Bangl@news

Newsletter settimanale sul Bangladesh, pace, mondialità e diritti umani  

Anno X

N°  406

3/3/10

Questo numero è inviato a 5.745 lettori e a 486 lettori nella versione inglese

     

      

Sommario

  

Missione

Commento all'Intenzione Missionaria di marzo 2010

Noi e i musulmani le ragioni per provarci di Gerolamo Fazzini

Storia di una vocazione normale, eppure speciale di Gerolamo Fazzini

Quella "guerra santa" dentro il Sepolcro di Claudio Monge

Da Lisbona a Macao il viaggio della vita di Gianni Criveller

Al centro l'uomo: ecco la chiave per una reale integrazione di Paolo Nicelli

Mondialità

Anche i poveri saranno più vecchi - Che l'Onu lo dica a se stesso di Davide Rondoni

Dopo Copenaghen: dal Marocco, per uno sviluppo sostenibile

Contro la logica delle armi una nuova cultura della pace di Giulio Albanese

Una donna per le donne, nominata inviata contro violenze

Primo rapporto globale su popoli indigeni, per conoscerli e difenderli

Storia di Shazia, 12 anni, cristiana di Antonio Socci

Fao: dall'Aquila solo promesse di Paolo M. Alfieri

Africa

Nasce fondo per le donne africane, l'UA in difesa dei loro diritti

Vertice UA: misure per prevenire golpe e difendere democrazia

Concluso il Vertice dell'UA:...

L'Africa dei figli di papà di Anna Pozzi

Asia

La donna in Asia, fra violenza e povertà, trova forza nell'Eucarestia

Europa

Immigrazione: Consiglio d'Europa, "non chiamateli illegali"

Migranti e diritti, voci contro la "fortezza Europa"

Arabia Saudita

Discriminazione e intolleranza religiosa i mali del paese di Nirmala Carvalho

Bangladesh

Medici italiani al St. Vincent Hospital di Dinajpur di Bruno Guizzi

Schegge di Bengala - 53 (prima parte) di p. Franco Cagnasso

Gli 80 anni di p. Adolfo di Bruno Guizzi

Piano decennale di sviluppo delle forze armate di William Gomes

Il tasso di abbandono dalla scuola deve essere ridotto

Due seminaristi Khasia diventano i primi sacerdoti del loro gruppo etnico

Giubileo d’oro della prima scuola cattolica di Rajshahi

Dhaka dà il via libera all'esportazione di coccodrilli di William Gomes

Cile

Fine dell’allarme tsunami. In Cile oltre 700 morti

Cina

Continuano gli arresti dei dissidenti e lo scontro per le terre

Costa d'Avorio

Cinquant'anni d'indipendenza, è tempo di "riflessione"

Etiopia

Il record dei cristiani di Philip Jenkins

Haiti

Dopo terremoto: tra cordoglio e aiuti, la sfida della scuola

Una terra d'asilo in Africa, se ne parla al vertice UA

Wharf Jeremie, lo slum dove vivono "gli ultimi" di Claudio Monici

Honduras

Lotta alla corruzione: che cosa possiamo fare? di Card. O.R. Maradiaga

India

Delegazione Ue in visita tra i cristiani perseguitati dell'Orissa di Nirmala Carvalho

Inedito: gruppo buddista premia un prete

Orissa, arriva una delegazione Ue e il governo sgombera i cristiani

Italia

Suicida col fuoco - Il grido disperato di Sergio parla a noi di Dino Greco

Se il mondo va in «nomination» di Giorgio Bernardelli

Energia dalla Terra: la sfida del Vesuvio di Antonio Giorgi

Medici Senza Frontiere presenta "Al di là del muro" 

Il Vangelo radicale - Armi, pace e nonviolenza: quale pastorale è possibile? di Fabio Corazzina

Immigrazione: presentato rapporto Caritas

P. Sorge: "Non è il tempo di chiuderci in casa e di rinunciare a partecipare" di Giuseppe Delfrate

Sbarca in Italia la banca di Yunus 

Uno sciopero per difendere la dignità degli immigrati di don Paolo Farinella

Kirghizistan

Il Regno di Dio nel cuore dell'Asia:...

Medio Oriente

Berlusconi non ha visto il muro di Raniero La Valle

Nepal

Poliziotti compiono torture, uccisioni e stupri nella regione del Tarai

Pakistan

Attivisti pakistani: l'omicidio della 12enne cristiana a rischio impunità di Fareed Khan

Avvocati musulmani: "bruceremo vivo" chi difende la 12enne cristiana uccisa di Fareed Khan

Russia

Chiesa ortodossa russa, vicina ai cattolici, ma lontana dai protestanti

Somalia

I Paesi vicini temono un'estensione del conflitto somalo alle aree finora risparmiate dalle violenze

Sri Lanka

La scomparsa del "p. Gandhi" italiano di Melani Manel Perera

Sudan

Onu e Unione Africana rilanciano l'unità del paese

Thailandia

L’odissea dei migranti birmani di Alessandro Ursic

Davos, premier thai: sicurezza alimentare e lotta alla corruzione le priorità di Weena Kowitwanij

Turchia

In Turchia c'è chi prega ancora nella lingua di Gesù di Egidio Picucci

Yemen

Sono oltre 250 mila gli sfollati in Yemen

Altri articoli edizione inglese

World: World Social Forum: Reconciling Social and Environmental Needs by Mario Osava * Biodiversity: The Amazon Is Not Eternal by Stephen Leahy  Asia: Humans forgotten by finance system: Caritas * Civil society interventions to improve policing by Muhammad Nurul Huda  Bangladesh:  A Precipitate Outcome by Reaz Rahman * Abominable admission business * Crowds gather to attract young to vocations * Food availability for the poor * Lost land areas should return to public * Restoring standard of education * International Mother Language Day in the context of Bangla by Mohammad Amjad Hossain   Cambodia: Focolare throws lifeline to Cambodia's poorest   Indonesia: Church attacks increase in SBY's first 100 days  Iraq: A Faulty Truth by Nader Rahman * Iraq's democracy by Forrest Cookson   Japan: Suicide mission  Middle East: Pro-Israel Lobbies Work on Europe by David Cronin * Why does the US turn a blind eye to Israeli bulldozers? by Robert Fisk  Myanmar: 'Religious must reach out to all people'  Pakistan: Catholic puts first Urdu Bible on line  Sri Lanka: Gov't Defends Detention of Suspected Tamil Rebels by Feizal Samath * Has Sri Lanka stumbled onto path to democracy? by Barrister Harun ur Rashid  Thailand: Food security and the fight against corruption, Thai PM's priorities by Weena Kowitwanij 

    

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MISSIONE

Commento all'Intenzione Missionaria di marzo 2010

Agenzia Fides - Vaticano - 26 febbraio

"Perché le Chiese in Africa siano segno e strumento di riconciliazione e di giustizia in ogni regione del Continente" 

 
L'Africa è un continente pieno di speranza e di vitalità nella fede, ma allo stesso tempo presenta alcune situazioni che devono essere risolte per poter sviluppare pienamente tutte le potenzialità di cui dispone per il bene comune e la diffusione dal Vangelo. Non possiamo dimenticare che molte delle carenze attuali sono frutto degli abusi commessi in passato nei confronti dell'Africa. Alla chiusura dell'ultimo Sinodo per l'Africa, Papa Benedetto XVI affermava: "Pensiamo in particolare ai fratelli e alle sorelle che in Africa soffrono povertà, malattie, ingiustizie, guerre e violenze, migrazioni forzate" (omelia della Santa Messa, 25 ottobre 2009). I nostri fratelli africani devono soffrire una serie di limitazioni che l'egoismo di altri ha loro imposto. E' stato messo in rilievo che all'interno delle frontiere ereditate dalle potenze coloniali, la coesistenza di gruppi etnici, tradizioni, lingue e anche religioni diverse, spesso trova ostacoli dovuti alle gravi ostilità reciproche (cfr. Ecclesia in Africa,49).
Benedetto XVI ha sottolineato che "la Chiesa riconciliata è potente lievito di riconciliazione nei singoli Paesi e in tutto il Continente africano" (omelia della Santa Messa, 25 ottobre 2009). Nonostante le guerre e le divisioni etniche, la Chiesa vuole realizzare questa missione di unità, per fare dell'Africa un'immagine dell'umanità nuova, riconciliata nell'amore. È certo che questa riconciliazione si realizza solamente nel perdono, a volte eroico, delle offese. "La fede in Gesù Cristo - quando è bene intesa e praticata - guida gli uomini e i popoli alla libertà nella verità, o, per usare le tre parole del tema sinodale, alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace". (ibid.)
Per conseguire l'unità e mantenere la pace, Giovanni Paolo II invitava a mantenere all'interno della Chiesa, come Famiglia di Dio, un dialogo costante, perché "l'atteggiamento di dialogo è il modo d'essere del cristiano all'interno della sua comunità, come nei confronti degli altri credenti e degli uomini e donne di buona volontà" (Ecclesia in Africa,65). Questo dialogo deve estendersi in senso ecumenico, con tutti i fratelli battezzati delle altre confessioni cristiane, al fine di raggiungere l'unità per la quale Cristo pregò, e di fare in modo che il Vangelo sia più credibile agli occhi di quelli che cercano sinceramente a Dio.
La Chiesa, nel suo servizio all'uomo, vuole percorrere il cammino della giustizia. Per questo motivo trasmette il messaggio della salvezza coniugando l'evangelizzazione e la promozione umana. Questo sviluppo integrale è l'unica strada per uscire dalla schiavitú delle malattie e della fame. "Questo significa trasmettere l'annuncio di speranza secondo una 'forma sacerdotale', cioè vivendo in prima persona il Vangelo, cercando di tradurlo in progetti e realizzazioni coerenti con il principio dinamico fondamentale, che è l'amore" ha ribadito Benedetto XVI (omelia della Santa Messa, 25 ottobre 2009). 
Non possiamo concludere senza ricordare una verità fondamentale: Cristo è l'unico Salvatore degli uomini. Non sono la tecnica e lo sviluppo umano, in se stessi, che salvano l'uomo. Pur essendo una condizione necessaria, lo sviluppo non è tutto. La Chiesa, come popolo sacerdotale, è chiamata a portare gli uomini all'incontro con Cristo affinché possano condividere la sua vita. Per questo motivo, attraverso i sacramenti, li mette in contatto con il Medico divino che è venuto non a cercare i sani, ma i malati. "Così la Comunità ecclesiale, sulle orme del suo Maestro e Signore, è chiamata a percorrere decisamente la strada del servizio, a condividere fino in fondo la condizione degli uomini e delle donne del suo tempo, per testimoniare a tutti l'amore di Dio e così seminare speranza" (Benedetto XVI, omelia della Santa Messa, 25 ottobre 2009). 

     

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Noi e i musulmani le ragioni per provarci di Gerolamo Fazzini

Mondo e Missione - 1 febbraio 2010  

C'è chi dà per impossibile una integrazione armonica dei musulmani. Ma la realtà dice che esperienze positive esistono. E che val la pena di rischiare il dialogo

       

Il Corriere della Sera, il più autorevole quotidiano di Milano, in prima pagina, a firma di Giovanni Sartori, poco prima di Natale ha scritto - senza mezzi termini - che "illudersi di integrarlo (l'islam) "italianizzandolo" è un rischio da giganteschi sprovveduti, un rischio da non rischiare". Qualche giorno prima Panorama, il più diffuso settimanale d'opinione italiano, aveva messo in copertina un'immagine del Duomo di Milano con una mezzaluna islamica al posto della Madonnina, titolando un articolo "Vade retro minareto". E pochi giorni dopo, a seguito del fallito attentato di Natale negli Usa, la Padania avrebbe gridato a otto colonne "Fuori gli immigrati islamici".

Questo il clima in cui proponiamo lo speciale "Milano e l'islam: incontro possibile". Ingenui? Utopisti? No. Qui vorremmo spiegare, in breve, le ragioni per cui quella del dialogo franco e sereno e dell'accoglienza intelligente ci pare l'unica prospettiva realistica per l'oggi e il futuro.

Nell'arco di pochi anni l'immigrazione è diventata un elemento che sta plasmando le nostre società. Nessuno ignora la complessità del fenomeno, ma occorre partire da questo dato di fatto, pena inseguire modelli anacronistici. Un conto è mettere in guardia contro le difficoltà oggettive e i rischi sul cammino di un'integrazione reale degli immigrati, un altro è vagheggiare società culturalmente monolitiche e operare perché tale sogno perverso si possa realizzare.

Ora, all'interno del flusso migratorio in Italia, la componente musulmana non è solo quantitativamente numerosa (anche se non maggioritaria), ma rappresenta una questione delicata. A differenza dei fedeli di altre religioni, i musulmani hanno un senso di identità più forte e una coscienza di appartenenza alla comunità (Umma) più radicata di altri, il che li porta a volte a rendere più "appariscente" la loro identità. Secondo: essendo nella religione islamica strettamente intrecciato l'elemento religioso con quello politico, si danno ripercussioni sulla convivenza civile più evidenti che in altri casi. Terzo: il clima internazionale, specie dopo l'11 settembre, non giova certo a un'integrazione armonica dei musulmani, sovente accusati in blocco di simpatie terroristiche, fanatismo e via di questo passo.

Detto ciò, ci pare decisivo affermare che i musulmani che si vogliono inserire da protagonisti in Italia non solo esistono, ma lo stanno già facendo. Come lo Speciale cerca di documentare, questo avviene dentro una quotidianità che non fa notizia, di cui i media colpevolmente non parlano.

Come cittadini di una società che è già multietnica e che vorremmo diventasse armonicamente plurale (in quel "meticciato" positivo caro al cardinale Scola), affermiamo perciò con forza la possibilità di un incontro possibile tra diversi, a patto che si tenda tutti al bene comune e che ciascuno sia rispettato per quello che è, prima delle differenze (linguistiche, culturali, geografiche...) che ci caratterizzano: un uomo o una donna, con la propria dignità. Tale incontro chiede tempo e pazienza. Ma, proprio per questo, va costruito e cercato fin d'ora, cominciando dai piccoli gesti.

C'è un'altra ragione che, come credenti, rende il dialogo un dovere e un'opportunità. Dare testimonianza della propria fede ai fratelli musulmani, senza proselitismi ma senza pudori rinunciatari, fa bene al cristiano. Perché la fede, come il talento evangelico, non la si custodisce seppellendola in un forziere o difendendola a colpi di proclami altisonanti, ma scambiandola.

Il confronto con chi adora Dio chiamandolo con un nome diverso dal mio mi mette in questione, mi obbliga ad andare alle radici vere dell'identità cristiana. Una fatica, certo. Ma provvidenziale.  

 

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Storia di una vocazione normale, eppure speciale di Gerolamo Fazzini

Mondo e Missione - 1 febbraio 2010    

Una scommessa a tempo pieno  

             

Padre Gustavo Benitez, primo argentino nelle file del Pime, racconta la sua avventura umana e spirituale: dal Sudamerica alla Cambogia

E' il primo argentino del Pime, e già questa è una notizia. Viene da una famiglia in cui due figli maschi su tre sono preti (il fratello Nestor è sacerdote diocesano): anche in questo caso una piccola-grande notizia. Ma quel che più interessa qui è il percorso che ha condotto di padre Gustavo Adrian Benitez ad abbracciare la vocazione missionaria. Da un volontariato missionario, svolto da ragazzo, all'impegno nella cooperazione internazionale da giovane fino alla scelta adulta di dedizione alla missione "ad gentes". Da un servizio a tempo alla consacrazione per la vita: una scelta controcorrente, di questi tempi.

Nato nel 1972 a Resistencia (nel Chaco, Nordest dell'Argentina), Gustavo ha respirato missione fin da giovane: "Con il gruppo missionario, che si riuniva settimanalmente, andavamo 2-3 volte l'anno nei posti più remoti della diocesi, sugli altopiani bagnati dal Rio Paranà, per una ventina di giorni: visitavamo le famiglie povere, organizzavamo incontri per ragazzi e adulti... Ricordo le distanze enormi (a volte 30-40 km per raggiungere una casa)". Dopo nove anni di questa esperienza missionaria sul campo "sentivo dentro di me crescere la voglia di stare con la gente umile. Non era ancora chiara la scelta vocazionale, ma è stato quello l'inizio di tutto".

Finite le superiori, Gustavo lavora come insegnante di musica in una scuola statale e di religione in una gestita dai salesiani, nella sua città, Resistencia, un milione di abitanti. Parallelamente consegue un diploma per l'insegnamento ai disabili.

 

UN MOMENTO significativo del cammino è l'incontro con padre Domingo Cazon, un prete cubano, membro di un istituto ad gentes del Canada, i cosiddetti preti S. M. E. (Societé des Mission Etrangere du Quebe¬c). "Mi ha seguito da vicino nel mio itinerario spirituale - spiega Gustavo -. Ed è lui che, nel 1996, mi ha coinvolto in un'esperienza significativa, promossa dal suo istituto: un incontro per i giovani impegnati nella missione in America Latina a Tegucigalpa, in Honduras: quattro settimane, l'ultima delle quali dedicata agli esercizi spirituali". Padre Gustavo aveva già vissuto un altro momento forte l'anno prima: il Comla 5 (Congresso missionario latinoamericano) a Belo Horizonte in Brasile.

"Quella in Honduras - sottolinea p. Gustavo - si è rivelata un'esperienza molto forte di "immersione" nella situazione concreta dei poveri; si andava nelle case a due a due, ospiti delle famiglie. Per me è stata anche un'occasione di incontro con persone dal resto del continente: erano presenti giovani di molti Paesi dell'America centrale e del sud".

Continua: "In Honduras è nata l'idea di una commissione internazionale e io sono stato scelto per l'Argentina. L'anno dopo ci siamo radunati in Canada e lì si decise di promuovere un secondo incontro in Honduras per il gennaio del 1998. Vedendomi molto coinvolto nell'impegno missionario, i padri S.M.E. mi hanno sollecitato a continuare la mia formazione con loro (nel 1997, intanto, mi ero laureato): mi hanno invitato ad andare a Montreal per un anno. E così, nell'agosto sono partito per il Canada". Ogni partenza comporta un distacco; per Gustavo ciò significa lasciare il lavoro e la famiglia di origine. Nessun problema con i tuoi? "Problemi no, anche se non posso negare una certa sorpresa di fronte alla mia scelta. Non si sono mai opposti, mi sono sempre stati vicini e man mano hanno capito le mie scelte".

 

IN CANADA Gustavo passa un anno di formazione e verifica in comunità, in vista di un impegno in missione. Studia il francese e nel tempo libero lavora alla Comunità dell'Arca di Jean Vanier, valorizzando il suo diploma nell'ambito dell'assistenza ai disabili. Dopo aver seguito insieme ai compagni due corsi a Ottawa all'università, a fine 1998 viene invitato ad associarsi come laico missionario all'istituto e a partire per la Cambogia dentro un progetto di équipe internazionale. "Era il primo gruppo internazionale dell'istituto, una cosa molto bella, in prevalenza formato da laici. Ne facevano parte, oltre al sottoscritto, una coppia di sposi (lei francese e lui boliviano), due ragazze filippine e un giovane prete colombiano, missionario di Yarumal. L'accordo prevedeva una permanenza di sei anni in Cambogia"

Prima della partenza si rende necessario, naturalmente, un periodo di preparazione, specie per l'apprendimento dell'inglese, cosa che Gustavo svolge insieme con la coppia. Ad aprile 2000 finalmente la partenza per l'Asia. La prima tappa è Hong Kong, la seconda Davao, nelle Filippine. Lì si sono aggregate le due laiche locali, quindi a luglio l'arrivo dell'equipe in Cambogia, a Phnom Penh. La comunità al completo comprendeva 10 persone; oltre ai sei citati, altri 4 preti (un canadese e 3 colombiani), presenti dal 1996; costoro operavano in tandem con la diocesi, mentre a noi laici non erano stati assegnati compiti precisi e ciascuno stava scoprendo quali strade percorrere".

