedeli - si sono svolte ieri a Lewella. Le spoglie del sacerdote, che
ha trascorso 58 anni nel Paese, sono state seppellite nella casa dei gesuiti,
ordine nel quale era entrato nell'agosto del 1936 per il noviziato.
P.
Gandhi ha trascorso l'ultimo periodo su una sedie a rotelle a causa
dell'artrite, curato con affetto e dedizione dai confratelli. Egli ha vissuto
con serenità e presenza di spirito la malattia, senza perdere mai lo zelo
missionario, la devozione per la preghiera e l'Eucaristia.
K.s.s.a.
Francis, direttore dell'organizzazione Foliseb Sri Lanka con base nella città
di Hatton, lo ricorda come un "santo dei nostri tempi" e "una
guida accurata ed eccellente" per tutti i lavoratori della terra. Egli
sottolinea la particolare attenzione mostrata da p. Stefanizzi per i poveri
agricoltori della provincia e il suo impegno "nel cercare di parlare con
loro e aiutarli a risolvere i problemi, per questo lo chiamavamo con affetto...
p. Gandhi".
Il
suo segreto, come riferisce K.s.s.a. Francis, era quello di "parlare in
modo fluente sia il singalese che il tamil, nonostante fosse uno
straniero"; una particolare dote che gli ha permesso di "conquistare
il cuore delle persone" che potevano "avvicinarlo senza incontrare
barriere o ostacoli".
P.
Maria Anthony, superiore provinciale dei Gesuiti nello Sri Lanka, spiega ad
AsiaNews che "abbiamo perduto un missionario di lungo corso, con un cuore
grande e una profonda educazione". "Mi piaceva chiamarlo uomo per i
poveri" continua il confratello, perché "era pronto a lavorare in
mezzo a ogni difficoltà. Non gli interessava una vita agiata, voleva solo stare
vicino ai contadini poveri".
P.
Angelo Stefanizzi è nato nel comune di Matino, in provincia di Lecce, il 2
ottobre 1919. Egli è entrato come novizio nell'ordine dei Gesuiti, a Napoli,
nell'agosto del 1936 e ha compiuto gli studi di filosofia a Gallarate, in
provincia di Varese (Italia settentrionale). Nel 1949 è partito per l'India,
dove ha studiato teologia, lingua tamil ed è stato ordinato sacerdote il 21
novembre dello stesso anno.
Nel
1952 si è trasferito nell'isola di Ceylon (l'attuale Sri Lanka) e ha intrapreso
anche gli studi della lingua singalese. La sua vita missionaria è stata spesa a
contatto della popolazione, con una particolare attenzione ai poveri coltivatori
della terra. Fino alla morte, avvenuta lo scorso 3 febbraio.
Onu
e Unione Africana rilanciano l'unità del paese
Misna
- 2 febbraio 2010
"Sono
sfide senza precedenti" quelle che i prossimi appuntamenti elettorali
pongono al futuro del Sudan, ma anche della regione e dell'intero continente: lo
hanno sostenuto i responsabili africani riuniti per un incontro, organizzato a
margine del vertice dell'Unione Africana in corso ad Addis Abeba, interamente
dedicato al Sudan e al mantenimento della pace nel paese. Tra pochi mesi i
sudanesi si recheranno alle urne per scegliere un nuovo presidente, mentre il
prossimo anno dovranno esprimersi con un referendum per decidere se il Sud Sudan
dovrà restare unito al resto del paese o diventare indipendente. La questione
della possibile indipendenza del Sud sta cominciando a preoccupare seriamente
molti paesi africani e soprattutto le istituzioni continentali. Il referendum,
infatti, metterebbe in discussione il principio (che è uno dei fondamenti della
stessa UA) dell'intangibilità dei confini disegnati nel continente dalle
ex-potenze coloniali e sono in molti a non escludere che, un'eventuale
separazione del Sud, potrebbe portare al sorgere di iniziative analoghe in altre