Prosegue Gustavo: "Di lì a qualche mese ho conosciuto Cristina, della Comunità delle missionarie laiche di Busto, legata al Pime e, tramite lei, i missionari dell'istituto. Mi hanno parlato di un progetto di New Humanity per i disabili; anch'io avevo in mente un centro del genere, padre Toni Vendramin lo sognava da tempo. Sapendo della mia preparazione nel campo della disabilità, ho iniziato a collaborare con New Humanity, part time, mentre cominciavo a studiare la lingua khmer tre volte alla settimana. Nel 2001 sono stato assunto alla Ong del Pime, dopo un accordo fra istituti, e ho potuto buttarmi a tempo pieno nel progetto per disabili. Per due anni l'ho seguito da vicino: l'ufficio era in capitale, ma i progetti nei villaggi, fra le risaie. Lì sono stati realizzati un centro per disabili e altri progetti educativi, per le donne, per i contadini, per l'educazione sanitaria... Siccome i ragazzi non erano accettati nelle scuole venivano da noi per prepararsi. Un'indagine fra le famiglie dei sedici villaggi ci permise di individuare una ventina di disabili fisici e mentali, che diventarono i destinatari dell'intervento".

 

IL CENTRO, inaugurato nel 2001, è una struttura senza pretese ma funzionale. All'inizio vi lavoravano quattro soli dipendenti, come insegnanti; per loro organizzavamo dei training insieme con altre Ong migliorare le competenze.

Dalle parole di padre Benitez trapela un certo entusiasmo per tale realizzazione. Eppure non è stato quello l'approdo della sua ricerca. Come mai? "Prima di partire - è la risposta - il mio superiore mi aveva chiesto del mio futuro ma io mi ero preparato come laico. Con padre Mario Ghezzi, che ho incontrato quasi per caso, ho iniziato un accompagnamento spirituale e di discernimento. Lui mi ha indirizzato a un filippino gesuita. Dopo un periodo di verifica, alla fine ho deciso per il Pime. Non potrei dire che ci siano stati motivi particolari e clamorosi, quanto piuttosto la somma di tanti fattori. Di sicuro non è stata una scelta improvvisata, ma è maturata in un clima di preghiera".

Da laico a tempo a prete per la vita. Come è accaduto? "In Canada non avevo fatto molti progetti sul dopo. La "molla" è scattata in Cambogia: rileggendo tutta la mia storia, la mia passione missionaria, ho come intravisto un disegno. Non potevo tornare in Argentina dopo sei anni senza che fosse successo niente. Non mi vedevo proprio a cancellare quella parentesi come se mi accontentassi; intuivo qualcosa che mi spingeva a dare di più. Del resto, la chiamata alla missione ad gentes era abbastanza chiara e forte dentro di me. Il discernimento compiuto è stato più concentrato sul come viverla: da celibe, sposato o come prete?".

Una volta decisa la strada, nel 2002 Gustavo lascia l'istituto canadese per entrare nel Pime. Abbandona la Cambogia per Roma, dove compie gli studi, fino a conseguire il baccalaureato in filosofia. Quindi l'anno di spiritualità e poi l'arrivo al Seminario teologico di Monza.

Il resto è cronaca recente: ordinato prete il 14 agosto nella sua Resistencia, e ricevuto il Crocefisso, a fine ottobre è ripartito per la Cambogia. Stavolta come padre Gustavo. "Mi sento un figlio dell'America Latina inviato al¬l'Asia. Per la mia Chiesa è stata una festa, un evento importante nel quale concretamente si realizza il "donare della nostra povertà" auspicato proprio dai Congressi missionari latinoamericani".

Immancabile la domanda finale: cosa ti ha colpito del Pime? Risposta: "Il fatto che la missione non è esclusivamente sull'aspetto puramente religioso ma che si associa alla promozione umana. La testimonianza di vita fa parte della missione: per me, che all'inizio avevo una visione del prete "sbilanciata" sull'aspetto sacramentale (peraltro importantissimo), si è trattato di una bella scoperta?. L'altro aspetto molto positivo del Pime è l'internazionalità: una ricchezza, anche se le difficoltà non mancano. La mia classe è costituita da otto persone di sei nazioni, alcuni dei quali provengono dalle antiche missioni del Pime: un bel segno e un motivo di gioia in più per l'istituto".  

  

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Quella "guerra santa" dentro il Sepolcro di Claudio Monge

Mondo e Missione - 1 febbraio 2010  

"La crisi del cristianesimo in Medio Oriente non è dovuta solo all'islam"  

    

Il 9 novembre 2008, al Santo Sepolcro di Gerusalemme, le immagini di una rissa tra monaci armeni e greco-ortodossi fecero il giro del mondo. Non si trattò di un episodio isolato ma di un "incidente tra i tanti", che illustra la triste storia di una "guerra santa" per il diritto alla pole position davanti alla tomba di Gesù...

Sei Chiese dovrebbero cooperare nell'amministrazione della basilica. Tre furono nominate quando i crociati tenevano Gerusalemme: la Chiesa ortodossa greca, la Chiesa apostolica armena e la Chiesa cattolica latina. Tre, con responsabilità minori, subentrarono con un decreto di status quo emanato dagli ottomani nel 1852: la Chiesa ortodossa copta, la Chiesa ortodossa etiope e la Chiesa ortodossa siriaca. In realtà, già l'insieme architettonico del complesso del Santo Sepolcro - francamente assai disarmonico - sintetizza la disarmonia più profonda che si percepisce tra riti diversi che si sovrappongono senza incontrarsi e, a volte, addirittura "scontrandosi", quando le liturgie oltrepassano i tempi assegnati.

Questa esperienza di estraneità affonda le sue radici già nei primi secoli del cristianesimo. Fin dal II secolo le chiese del Medio Oriente sono etnicamente e culturalmente molto diverse da quelle occidentali e, spesso, anche già divise tra di loro. Se fino al Concilio di Efeso (431 d.C.) la Chiesa dava ancora una parvenza d'unità, quando gli elementi politico-culturali (i crescenti contrasti tra Roma e Costantinopoli) cominciano ad essere determinanti, anche le divisioni dottrinali diventano più marcate. Ad Alessandria d'Egitto, ad esempio, la dottrina monofisita (la sola natura divina nel Cristo) assume le dimensioni di un protonazionalismo che esprime il rifiuto dell'influenza politica di Costantinopoli. Inizia una guerra aperta tra l'imperatore bizantino - che deve far applicare le decisioni dei Concili tenuti sotto la sua autorità, che non è certo quella di un Giovanni XXIII ante-litteram... - e le province meridionali dell'Impero. Alle crociate bizantine contro le chiese "eretiche" nestoriane e pre-calcedonesi, si aggiungeranno, poi, i danni delle crociate latine per l'instaurazione dei principati Franchi del Levante. Da allora il mondo cristiano orientale non cesserà più di sospettare delle "mire espansionistiche di Roma", che si tradurranno anche nella strategia dell'uniatismo (la creazione di Chiese orientali cattoliche in una certa misura autonome, ma in comunione dogmatica con Roma e sottomesse al Papa). I rapporti diventeranno così tesi che un certo mondo cristiano orientale (ad esempio in Anatolia) arriverà ad accogliere con speranza la penetrazione arabo-musulmana, denunciando così il potere centrale bizantino e la politica espansionistica di Roma.

Basta questo richiamo storico per mettere in crisi la teoria semplicistica di chi vorrebbe giustificare il declino e la quasi sparizione del cristianesimo in Medio Oriente esclusivamente con la nascita e l'espansione dell'islam, a colpi di scimitarra luccicante... La storia stessa del Santo Sepolcro evidenzia il risultato finale di un processo di cristallizzazione delle divisioni e del sospetto intra-cristiani. Pochi sanno che la chiave d'ingresso alla contesa basilica di Gerusalemme, fin dai tempi di Saladino (1192), è in possesso della famiglia musulmana dei Nuseibeh, chiamata in causa come forza neutra, nella speranza di favorire la pace tra le varie fazioni cristiane. È come dire che una ritrovata armonia nel mondo cristiano mediorientale non potrà che passare anche attraverso rapporti nuovi e non conflittuali con il mondo islamico, in questi Paesi numericamente dominante.

   

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Da Lisbona a Macao il viaggio della vita di Gianni Criveller

Mondo e Missione - 1 febbraio 2010   

La porta dell'amicizia. L'odissea vissuta da Ricci ricalca quella, eroica, di tanti missionari del suo tempo

      

Era davvero il viaggio della vita. Quello che i missionari a partire dal XVI secolo compivano verso le Indie orientali (l'Asia) e occidentali (le Americhe) era un'esperienza rischiosissima. Molti non giungevano a destinazione. Almeno un terzo dei gesuiti destinati alla Cina morirono durante il viaggio. Coloro che vi arrivarono erano già dei sopravissuti, come Matteo Ricci, che arrivò a Macao mezzo morto. Il viaggio è stata una componente predominante nella vita di Ricci. Tra i 9 anni trascorsi a Roma (1568-1577) e i 9 trascorsi a Pechino (1601-1610), Matteo visse 24 anni di continui spostamenti. Nato a Macerata il 6 ottobre 1552, Matteo iniziò il suo lungo viaggio verso Pechino il 18 maggio 1577, da Roma, dove sei anni prima, studente di Legge presso l'Università La Sapienza, aveva bussato per essere ammesso alla Compagnia di Gesù. A riceverlo era stato Alessandro Valignano, 32 anni. Il primo incontro tra due grandi, che passeranno alla storia come i fondatori della missione moderna cinese, fu una singolare coincidenza: all'arrivo di Ricci, Valignano sostituiva il maestro dei novizi, assente per una temporanea indisposizione.

Matteo non ritornò mai a Macerata, che aveva lasciato nel 1568, nemmeno prima di partire. Da Roma si diresse a Livorno, poi a Genova e da qui, sempre per mare, a Cartagena, in Spagna. Nel luglio dello stesso anno giunse a Lisbona.

Esistevano allora due "vie delle Indie", quella dei portoghesi, utilizzata dai gesuiti, e quella degli spagnoli, impiegata da agostiniani, francescani e domenicani. La via portoghese partiva da Lisbona, circumnavigava l'Africa e giungeva a Goa, in India. Da lì proseguiva per Malacca e infine arrivava a Macao, l'estremo avamposto portoghese in Asia orientale. Ma per i missionari il viaggio non finiva a Macao: dopo qualche tempo, alcuni salpavano per il Giappone, altri intraprendevano via terra il viaggio all'interno della Cina.

La via spagnola partiva da Cádiz (Cadice), attraversava l'Atlantico per giungere a Veracruz, nella Nueva España. Da Acapulco il Galeón de Manila o la Nao de China si inoltravano sul Pacifico per giungere nelle Filippine, l'estremo possedimento coloniale spagnolo. Queste, a ritroso, erano anche le vie percorse dalle numerose lettere e relazioni scritte dai missionari. Le vie marittime riproducevano la divisione del "nuovo mondo" tra i regni di Portogallo e Spagna.

A Lisbona Ricci e compagni dovettero attendere la primavera successiva per imbarcarsi. Matteo trascorse la maggior parte di quel soggiorno a studiare nella città universitaria di Coimbra. Il 23 marzo 1578 dalla torre di Belem, presso Lisbona, tre galeoni salparono per l'India, con a bordo 14 gesuiti. Il San Luis, il galeone di Ricci e del compagno di missione Michele Ruggieri, fu spinto dai venti quasi fino alla costa brasiliana. Doppiato il Capo di Buona Speranza, la nave fu sul punto di affondare. Giunse a Goa il 13 settembre, dopo sei mesi di navigazione. A Goa era esposto alla venerazione il "corpo santo" e incorrotto di Francesco Saverio. Forse Matteo ha riflettuto sul fatto che il Saverio era morto alle porte della Cina nello stesso anno in cui egli nasceva. A Goa Ricci si ammalò ripetutamente di malaria e fu inviato a Cochin per riprendersi, per completare gli studi di teologia e ricevere l'ordinazione sacerdotale (26 luglio 1580). Ricci ebbe il coraggio di denunciare la pratica discriminatoria di non ammettere i gesuiti indiani a ruoli di autorità. Nel 1582 ricevette l'ordine dal Visitatore di recarsi a Macao. Valignano aveva così accolto il suggerimento di Ruggieri (a Macao dal 1579), che indicava in Ricci la persona più adatta per la disperata "impresa della Cina". A Macao, dove giunse il 7 agosto 1582, Matteo si rimise in salute e diede inizio "all'ascesa verso Pechino".  

   

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Al centro l'uomo: ecco la chiave per una reale integrazione di Paolo Nicelli

Mondo e Missione - 1 febbraio 2010 

Identità nella diversità  

 

La mia riflessione parte dall'esperienza diretta che ho con le comunità musulmane in Italia. Ma trova la sua origine nei 7 anni passati in missione, sia nelle Filippine, nell'isola di Mindanao, che altrove (Malaysia, Indonesia, Turchia, Egitto, Algeria). Ho vissuto anche un'esperienza accademica, molto positiva per i contatti che si sono creati, al Markfield Institute of Higher Education (Mihe), un centro di studi islamici in Gran Bretagna. A me pare che oggi in Italia e a Milano chi, più di tutti, soffre la fatica dell'integrazione, siano i musulmani autoctoni, perché nati in Italia, o perché convertiti all'islam. Essi hanno bisogno di tempo e di spazi pubblici per scoprire la loro identità di musulmani italiani, chiamati a vivere in un contesto in cui il pregiudizio e il reale timore del terrorismo li costringe ai margini della società.

Proprio a questi desideriamo rivolgerci come missionari impegnati sul territorio, con quell'attenzione tipica di chi vuole incontrare la persona umana. Questi giovani o giovani famiglie vivono la frustrazione di chi è italiano per diritto di nascita (ius soli), ma non lo è ancora legalmente (ius sanguinis). Persone che non sono pienamente accettate all'interno della loro comunità musulmana, perché nate in Italia (e quindi non parte di culture e tradizioni islamiche arabe o asiatiche). Fuori da questo contesto tradizionalmente musulmano, i giovani di seconda e terza generazione non trovano quell'accoglienza necessaria alla loro integrazione, per via della diffidenza e di una comprensibile paura del terrorismo, o più semplicemente perché la gente rigetta una certa intransigenza legata alla propaganda islamica tesa al proselitismo.

Le proposte di possibili modelli di integrazione non possono solo trattare la questione da un punto di vista della sicurezza e della legalità. C'è bisogno di affrontare alla radice il problema della formazione di una comunità autoctona musulmana ai valori democratici e occidentali. Per formazione intendo, innanzitutto, quella religiosa musulmana, che in un contesto europeo e italiano non può e non deve riprodurre i modelli mediorientali o asiatici, ma deve trovare una sua forma religiosa e sociale islamica, tale da favorire l'integrazione nel contesto occidentale. In questo senso sarà necessario considerare seriamente una formazione civica che sottolinei la netta separazione tra lo Stato e la moschea, nello spirito dei valori democratici e della laicità.

Considero decisivo il fatto di porre più attenzione alla persona umana, come la realtà centrale nel processo d'integrazione. Intendo la persona in tutti suoi aspetti, primo tra tutti la sua dignità di soggetto amato da Dio e capace di amore verso il prossimo. Il soggetto è importante, perché attore creativo nel contesto sociale e quindi creatore di cultura. Se il soggetto sparisce all'interno di una visione collettivista della comunità islamica, si avrà un individuo passivo, incapace di creatività. Il lavoro di formazione, però, tocca anche la comunità autoctona non-musulmana, la quale ha bisogno di approfondire i suoi valori più importanti, quali: l'accoglienza, l'ospitalità e l'identità. L'identità culturale e religiosa non si identifica mai con il rifiuto di accogliere i valori positivi di popoli e culture diverse, quando tesi al perseguimento del bene comune. In una società plurale, identità e diversità devono essere i fattori portanti del processo d'integrazione. "Identità nella diversità" per il bene comune, dove la diversità può promuovere l'unità, senza scadere nel relativismo o nel conflitto.  

 

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MONDIALITA'

Anche i poveri saranno più vecchi - Che l'Onu lo dica a se stesso di Davide Rondoni

Avvenire - 7 febbraio 2010

Le previsioni demografiche sul mondo del 2050. Poveri e belli, si diceva una volta.  

       

Ora si dovrà dire poveri e vecchi. Secondo le stime del rapporto Onu sull'invecchiamento della popolazione, non sta invecchiando solo la parte ricca del pianeta, ma ( qui sta la sorpresa) anche la parte più povera.

Insomma, anche nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo si registra un processo di invecchiamento preoccupante della società. Si aprono dunque delle crepe in quell'immagine- feticcio agitata da sempre dai fautori del controllo forzato delle nascite, e imposto dai ricchi ai poveri, secondo cui il futuro è popolato da orde di giovani pronte a invaderci, battelli carichi di ragazzetti disposti a tutto pur di sbarcare in Occidente.

All'Onu i corridoi sono lunghi e i palazzi grandi.

Occorre però che i funzionari dei vari uffici, e i politici che li governano, si parlino. Infatti mentre in certe stanze si continua una miope politica di forzato controllo delle nascite, in altre si mostrano dati secondo i quali la popolazione povera del mondo sta pericolosamente invecchiando.

Percorrano il corridoio, dunque. Si trovino davanti alla macchinetta del caffè. Si mettano d'accordo tra loro. Le cifre parlano chiaro: nel 2050 gli anziani nei Paesi poveri costituiranno l' 80% della popolazione. Secondo la tendenza attuale, gli anziani in quelle terre aumenteranno del 340%. Chiunque può capire quali conseguenze dal punto di vista dell'equilibrio sociale, del rischio di un ulteriore impoverimento ne può derivare: si tratta di terre dove la rete di protezione sociale per gli anziani è debole o nulla, e dove una fascia esigua di persone in grado di lavorare - per di più in situazioni disagiate - dovrebbe sobbarcarsi il peso non solo dei figli, ma di questi molti nonni. Non a caso già ora gli anziani che lavorano sono nei Paesi più poveri oltre il 30%, molto di più che in Occidente. E possiamo immaginare in che diversità di condizioni.

I movimenti demografici sono processi lenti. E disomogenei. Il rapporto Onu mostra che nelle nazioni asiatiche e latinoamericane la frenata demografica è più forte rispetto all'Africa, dove la natalità è comunque ancora alta. Il Continente Nero, perciò, potrebbe trovarsi ancora una volta a vivere la condizione peggiore: molti bimbi e molti vecchi da mantenere, e poco lavoro da fare. Con il risultato che la via della migrazione o della fuga affascinerà ancora di più molti giovani di quelle terre.

Dal rapporto vediamo che noi, i ricchi, gli europei, stiamo andando verso un 2050 con il 33% di anziani, un aumento del 60%. Nei nostri Paesi ci saranno 416 milioni di ' vecchi' contro i 264 milioni di oggi. I Paesi poveri ci stanno seguendo sulla strada dell'invecchiamento, non certo dello sviluppo. E questo è dissennato.

Dissennata la nostra corsa, dissennato l'inseguimento.

I dati demografici dell'Onu, dunque, smentiscono le politiche demografiche dell'Onu. Sarebbe preoccupante se una contraddizione del genere accadesse, che so, tra l'ufficio studi e le scelte di un Comune italiano. I suoi cittadini, giustamente, s'arrabbierebbero. Ma i cittadini del mondo come fanno ad arrabbiarsi con l'Onu? Beh, intanto almeno l'Italia batta un colpo. Non chieda chissà cosa, dimissioni o gesti eclatanti. Ma che almeno si trovino quelli che lavorano sullo stesso corridoio, o due piani sotto. L'Italia faccia la prima mozione di questo tipo: per il ritrovo alla macchinetta del caffè, se c'è. Ci sembra importante che l'organismo che intende armonizzare il governo del mondo non sia schizofrenico su un argomento così vitale per i suoi destini.  

 

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Dopo Copenaghen: dal Marocco, per uno sviluppo sostenibile

Misna - 2 febbraio 2010    

     

Un invito alla solidarietà internazionale, basata sul concetto di responsabilità condivisa, è stato rivolto dai partecipanti al primo Forum internazionale sull'ambiente organizzato a Rabat dal Partito dell'ambiente e dello sviluppo sostenibile (Pedd), un partito politico marocchino. "Il vertice di Copenhagen è stato un'occasione mancata" a causa dell'incapacità dei governanti mondiali di trovare un'intesa sulla protezione dell'ambiente, ha detto Ahmed Alami, presidente del Pedd, sottolineando che i paesi arabi, come tutti i paesi del Sud del mondo, non sono responsabili del surriscaldamento globale ma ne subiscono le conseguenze maggiori. Unanime il plauso all'iniziativa del re del Marocco, Mohamed VI, di redigere una "Carta nazionale per l'ambiente e lo sviluppo sostenibile" che indichi diritti e doveri dei cittadini nel rispetto dell'ambiente e a favore di uno sviluppo in armonia con la natura e le risorse naturali. "È un'iniziativa senza precedenti, un'azione costruttiva e positiva, di cui seguiamo la realizzazione con grande interesse" ha commentato Amr Moussa, presidente della Lega araba, in un messaggio ai partecipanti al Forum.[CC]

    

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Contro la logica delle armi una nuova cultura della pace  di Giulio Albanese

Avvenire - 5 febbraio 2010

La crescita dell'industria bellica e l'impegno cristiano  

   

"Si vis pacem para bellum", recita l'antica locuzione romana, eppure mai come oggi si avverte l'esigenza di affermare il diritto alla pace. È quanto indica a chiare lettere l'ampio magistero sociale della Chiesa, affermando innanzitutto e soprattutto, alla luce del Vangelo, il principio della fraternità universale che lega tutti i popoli, promuovendo la cultura della 'non violenza' e il disarmo. Non v'è dubbio che la proliferazione di armi e il loro commercio illegale rappresentino fenomeni inquietanti, dalla valenza planetaria. È bene rammentare che, nonostante gli effetti della crisi che ha colpito le piazze finanziare di mezzo mondo, l'industria bellica mondiale continua ad essere l'unica a non temere alcuna forma di recessione. Basti pensare che nel solo 2008 le spese militari nel mondo sono cresciute del 4%, raggiungendo i 1.464 miliardi di dollari. Sta di fatto che, come succede spesso in questi casi, sono i Paesi più poveri quelli maggiormente penalizzati dalla violenza: dalla Somalia alla martoriata regione sudanese del Darfur; per non parlare del settore orientale dell'ex Zaire. A ciò si aggiungano le aree di crisi sul versante mediorientale e caucasico. E cosa dire poi della crisi afghana e più in generale del terrorismo globale? Si tratta di situazioni di fronte alle quali la comunità dei credenti non possono rimanere indifferenti essendo in gioco il sacrosanto valore della vita. Da questo punto di vista, come scriveva don Tonino Bello durante la sua presidenza italiana di Pax Christi: "La pace non è il premio favoloso di una lotteria che si può vincere col misero prezzo di un solo biglietto. Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di lacrime, di incomprensione e di sangue. La pace è il nuovo martirio a cui oggi la Chiesa viene chiamata...".

Benedetto XVI, in continuità con l'insegnamento dei suoi predecessori, ha lanciato nel primo giorno dell'anno un messaggio toccante "alle coscienze di quanti fanno parte di gruppi armati di qualunque tipo. A tutti e a ciascuno dico: fermatevi, riflettete, e abbandonate la via della violenza!" (Angelus, 1° gennaio 2010). Prendendo lo spunto da queste parole del Papa, s'è svolto presso l'Università Lateranese un convegno organizzato dalla Commissione episcopale per i problemi sociali e del lavoro, la giustizia e la pace, assieme a Caritas Italiana e Pax Christi. Proprio questi tre soggetti, che insieme promuovono l'accoglienza del Messaggio del Papa per l'annuale Giornata della pace e per la marcia di fine anno, hanno testimoniato l'esigenza di affermare una responsabilità ecclesiale. Come è stato ricordato in una missiva letta ai partecipanti, a firma di monsignor Giovanni Giudici, presidente di Pax Christi, oggi è "una sfida pastorale il fatto che nelle nostre comunità cristiane trova acritica accoglienza la giustificazione della guerra e della violenza, della legittima difesa armata e della ingerenza umanitaria con gli eserciti e non è altrettanto presente l'attenzione per la difesa popolare nonviolenta, la passione per la verità e i concreti gesti di amore che danno prospettive a un mondo nuovo e possibile, secondo le parole dei Profeti". Il presule ha poi ricordato che il cristiano non distoglie il volto dalla brutalità dell'oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole 'nemico' perché altri lo hanno definito come tale. I sentieri di pace segnati in questi anni da alcune Chiese locali italiane a Novara e Vicenza costituiscono un motivo di speranza.

Occorre comunque, alla luce delle suggestioni del Magistero, progettare itinerari specifici di formazione teologica, morale, spirituale alla pace che accompagnino adeguate scelte di denuncia, di rinuncia e annuncio per una nuova civiltà dell'amore. Nella consapevolezza che, a differenza dei nostri predecessori, crediamo che "Si vis pacem para pacem".  

 

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Una donna per le donne, nominata inviata contro violenze

Misna - 4 febbraio 2010  

        

L'ex-commissaria europea, la svedese Margot Wallström, è stata nominata rappresentante speciale dell'Onu per lottare contro le violenze sessuali di cui sono vittime donne e ragazze minorenni nelle zone di conflitto. Lo ha annunciato il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, sottolineando come la nuova rappresentante è chiamata ad intervenire in particolare in Kivu (est congolese), in Somalia e in Sudan dove "stupri e violenze vengono utilizzati come arma di guerra". La nuova figura avrà il mandato di coordinare le attività dei vari organismi Onu per rafforzare la lotta contro le violenze e di svolgere campagne informative per sensibilizzare la comunità internazionale. La nomina del rappresentante speciale era stata decisa lo scorso Ottobre all'unanimità dei 15 Stati membri del Consiglio di sicurezza che, nella risoluzione 1888, chiesero nuovamente ai paesi dove sono in corso o si conclusi di recente conflitti armati di porre fine alle violenze sessuali e di punire i responsabili con adeguate sanzioni. La nomina della Wallström interviene mentre a Kinshasa donne congolesi, ugandesi e senegalesi sono riunite in un forum che si propone di creare un organizzazione panafricana in difesa dei diritti delle donne del continente, in particolare per lottare contro la discriminazione nei loro confronti e le violenze subite in zone di guerra. [VV]

    

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Primo rapporto globale su popoli indigeni, per conoscerli e difenderli

Misna - 1 febbraio 2010    

      

Rappresentano il 5% degli abitanti del pianeta gli appartenenti a popolazioni indigene, circa 370 milioni in 70 paesi, ai quali è dedicato lo "State of the world's indigeneous peoples", primo rapporto globale in materia stilato dalle Nazioni unite. Presentato nei giorni scorsi da Victoria Tauli Corpuz, presidente del Forum permanente dell'Onu sulle questioni indigene, il documento intende riempire una lacuna sulla conoscenza dei popoli autoctoni, che troppo spesso vengono dimenticati o discriminati dai propri governi, forse a volte anche per mancanza d'informazioni. Si tratta di circa 5000 gruppi - indica il rapporto - ognuno dei quali ha una propria storia, una propria lingua, una propria cultura, una propria identità, proprie credenze e un proprio sistema 'politico'. Ma "nonostante i progressi realizzati negli ultimi 40 anni, per molti di questi popoli, il riconoscimento dei diritti rimane un'utopia" sostengono gli autori della ricerca. Nel corso degli ultimi tre decenni, sottolineano, molti hanno abbandonato le loro terre ancestrali spostandosi verso i centri urbani, in parte per trovare nuove opportunità educative e lavorative, ma anche perché costretti a farlo da aziende o governi interessati allo sfruttamento di risorse naturali o nell'ottica di politiche di assimilazione forzata. Nel 2007 le Nazioni Unite hanno adottato una Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni, che dovrebbe servire di base universale. [CC]  

 

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Storia di Shazia, 12 anni, cristiana di Antonio Socci

Libero - 31 gennaio 2010   

   

Nessuno a Hollywood le dedicherà un film (che pure sarebbe da Oscar), nessuno scrittore la immortalerà in un romanzo, nessun giornale occidentale - che dedica pagine e pagine al burqa in Francia - ha sollevato clamore.

Perché i cristiani sono tornati come al tempo di san Paolo: "siamo diventati la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti". Dunque la triste storia di Shazia Bashir, 12 anni, cristiana, non può far notizia.Come non fa notizia che proprio i cristiani siano il gruppo umano più perseguitato del pianeta. Nemmeno i credenti lo sanno e si fanno semmai bersagliare dalle accuse opposte.

L'Avvenire di Dino Boffo aveva mostrato una certa sensibilità per il dramma dei cristiani oppressi, in decine di paesi del mondo (250 milioni di cristiani ogni giorno a rischio e migliaia di vittime ogni anno): era un forte incentivo ad aprire gli occhi. Ma di recente Boffo è stato ingiustamente indotto alle dimissioni dopo un'assurda polemica.

Detto questo la storia di questa ragazzina cristiana, Shazia Bashir, non si può tacere. Oltretutto è solo la punta dell'iceberg.

L'ha fatta emergere dal silenzio, una settimana fa, l'agenzia missionaria Asianews (del Pontificio istituto missioni estere), che fa un lavoro eccezionale, ma come una voce che grida nel deserto. Ha lanciato la notizia così, dal Pakistan: "Lahore, domestica cristiana 12enne torturata e uccisa". L'agenzia riferisce che viene accusato il padrone musulmano: "La giovane lavorava presso la famiglia di un potente avvocato della città, dove era soggetta a violenze sessuali, fisiche e psicologiche. La morte della ragazza ha scatenato le proteste della comunità cristiana, che chiede giustizia. Attivista per i diritti umani: il 99 per cento delle giovani cristiane che lavorano per musulmani sono vittime di violenze e abusi".

Vedremo se e come le autorità arriveranno a individuare e punire il o i colpevoli. Ma non ci si possono fare illusioni sulla tutela dei cristiani in un paese come il Pakistan.

L'agenzia Asianews aggiunge: " 'I genitori di Shazia non hanno potuto vedere la figlia' denuncia Razia Bibi, 44 anni, zia della vittima. La 12enne è morta il 22 gennaio scorso in ospedale a causa delle ferite subite. Sohail Johnson, (attivista per i diritti umani, nda) conferma che il cadavere presentava i segni delle torture in 12 punti diversi del corpo ed è stata ricoverata 'con la mandibola fratturata'. In un primo momento la famiglia dell'avvocato ha proposto un risarcimento di 250 dollari ai genitori per non sporgere denuncia; poi si sono dati alla fuga. La polizia li ha arrestati dietro pressioni del governo federale".

Il giorno dopo la morte di Shazia i cristiani hanno manifestato di fronte agli uffici dell'Assemblea provinciale del Punjab. "L'associazione dei legali di Lahore, invece, si è schierata a difesa del potente avvocato musulmano. La minoranza cristiana" scrive ancora Asianews "esprime dubbi sull'indipendenza e l'efficacia delle indagini avviate dalla polizia".

Va detto che non stiamo parlando di un paese marginale: il Pakistan ha 180 milioni di abitanti, è addirittura una potenza nucleare e si trova in una posizione geopolitica strategica, fondamentale nella lotta occidentale al terrorismo islamico.

Ma gli Stati Uniti sbagliano profondamente se si illudono di potere vincere quella guerra solo tramite la via militare, in alleanza col regime pakistano.

Anche perché il Pakistan, che dovrebbe essere un pilastro di questa lotta al terrorismo, è uno dei paesi più integralisti, quello dove è stata inventata ed è tuttora in vigore la vergognosa "legge sulla blasfemia" che dà praticamente diritto di vita o di morte sui cristiani o su chi non si riconosca nel credo coranico.

I cristiani lì sono una minoranza ridotta alla miseria, vessata in ogni modo. Le famiglia cristiane sono così povere che per sopravvivere sono costrette a mandare le figlie a lavorare già da bambine e in genere l'unico lavoro che possono fare è quello delle serve presso le ricche famiglia musulmane.

Dove però - scrive Asianews - "sono sovente vittime di abusi e violenze fisiche, sessuali e psicologiche".

Secondo un'organizzazione per i diritti umani "in alcuni casi i loro padroni le danno in spose a domestici musulmani, obbligandole a convertirsi all'islam". In sostanza "queste vulnerabili ragazze cristiane non godono di alcuna protezione".

La Chiesa italiana e il Vaticano si sono spesso (anche in queste ore) pronunciati in difesa degli immigrati. Giustamente. Ma chi si occupa dei poveri cristiani di quei paesi, così poveri da non poter neanche tentare di emigrare?

Ragazzine come Shazia sono costrette a subire una vita infernale per una paga di 12 dollari al mese, a volte neanche corrisposta: perché la Chiesa, tramite le parrocchie, la Caritas o tante altre organizzazioni, non lancia una grande campagna per le "adozioni a distanza" di queste ragazzine cristiane?

Io credo che tantissimi sarebbero disposti a dare 12 dollari al mese, cioè 8 euro al mese, per salvare queste povere fanciulle da un simile inferno. La vita di una fanciulla cristiana di dodici anni vale almeno 8 euro?

Mi chiedo perché gli stessi cattolici, che nei primi secoli onoravano e veneravano le giovani cristiane martirizzate dai pagani, ignorano la sorte terribile e il martirio di tante fanciulle in molti paesi.

Nei primi secoli addirittura i padri della Chiesa scrivevano pagine immortali in onore di queste fanciulle: penso al caso di sant'Agnese, martire a 16 anni. Sant'Ambrogio, san Girolamo e san Damaso esaltarono il suo esempio, la Chiesa la venera da 1700 anni, a lei ha dedicato chiese e memorie liturgiche.

Mentre noi cristiani del XXI secolo neanche conosciamo i nomi dei martiri di oggi. Nel tempo dell'informazione planetaria globale i cattolici stessi ignorano la vastità e la crudeltà dell'odio anticristiano e delle persecuzioni nel mondo.

Così nessuno ha mai pensato di aiutare le povere famiglie cristiane di questi paesi, né di realizzare un qualche osservatorio internazionale o un'agenzia di difesa sul modello dell' "Anti defamation league" o di Amnesty international.

Non si potrebbe sostenere di più il lavoro di associazioni come "L'Aiuto alla Chiesa che soffre"? Non si potrebbero moltiplicare gli sforzi e le organizzazioni di questo tipo?

Non potrebbero i cattolici e il Vaticano, anche in accordo con le organizzazioni cristiane protestanti (questo sarebbe il vero ecumenismo), creare ad esempio un'équipe di avvocati specializzati con la missione di fornire assistenza legale gratuita a livello internazionale, per patrocinare le cause dei cristiani perseguitati in ogni sede giuridica, politica o amministrativa?

Sono domande che personalmente pongo da anni, con articoli, libri e conferenze. Ma non ho mai avuto il barlume di una risposta. Forse perché i molti uffici del Vaticano sono impegnati con tanti altri problemi delicati.

Ma siamo sicuri che la tragedia dei cristiani perseguitati sia una questioncella secondaria? Siamo sicuri che non si possa fare di più?

Quando leggo articoli come quello apparso ieri sul Foglio, dove Vittorio Feltri rivela che è stato "un informatore attendibile, direi insospettabile" che, riassume il Foglio, "ha spacciato per vero un documento falso sull'ex direttore di Avvenire Dino Boffo, creando il caso" e portando alle sue dimissioni, e che tutto questo è nato quando - aggiunge Feltri - "una personalità della chiesa della quale ci si deve fidare istituzionalmente mi ha contattato", viene da chiedersi con amarezza: veramente ci sono "personalità della chiesa" che si dedicano a questo?

Si deve sperare che si faccia chiarezza assoluta. E che i cattolici dedichino le loro energie ai poveretti che, nel mondo, soffrono a causa della loro fede cristiana e aspettano aiuto.  

 

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Fao: dall'Aquila solo promesse di Paolo M. Alfieri

Avvenire - 19 febbraio 2010
Diouf: "Dei 20 miliardi del G8 a noi neanche un centesimo"

         

"Non abbiamo avuto un centesimo ", sibila Jacques Diouf. Già perché se durante il G8 dell'Aquila era tutto un fiorire di comunicati stampa che celebravano quei 20 miliardi di dollari in tre anni promessi dai Paesi ricchi per sostenere lo sviluppo e l'agricoltura nei Paesi poveri, a distanza di sette mesi la Fao non ha ricevuto nulla. "Il mio è soltanto un campanello d'allarme - ha precisato ieri il direttore generale dell'agenzia Onu, Diouf - Non sappiamo se i soldi siano andati altrove. Mi rendo conto che ci vuole tempo affinché gli impegni si traducano in realtà, e l'impegno era triennale. Certo è che il 2009 è già passato e ancora non si è visto niente".

Una svista? Un rallentamento dovuto alle solite lungaggini burocratiche? Chissà. Per una volta, quanto meno, l'Italia non è sola per il mancato versamento degli aiuti allo sviluppo. Magra, magrissima "consolazione". "Non escludo - ha aggiunto Diouf - che gli aiuti siano andati a governi, ai canali regionali, a strutture multilaterali, ad altre agenzie. Ma la Fao non ha visto niente. Abbiamo avuto a disposizione 400 milioni di dollari per l'acquisto di sementi, ma si è trattato di denaro stanziato prima del G8 dell'Aquila ".

Il richiamo di Diouf è giunto ieri da Roma, in occasione della presentazione del rapporto sullo 'Stato dell'agricoltura 2009'. Per il direttore generale della Fao si è trattato di un vero e proprio appello alla responsabilità: "Ormai il 2009 è alle spalle - ha avvertito - e per realizzare i nostri obiettivi restano solo il 2010 e il 2011". Già lo scorso novembre, peraltro, si era capita l'antifona.

Il vertice mondiale sulla fame organizzato proprio dalla Fao a Roma a poco tempo dal summit dell'Aquila si era infatti rivelato un mezzo flop: nessun capo di Stato del G8 si era fatto vedere (a parte il 'padrone di casa' Berlusconi) e nella dichiarazione finale non erano stati inclusi né impegni dettagliati per fondi umanitari né tempi certi per il loro stanziamento. I 60 capi di Stato che si erano visti a Roma si erano impegnati a sradicare la fame nel mondo "il prima possibile". Scadenze vuote che per gli analisti non hanno ormai alcun senso. Soprattutto 
quando, come nel caso dei fondi promessi all'Aquila, un'agenzia Onu come la Fao non ottiene un centesimo dei miliardi promessi mesi prima. 
Illustrando ieri il rapporto mondiale sull'agricoltura, Diouf ha inoltre spiegato che le malattie animali che si trasmettono sempre più frequentemente all'uomo e i cambiamenti climatici legati all'impatto degli allevamenti intensivi "pongono rischi sistemici che vanno affrontati con investimenti adeguati". Servono, insomma, "maggiori investimenti nella salute animale e nella sicurezza igienico-sanitaria delle infrastrutture". Il rapporto evidenzia, inoltre, la necessità di rafforzare l'efficienza nell'uso delle risorse naturali del settore e ridurre l'impronta ecologica della produzione animale.
Nei prossimi dieci anni il settore zootecnico crescerà del 20% e del 50% entro il 2050, con un pesante impatto sulle risorse ambientali. Quel che serve, secondo Diouf, è una "governance di settore ", perché finora c'è stata una situazione "di vuoto istituzionale", che ha creato un divario tra "i grandi operatori commerciali e i piccoli allevatori, che rischiano di restare tagliati fuori dalle opportunità di sviluppo".
       