zone del continente. Presente all'incontro a cui hanno partecipato i presidenti
di sei importanti paesi africani, il Commissario per la pace e la sicurezza
dell'Unione Africana, Ramtane Lamamra, ha sottolineato la necessità di
"lavorare con tutti i responsabili sudanesi per promuovere la pace nel
paese" e, evidenziando la volontà di rispettare pienamente la volontà del
popolo sudanese, ha anche aggiunto: "in ogni caso dobbiamo darci da fare
per rendere l'unità attraente". Le parole di Lamamra, su una esplicita
preferenza per l'unità sudanese, ricalcano alla lettera quelle utilizzate dal
Segretario Generale dell'Onu, Ban Ki Moon, nel suo discorso per l'apertura del
vertice UA. Una posizione giudicata tardiva da alcuni esponenti del governo di
Khartoum, i quali sostengono che le popolazioni del Sud si siano ormai già
formate un'idea sul voto da esprimere nel referendum del prossimo anno, e
criticata oggi da una parte del Splm (Sudan people's liberation movement) la
principale forza politica del Sud Sudan che fa parte del governo d'unità
nazionale sudanese e che guida l'autorità amministrativa autonoma del Sud. [MZ]
L’odissea
dei migranti birmani di Alessandro Ursic
PeaceReporter
- 1 febbraio 2010
Oltre
un milione di lavoratori stranieri rischiano la deportazione, perché le regole
imposte da Bangkok sono quasi impossibili da applicare
Stretti
tra un Paese ospitante diventato irremovibile sui documenti necessari e una
patria che non muove un dito per venire loro incontro, quasi un milione e mezzo
di migranti birmani in Thailandia sono a rischio di deportazione nei prossimi
mesi. E al momento, se nessuno dei due Stati accetterà dei compromessi, la
soluzione del problema appare un rompicapo quasi impossibile.
Secondo
le norme di Bangkok, che ha appena esteso di un mese la data massima, entro il
28 febbraio gli 1,3 milioni di immigrati birmani - oltre a circa 200mila
lavoratori provenienti da Laos e Cambogia - dovranno esibire un certificato che
provi la loro nazionalità, se intendono rinnovare il loro permesso di lavoro.
Ma se le autorità di Vientiane e di Phnom Penh si sono mosse per tempo,
inviando in Thailandia funzionari che hanno aiutato i migranti a compilare i
moduli necessari, la giunta militare birmana si è limitata a istituire uffici
appositi solamente presso tre valichi al confine, e oltre non intende andare.
Per
l'esercito di lavoratori birmani in Thailandia, si tratta di un sacrificio e di
un pericolo allo stesso tempo. Come i messicani negli Stati Uniti, queste
persone svolgono i lavori più umili e contemporaneamente necessari al
funzionamento del Paese: manovali, braccianti, donne delle pulizie. Con paghe
che raramente superano i 100 euro, per loro un viaggio di andata e ritorno al
confine è già un salasso. Le organizzazioni per i diritti umani - calcolando i
costi per i documenti necessari, qualche occasionale bustarella o l'appoggio di
un'apposita agenzia - hanno stimato in due mesi di salario il prezzo che questi
lavoratori dovrebbero fronteggiare per mettersi in regola.
Inoltre,
molti migranti temono per la loro incolumità e quella delle loro famiglie. La
gran parte dei birmani in Thailandia appartengono all'etnia Karen, Mon o Shan, e
sono fuggiti dalla Birmania per la povertà e per le persecuzioni dei militari.
E' tutto da vedere se gli ufficiali birmani al confine forniranno la
collaborazione necessaria. Ma soprattutto, dati gli abusi subiti in passato, gli
immigrati birmani temono ripercussioni per le loro famiglie, rimaste in patria,
se dovessero uscire allo scoperto.