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AFRICA

Nasce fondo per le donne africane, l'UA in difesa dei loro diritti

Misna  - 3 febbraio 2010    

  

Si è tradotta nella creazione di un 'Fondo per le donne africane' la volontà dei capi di Stato e di governo dell'Unione Africana (UA) di concretizzare e approfondire le politiche a favore dei diritti delle africane. La nuova iniziativa è stata annunciata in conclusione del XIV vertice dell'UA, ad Addis Abeba, con una risoluzione 'ad hoc'; la Commissione ha ricevuto il compito di definire una strategia di mobilitazione attorno al nuovo fondo, che, in un primo momento, verrà finanziato dai contributi degli Stati membri dell'UA. "La nuova iniziativa è emblematica del ruolo determinante delle donne nelle nostre società. I loro diritti vanno promossi, rispettati e garantiti su scala continentale" ha detto il neo-presidente dell'UA, il capo di Stato del Malawi, Bingu Wa Mutharika; in particolare chiede ai suoi omologhi di aderire al Fondo, di ratificare e applicare gli strumenti giuridici relativi ai diritti delle donne, in primo luogo l'apposito protocollo dell'UA adottato nel Luglio 2003 a Maputo. Infine, ad Addis Abeba capi di Stato e di governo hanno deciso che sosteranno con decisione le future candidature femminili - e di paesi africani - alla direzione di organizzazioni internazionali. [VV]  

 

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Vertice UA: misure per prevenire golpe e difendere democrazia

Misna - 2 febbraio 2010    

      

Misure per prevenire colpi di stato e aumentare il potere negoziale dell'Unione Africana (UA) nei casi di cambi di regime incostituzionali sono state adottate ad Addis Abeba dove si sta svolgendo la XIV assemblea dei capi di stato e governo dell'organismo che riunisce 53 paesi del continente. Le nuove misure, ha sostenuto Ramtane Lamamra, a capo della Commissione pace e sicurezza dell'UA, prevedono maggiori spazi di intervento e di impegno diplomatico per prevenire o risolvere crisi politiche e la possibilità di autorizzare più pesanti sanzioni contro quei paesi in cui un governo democraticamente eletto sia stato esautorato con la forza. Nel vertice sono stati esaminati in particolare i casi del Madagascar e della Guinea, paesi al centro di diverse e complesse crisi politiche da circa un anno. Nel corso dell'assemblea si è anche parlato del Niger, dove il mandato del presidente Mamadou Tandja è stato esteso in seguito a un controverso referendum, e sono state esaminate le condizioni di sicurezza della Somalia (confermando il sostegno al governo di transizione in carica da un anno) e del Sudan, dove cresce l'attesa per le elezioni di quest'anno e per il referendum che nel 2011 sottoporrà ai cittadini la questione dell'indipendenza del sud del paese. Sottolineando invece i progressi fatti dal governo di unità nazionale di Harare, l'assemblea ha approvato la scelta della regione australe di affidare allo Zimbabwe un seggio nella strategica Commissione pace e sicurezza.[GB]  

 

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Concluso il Vertice dell'UA:...

al centro dei lavori le crisi in Somalia e Madagascar e il mantenimento della pace in Sudan

Agenzia Fides - Addis Abeba - 3 febbraio 2010  

        

 Il conflitto in Somalia, il mantenimento della pace in Sudan e la crisi politica in Madagascar sono stati i temi principali del Vertice dell'Unione Africana che si è chiuso ieri, 2 febbraio, ad Addis Abeba, capitale dell'Etiopia.

Secondo il Presidente della Commissione dell'UA, Jean Ping, in Sudan "sono stati compiuti dei progressi notevoli nell'applicazione dell'Accordo di Pace inclusivo del 2005, ma delle sfide di una grandezza senza precedenti richiederanno un'attenzione continua da parte della comunità internazionale". Il Sudan si appresta alle elezioni presidenziali e parlamentari nell'aprile di quest'anno, mentre nel 2011 è previsto il referendum sull'indipendenza del Sud Sudan. È proprio l'eventualità di una vittoria dei sostenitori dell'indipendenza sud-sudanese a preoccupare gli osservatori internazionali. "Dobbiamo lavorare con i responsabili sudanesi per promuovere la pace nel Paese" ha sottolineato il Commissario alla Pace e alla Sicurezza dell'UA, Ramtane Lamamra, mentre il Segretario Generale dell'ONU, Ban Ki-Moon, si è espresso a favore del mantenimento dell'unità del Sudan. "Facciamo questo rispettando pienamente la volontà dei popoli sudanesi, ma dobbiamo in ogni caso rendere attraente l'unità del Paese" ha affermato Ban. Dalle dichiarazioni rilasciate alla stampa da esponenti sudanesi emerge però la consapevolezza che il Sud Sudan si sta ormai avviando verso l'indipendenza. Secondo un funzionario sudanese il ruolo della comunità internazionale dovrebbe essere quello di garantire un pacifico periodo post referendario.

L'UA ha chiesto " al regime illegale del Madagascar di mettere fine ai tentativi di imporre delle soluzioni unilaterali alla crisi" minacciando l'imposizione di sanzioni. L'uomo forte dell'Isola, Andry Rajoelina, ha indetto unilateralmente le elezioni legislative il prossimo marzo, mettendo fine ai negoziati con gli altri movimenti politici malgasci.

Per quel che riguarda la Somalia durante il Vertice l'IGAD (Autorità intergovernativa per lo Sviluppo, che raggruppa 6 Paesi dell'Africa dell'est), ha pubblicato un comunicato nel quale esprime preoccupazione per l'estensione delle azioni dei gruppi terroristici somali alle regioni relativamente stabili del Somaliland e del Puntland.

Il Presidente del Malawi, Bingu wa Mutharika, è stato eletto Presidente dell'UA, in sostituzione del leader libico Gheddafi. Il nuovo Presidente dell'UA ha dichiarato che tra le priorità del suo mandato vi saranno la sicurezza alimentare del continente, lo sviluppo delle infrastrutture e dell'energia. (L.M.)

   

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L'Africa dei figli di papà di Anna Pozzi

Mondo e Missione - 1 febbraio 2010   

Fotografia di un continente dalla politica malata. Tra "democrature" e nuove dinastie, l’Africa si allontana progressivamente dalla via democratica. E così, sempre più spesso, il potere si tramanda in famiglia  

     

Sarà pure un piccolo Paese, ma le prossime elezioni presidenziali in Togo, previste il 28 febbraio, rappresentano una sorta di cartina di tornasole. Diranno se la tendenza che si sta consolidando in questi anni in Africa è qualcosa di più di un caso, ma rappresenta - come denunciano molti - un'inquietante certezza: il consolidamento di una serie, ormai abbastanza nutrita, di nuove dinastie africane. Ovvero, quando il potere passa di padre in figlio, magari dopo che il padre è rimasto ai vertici dello Stato per tutta la vita. È il caso di  molti dittatori africani, che spesso si sono imposti con la forza e non raramente con la benedizione delle ex potenze coloniali. Insomma, la negazione su tutta la linea di qualsiasi velleità democratica, sepolta - per salvare almeno la forma - dietro l'apparenza di pseudo-elezioni, ad uso e consumo soprattutto della comunità internazionale.

Il caso del Togo è emblematico. Il padre, Etienne Gnassingbé Eyadéma, è stato uno dei grandi "dinosauri" della politica africana. Arrivato al potere con un colpo di Stato nel 1967, ha "regnato" con pugno di ferro e sanguinaria brutalità, sino alla morte nel 2005. Istantanea la reazione del figlio, Faure Gnassingbé, che non con la forza delle armi, ma con quella del diritto, è riuscito a ordire, nell'arco di poche ore, una sorta di "colpo di Stato costituzionale". Da ministro viene nominato deputato e quindi eletto presidente dal Parlamento, carica che gli ha permesso di gestire l'interim sino alle elezioni dell'aprile 2005 che, in un clima di guerra civile, lo hanno consacrato presidente. Nel frattempo, un altro figlio di Eyadéma (di un'altra moglie), ex ministro della Difesa dal 2005 al 2007, veniva arrestato per un tentativo di colpo di Stato. Insomma, sporchi affari di famiglia, che tuttavia continuano ad avere pesanti ripercussioni su questo piccolo Paese dell'Africa occidentale, dove il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali - di opinione, stampa, associazione - restano ancora un miraggio.

Inutile dire che Faure Gnassingbé è il candidato favorito pure nella prossima tornata elettorale di fine febbraio. Anche perché il suo apparato, consolidato da quasi quarant'anni di dittatura paterna - ampiamente sostenuta dalla Francia - ha messo in campo tutta una serie di misure intimidatorie per scoraggiare la gente dal recarsi alle urne.  

   

SCENDENDO un po' più a sud, verso l'Africa centrale, la situazione non cambia di molto. Anzi, esistono parecchie analogie con le vicende del Gabon e del suo vecchio patriarca Omar Bongo Ondimba, detto "Obo". Pure lui al potere dal 1967, ha gestito a suon di petroldollari le relazioni interne, con i suoi fin troppo malleabili oppositori, ed esterne, specialmente con l'inossidabile alleato francese e le sue compagnie petrolifere Elf e Total. Sino alla morte, lo scorso giugno, a 73 anni d'età e 42 di potere. Lascia un Paese che potrebbe essere tra i più ricchi al mondo (è il quarto produttore di petrolio in Africa subsahariana e il secondo esportatore di legname pregiato), dove la metà dei suoi abitanti (un milione e mezzo!) vive al di sotto della soglia di povertà.

Anche in questo caso, la transizione è stata un mero affare di famiglia. Il figlio, Ali Bongo Ondimba, ex ministro della Difesa, è succeduto al padre, in seguito alle elezioni vinte lo scorso 30 agosto e contestate dalle opposizioni. Si è presentato come un riformatore e per questo i suoi concittadini lo hanno ribattezzato "TsunAli". Ma sta di fatto che la gestione del Gabon resta ancora oggi sostanzialmente un affare di famiglia. Innanzitutto perché la potentissima grande soeur, la sorella maggiore Pascaline, braccio destro del padre e direttore del suo gabinetto, continua ad avere un enorme peso: non solo nella gestione della fortuna di famiglia, ma anche in veste di vice-presidente di Total-Gabon e di presidente di Gabon Mining Logistic. E a chiudere il cerchio, il suo compagno, Jean-François Ndongou, riconfermato da Ali al ministero dell'Interno, dopo vent'anni di vari incarichi governativi con Omar. Quanto all'altro fratello, Christian Bongo, mantiene la direzione generale della Banca gabonese di sviluppo (Bgd), nonostante alcune frizioni che gli hanno impedito di mettere le mani anche sulla compagnia aerea di Stato.

Resta lo strascico di quattro inchieste aperte dalla magistratura francese, che vedevano coinvolto Omar Bongo. Una di queste, per malversazione di fondi pubblici e acquisto di beni in Francia per 160 milioni di euro, coinvolge anche il presidente della Repubblica del Congo Sassou Nguesso (di cui Omar Bongo aveva sposato la figlia) e il presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema. Ovvero altre due importanti famiglie-Stato africane.

QUELLA di Obiang Nguema, succeduto con un colpo di Stato allo zio Francisco Macías Nguema nel 1979, è una vera e propria cleptocrazia familiare, che sta dissanguando la piccola isola del golfo di Guinea, ricchissima di petrolio (è il terzo produttore subsahariano). La rivista Forbes stima il patrimonio personale di Obiang attorno ai 600 milioni di dollari e lo colloca all'ottavo posto nella classifica degli uomini più ricchi al mondo. Il figlio Teodorin, probabile successore, dichiara un reddito di cinquemila dollari al mese, ma possiede una casa da 35 milioni dollari a Malibu, due Ferrari, tre Bugatti, una limousine Rolls Royce e due Maserati.

Anche qui, il presidente-padrone Obiang Nguema non ha rinunciato alla farsa delle elezioni e, nel novembre del 2009, si è presentato alle presidenziali boicottate dall'opposizione. I dati ufficiali parlano di un 95,37 per cento dei consensi (nel 1996 aveva ottenuto il 99 cento!) e di un tasso di partecipazione pari al 93 per cento degli aventi diritto.

 

PIÙ RECENTE, ma non meno inquietante, la dinastia dei Kabila che si è instaurata in Repubblica Democratica del Congo, dopo la caduta del maresciallo Mobutu Sese Seko, nel maggio del 1997. Storia, in entrambi i casi, di grandi entusiasmi e grandi delusioni. Laurent-Dèsiré Kabila porta al potere l'anelito di un popolo che chiede una svolta, dopo la trentennale dittatura di Mobutu. Viene assassinato nel gennaio del 2001 e, in maniera alquanto acrobatica, il potere passa al giovane figlio Joseph Kabila, allora ventinovenne. Kabila junior riesce, sì, a organizzare, nel 2006, le prime elezioni libere nella storia del Paese. E anche a farsi eleggere con una parvenza di democrazia. Ma lascia aperti tanti fronti oscuri, legati specialmente allo sfruttamento delle enormi risorse del Paese. Sfruttamento che vede coinvolti i Paesi limitrofi, con Ruanda in testa, nelle regioni orientali, destabilizzate da quindici anni di guerra e violenza (cfr dossier M.M., dicembre 2009) e sempre più dalla onnipresente Cina.

UN CASO A SÉ è quello del Botswana, dove Ian Khama è stato confermato lo scorso 16 ottobre capo dello Stato. Cinquantasei anni, meticcio e celibe, "eredita" la carica del genitore Seretse Khama, re della tribù dei bamangwato, primo presidente del Botswana e "padre della patria". In realtà, tra padre e figlio si sono alternati i governi di Ketumile Joni Masire e Festus Mogae. Tuttavia, già all'età di 24 anni Ian Khama guida l'esercito, nonché concentra nella sua figura di primo ministro, all'epoca di Mogae, gran parte dei poteri. I suoi detrattori ne parlano come di un antidemocratico, più vicino allo spirito dei regni tradizionali e dell'esercito. Ma il fatto che non sia sposato - e che ufficialmente non abbia figli - è perlomeno garanzia che con lui la dinastia appena iniziata possa presto finire.

Altre, invece, potrebbero essere inaugurate a breve. Persino in Stati dalla reputazione democratica come il Senegal. Qui, per la prima volta in Africa, il principale oppositore al partito di Léopold Sédar Senghor e Abdou Diouf, l'attuale presidente Abdoulaye Wade, è riuscito a vincere le elezioni nel 2000, mostrando al mondo interno che anche in Africa un'alternanza politica è possibile. Solo che ora l'"era Wade" (che oggi ha 83 anni) potrebbe concludersi con... un'altra "era Wade". Da Abdloulaye a Karim, il figlio quarantenne che, nonostante abbia perso le elezioni per diventare sindaco di Dakar, viene proposto come futuro presidente del Senegal nel 2012. Nel frattempo, il padre gli ha ritagliato un ministero ad hoc: quello della Cooperazione internazionale, del Territorio, dei Trasporti aerei e delle Infrastrutture.

 

E DI POSSIBILI successioni in famiglia si parla anche nel Nordafrica. Cosicché quelle che molti definiscono "democrature" - ovvero democrazie-dittature - potrebbero presto trasformarsi in una sorta di monarchie ereditarie. In Algeria, ad esempio. Qui il presidente Abdelaziz Bouteflika, 72 anni, ha cambiato la Costituzione per farsi eleggere per la terza volta nell'aprile del 2009 (ufficialmente con il 90,4 per cento dei consensi). Da tempo, però, a causa di una grave malattia, circolano voci circa un possibile passaggio dei poteri al fratello.

Anche nella vicina Libia si parla del figlio per prendere il posto dell'intramontabile padre, il colonnello Muammar Gheddafi, 77 anni, al potere da mezzo secolo. Mentre in Egitto il presidente Hosni Moubarak, 81 anni, che invece governa (solo) da trent'anni, starebbe preparando il figlio Gamal, 46, a prendere il suo posto nel 2011, sempre che non decida lui stesso di ricandidarsi.

Intanto, in Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali, 73 anni, secondo presidente del Paese dal novembre 1987, è stato rieletto per la quinta volta nell'ottobre 2009 con (solo) l'89,62 per cento dei voti. In passato aveva fatto meglio (nel '94 aveva ottenuto il 99,81 per cento delle preferenze!) e forse spera di rifarsi in futuro. Lui, per il momento, continua imperterrito a candidare se stesso

  

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ASIA

La donna in Asia, fra violenza e povertà, trova forza nell'Eucarestia

Agenzia Fides - Dacca - 2 febbraio 2010

  

"La violenza sulle donne è molto diffusa in Asia meridionale. La povertà delle donne è fortissima. Nelle società dei paesi dell'Asia meridionale il pregiudizio e la discriminazione delle donne sono nella cultura dominante. La religione, e in particolare la fede cattolica, sono per le donne una strada per recuperare la propria dignità, autostima e identità": è quanto afferma in un colloquio con l'Agenzia Fides Virginia Saldhana, responsabile dell'ufficio dedicato alle donne, nell'ambito del Ufficio per il Laicato e la Famiglia della Federazione delle Conferenze Episcopali Asiatiche (FABC), a margine di una recente seminario della FABC dedicato alle donne in Asia del Sud.

Al Forum, tenutosi a Dacca (in Bangladesh), e intitolato "Donne che vivono l'Eucarestia in Asia meridionale", hanno partecipato religiosi, laici e in prevalenza donne cattoliche dei paesi dell'area. Il Seminario ha focalizzato i principali problemi che toccano la condizione femminile, incoraggiando le Chiese locali a rispondere con impegno alle sfide imposte dalla mancanza di diritti e dignità delle donne.

"Abbiamo cercato di spiegare alle donne che possono vivere l'Eucarestia con un senso e un significato nuovo: non solo come rifugio per le loro sofferenze, ma come sorgente di forza per agire nella promozione umana e sociale della loro condizione", spiega a Fides Virginia Saldhana.

"Impegnarsi e prendere l'iniziativa a volte comporta dei rischi. Ma dall'Eucarestia le nostre donne possono attingere il coraggio di farsi pane spezzato per gli altri" aggiunge, come hanno spiegato le esperienze raccontate da diverse donne durante il meeting.

"Abbiamo riflettuto sulla vita di Maria e su come la Vergine ha vissuto l'Eucarestia nella sua vita. Il suo esempio è stato di forte impatto su tutte le donne partecipanti, che hanno apprezzato il modello di Maria come donna che parla loro nel XXI secolo", nota la responsabile FABC.

"Le donne sono parte essenziale della missione della Chiesa e per loro vivere in pienezza la vita cristiana significa anche portare avanti senza paure il discorso sulla propria dignità", sottolinea Saldanha.