Il
19 gennaio, 36 organizzazioni per i diritti umani hanno scritto una lettera
aperta al premier thailandese Abhisit Vejjajiva, chiedendogli di intervenire per
scongiurare la deportazione di massa dei migranti. Le autorità di Bangkok hanno
prolungato di due anni la data di scadenza per la regolarizzazione, fino al
febbraio 2012; ma il rischio di essere espulsi resta, se non si presenta domanda
entro questo 28 febbraio, iniziando un procedimento che potrebbe durare fino a
due anni. E per evitare di "perdere la faccia" - concetto chiave da
queste parti - rimangiandosi le norme già fissate, è difficile che Bangkok o
Naypiydaw facciano un passo indietro.
Davos,
premier thai: sicurezza alimentare e lotta alla corruzione le priorità di
Weena Kowitwanij
AsiaNews - Bangkok - 1 febbraio 2010
Al
Forum economico mondiale Abhisit Vejjajiva promuove la cooperazione
internazionale per migliorare la qualità dei prodotti e lo sviluppo agricolo.
Il Primo Ministro sottolinea i progressi economici del Paese e il ruolo delle
nazioni dell'Asia dell'est in un'ottica globale.
Un
sistema per migliorare la sicurezza alimentare, il problema della lotta alla
corruzione e il ruolo delle nazioni dell'Asia dell'est, in un'ottica di mercato
globale. Sono i punti-chiave dell'intervento del premier thai Abhisit Vejjajiva
all'annuale Forum economico mondiale, che si è tenuto a Davos (in Svizzera) dal
29 al 31 gennaio.
Insieme
a 2.500 funzionari in rappresentanza di oltre 90 nazioni, il Primo ministro thai
ha partecipato al summit annuale incentrato sul tema: "Migliorare lo stato
del pianeta: ripensare, ridisegnare , ricostruire". Durante la tre giorni
di incontri si è parlato, soprattutto, dei provvedimenti da adottare per la
regolamentazione del settore bancario e della catastrofe umanitaria di Haiti,
che ha causato la morte di decine di migliaia di persone.
La
cooperazione internazionale, puntualizza il premier thai, ricopre un ruolo
essenziale nel rafforzare la sicurezza alimentare a livello globale e nello
sviluppo di un'agricoltura sostenibile. Sottolineando la posizione della
Thailandia quale produttrice di riso, egli spiega che "si deve essere
responsabili verso il consumatore sia in termini di qualità che di
sicurezza" e realizzare "una regolamentazione nel settore del
commercio".
Abhisit
ha affrontato il tema della corruzione, illustrando i progressi compiuti nel
Paese grazie al ruolo del "settore pubblico". Il premier ha confermato
lo stato di salute di cui gode l'economia nazionale, che ha saputo riprendersi -
in particolare nel settore del turismo e della produzione agricola - dalla grave
crisi finanziaria mondiale. Egli ha infine ricordato il ruolo delle nazioni
dell'Asia dell'est, che hanno acquisito un ruolo di primo piano nel panorama
economico-commerciale mondiale.
In
Turchia c'è chi prega ancora nella lingua di Gesù di Egidio Picucci
(c)L'Osservatore
Romano - 31 gennaio 2010
A
Tur Abdin la comunità siro-ortodossa conserva con fierezza l'uso dell'aramaico
nella liturgia
Parlato
un tempo in tutto il Medio Oriente, l'aramaico, la lingua di Gesù, non è stato
più usato dal popolo a partire dall'VIII secolo ma è sopravvissuto nel ceto
colto per altri cinque secoli, e si usa ancora come lingua liturgica. Le
"isole" in cui esso sopravvive si trovano nei dintorni di Tur Abdin,
una regione montagnosa del sud-est della Turchia che comprende la metà
orientale della provincia di Mardin e la parte occidentale del Tigri della
provincia di Sirnak, confinante con la Siria. Nella vita comune qui si parla
l'arabo ma nella liturgia dei cristiani siriaci si adotta l'aramaico con
evidente fierezza dei monaci che non nascondono il privilegio e la soddisfazione
di poter consacrare, unici al mondo, il pane e il vino con le stesse parole
usare da Gesù.