"Da parte nostra vogliamo incoraggiare ogni Chiesa locale in Asia e riconoscere il ruolo fondamentale della donna nella missione della Chiesa: nella famiglia, nella comunità, nella pastorale ecclesiale, nel dialogo interreligioso", conclude. (PA) 

 

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EUROPA

Immigrazione: Consiglio d'Europa, "non chiamateli illegali"

Misna - 4 febbraio 2010   

       

"La criminalizzazione relativa all'ingresso e alla presenza di immigrati irregolari nei paesi europei contravviene ai principi stabiliti dalle norme di diritto internazionale": lo afferma il commissario per i diritti umani al Consiglio d'Europa Thomas Hammarberg in un documento presentato oggi a Bruxelles sulle ricadute, in termini di violazione dei diritti umani, delle politiche che criminalizzano l'immigrazione. "Ho constatato con crescente preoccupazione il diffondersi di questa tendenza presentata addirittura come uno dei punti portanti delle strategie di gestione dell'immigrazione" precisa Hammarberg, aggiungendo che "i paesi hanno un diritto legittimo a controllare le loro frontiere, ma la criminalizzazione è una misura sproporzionata, che può avere come conseguenza la stigmatizzazione e marginalizzazione dei migranti". Il commissario raccomanda inoltre di abolire l'uso del termine "immigrazione illegale" sia nelle dichiarazioni pubbliche sia sulla stampa sottolineando che "la scelta del linguaggio è molto importante per l'immagine che le autorità inviano alla loro popolazione e al resto del mondo". L'essere immigrato può in tal modo associarsi, attraverso un uso improprio del linguaggio, "ad atti illegali previsti del codice penale - avvisa Hammarberg - con la conseguenza che tutti gli immigrati vengono macchiati col sospetto". Il documento fa un quadro delle norme vigenti nei 47 paesi del Consiglio d'Europa e sulle direttive Ue, rilevando "una crescente presenza dell'aspetto illegale dell'immigrazione a partire dal 2003". Lo studio cita esplicitamente l'Italia ricordando la legge, approvata nel 2008, che fa diventare reato l'affitto di locali a immigrati irregolari e ricorda la proposta avanzata nel 2009 per eliminare dal cosiddetto 'pacchetto sicurezza' l'obbligo per il personale medico di informare le autorità sulle richiesta di assistenza da parte di immigrati irregolari. Hammarberg sollecita inoltre i governi "a non introdurre reati che si applicano 'esclusivamente' a cittadini stranieri" in modo da "separare i cittadini europei dagli stranieri [...] facendo passare il messaggio che il contatto con loro è rischioso e può portare ad azioni penali". Il commissario osserva inoltre "nessuno dovrebbe essere sottoposto a detenzione per il solo fatto di non essere cittadino di un certo paese" così come non ci dovrebbero essere "differenze di accesso di servizi sociali sulla base esclusiva della nazionalità". [AdL]  

 

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Migranti e diritti, voci contro la "fortezza Europa"

Misna - 5 febbraio 2010    

              

"Si negano i diritti fondamentali ai cittadini non comunitari" dice Don Fredo Olivero, direttore regionale della Pastorale per i migranti in Piemonte, dopo la pubblicazione del documento del Consiglio d'Europa che denuncia la tendenza a "criminalizzare" i cosiddetti "irregolari". Nel rapporto, diffuso ieri dal Commissario per i Diritti umani Thomas Hammarberg, si prendono in considerazione le norme in vigore nei 47 paesi membri del Consiglio, organismo distinto dall'Unione Europea, costituito nel 1949 con il Trattato di Londra per promuovere la democrazia, i diritti dell'uomo, l'identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali. "I paesi hanno un diritto legittimo a controllare le frontiere - si afferma nello studio - ma la criminalizzazione è una misura sproporzionata, che non può avere come conseguenze la stigmatizzazione e la marginalizzazione dei migranti". Nel rapporto si evidenzia in particolare il rischio di una discriminazione fondata sulla "nazionalità" nell'accesso ai servizi sociali di base. Questi timori hanno attraversato il dibattito italiano prima e dopo l'entrata in vigore ad Agosto del cosiddetto "pacchetto sicurezza", un complesso di norme che introducono tra l'altro il reato di cosiddetta 'immigrazione clandestina'. "Questa nuova fattispecie - sottolinea don Olivero - è lo strumento attraverso il quale si vogliono negare diritti essenziali, nel campo dell'istruzione come della salute". Da Agosto i genitori senza permesso di soggiorno che iscrivano i loro bimbi a scuola rischiano un processo penale, mentre medici e responsabili di strutture ospedaliere possono denunciare agli organi di polizia pazienti privi di regolare permesso di soggiorno. Alla MISNA don Olivero dice che l'applicazione di queste norme risulta a volte difficile. Una convenzione dell'Onu a tutela dei minori, sottoscritta nel 1992 anche dall'Italia, impone di accogliere a scuola bambini figli di "irregolari". Grazie alle norme della Costituzione che riservano competenze legislative esclusive in materia di sanità alle Regioni, dal Piemonte in giù diverse amministrazioni hanno emesso circolari con le quali vietano le denunce e ribadiscono che non si possono utilizzare prestazioni mediche per riferire di un reato. Piccole buone notizie per i migranti, che non mutano però un quadro reso ancora più difficile dalla crisi economica. "A partire dai sussidi di disoccupazione - dice il direttore della Pastorale piemontese - per gli immigrati irregolari i servizi sociali restano tabù".[VG]  

   

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ARABIA SAUDITA

Discriminazione e intolleranza religiosa i mali del paese di Nirmala Carvalho

AsiaNews - New Delhi - 5 febbraio 2010

Cristiano di origini indiane, O'Connor ha trascorso sette mesi nelle carceri del regno con la falsa accusa di proselitismo. Egli sottolinea che i "poteri illimitati" della polizia religiosa perpetrano crimini e violenze. E prega ogni giorno per il Paese, i governanti e gli amministratori.  

      

Nella società saudita "discriminazioni e intolleranza" sono un dato di fatto "evidente", aggravato dai "poteri illimitati" di cui gode la muttawa - la polizia religiosa del regno - che perpetra crimini, violenze e favorisce un sistema diffuso di corruttela. È quanto afferma Brian Savio O'Connor, cristiano di origini indiane, per 7 mesi e 7 giorni prigioniero, incatenato e torturato, in un carcere saudita con l'accusa di proselitismo.

Per la sua liberazione AsiaNews aveva lanciato una campagna internazionale. Al 41enne cristiano del Karnataka - che ha avviato un centro per bambini orfani, aperto a ogni fede religiosa - abbiamo chiesto di commentare i risultati di un'inchiesta sulla situazione politica e sociale dell'Arabia Saudita, realizzata con un sondaggio effettuato nel novembre 2009 da Pechter Middle East Polls, istituto demoscopico privato con base a Princeton (Stati Uniti).

      

Di seguito riportiamo l'intervista di Brian Savio O'Connor ad AsiaNews:

          

Signor O'Connor, dove nasce il problema legato alla corruzione?

Fino a quando il regno non permetterà una piena libertà religiosa e non rispetterà lo spirito di reciprocità, la corruzione continuerà ad affliggere la società saudita e avrà conseguenze disastrose a livello sociale. La muttawa gode di poteri illimitati e sfrutta la propria posizione per colpire i fedeli di altre religioni; pregare in abitazioni private è causa di arresti e condanne al carcere.

        

Quali episodi di corruzione ha testimoniato durante la prigionia?

[Il carcere] è il paradiso per la corruzione, per i secondini ogni favore può essere "comprato al prezzo giusto", e per i non-musulmani la situazione è anche peggiore. Le autorità carcerarie utilizzavano mezzi sottili per convincermi ad abiurare la mia fede e abbracciare l'islam. E questo accadeva a moltissime persone, imprigionate con accuse del tutto inventate. Il solo fatto di cambiare il proprio nome in Mohammedan poteva servire per godere di alcuni benefici. Il potere arbitrario della polizia religiosa ha contribuito ad innalzare il livello del fondamentalismo, che ha delle ripercussioni nello sviluppo sociale, nella giustizia e nei diritti umani.

 

Può descrivere ai lettori le sue giornate in Arabia Saudita?

Nella società saudita la discriminazione e l'intolleranza verso i non-musulmani sono evidenti e hanno raggiunto livelli preoccupanti. La mancanza di trasparenza causa violenze arbitrarie verso i non musulmani, che portano poi a violazioni dei diritti umani. A mio parere, la rigidità della società saudita e la negazione della libertà religiosa portano alla diffusione del fondamentalismo. Comunque, dalle ultime testimonianze che ho ricevuto a Riyadh, la città dove ho vissuto, la muttawa ha allentato la morsa, attacchi e intimidazioni sono in diminuzione e questo è incoraggiante.

 

A suo parere, cosa può aiutare il Paese a liberarsi dall'estremismo e dalla corruzione?

È risaputo che in Arabia Saudita non vi è un riconoscimento legale della libertà religiosa e questo apre la strada a pene per corruzione imposte in base all'ordinamento giuridico. Al fine di sradicare la fonte di corruzione, è urgente una legge che assicuri protezione per i fedeli di tutti i gruppi religiosi, mettere fine agli attacchi verso i gruppi religiosi e promuovere il valore della tolleranza.

 

Cosa ci può dire dei musulmani. La loro situazione è migliore?

Per i nostri fratelli e sorelle musulmani, il problema religioso non si pone. Tuttavia, un contesto legislativo così rigido in materia di libertà religiosa ha ripercussioni anche per loro. Per quanto concerne la mia esperienza, da un lato gli esperti di legge islamica cercano di imporre una visione dogmatica del mondo, e una visione dogmatica nell'interpretazione della realtà, dei testi religiosi, al fine di controllare il singolo individuo e l'intera società. Dall'altra parte, essi scoraggiano quanti sfidano la loro visione del mondo e si oppongono in maniera ferma ai valori democratici e al pluralismo.

 

E la sua vita, come è cambiata dopo la prigionia nelle carceri saudite?

Mi sono sposato. Io e mia moglie Liza abbiamo due bambini. Vivo a Hubli, nel Karnataka e abbiamo avviato un centro intitolato: "Disciple Training Centre". Vogliamo diffondere la fede fra i pastori e i laici. Prego ogni giorno per il regno saudita, per i governanti e gli amministratori, affinché concedano la libertà religiosa, per il bene della nazione e di tutto il popolo.

    

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BANGLADESH

Medici italiani al St. Vincent Hospital di Dinajpur di Bruno Guizzi

Dinajpur - 17 febbraio 2010

       

Da qualche anno, nel mese di novembre, all’ospedale St. Vincent di Dinajpur arriva puntualmente un’equipe medica.

I dott. Giuseppe Vincelli, chirurgo e Fabrizio Pugliero, anestesista, hanno deciso di donare al Bangladesh parte delle loro vacanze e della loro esperienza.

Con loro arriva anche un gruppo di infermieri con l’aiuto dei quali, unitamente al personale locale, è possible effettuare 4/5 operazioni al giorno, essenzialmente nel campo ginecologico/ostetricio.

Come è noto agli amici di Banglanews l’Ospedale, dopo la scomparsa nel febbraio 2003 di p. Faustino Cescato che, per vari anni lo aveva amorevolmente diretto, è sotto la direzione di p. Giulio Berutti che, oltre a quest’incarico ed a quello della direzione delle Credit Unions (Cooperative di risparmio) della diocesi di Dinajpur ha recentemente, dopo le dimissioni per limiti di età di p. Adolfo L’Imperio, assunto anche la responsabilità del Programma diocesano di prevenzione della lebbra. Quest’ultimo ha un ospedale a Dhanjuri e 17 piccoli dispensari che vengono visitati dai dottori almeno una/due volte per settimana.  

    

L’Ospedale St. Vincent ha 90 posti letto e nel 2009 ha accolto 27602 pazientixgiorno ed effettuato 1280 operazioni chirurgiche di vario genere.

L’ospedale, unica struttura di questo tipo della nostra diocese, è naturalmente aperto a tutti e la stragrande maggioranza dei malati è musulmana ed indù.

Particolarmente attrezzato è il reparto ostetricia, nel quale nascono 5/6 bambini al giorno, talvolta anche con parto cesareo. (vedi foto a lato)

Recentemente è stata istituita nella diocesi anche un’assicurazione medica che permette, con una cifra irrisoria (1,50€ all’anno) a tutte le famiglie di coloro che sono soci delle Credit Unions (ben 17 uffici nelle parrocchie della diocese) di poter usufruire, per tutta la famiglia, di cure mediche completamente gratuite.

E’ bene ricordare che, in Bangladesh, le strutture ospe- daliere governative sono sovraf- follate, spesso i pazienti per mancanza di spazio sono costretti a dormire anche per terra, i loro accompagnatori devono provvedere alla pulizia, ai pasti ed all’acquisto di medicinali.

Strutture private sono invece spesso all’avanguardia, in vari campi della medicina, ma i costi dei ricoveri e degli interventi sono a totale carico del paziente e quindi oltre il 90% della popolazione non può assolutamente permetterseli.

Il St. Vincent colma un po’ questa lacuna, se le strutture dell’ospedale non permettono determinate cure o analisi, l’ospedale si fa carico di mandare, a proprie spese, il paziente nelle cliniche specializzate.

La venuta di equipe mediche straniere porta sempre anche una ventata di simpatia, di amicizia, di solidarietà, di scambio reciproco di esperienze.

A Khulna, dove le Suore di Maria Bambina hanno un attrezzatissimo ospedale, ed a Jessore nell’ospedale dei Saveriani, la venuta di equipe mediche italiane è molto più frequente e talvolta anche da Dinajpur i pazienti sono inviati a queste due strutture che, nel corso di tutto l’anno, assicurano la presenza di personale altamente specializzato in molti campi della medicina.

       

Non possiamo infine dimenticare I quattro anni di servizio dei dott. Gildo Coperchio e Claudio Modanutti, fratelli saveriani che hanno portato nell’ospedale tutta la loro esperienza (medica e missionaria!) e la loro vitalità.

A loro e a tutti i medici e gli operatori sanitari italiani che vengono in Bangladesh un grazie di cuore dap arte di tutti i malati di questo paese.

Sarebbe in futuro auspicabile la venuta in Bangladesh di fisioterapisti, per curare I bambini con disabilità di vario genere, attualmente ospitati a Dhanjuri, ma privi di assistenza da parte di personale specializzato.

 

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Schegge di Bengala - 53 (prima parte) di p. Franco Cagnasso

Dhaka - 23 febbraio 2010 

 

Randagi

Tempo fa una “Scheggia” segnalava l’approvazione di una legge che proibisce la mendicità in Bangladesh, chiedendosi (senza trovare risposta) che cosa mai avesse spinto il parlamento a prendere un provvedimento che tutti sanno essere assolutamente impraticabile. Lo scetticismo della “Scheggia” era ingiustificato. Dopo molti mesi in cui nulla è cambiato, ora si passa ai fatti: ogni tanto un camion della polizia parte e raccatta i mendicanti di una strada o di un quartiere, fino a esaurimento (dei posti sul camion). Li porta in periferia, li fa scendere tutti, e se ne va...

 

20 febbraio

A Dhaka, e in tutte le città del Paese, la sera centinaia di migliaia di persone, soprattutto giovani, convergono – a piedi nudi – al Shahid Minar, il principale monumento ai martiri. A mezzanotte in punto, quando scatta l’inizio della giornata che nel 1952 vide morire i primi martiri in difesa della lingua bengalese, depongono corone di fiori, cantano, esprimono il loro amore per la cultura bengalese.

 

Viste dal caldo

Giornalista, opinionista, commentatore politico e sociale, tuttologo, Fakhruddin Ahmed ha lo stesso nome dell’ex primo ministro del governo speciale – ma non è lui. Sul Daily Star del 22 febbraio 2010 vivacemente si chiede: chi partecipa alle Olimpiadi Invernali? Quelli del Nord: Norvegia, Svezia, Germania, Canada e compagnia bella non solo hanno un sacco di soldi, ma pure il freddo necessario a divertirsi sulla neve. Ma potrà mai un Bengalese, un Ciadiano, un Cambogiano, un Congolese prepararsi e partecipare? Neve e soldi vanno insieme, e i ricchi hanno imposto ai giochi sulla neve il titolo di “Olimpiadi”, che invece dovrebbero essere universali. Continuino pure a scivolare sui ridicolissimi slittini, ma non usurpino un nome che dev’essere per tutti!

      

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Gli 80 anni di p. Adolfo di Bruno Guizzi

Dhanjuri - 28 febbraio 2010

      

Oggi, 28 febbraio 2010, padre Adolfo ha compiuto ottanta anni, oltre metà dei quali passati in Bangladesh. Il mese di febbraio, iniziato con la benedizione della nuova casa vescovile di Dinajpur non si poteva concludere meglio!

Lo abbiamo gioiosamente festeggiato, a Dhanjuri, sua prima destinazione in Bangladesh nel lontano 1969.

Allora il Bangladesh non esisteva ancora, il paese infatti si chiamava East Pakistan e la capitale era Karachi, ad oltre duemila chilometri di distanza. Nella spartizione del subcontinente indiano infatti gli inglesi, ansiosi di ... scappare, avevano diviso l’enorme paese in due stati, in base alla religione.

Il governo pakistano aveva sempre sfruttato il Bengala orientale e già nel 1952 era scoppiata una rivolta per proteggere la loro madrelingua (i lettori di Banglanews avranno letto qualcosa sul numero della scorsa settimana).

Appena due anni dall’arrivo di padre Adolfo scoppia la guerra di liberazione che termina con la creazione di uno stato indipendente, il Bangladesh.

Sono anni terribili: fame, carestia, calamità naturali, ma pian piano con mille difficoltà il paese riesce a risollevarsi.

Allora contava 70 milioni di abitanti e la capitale: Dhaka appena 500.000. Oggi la popolazione sfiora i 150 milioni e Dhaka, con i suoi 15 milioni e con il ritmo di urbanizzazione attuale sarà, secondo le stime dell’ONU, nel 2025 una delle quattro megalopoli più popolose di tutto il pianeta.

Negli anni settanta padre Adolfo ha diretto le operazioni della Caritas nel nord del paese e, quindi, non ha potuto restare a lungo nella sua Dhanjuri, con i suoi Santal ed i suoi lebbrosi.

In tutti questi anni ha un po’ girato come una trottola in tutta la diocesi di Dinajpur, costruendo scuole, chiese, ostelli, dispensari.

Per una decina di anni è anche stato parroco della Cattedrale di Dinajpur e direttore del progetto lebbra, ma recentemente ha dato le dimissioni da entrambi gli incarichi, per limiti di età. Come se non bastasse ha anche costruito una cattedrale in Myanmar (Birmania) e per qualche anno è stato economo generale del Pime.

Quando in Italia uno va in pensione (spesso vent’anni prima di quando ci è andato padre Adolfo), normalmente si riposa e al limite porta a spasso i nipotini o passa il tempo con qualche hobby.

Padre Adolfo è andato in pensione soltanto “sulla carta” nel senso che continua imperterrito a lavorare come e più di prima, aiutando in particolare malati, bisognosi, giovani in attesa di inserirsi nella società etc etc...

Dhanjuri è sempre stato il suo primo amore (corrisposto!!) ed è qui che, negli ultimi anni, si è maggiormente impegnato. Ricordiamo soltanto che lo scorso anno è stato inaugurato il nuovo boarding dei bambini, la nuova chiesa e la nuova scuola, poco prima aveva realizzato il fabbricato per la fisioterapia, i due refettori e la lavanderia, all’interno del lebbrosario. Ed inoltre sta terminando i lavori di rifinitura del nuovo palazzo vescovile, da poco inaugurato.

Ora potrebbe essere soddisfatto e godersi un po’ di tranquillità ma i lavori che ha in cantiere sono ancora molti e sarebbe addirittura troppo lungo elencarli.

Particolare cura viene da lui data ai ragazzi del boarding di Dhanjuri, che finalmente possono vivere in un ambiente sano ed accogliente. La sfida adesso è quella di migliorare il livello dell’istruzione, senz’altro più alto di tante scuole governative, ma non ancora accettabile secondo i nostri criteri. Sarà un processo lungo e per fortuna l’arrivo di padre Michele Brambilla darà sicuramente ad esso un contributo determinante.

           

La festa a Dhanjuri si è svolta... secondo programma..., a farne le spese purtroppo è stato un maiale di un centinaio di chili, sacrificato per l’occasione... ma c’era da far mangiare oltre cinquecento persone... un pezzettino per uno non fa male a nessuno.  