Nella
zona di Mardin - din vuol dire religione, mar significa santo - il cristianesimo
è ancora parte della comunità e della storia. La città è una sentinella
arroccata sul precipizio che separa l'altipiano anatolico dalla piana dei
babilonesi e si affaccia sulle terre di Abramo. La civiltà più antica della
storia è quindi ai suoi piedi. Tur Abdin, il luogo dove il cristianesimo si
nota di più, deriva dal siriaco e significa "montagna dei servi di
Dio", perché un tempo era tutto un gradevole ondeggiare di chiese, e oggi,
invece, è punteggiato solo di minareti immobili nel vento incandescente e un
immenso silenzio. Impressiona, comunque, vedere ancora tra loro, alti sulle
frontiere fra Turchia, Iran, Iraq e Siria, millenari campanili cristiani. Il
perché è da cercare nella tradizione, secondo la quale, subito dopo la
Pentecoste, il discepolo Addai (Taddeo) arrivò a Nisibis e a Edessa, dove più
tardi sorse un'università in cui insegnò sant'Efrem e nella quale ottocento
alunni trascrissero la Bibbia in aramaico, parlato anche oggi nel dialetto
turoyo nei villaggi di questo ventilato pianoro dell'alta Mesopotamia. Isolato
in una rocciosa solitudine geografica, che fu rispettata anche dalle grandi vie
di comunicazione, l'altopiano non risentì neppure marginalmente della cultura
ellenistica, consentendo così la sopravvivenza della cultura nata nella comunità
e nei numerosi monasteri sorti all'ombra delle università, nonché la fioritura
di un monachesimo nelle diverse forme di vita eremitica (stilitica reclusa,
cenobitica) che distinguono tuttora la Chiesa siriaco-ortodossa e la pongono
all'attenzione di tutte le altre Chiese.
Attorno
a Tur Abdin sorgono infatti alcuni villaggi cristiani, sopravvissuti alle bufere
della storia e alle malefatte degli uomini che, purtroppo, hanno allontanato
molte famiglie. Ma alcune hanno resistito, pur ricordando quanto successe
all'indomani della prima guerra mondiale, e cioè un massacro simile a quello
degli armeni. Pare che circa cinquecentomila cristiani siriaci (secondo i
registri siro-ortodossi novantamila appartenevano alla loro comunità) morirono
con altri per la stessa fede. Tristissimi tempi nei quali furono rubate vite,
averi, chiese (trasformate in moschee), donne, bambini. Poi venne la guerriglia
che tutti conosciamo e che dura ancora. E questo perché, a differenza delle tre
minoranze non musulmane tutelate dal Trattato di Losanna (greci, armeni ed
ebrei), la loro è priva di ogni garanzia di libertà di culto e di espressione.
"Non abbiamo un territorio - dicono - siamo sparpagliati per il mondo, ma
siamo molto uniti grazie alla nostra identità linguistica, sociale e culturale.
La religione, ce lo insegna la storia, ha sempre avuto una parte predominante
nella civiltà. Il nostro è un popolo molto religioso e siamo orgogliosi di
parlare la lingua che fu di Gesù".
Coloro
che sono rimasti sono conosciuti come siro-kadim, cioè vecchio, antico,
rispetto a una divisione successiva. Il centro spirituale è proprio Tur Abdin,
chiamato anche "il monte Athos dei siro-ortodossi", famoso per la
presenza dei monasteri che si scambierebbero per il prolungamento naturale delle
rocce se non se ne distaccassero per un'architettura che si rifà più ai templi
assiro-babilonesi che alle basiliche cristiane. Un fatto che conferma come il
cristianesimo di questa regione, anche nell'architettura, abbia mantenuto
stretti legami con le più antiche tradizioni locali. Fino al 1970 i monasteri
erano quaranta, oggi non superano le dita di una mano. Con le partenze che si
sono succedute - secondo alcune stime la Chiesa siriaca ha oggi 2.250.000 fedeli
sparsi nel mondo - è scomparsa una cultura che risale agli albori del
cristianesimo e di cui è possibile vedere qualche favilla in alcune opere
conservate gelosamente nei monasteri, e particolarmente nella Kirklar Kilisesi
(chiesa dei 40 Martiri) di Mardin, fondata nel 569 e fino a qualche anno fa
chiesa patriarcale. Oggi è retta da un papas che insegna l'aramaico ad alcuni
giovani, tra cui i suoi tredici figli, che non vogliono rassegnarsi alla
possibile scomparsa della cultura della propria gente. Fra le varie opere
preziose, egli conserva la famosa Bibbia di Mardin, un lavoro del 1200 rilegato
in pelle di gazzella e impreziosito delle miniature dell'amanuense Dioscoro
Teodoro.