Particolarmente commovente e' stato poi il saluto che hanno voluto fare tutti i malati del lebbrosario. Padre Adolfo aveva celebrato la messa nella Chiesa di Dhanjuri e, successivamente una seconda messa nella cappella del lebbrosario. I pazienti cattolici vi hanno partecipato tutti, quelli musulmani lo hanno invece pazientemente atteso e, tutti insieme, lo hanno ringraziato per l'aiuto che hanno ricevuto in questi quaranta anni.

           

Le foto mostrano qualche momento della festa (qui si chiama Onustan).

Alla sera ritorno a Dinajpur e prosecuzione dei festeggiamenti nella Pime House di Suihari, con tanti confratelli.

Domani è un altro giorno ma già ho sentito che i bambini della cattedrale vogliono anch’essi fare una festicciola al loro vecchio parroco.

Ed allora BUON COMPLEANNO ed a rivederci al 28 febbraio 2011! 

    

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Piano decennale di sviluppo delle forze armate di William Gomes

AsiaNews  - Dhaka -5 febbraio 2010

Gli investimenti per 490 milioni di dollari complessivi serviranno per ammodernare le difese aeree, navali e terrestri. Il programma lanciato dall'esecutivo criticato da una fetta dell'opinione pubblica, che chiede maggiori risorse per la sanità e i trasporti. In Bangladesh circa metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà.  

              

Il governo del Bangladesh ha presentato un piano decennale di sviluppo per le forze armate, che interessa l'esercito, la marina e l'aviazione. Un investimento complessivo che comprende l'acquisto di armi e veicoli militari, presentato ieri a Dhaka da A.k. Khandker, Ministro per la pianificazione con delega alla difesa, per un volume di affari pari a 338 miliardi di taka (circa 490 milioni di dollari). Intanto la popolazione resta fra le più disagiate al mondo, con metà circa dei cittadini che vive sotto la soglia di povertà.

Il ministro ha spiegato che il denaro verrà utilizzato per comprare carri armati, armi, elicotteri, raddoppiare la fabbricazione interna di armamenti attraverso investimenti pubblici, caserme e centri per l'alloggio di veicoli militari. Egli ha inoltre aggiunto che è in programma l'acquisto di due aerei per il pattugliamento dei mari e la costruzione di cinque imbarcazioni, già avviata nei cantieri navali di Khulna, la terza città per importanza del Bangladesh.

Il governo, nel piano decennale di sviluppo, ha inserito pure l'ammodernamento delle difese aeree grazie all'innesto di jet da caccia, missili aria-aria, un sistema missilistico terra-aria, un sistema di controllo radar e due elicotteri.

Gli investimenti nelle forze armate rientrano in un quadro più ampio di sviluppo mirato a sostenere, entro il 2017, un livello di crescita del Prodotto interno lordo (Pil) del 10%. L'esecutivo ha avviato al contempo una campagna di lotta alla povertà e alla corruzione; la scelta di investire in maniera massiccia negli armamenti, tuttavia, ha incontrato numerose critiche nell'opinione pubblica del Paese.

Nell'anno fiscale 2008/9 il bilancio per la difesa ha rappresentato l'ottavo settore di investimento nazionale, con un volume di spesa pari al 6,4%. Esso supera altri settori essenziali quali i Trasporti e le comunicazioni (6,1%), la Sanità (5,9%), la Sicurezza pubblica (5,6%).

Il Bangladesh ha una popolazione di circa 143 milioni di abitanti ed è al 140° posto al mondo nell'indice di sviluppo umano. Stime del 2007 riferiscono che solo 3,2 abitanti su mille hanno accesso a internet e l'analfabetismo si attesta attorno al 59%. Il reddito annuale pro-capite è di circa 470 dollari Usa.  

 

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Il tasso di abbandono dalla scuola deve essere ridotto

New Age - 5 febbraio 2010

Libera traduzione ed adattamento a cura di Banglanews. L'articolo originale sull'edizione inglese

           

L'istruzione per tutti è una delle principali responsabilità del governo nei confronti dei suoi cittadini. Anche se l'iscrizione scolastica dei bambini e la parità di genere siano notevolmente migliorate in Bangladesh, i tassi di abbandono dalla scuola sono ancora allarmanti.

Secondo un rapporto di New Age del 4 febbraio, oltre il 41 per cento delle studentesse iscritte alla classe IX nell’anno accademico 2008-2009 hanno abbandonato la scuola, in quanto non si sono iscritte agli esami che inizieranno l’11 febbraio 2010. Un tale tasso di abbandono, anche per una singola sessione, è allarmante, ma quando la maggioranza di questi studenti inadempienti sono di sesso femminile, le preoccupazioni sono doppie.

Non è solo il numero di studenti iscritti ogni anno, nelle scuole e nelle università, in grado di garantire l'istruzione nel suo vero senso. Ciò che è altrettanto importante è se gli studenti iscritti hanno terminato il corso completo e, sopratutto, se hanno ricevuto un’istruzione di qualità. Ciò dipende da loro stessi, dai genitori, così come da molti altri fattori che vengono a giocare un ruolo importante.

Alcune delle cause principali di tale allarmante tasso di abbandono, come individuato dal ministero dell'istruzione, sono il matrimonio precoce delle studentesse, l'iscrizione di un numero significativo di studenti di sesso femminile solo per ottenere borse di studio che, per alcune scuole e madrasse,   sono elargite non in base al merito ma alla falsificazione del numero delle iscrizioni onde mantenere la propria licenza.

Siccome la maggioranza della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, è naturale che i genitori desiderino che i loro figli guadagnino qualcosa il più presto possibile e che le loro figlie si sposino quanto prima.

Questi genitori prenderanno in considerazione l'invio dei loro figli a scuola solo se ci sarà un adeguato  incentivo. E’ quindi estremamente importante che l’istruzione gratuita lo sia nel vero senso del termine.

Impartire un'istruzione di qualità dipende anche dalla capacità e dalla formazione degli insegnanti, onde rendere le lezioni più interessanti. Se gli insegnanti non sono qualificati, o sufficientemente motivati e ben addestrati, il risultato sarà non una diminuzione ma un aumento del tasso di abbandono.

Mentre da un lato il Bangladesh ha fatto notevoli progressi nell’aumentare il tasso di iscrizione alla scuola primaria e parallelamente la parità di genere, se non si abbasserà il tasso di abbandono il risultato finale sarà insoddisfacente.  

 

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Due seminaristi Khasia diventano i primi sacerdoti del loro gruppo etnico

Ucan - Moulovibazar - 2 febbraio 2010

Libera traduzione ed adattamento a cura di Banglanews. L'articolo originale sull'edizione inglese

      

L'ordinazione sacerdotale di due seminaristi Khasia è un momento "storico" per la Chiesa del Bangladesh, ha detto l'arcivescovo di Dhaka.

"Una nuova storia inizia per la tribù Khasia. E' una grande gioia per la Chiesa del Bangladesh, in quanto abbiamo due nuovi sacerdoti di questo gruppo etnico tribale, " ha detto Paulinus Costa, Arcivescovo di Dacca, durante l'ordinazione sacerdotale dei diaconi Oblati di Maria Immacolata Pius Pohdueng e Valentine Bawel Talang.

Hanno partecipato alla cerimonia circa 5.000 cattolici tribali e bengalesi, altri cristiani ed appartenenti ad altre religioni .

"Ora il popolo Khasia sarà in grado di prendere parte alla Messa nella nostra lingua, tradizione e cultura", ha detto padre Talang, 34. Padre Pohdueng ha poi aggiunto che i suoi fedeli Khasia potranno finalmente partecipare pienamente alle funzioni ed in particolare al sacramento della penitenza, in quanto la loro lingua, abbastanza difficile, è poco nota ai sacerdoti bengalesi e i tribali si vergognavano di parlare in bengoli, una lingua che non conoscono bene.

Un altro problema dei Khasia è il grado di istruzione molto basso ed il loro isolamento. Dei 30.000 Khasia presenti in Bangladesh l’80% è cattolico o presbiteriano, una piccola percentuale è battista.

I Khasia traggono il loro sostentamento, per la maggior parte, dalla vendita delle foglie di betel, una droga leggera che si trova in tutti i bazar del paese.

   

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Giubileo d’oro della prima scuola cattolica di Rajshahi

Ucan - Natore - 3 febbraio 2010

Libera traduzione ed adattamento a cura di Banglanews. L'articolo originale sull'edizione inglese

     

La prima scuola cattolica nella diocesi di Rajshahi, nota per il suo contributo all’innalzamento del tasso di alfabetizzazione nel nord-ovest del Bangladesh, ha celebrato i suoi 50 anni.

Circa 4.000 studenti, inclusi gli ex-allievi, ospiti ed autorità, alla presenza del Vescovo di Rajshahi e del Nunzio apostolico hanno partecipato alla celebrazione della St. Louis High School nella Chiesa di Borni. La scuola è stata il frutto dell’instancabile lavoro di Padre Angelo Canton, del Pontificio Istituto Missioni Estere.

Il missionario italiano era stato nominato parroco della parrocchia cattolica di Borni, a maggioranza bengalese, nel 1956 e aveva scoperto che quasi tutte le persone della zona erano analfabete.

Padre Canton ha iniziato con 40 studenti nel 1960 e ora la scuola ha ben 700 studenti. Gli studenti sono in gran parte cattolici bengalesi e tribali, ma la frequentano anche studenti appartenenti ad altre religioni.

Nel corso degli anni circa 2.000 studenti hanno superato l'esame finale.

Molti di loro occupano ora posizioni di prestigio ed uno addirittura è diventato un membro del Parlamento, ha aggiunto Padre Gomes.

Secondo il locale ufficio dell’istruzione del governo, il tasso di alfabetizzazione nel settore è di circa il 75 per cento e quando la Chiesa ha iniziato la scuola era praticamente nullo: l’1%.

Sujit Sarkar, un ex-studente indù, oggi professore alla Rajshahi University, ha detto a UCA News, "Questa scuola ha acceso la candela dell’istruzione, quando l'intera area era nel buio dell'ignoranza." Ha aggiunto il suo apprezzamento, dicendo: " Vorrei ringraziare tutti coloro ed in particolare i missionari cattolici, che ci hanno spianato la strada onde ottenere successo nella vita attraverso l'educazione ".

Secondo i dati del Catholic Directory, la diocesi Rajshahi ha un totale di 53.151 cattolici bengalesi e tribali suddivisi in 14 parrocchie e sei sub-parrocchie.  

 

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Dhaka dà il via libera all'esportazione di coccodrilli di William Gomes

AsiaNews - Dhaka - 1 febbraio 2010

Il governo autorizza l'unica azienda specializzata del Paese a inviare 67 esemplari in una università tedesca. Essi saranno utilizzati per studi scientifici e ricerche. Manager della Reptile Farm Ltd.: fonte di valuta estera "importante". L'obiettivo è raggiungere un volume di affari di 5 milioni di dollari entro il 2015.  

      

Per la prima volta nella sua storia, il Bangladesh avvia l'esportazione di coccodrilli a fini commerciali. Il 21 gennaio scorso, infatti, il Dipartimento governativo delle foreste ha autorizzato l'unica azienda specializzata del Paese, la Reptile Farm Ltd., a vendere i rettili in Germania. Il settore degli animali esotici offre un vasto mercato in Europa, Stati Uniti e in diversi Paesi asiatici. L'obiettivo è raggiungere una rendita di almeno 5 milioni di dollari entro il 2015.

Mushtaq Ahmed, direttore commerciale e CEO della Reptile Farm Ltd., spiega che il 31 agosto scorso l'azienda ha chiesto il permesso al governo di esportare 67 coccodrilli "ibernati" in Germania e di importarne 10 vivi dalla Malaysia. Dopo mesi di attesa, "il Dipartimento delle foreste ha dato il nulla osta" aggiunge il manager.

Ahmed conferma l'accordo raggiunto con l'università tedesca di Heidelberg, alla quale verranno consegnati 67 esemplari di varie dimensioni: da 22 cm a un metro e mezzo circa. Essi verranno utilizzati dai ricercatori per esperimenti e studi scientifici. "L'esportazione - commenta - partirà dal mese prossimo". La Reptile Farm Ltd., situata nel villaggio di Hatiber (distretto di Mymensingh), possiede 825 esemplari di coccodrillo d'acqua salata, di cui 67 di grossa taglia e i restanti di dimensioni medie e piccole.

 

Il manager sottolinea che il commercio dei rettili può costituire "una fonte di valuta estera importante" per il Paese. L'obiettivo è esportare più di 5000 pelli di coccodrillo all'anno e gettare le basi per guadagni che possono arrivare "fino a 5 milioni di dollari entro il 2015". Vi è infatti una massiccia richiesta di esemplari in diverse nazioni europee fra cui Francia, Germania, Italia e Spagna.

Pelle, carne, ossa dei rettili sono un bene ambito, insieme ai frammenti tratti dallo scheletro, che vengono utilizzati nell'industria dei profumi. Per rispondere alla domanda, aggiunge, è necessario creare "più aziende sul territorio".  

 

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CILE

Fine dell’allarme tsunami. In Cile oltre 700 morti

Asianews - Tokyo - 1 marzo 2010 
Nel Pacifico orientale onde fino a un metro, ma in alcuni villaggi della costa cilena lo tsunami ha fatto almeno 350 morti. Molto provate popolazione ed economia del Paese latinoamericano. Sale il prezzo del rame. La Cina promette 1 milione di dollari in aiuti d'emergenza.


L'allarme tsunami issato in tutto il Pacifico a causa del terremoto in Cile è stato levato. Per i Paesi del Pacifico orientale l'onda anomala non ha avuto effetti disastrosi, ma in Cile, vicino all'epicentro del sisma, lo tsunami ha spazzato via interi villaggi e fatto raddoppiare il numero di morti della catastrofe.
In un villaggio vicino a Conception, sono stati trovati almeno 350 corpi. Nel porto di Talcahuano le onde hanno trascinato per le strade della città 20 navi. Anche nel gruppo di isole Juan Fernandez, vicine alla costa cilena, vi sono cinque morti e diversi dispersi.
L'allarme tsunami era stato levato dopo il terremoto di sabato 27 febbraio in molti Paesi: Hawaii, Australia, Nuova Zelanda, Filippine, Giappone, ma le onde che sono arrivate sulle coste erano di circa un metro.
Il governo cileno ha dichiarato che finora vi sono 711 morti. Ma vi sono edifici crollati che contengono ancora morti o persone intrappolate. Oltre 10 mila truppe sono nella zona per mantenere l'ordine e un coprifuoco per evitare razzie di negozi e supermercati da parte dei sopravvissuti che cercano cibo e acqua.
Il sisma ha danneggiato centinaia di migliaia di case, sconvolto autostrade, distrutto ponti; comunicazioni ed elettricità non sono garantite.
L'economia è molto provata. Il Cile è il primo produttore mondiale di rame e sebbene il lavoro nelle miniere è stato ripreso da ieri stesso, oggi i mercati hanno fatto crescere il prezzo del metallo fino al 6% in più nel timore di una riduzione della produzione.
A Shenzhen e a Shanghai, le azioni delle miniere di rame cinesi sono cresciute del 6%. 
La Cina ha diramato oggi un comunicato in cui promette il dono di 1 milione di dollari Usa per aiuti d'emergenza al Cile.
Ieri Benedetto XVI ha invitato la comunità internazionale alla solidarietà con le popolazioni cilene.

     

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CINA

Continuano gli arresti dei dissidenti e lo scontro per le terre

AsiaNews - Pechino - 2 febbraio 2010

Le due maggiori minacce alla stabilità sociale cinese sembrano essere imbattibili. Nonostante gli sforzi di facciata del governo centrale, infatti, si moltiplicano i casi di confronto violento.  

       

Nonostante le aperture di facciata concesse dal governo centrale cinese, continuano senza sosta la repressione nei confronti dei dissidenti e gli scontri fra popolazione civile e agenti di pubblica sicurezza. Motivati principalmente dall'esproprio forzato delle terre, soprattutto nelle aree rurali delle province meridionali e centrali.

Il governo municipale della capitale ha messo sotto "detenzione leggera" due attivisti cinesi, Cha Jianguo e Gao Hongming. I due sono soggetti al controllo dell'autorità dal 27 e dal 29 gennaio. Sono guardati a vista, ma hanno avuto il permesso di rimanere nei propri appartamenti; se devono spostarsi, possono farlo soltanto su macchine della polizia.

L'unica spiegazione fornita dagli agenti è che i due sono sotto sorveglianza "perché così hanno ordinato le autorità superiori". Ovviamente, ai due dissidenti è ora impossibile contattare la comunità degli oppositori politici di Pechino. Entrambi hanno aiutato a fondare il Partito democratico cinese, nel 1998. Per questo, sono già stati entrambi arrestati con l'accusa di "sovversione anti-statale".

Il 27 gennaio, inoltre, un gruppo di operai del Gruppo Jiahe per lo sviluppo del Guangxi - una compagnia privata di investimenti terrieri - ha picchiato a sangue un uomo di 76 anni che aveva chiesto perché stessero strappando dei cavi elettrici dal suo terreno. Gli operai, armati di mazze e scudi, hanno attaccato Huang Jianxian senza preavviso. La popolazione locale è intervenuta in suo aiuto, ma senza successo.

La polizia, chiamata da alcuni residenti, è arrivata soltanto un'ora dopo. Più tardi, circa 200 residenti hanno manifestato davanti agli uffici della compagnia ma sono stati dispersi da agenti della pubblica sicurezza. La famiglia di Huang ha spiegato che il Gruppo ha fatto firmare all'anziano (analfabeta) un contratto di vendita del terreno e lo ha picchiato per le sue proteste.

La questione dell'esproprio dei terreni è una spina nel fianco del governo centrale cinese. Il 29 gennaio, Pechino ha pubblicato una bozza di regolamentazione che garantisce maggiori diritti ai venditori e meno impunità agli acquirenti, e ha chiesto alla società civile di commentarla. Per adesso, sembra che essa rappresenti un passo in avanti: ma la legislazione cinese viene molto spesso ignorata da chi, poi, la deve mettere in pratica.  

  

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COSTA D'AVORIO

Cinquant'anni d'indipendenza, è tempo di "riflessione"

Misna - 1 febbraio 2010    

          

Dando il via alle celebrazioni per il cinquantenario dell'indipendenza che accompagneranno la vita del paese per tutto il 2010, il presidente Laurent Gbagbo ha invitato a una profonda riflessione sul passato e sul futuro, sulla nozione d'indipendenza e sull'uso che se ne fa. Per farlo, in un discorso pronunciato ieri da Abidjan, ha parafrasato la favola del poeta francese Jean de la Fontaine 'La cicala e la formica': "Credo che in Africa abbiamo ballato troppo, cantato troppo e riso troppo. Ora - ha detto Gbagbo - dobbiamo sapere da dove veniamo e dove andiamo". Le relazioni della Costa d'Avorio con il suo ex colonizzatore, la Francia, si sono deteriorate a partire dal tentato golpe contro Gbagbo del Settembre 2002; l'episodio segnò l'inizio di una crisi politico-militare che dovrebbe essere archiviata con le prossime elezioni, previste tra fine Febbraio e Marzo. I festeggiamenti del cinquantenario culmineranno il 7 Agosto, anniversario dell'indipendenza, con un incontro di intellettuali internazionali nella capitale politica, Yamoussoukro. [CC]  

   

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ETIOPIA

Il record dei cristiani di Philip Jenkins

Avvenire - 7 febbraio 2010

Nel Paese africano nel 2050 vi saranno 100 milioni di fedeli in Cristo, facendone la più grande comunità del mondo: gli eredi di Lalibela, considerata la seconda Gerusalemme, potranno vincere il cliché dell'irrilevanza storica  

   

Lalibela, in Etiopia, dovrebbe occupare i primi posti tra i contendenti al titolo di sito più straordinario nella storia dell'arte e dell'architettura cristiana.