I
monasteri attualmente aperti sono cinque, e precisamente Mar Gabriel, Der El
Zafaràn, Mar Mekel, Meryemana, Mar Yacoup. L'unico accessibile ai turisti è
quello di El Zafaràn (dello Zafferano), così detto per il colore giallastro
delle sue pietre. Risale ai tempi di san Giovanni Crisostomo (397). Il monastero
più importante, comunque, è quello di Mar Gabriel, 120 chilometri da Mardin,
un luogo mitico fondato nel 397 e da allora sempre abitato. I muraglioni di un
metro e mezzo lo fanno somigliare a una fortezza, ma hanno consentito ai monaci
di resistere ai turchi, agli arabi, ai crociati, ai persiani, ai mongoli, ai
bizantini. Nonostante tutto è rimasto sempre lì, sulla linea più rovente del
Medio Oriente. Qui vive il metropolita di Tur Abdin, Mor Timotheus Samuel Aktas,
con tre monaci, quattordici suore e trentacinque giovani studenti: è
perciò punto di riferimento religioso e culturale per tutti i cristiani
siro-ortodossi, che conservano ancora, com'è stato detto, l'aramaico antico, la
lingua di Gesù. Da Mardin fino a qui pare che i cristiani abbiano un'unica
passione: conservare la lingua più antica della cristianità, che la
Turchia centralista di Ataturk bandì per quasi un secolo in tutte le sue forme
scritte.
Oggi
Tur Abdin si nutre di memorie, ma queste non garantiscono la sopravvivenza.
Custodire belle chiese e preziosissime pergamene miniate può costituire un
privilegio e un'invidiabile ricchezza, ma il pericolo che tutto possa finire
come e quando non si vorrebbe provoca una comprensibile angoscia. Le piccole
comunità, inoltre, pur essendo libere di praticare la propria fede, sono
costrette a pesanti rinunce, come l'insegnamento del siriaco e il suo uso. La
catechesi deve essere tenuta nella lingua nazionale.
Eppure
la lingua siriaca ha avuto un ruolo fondamentale nella trasmissione della
cultura greca a quella araba: il corpus scientifico greco fu tradotto (dal
VII al X secolo) in arabo attraverso traduzioni intermedie in siriaco. I
traduttori, come il famoso Isa Ibn Ishaq, erano siriaci, conoscevano
perfettamente l'arabo e lavoravano non solo nell'ambito dei monasteri, ma anche
al servizio dei califfi abbasidi. Oltre questo, essa ha trasmesso molte fonti
orientali, come il Kalila wa Disma, derivato dalla raccolta di quelle favole
moralizzanti indiane conosciute sotto il nome di Panchatantra. Perciò i monaci
di Tur Abdim e i siro-kadim usciti dal proprio territorio sono decisi a non
farla morire. Mentre, infatti, alcuni si interessano perché la imparino i pochi
ragazzi rimasti vicino a loro, altri la insegnano tutte le domeniche dopo la
messa festiva, preoccupandosi che la si parli con proprietà e correttezza. Per
gli emigrati adulti all'estero vengono stampati in siriaco due giornali, in
Olanda e in Svezia. Inoltre, per salvare questo immenso patrimonio che potrebbe
scomparire si è costituita a Milano e a Linz, in Austria, l'associazione
"Amici del Tur Abdin".