Immaginate di camminare su una collina e di vedere quel che è simile a una bassa struttura monolitica in pietra che sporge per poco dal terreno. Andando più vicino potrete notare una specie di ampio fossato - e solo in questo momento accorgervi che quel che state osservando a livello di suolo è il tetto di una possente chiesa a torre che si estende per circa 12 metri sotto la superficie.

Per molti anni gli operai scavarono la chiesa nel granito usando solo il martello e lo scalpello. L'edificio conserva i ricchi colori della roccia, che paiono mutare con le varie ore del giorno.

Lalibela è il sito con 11 di queste chiese, compresa la più grande che esista al mondo, realizzata da una sola pietra. Pochi etiopi dubitano che gli angeli abbiano avuto un ruolo in questo progetto di vaste costruzioni. Le origini dell'area sono misteriose. Prende il nome da un re famoso, Gebre Mesqel Lalibela, che governò intorno al 1200 e che presumibilmente volle dare ai cristiani una meta di pellegrinaggio alternativa rispetto a Gerusalemme.

Certamente Lalibela aspira ad essere una seconda Gerusalemme riproducendo molti nomi di luoghi ed edifici celebri, ma non sappiamo la sua esatta data di nascita. Alcune delle chiese potrebbero essere più vecchie di secoli nei confronti del re Lalibela.

Per quanto sia antico, da secoli il sito riempie di stupore i viaggiatori. Quando il primo visitatore europeo ne parlò intorno al 1520, lottò per trovare le parole. Non voleva frenare l'entusiasmo ma sapeva anche che nessuno avrebbe creduto al racconto sui dettagli e le dimensioni di Lalibela. E i lettori sarebbero stati sorpresi apprendendo che questo luogo cristiano miracoloso era in Africa! Lalibela è solo un luogo tra le molte chiese e santuari di pellegrinaggio evocativi d'Etiopia - ed è secondo per santità e prestigio nei confronti di Axum ( Etiopia), famosa per l'arca dell'alleanza. Come le sue controparti Lalibela da secoli è conosciuta ed amata. Gli etiopi hanno un senso profondo delle radici religiose del loro paese. Tutti i grandi centri - le chiese scolpite nella roccia, i monasteri, i luoghi miracolosi - attraggono masse di pellegrini nei momenti centrali dell'anno, come a Timqat ( epifania).

Gli studiosi moderni si sono sforzati di superare la prospettiva limitata dell'Europa occidentale che per così tanto tempo forzò la scrittura della storia della Chiesa, ma pure gli sforzi meglio intenzionati raramente rendono il senso della fede ardente e complessa degli africani al tempo di ciò che gli europei chiamano Medioevo e primo periodo moderno ( o, di fatto, fino al presente). Come è ancora possibile scrivere libri di storia dell'architettura cristiana senza includervi pagine su Lalibela? Quando gli storici ricordano la selvaggia invasione italiana d'Etiopia negli anni Trenta del secolo scorso, la definiscono un'istanza della brutalità fascista e non una campagna devastante contro una terra centrale del cristianesimo, un violento assalto segnato dalla strage di massa di monaci e preti etiopici.

Gli studiosi tendono a scrivere come se il cristianesimo africano sia qualcosa di nuovo e di sperimentale più che la ripresa di una realtà antica. Alcune chiese africane più recenti stanno lottando per superare questo mito. Uno dei punti di svolta nella storia della Chiesa africana moderna fu la vittoria etiopica sulle forze di invasione italiane nella battaglia di Adua del 1896, un raro esempio di opposizione all'apparente espansione irrefrenabile della supremazia europea. Quello fu il momento in cui le chiese nere nell'Africa meridionale iniziarono a definirsi etiopiche per affermare che avrebbero potuto accettare la fede come fenomeno africano non costretto da norme europee preimpacchettate.

Il cristianesimo etiopico fa notizia oggi e non solo per la sua storia. La nazione possiede uno dei più alti tassi di natalità al mondo; la sua popolazione è aumentata dai 33 milioni nel 1975 agli 85 milioni attuali, e potrebbe passare ai 180 milioni nel 2050. Oggi ci sono 50 milioni di cristiani in Etiopia; nel 2050 potrebbero essere 100 milioni, il che farebbe dell'Etiopia la culla delle comunità cristiane più grandi al mondo. In misura sempre maggiore questi credenti migrano nel mondo, specialmente in Europa e negli Stati Uniti. Lontani dal cadere nell'irrilevanza storica, gli eredi di Lalibela avranno una parte significativa nella popolazione cristiana mondiale.  

 

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HAITI

Dopo terremoto: tra cordoglio e aiuti, la sfida della scuola

Misna - 2 febbraio 2010

        

Sono circa un milione e mezzo, secondo Joel Jean Pierre, ministro dell'Istruzione, i bambini e i giovani condizionati ad Haiti affetti dalla chiusura delle scuole dopo il terremoto del 12 Gennaio. A Port-au-Prince, ma anche in altre località meridionali colpite, la maggior parte degli istituti scolastici, pubblici, privati o religiosi, sono stati totalmente o parzialmente distrutti. Da ieri, nelle regioni risparmiate dal sisma sono riaperte le scuole mentre altrove il dicastero dell'Istruzione sta conducendo un'indagine per valutare la situazione e la possibilità di montare tendoni per le lezioni. A Port-au-Prince il liceo francese Alexandre Dumas, che accoglie oltre 700 alunni di diverse nazionalità, è stato il primo a riaprire le porte ieri. Pochi 'fortunati', su iniziative delle famiglie, sono stati mandati all'estero, in Repubblica Dominicana, Canada, Guadalupe o negli Stati Uniti, nella speranza di poter in qualche modo continuare un anno scolastico compromesso. Mentre si cerca timidamente di riprendere una vita 'normale', continuano le espressioni di cordoglio per le vittime del sisma: stamani decine di magistrati e avvocati si sono raccolti davanti al Palazzo di giustizia per rendere omaggio ai 15 loro colleghi morti sotto le macerie; ieri, un'analoga cerimonia si era svolta al ministero per la Condizione femminile e i diritti della donna con un omaggio a sette impiegate rimaste uccise, tra cui la direttrice Myriam Merlet. Marjorie Michel, titolare del dicastero, ha annunciato la costituzione di un'unità speciale per la protezione delle donne da possibili violenze in questo periodo di confusione e difficoltà. Esperti in sismologia, intanto, richiamano l'attenzione sul rischio di una nuova di scossa nella zona.[CC]  

 

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Una terra d'asilo in Africa, se ne parla al vertice UA

Misna - 1 febbraio 2010    

       

Sarà esaminata in questi giorni, durante il XIV vertice dell'Unione Africana (UA), la proposta del presidente senegalese Abdoulaye Wade di creare in terra africana uno stato per accogliere le persone colpite del terremoto del 12 Gennaio ad Haiti. "È il senso del dovere, della memoria e della solidarietà a imporci la proposta del presidente Wade di creare in Africa le condizioni per il ritorno degli haitiani che vorrebbero venire dopo il disastro che ha colpito il loro paese" ha detto ieri in apertura del vertice Jean Ping, presidente della Commissione dell'UA. Un conto corrente per partecipare alla ricostruzione del paese caraibico è stato aperto presso la Banca africana per lo sviluppo (Bad), ha aggiunto Ping. Ricordando i legami storici che uniscono il popolo di Haiti, le cui origini risalgono alla tratta degli schiavi - il primo ad aver "osato alzare la bandiera della liberazione del popolo nero", secondo le parole di un deputato senegalese - Wade con l'appoggio di buona parte della classe intellettuale del suo paese aveva proposto una terra d'asilo per i terremotati.[CC]  

 

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Wharf Jeremie, lo slum dove vivono "gli ultimi" di Claudio Monici

Avvenire - Port au Prince - 21 febbraio 2010 
Nella baraccopoli alla periferia di Port-au-Prince regnano violenza e miseria: l'Onu non ci entra. La gente si ciba dei rifiuti

     
Sono cominciate le piogge e l'emergenza raddoppia. Oltre un milione di persone vive in strada a Port-au-Prince in condizioni che richiedono un intervento assistenziale urgente prima dell'intensificarsi della stagione degli uragani nei Caraibi in estate. A lanciare il drammatico appello è stato a New York l'ambasciatore di Haiti presso le Nazioni Unite: intervenendo al Consiglio di Sicurezza, Leo Merores ha detto che il sisma del 12 gennaio ha provocato la morte di 270mila persone, ha causato la distruzione di 250mila edifici, ed ha lasciato oltre un milione di haitiani senza casa: "Le cifre parlano da sé". 
    
Non c'è luogo come questo dove si può cadere più in basso di così, con la vita e i piedi che sprofondano in una palude di cloaca. I bassifondi di Wharf Jeremie, al margine estremo della capitale, si tuffano nella baia portandosi con loro tutto quello che la grande città scarta, la sua immondizia e i suoi rifiuti, compreso il dolore umano della malattia e della solitudine di chi ci vive. Più appropriato sarebbe dire che è una vita che arranca. Come quella degli "uomini cavallo", padri di famiglia, con la fronte che quasi sfiora terra, mentre trainano enormi e pesanti carri, resi ancora più gravosi dal carico che trasportano. Prima che il molo venisse spezzato dal terremoto, scaricavano dalle navi, adesso trasportano sacchi di carbone ammonticchiati sul pianale, mentre la pancia resta sempre per metà vuota. È la miseria che tormenta se stessa e che crea altra miseria, ancora più emarginata, ancora più povera. Una periferia stracciona di uno slum dove non entra nessuno che non sia l'abitante di quelle catapecchie di lamiera arrugginite che stanno in piedi come una teoria di carte da gioco. Una accostata all'altra e che sembrano lì per lì pronte a crollare da un momento all'altro. Ma è un gioco che dentro non ha nulla perché non c'è nulla che si possa portare, quando i pochi spiccioli raccimolati servono per nutrirsi di pietanze preparate sulla strada, non si sa bene con quali ingredienti e soprattutto come siano stati conservati. Spesso per giaciglio c'è solo il pavimento e i suoi enormi insetti, oppure una vecchia rete senza materasso, anche questa mangiata dalla ruggine.
Nessuno, nemmeno i Caschi blu della missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite "Minustah", in massa sull'isola dal 2004 per sradicare le bande criminali che hanno violato Haiti per anni, entrano a Wharf Jeremie. L'ordine è chiaro questo luogo resta da Codice rosso.
Tranne che per una suora italiana, di Busto Arsizio, che qui vive da quattro anni e che prima del terremoto mandava avanti un piccolo ambulatorio e un centro educativo. Missionaria della fraternità francescana, suor Marcella Catozza, la sfida l'aveva cominciata sapendo che "questo posto non è un luogo indicato per chi non è dell'ambiente: ma qui siamo proprio gli ultimi e se li si va a cercare qua si trovano".
La casetta ambulatorio della suora si è piegata su un fianco, ha ceduto al terremoto del 12 gennaio. Da qualche giorno l'attività è ripresa, è stata trasferita sotto due tende messe a disposizione della Protezione civile italiana, con l'aiuto del Genio alpini. In una c'è la suora che così può continuare la sua attività, soprattutto nutrizionale per i minori, e nell'altra, un consultorio per adulti, assistito dal personale medico imbarcato sulla portaerei Cavour, coordinato dal direttore sanitario, il capitano di vascello Aldo Ciufo.
"I soldati italiani e la protezione civile mi stanno dando una grossa mano. Qui non c'è mai stato nessuno e nulla. Niente. Non è mai venuto nessuno nemmeno nei giorni successivi al terremoto, se non quelli che ho incontrato io come gli operatori locali di Cisp, Cesvi e Terres des hommes, tanto questa zona è considerata particolarmente poco sicura", racconta suor Marcella.
In questo cuore di tenebra e lamiera, girano ancora parecchie armi e sono attive le bande rimaste fedeli all'ex presidente Jean Bertrand Aristide.
Violenza pronta a farsi risentire pur di assistere al ritorno dell'ex seminarista dal suo esilio dorato in Sudafrica, anche se per il momento il terremoto sembra avere messo un freno sugli episodi delinquenziali.
Quando arrivò in questo luogo perduto, quattro anni fa, unica bianca, donna, sola, in un mare di pelle nera e ogni tipo di dolore, con ancora le bande armate in azione a fare rapimenti, la francescana provò a fare un conto di quanta popolazione ci poteva stare a Wharf Jeremie. Dicevano che c'erano 70 mila persone. Mentre seguiva il suo progetto nutrizionale per i più piccoli, di vicolo in vicolo, la suora annotava numeri, nomi. Poi si accorse che non era ancora arrivata a metà dell'intera zona da scrutare che aveva già raggiunto la cifra di 150mila presenze: "E qui - adesso dice sorridendo - ho lasciato perdere".
"Come quattro anni fa, i problemi di oggi sono ancora legati alla denutrizione. Quando cominciai, solo nella prima settimana di attività, 12 bambini mi morirono tra le braccia - racconta la suora - . Diarree, polmoniti, tutto quello che la mancanza di acqua potabile e igiene può causare, qui c'è. Aids e sifilide, anche nei bambini con le infezioni tipiche trasmesse da genitori malati cronici e che mai sono stati curati. La febbre dengue. Mentre in questi giorni ho avuto notizia che la malaria sta tornando in maniera esponenziale. In tutto il tempo che sono stata qui avrò riscontrato non più di 5 casi. Adesso negli ospedali di Port au Prince ogni giorno si segnalano dai 15 ai 20 casi. Qui il mare è uno schifo e forse i ristagni d'acqua dopo il sisma hanno contribuito alla diffusione del parassita".
La sera quando la suora chiude le due tende che dentro hanno, brande, tavoli, medicinali, qualche strumento sanitario, e altri oggetti che potrebbero fare gola a qualcuno, non prova ansia. Non accadrà nulla fino al giorno dopo: "La mattina ritrovo tutto come ho lasciato. Perché questa è gente, che seppure è povera più dei poveri, è analfabeta, è disperata, è malata, saranno sempre loro i primi a darti una mano, un aiuto e un sostegno, anche in questo modo. Perché sanno che è qualcosa che facciamo per loro, che sono gli ultimi degli ultimi". 
Suor Marcella da 4 anni aiuta la gente della bidonville. Il suo "ambulatorio", distrutto dal sisma, è ora una tenda messagli a disposizione dalla Protezione civile: "Qui non è mai venuto nessuno dopo il terremoto". L'ambasciatore haitiano alle Nazioni Unite: uccise 270mila persone, un milione senza casa Ora la paura è la stagione delle piogge. 

      

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HONDURAS

Lotta alla corruzione: che cosa possiamo fare? di Card. O.R. Maradiaga

Mondo e Missione - 1 febbraio 2010    

      

C'è un circolo vizioso tra frodi e povertà. La trasparenza è l'unica vera risposta

Emergenze politiche come quella che attraversa il mio Paese, l'Honduras, non devono far perdere di vista i nodi cruciali da cui dipende l'avvenire dell'America Latina. Per avere un futuro migliore dobbiamo, prima di tutto, spezzare il circolo vizioso della corruzione e della povertà. Lo splendore della verità, il principio del bene comune, la dignità umana, la giustizia, la libertà e la solidarietà sono la via migliore per arrivare a una governance fondata sull'onestà, l'etica e la trasparenza nella gestione pubblica. 

In Honduras sono anni che lavoriamo, attraverso Transparencia Honduras - un'organizzazione non governativa indipendente - per creare un sistema nazionale di integrità e un programma di educazione ai valori cristiani, con meccanismi di responsabilità e di controllo sociale, attraverso la partecipazione dei cittadini. L'obiettivo è ridurre la vulnerabilità ecologica e sociale, con un approccio integrato di trasparenza e di governance, che permetta il consolidamento della democrazia, il decentramento, il rispetto dei diritti umani, lo sviluppo locale e la sostenibilità.

Per attuare le convenzioni contro la corruzione dell'Organizzazione degli Stati Americani e delle Nazioni Unite urgono pratiche di prevenzione della corruzione e codici di condotta per funzionari pubblici e per il settore privato, con misure che garantiscano l'accesso del pubblico alle informazioni. Perché ci sia una vera sicurezza giuridica è necessario garantire l'indipendenza della magistratura, l'accesso ai tribunali, l'equità, la trasparenza, l'efficienza nell'attuazione della legge, costruire la fiducia nelle istituzioni.

È la prevenzione il fattore più importante della sicurezza: la repressione del crimine e la sua condanna legale devono essere accompagnate da una riabilitazione e dal reinserimento sociale degli autori dei reati che mostrino il desiderio di cambiare vita. Dobbiamo inoltre continuare a sostenere il Commissariato nazionale dei diritti dell'uomo; potenziare le capacità degli organi di Stato responsabili di investigare e denunciare gli abusi e i crimini; tutelare gli interessi generali della società.

La globalizzazione della solidarietà esige la difesa dei diritti umani e la pianificazione in base al principio della destinazione universale dei beni e di uno sviluppo integrale e solidale. Inoltre, come diciamo da anni, è necessario un Piano nazionale per lo sviluppo umano sostenibile per trasformare positivamente l'Honduras entro il 2021, quando si compiranno i 200 anni dell'indipendenza nazionale.

La corruzione, però, è un fenomeno non solo del settore pubblico: incide anche sul settore privato. L'abuso della posizione di monopolio, la mancanza di rispetto per gli azionisti di minoranza, le carenze nel funzionamento della libera concorrenza e dei mercati sono solo alcuni dei problemi. La partecipazione della società in materia di prevenzione e controllo della corruzione dovrebbe essere rafforzata con misure volte ad aumentare la trasparenza e a promuovere la partecipazione dei cittadini, garantire un efficace accesso del pubblico alle informazioni, la realizzazione di programmi di educazione ai valori e il rispetto, la promozione e la tutela della libertà di informazioni sulla corruzione.

In Honduras ci sono troppe leggi che non vengono rispettate. Viviamo in un mondo individualista che misura  tutto con il denaro e il potere. Con una visione del futuro e all'interno di un Piano nazionale per lo sviluppo umano sostenibile, dobbiamo cercare di costruire la convivenza democratica che vogliamo.  

 

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INDIA

Delegazione Ue in visita tra i cristiani perseguitati dell'Orissa di Nirmala Carvalho

AsiaNews - New Delhi - 3 febbraio 2010

           

I delegati sono stati contestati al loro arrivo da ultranazionalisti indù. Domani andranno nel martoriato Kandhamal. Mons. Cheenat: molti cristiani ancora sono profughi, la situazione sarà normale solo quanto potranno vivere a casa loro e pregare senza paura.

Dura contestazione degli ultranazionalisti indù del Vhp contro i rappresentanti dell'Unione europea in visita in Orissa per constatare la situazione dopo la violenta persecuzione anticristiana scoppiata nel Natale 2008 e proseguita anche l'estate scorsa. Gli attivisti hanno ieri contestato la delegazione, al suo arrivo in aeroporto, con slogan come "delegati andate via".

La massiccia presenza della polizia ha tenuto i manifestanti lontani dai delegati, provenienti da Ungheria, Polonia, Irlanda, Italia, Olanda, Gran Bretagna, Finlandia e Svezia. Domani gli inviati incontrano i rappresentanti del governo dell'Orissa e della polizia, poi lo stesso giorno andranno in Kandhamal, per tornare alla capitale statale il 5 febbraio. La contestazione segue la dura presa di posizione contro la visita posta in essere dai leader nazionali Vhp, che hanno persino chiesto al governo dell'Orissa di proibire la visita.

Mons. Raphael Cheenath, arcivescovo di Cuttack-Bhubaneswar, ha commentato ad AsiaNews che "queste persone non vogliono che sia accertata la verità. Hanno paura che la verità sia conosciuta e che l'Ue affronti questo problema" della persecuzione anticristiana in Orissa.