Oggi
occorre decidere se si vuole conservare una cultura antica di milleseicento anni
o se si vogliono cancellare anche gli ultimi resti di una tradizione non
musulmana. È in gioco la multiculturalità che ha sempre caratterizzato questa
nazione sin dai tempi dell'Impero ottomano.
Sono
oltre 250 mila gli sfollati in Yemen
www.unhcr.it
- 29 gennaio 2009
Si
fa sempre più grave la crisi umanitaria in Yemen e l'Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) stima che dall'inizio del conflitto nel
2004 i civili sfollati siano ormai più di 250.000. La cifra è più che
raddoppiata dall'agosto 2009 quando ha avuto inizio l'ultima serie di scontri.
Nelle
ultime sei settimane si è assistito all'arrivo costante di circa 1.000 famiglie
(7.000 persone) ogni settimana nella provincia di Hajjah. Queste persone sono
originarie soprattutto della provincia di Sa'ada che sta sopportando il peso più
gravoso del conflitto tra truppe governative e forze di Al Houti.
I
combattimenti si sono gradualmente spostati dalla città di Sa'ada e dintorni
verso il nord-ovest. Questo viene evidenziato dalla composizione della
popolazione di sfollati interni, infatti i primi arrivati erano originari
dell'area intorno alle città di Sa'ada e Al-Dhaher, mentre nelle ultime
settimane la maggior parte delle persone arrivano dai distretti di Razeh, Ghamr
e Saqayn. Un altro fattore preoccupante è il collasso di ogni sistema di
sostentamento - nella provincia di Sa'ada le persone non riescono più a
provvedere a loro stesse.
Nonostante
l'esistenza di tre campi per sfollati in continua espansione nel governatorato
di Hajjah, la mancanza di alloggi adeguati è fonte di grande preoccupazione per
l'UNHCR. Molti yemeniti sfollati si trovano nei numerosi siti provvisori che
sono sorti intorno alle strade che portano ai campi. Anche nella provincia di
Amran la situazione è difficile: qui la maggioranza degli sfollati sono
alloggiati presso parenti e amici o sono in affitto. L'UNHCR e i suoi partner
stanno fornendo tende alle famiglie di sfollati ospitate dalle comunità locali
per cercare di aumentare gli spazi abitabili nei complessi residenziali. Per
alleggerire la situazione l'UNHCR sta lavorando alla costruzione di un centro di
transito in attesa di individuare un sito adatto all'edificazione di un nuovo
campo.
Il
governo yemenita, l'UNHCR e altre agenzie umanitarie stanno distribuendo aiuti,
ma sta diventando sempre più difficile per gli sfollati provvedere a se stessi
e accedere ai servizi di base come la sanità e l'istruzione. Molti sono fuggiti
abbandonando tutti i loro averi e il loro bestiame, che era il pilastro su cui
fondavano la loro esistenza e la loro fonte primaria di reddito.
Il
proseguire degli scontri nel nord ha anche fatto aumentare il numero di sfollati
interni che si dirigono verso la capitale Sa'ana in cerca di sicurezza e
assistenza. Finora nella città sono stati registrati 12.000 sfollati. L'UNHCR,
il governo e altre agenzie stanno continuando a distribuire cibo e altri aiuti.
Intanto,
cinque camion dell'UNHCR - carichi di tende, materassi, coperte, set da cucina e
articoli per l'igiene per 2.000 persone - dovrebbero attraversare il confine tra
Arabia Saudita e Yemen nella giornata di domani (sabato, 30 gennaio). Si tratta
del terzo convoglio di questo tipo. Ci sono 10.000 yemeniti alloggiati nel campo
provvisorio nell'area di Mandaba dove il governo e altre agenzie umanitarie
stanno fornendo assistenza.
L'UNHCR
chiede ai Paesi donatori di continuare a sostenere le operazioni in Yemen per
riuscire a far fronte alla situazione e fornire la necessaria assistenza. In
totale, per i programmi di protezione e assistenza in Yemen quest'anno sono
necessari 35 milioni di dollari, 16 milioni dei quali sono destinati ai
programmi per gli sfollati interni ed i rimanenti ai rifugiati.