Il prelato osserva che la situazione nel Kandhamal è ancora molto difficile e che "molti cristiani vivono fuori dei villaggi, non gli è stato più permesso vivere nei villaggi, molti di loro hanno paura della minaccia di conversioni forzate all'induismo, in alcuni villaggi è chiesto di essere induisti per poterci vivere. Non abbiamo dati precisi, ma sappiamo che una grande percentuale di cristiani sono tuttora profughi, alcuni vivono in ripari provvisori nel Bhubaneswhar, altri sono migrati verso altri Stati del Paese alla ricerca di sicurezza". "La nostra gente vive ancora in modo precario, nel timore e nella paura. Le intimidazioni della maggioranza contro la comunità cristiana sono ora molto minori, ma continuano costanti".

"Nel Kandhamal sarà tornata la normalità solo quanto tutti saranno potuti tornare ai loro villaggi, potranno vivere in pace nelle loro case, potranno pregare in sicurezza nelle loro chiese. Ora procedono i processi contro i responsabili, ma i veri delinquenti, coloro che hanno scatenato la violenza di massa, sono ancora impuniti".  

  

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Inedito: gruppo buddista premia un prete

MissiOnLine - 4 febbraio 2010    

         

Padre Muttungal, di Bhopal, insignito per il dialogo interreligioso. Dove la Chiesa è sotto attacco

Negli ultimi 5 anni la minoranza cristiana (1% della popolazione) nello Stato indiano del Madhya Pradesh ha subito oltre 150 attacchi violenti.

Ma questo non ha impedito a padre Anand Muttungal, portavoce della Chiesa cattolica della regione, di lavorare intensamente per promuovere il dialogo tra le diverse religioni del Paese.

E così si è meritato - assommando due novità assolute - un importante premio da parte di un gruppo buddista internazionale.

Nei giorni scorsi, infatti, padre Anand è stato insignito del premio "World Peace and Harmony" da parte del monaco buddista Bhadant Arya.

È la prima volta che tale onorificenza viene assegnata ad non buddista e la prima volta che viene premiato un prete cattolico.

"Ho visto personalmente il lavoro di padre Anand e mi sono convinto riguardo al suo impegno personale in favore dell'armonia religiosa" ha dichiarato il monaco buddista Arya.

Padre Muttungal ha dichiarato, durante la cerimonia di premiazione avvenuta a Bhopal davanti a 15 mila fedeli buddisti, che ha accettato il premio "Pace e Armonia" come "riconoscimento del servizio della comunità cristiana".

Il 38enne sacerdote cattolico, infatti, nel suo lavoro pastorale assiste le vittime delle violenze interreligiose, compresi i non cristiani, e offre loro assistenza legale davanti alla giustizia.

Anche il presidente del raduno buddista di Bhopal, Bhante Sakyaputra Sagar, ha lodato lo sforzo di padre Anand per "l'armonia religiosa" nel Madhya Pradesh, teatro di attacchi non solo contro i cristiani, ma pure verso la minoranza islamica.  

   

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Orissa, arriva una delegazione Ue e il governo sgombera i cristiani

AsiaNews - Gudaigiri - 4 febbraio 2010

       

Un gruppo di 91 profughi cristiani, vittime delle violenze religiose dell'agosto del 2008, è stato costretto a lasciare il villaggio di provenienza per le minacce degli estremisti. Vivevano in un campo profughi, ma sono stati sgombrati per "ripulire" la zona in vista della visita della euro-delegazione.

Il governo statale dell'Orissa ha costretto un gruppo di 91 cristiani - vittime delle violenze religiose del 2008 - a spostarsi in una sorta di campeggio alla periferia di G Udaigiri; ora vogliono cacciarli anche da lì. Lo spostamento forzato è stato deciso nell'ambito di una operazione "di pulizia" in vista dell'arrivo di una delegazione europea, che dovrebbe visitare lo Stato oggi e domani. Il Consiglio dei cristiani indiani ha espresso la propria ansia per la decisione e ha inviato una lettera sia alla delegazione dell'Unione europea che al governo statale.

John Dayal, segretario generale del Consiglio e membro del Consiglio nazionale per l'integrazione, spiega nel testo della missiva chi sono i rifugiati e perché sono perseguitati: "Si tratta di cristiani che provengono dai distretti di Killaka, Kutuluma, Rotingia-Porakia, Kiramaha, Dokadia, G-Mangia, Ratingia, Dhangarama, Lorangia, Dakapala, Rudiangia e Raikia. Sono stati costretti a lasciare i loro villaggi dopo l'ondata di violenza anti-cristiana che ha colpito l'Orissa il 25 agosto del 2008".  

Subito dopo i primi attacchi, "le famiglie cristiane sono state rilocate in un campo profughi governativo. Dopo alcuni mesi, però, l'esecutivo dell'Orissa ha chiuso il campo e ha disperso I suoi abitanti. Alcuni degli uomini del gruppo hanno trovato lavoro nei negozi e nei campi della città di G Udaigiri, ma nessuno di loro ha ricevuto il sostegno o l'aiuto del governo".

Anzi, aggiunge Dayal, "hanno subito sempre e solo molestie da parte degli abitanti locali".  

Il motivo è semplice: "Soltanto convertendosi all'induismo, queste famiglie avrebbero ricevuto assistenza. Ora però, con l'arrivo della delegazione europea, il governo locale ha cambiato marcia: il Segretario locale, Jeevan Pattnaik, si è presentato accompagnato da uomini in uniforme nel campo profughi e l'ha sgombrato. I cristiani, ancora una volta, sono stati costretti ad andarsene ed hanno montato le loro tende per le strade".

Ma le disavventure di questi 91 cristiani non sono ancora finite: "Quando me ne sono andato, alle dieci di mattina, un rappresentante del governo è arrivato dicendo che sarebbe tornato per spianare le tende dalle strade. Qualcuno ha protestato, ma inutilmente. Ora chiediamo che la loro situazione venga risolta, e che questi cristiani non siano costretti a convertirsi all'induismo per poter vivere in maniera dignitosa".  

 

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ITALIA

Suicida col fuoco - Il grido disperato di Sergio parla a noi di Dino Greco

Liberazione - 2 febbraio 2010  

          

In una luminosa giornata di domenica, Sergio Marra, operaio bergamasco, dopo essere stato licenziato in tronco, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco, uccidendosi. In un modo orribile. Sergio non si è spento silenziosamente. Il suo è stato un grido acutissimo, in faccia a una violenza insopportabile. Ora vi sarà chi, prima di consegnare all'oblio questa tragedia, spiegherà che non si può mai sapere quali siano le ragioni reali di atti come questo e che è riduttivo attribuirne le cause alla "sola" perdita del posto. Chi disinvoltamente pontifica in questo modo ha di solito le terga ben al caldo, non ha la più pallida idea di cosa significhi - materialmente e socialmente - essere deprivati dei mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia e, ad un tempo, essere spogliati della propria identità, della speranza stessa in una via di uscita. La morte di Sergio parla anche a noi, della sua solitudine disperata, di un calvario che riflette una condizione collettiva condivisa in sorte da tante persone. E della sciagurata irresponsabilità con cui chi comanda continua a sottovalutare, a nascondere, la gravità della crisi, esimendosi da qualsiasi iniziativa di contrasto. Fatti come questo bucano l'impersonale asetticità delle percentuali, delle statistiche con le quali si prova a dar conto di ciò che accade. E raccontano che c'è un pezzo di società - esseri umani in carne ed ossa - che va in rovina. Se ne ha davvero contezza? Se ne comprendono le proporzioni? Guardate che non c'è solo la disoccupazione conclamata. C'è quella precaria non censita. Poi c'è quella mascherata dalla cassa integrazione che, in gergo, si definisce "a perdere", quella propedeutica alla collocazione in mobilità e non alla reintegrazione nel posto di lavoro. Poi c'è quella che non risulta perché, ufficialmente, chi lavora due giorni la settimana, o una settimana al mese, è computato fra i lavoratori in attività, anche se fa la fame. Inoltre, dentro la crisi, anche le aziende che si ristrutturano mutano pelle: all'espulsione dei lavoratori con maggiore anzianità e mediamente più protetti subentra l'ingresso dei forzati della precarietà. Un esercito di lavoratori "interinali", "a progetto", "somministrati", "occasionali", "a chiamata", privi di tutele e di diritti. In fondo alla catena, l'ultimo anello, quello del lavoro servile, schiavistico, appannaggio "privilegiato" degli immigrati.

Ecco, il gesto di estremo autolesionismo di Sergio dissolve l'effetto ipnotico di una rappresentazione mediatica della realtà che più fasulla non potrebbe essere. Ma dice anche - per contrasto - della insopportabile vacuità della politica politicante, del distacco abissale fra la realtà e i dibattiti irretiti dalle geometrie elettoralistiche nelle quali si consumano le sfide politiche. Mentre il Paese, stremato, non trova risposte. Non ne trova, almeno, la sua parte più debole, che con ogni evidenza deve sfangarsela da sola. Operai sui tetti, giovani e non più giovani, scolarizzati e non, tutti orbati di una prospettiva che abbia un brandello di credibilità. Un cul-de-sac, un corto circuito non solo politico, ma morale. Servirebbe qualcosa di eccezionale: come drenare risorse dalle sacche di opulenza e impiegarle in un piano senza precedenti di sostegno al reddito e al lavoro. O come disporre il blocco dei licenziamenti, attraverso un massiccio ricorso ai contratti di solidarietà tale da consentire un'immediata redistribuzione del lavoro che c'è. O come ripensare, dalle fondamenta, la presenza, quasi estintasi, della mano pubblica, dello Stato nei settori nevralgici dell'economia, sciaguratamente lasciati in balia degli interessi privati e del mercato, o consegnati all'opacità di un mondo finanziario che si scompone e ricompone attorno ai "soliti noti". Per concepire ed operare in controtendenza serve una svolta culturale e politica. E servono i soggetti collettivi capaci di farsene carico. Il paradosso è che se questa strada è occlusa, se la crisi sociale rimbalza su se stessa senza risposte progressive, è fatale lo scivolamento rapido verso soluzioni politiche autoritarie. Scriveva Mario Tronti, qualche tempo fa, che quando si esaurisce la spinta propulsiva di grandi movimenti di trasformazione sociale e politica, quando se ne prosciuga e se ne disperde l'idealità, è la storia remota, profonda, a riemergere dal passato come forza inerziale e a prendere il sopravvento. Che per noi ha voluto dire balcanizzazione, trasformismo, opportunismo. E fascismo.  

 

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Se il mondo va in «nomination» di Giorgio Bernardelli

MissiOnLine - 1 febbraio 2010   

A rischio chiusura sedi Rai di Asia, Africa e America Latina. Un gesto miope di un'Italia chiusa su se stessa  

          

La Rai sta per chiudere cinque delle sue quindici sedi di corrispondenza nel mondo. Visti i tempi che corrono nel servizio pubblico radiotelevisivo italiano si potrebbe pensare a un reality-show: c’erano quindici metropoli, cinque andavano in nomination. Si sono salvate Bruxelles, Berlino, Parigi, Londra, Madrid, Mosca, Gerusalemme, Istanbul , Pechino e New York. Ma sembrano destinate a sparire le sedi Rai di Il Cairo, Nairobi, Beirut, New Delhi e Buenos Aires. Dunque la Rai si appresterebbe a chiudere entrambe le sue sedi in Africa, l’unica in America Latina e quelle di due Paesi non proprio insignificanti oggi come sono l’India e il Libano.
Si potrebbero citare - e c’è chi prima di noi l’ha già fatto (clicca qui per leggere l’articolo) - i contratti miliardari di tanti divi che non vengono mai messi in discussione quando c’è da far quadrare i conti. Ma anche a volere restringere lo sguardo entro il perimetro dei bilanci  dell’informazione Rai, si potrebbero andare ad  analizzare i costi di certi talk-show, dove alla fine le chiacchiere sono spacciate per notizia. Si potrebbe poi infierire facendo notare che tutto questo avviene proprio quando presidente del Consiglio di amministrazione della Rai è un giornalista come Paolo Garimberti, che pure il mondo un po’ dovrebbe conoscerlo. E proprio mentre con la diffusione del digitale terrestre aumentano i canali a disposizione.
Noi preferiamo, però, mettere a nudo soprattutto la miopia di questa scelta: in Europa tutte le grandi reti televisive puntano su canali all-news che trasmettono ormai anche in lingue diverse rispetto alla propria. All’opposto la Rai - specchio di un Paese in cui contano solo le nostre beghe - si ritira nel suo guscio. Già nel febbraio 2006 le riviste missionarie italiane riunite nella Fesmi avevano lanciato un appello intitolato «Notizie, non gossip», in cui chiedevamo alla Rai una risposta alla «carestia di notizie» da intere aree del Pianeta. Ancora nel maggio 2007, quando la Rai aveva aperta la sede di Nairobi, avevamo salutato con interesse questa scelta. «Se la Rai ha aperto una sede in Africa, molto lo si deve alla mobilitazione del mondo missionario», aveva detto in quell’occasione Enzo Nucci, corrispondente Rai da Nairobi. E noi rilanciavamo, chiedendo che fosse l’inizio di un impegno serio a dare poi spazio davvero alle notizie provenienti da queste aree del mondo. Purtroppo non è stato così. E a due anni di distanza quell’investimento è diventato un ramo secco. E ora si rischia di tornare non uno, ma cinque passi indietro.È uno scenario inaccettabile. Per questo lanciamo un appello affinché la Rai torni sui propri passi rispetto a questa decisione. Ma la questione va comunque al di là di cinque sedi Rai aperte o chiuse in cinque città dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Tocca anche la qualità del lavoro che in questi centri viene svolto, gli spazi effettivi presenti nelle scalette dei tg, il tipo di sguardo sul mondo che ci circonda. Il terremoto ha fatto scoprire ai telespettatori italiani i problemi drammatici di un Paese come Haiti: dov’era la Rai prima? E dove sarà domani, quando i riflettori (già oggi meno accesi di ieri) si saranno definitivamente spenti?  «Notizie, non gossip». È tempo di tornare a pretenderlo. Per non ritrovarci all’improvviso tagliati fuori e incapaci di capire ciò che si muove nel mondo di oggi.

Clicca qui per leggere l'editoriale Fesmi «Notizie, non gossip» del febbraio 2006

Clicca qui per leggere l'editoriale Fesmi «Da telespettatori a cittadini del mondo» del maggio 2007  

 

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Energia dalla Terra: la sfida del Vesuvio di Antonio Giorgi

Avvenire - 3 febbraio 2010

Al via le prime trivellazioni per sfruttare il calore endogeno profondo  

    

Ad aprile le trivelle entreranno in azione cominciando a perforare il terreno nella zona attorno all'ex area industriale di Bagnoli. Obiettivo: realizzare un pozzo-pilota che raggiungerà una profondità di 500 metri. A partire dal febbraio del prossimo anno, sulla base delle esperienze e della verifiche rese possibili da questo primo impianto esplorativo, la perforazione entrerà nel vivo: dal pozzo- pilota le sonde lavoreranno con una pendenza di circa 25 gradi rispetto alla verticale, percorreranno almeno 1.500 metri fino a raggiungere il centro della caldera flegrea sotto il mare di Pozzuoli e toccheranno una profondità massima di 4mila metri, nel cuore di una struttura geologica instabile dove le temperature sono comprese tra i 500 e i 600 gradi centigradi. Gli occhi dei vulcanologi di tutto il mondo saranno puntati sull'area napoletana e su una campagna di ricerche mirata alla individuazione delle possibilità di mitigazione dei rischi vulcanici e allo studio dell'utilizzo a fini energetici del calore endogeno della Terra. Due obiettivi che da soli dicono come il gioco valga la candela. È dunque ai blocchi di partenza il Progetto Cfddp ( Campi Flegrei Deep Drilling Project) al quale aderiscono il Consorzio internazionale per le perforazioni crostali profonde (Icdp, International Continental Drilling Program), istituti di ricerca di una decina di Paesi, il nostro Cnr, alcune università italiane, la Regione Campania. Il progetto comporterà un investimento valutato tra i 12 e i 15 milioni di dollari solo per le operazioni di perforazione, ma le sue ricadute si prevedono di enorme impatto per la vulcanologia e per lo studio del sistema geotermale non soltanto flegreo.

  " Sarà - sottolineano alla Sezione di Napoli dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia - un esperimento unico al mondo per le difficoltà connese alla trivellazione in presenza di altissime temperature, soltanto in Islanda infatti si stanno pianificando operazioni in condizioni termiche similari". Sarà soprattutto - questo va messo in evidenza - un progetto a guida italiana, coordinato dal professor Giuseppe De Natale, con la collaborazione della dottoressa Claudia Troise, entrambi dell'Osservatorio vesuviano dell'Ingv. Grazie all'installazione nel pozzo di 4mila metri di sistemi in fibre ottiche per il monitoraggio continuo della temperatura e della deformazione delle rocce, oltre ad apparati di prelievo di acqua e gas per l'analisi delle variazioni geochimiche dei fluidi, la comunità scientifica internazionale ritiene di poter individuare la profondità alla quale è localizzato il magma ( si ipotizza a circa 7,5 chilometri sono il livello del mare) e di ottenere informazioni di enorme importanza vulcanologica non solo per la caldera flegrea ma anche per comprendere il funzionamento delle altre aree affini nel mondo, fare luce sul fenomeno del bradisismo, individuare gli eventi premonitori di una eruzione, studiare le ragioni per le quali le rocce in certe circostanze cedono plasticamente senza rompersi.

  Le caldere, e quella dei Campi Flegrei ne è un tipico esempio, costituiscono le zone vulcaniche potenzialmente più esplosive della Terra, suscettibili di generare eruzioni di massima energia ("eruzioni ignimbritiche", le chiamano i tecnici, e sono le stesse che poi formano le depressioni calderiche) in grado di provocare catastrofi globali.

  Eventi statisticamente rarissimi, certo, ma dalle conseguenze più pesanti di quelle indotte dall'eruzione di un vulcano attivo, paragonabili all'impatto di un meteorite di grosse dimensioni sulla superficie del Pianeta. La comprensione dei meccanismi di genesi di queste super- eruzioni è un passaggio chiave nell'approfondimento delle tematiche connesse alla difesa dai disastri naturali. Questo vale a maggior ragione per un'area estremamente popolata come quella napoletana, al cui interno anche eruzioni di modeste entità comporterebbero rischi rilevantissimi.

  Il Progetto Cfddp aprirà infine interessanti prospettive di natura pratica, darà preziose informazioni sulla possibilità di sfruttamento geotermico dell'area, sicuramente una delle più "calde" del mondo. I fluidi a temperatura supercritica (500- 600 gradi centigradi) delle maggiori profondità potrebbero fornire energia termica con rendimenti di gran lunga superiori a quelli ricavabili delle attuali metodologie di sfruttamento della geotermia, consentendo a parità di flusso potenze di un ordine di grandezza superiore. La tecnologia a fluidi supercritici è ancora nella fase della sperimentazioni iniziale, ma le ricerche da qualche anno condotte in Islanda sono di grande interesse.  

 

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Medici Senza Frontiere presenta "Al di là del muro"

www.medicisenzafrontiere.it - Roma - 2 febbraio 2010

Secondo rapporto sui centri per migranti in Italia

Servizi scarsi e scadenti, mancano beni di prima necessità. Assenti le autorità sanitarie, negato a MSF l'ingresso ai centri Lampedusa e Bari. MSF chiede la chiusura dei CIE di Trapani e Lamezia Terme

       

A più di dieci anni dall'istituzione dei centri per migranti in Italia, la gestione generale sembra ispirata a un approccio ancora emergenziale. I servizi erogati, in generale, sembrano essere concepiti nell'ottica di soddisfare a malapena i bisogni primari, tralasciando le molteplici istanze che possono contribuire a determinare una condizione accettabile di benessere psicofisico. Al momento dell'entrata in vigore del pacchetto sicurezza e con il conseguente allungamento dei tempi di detenzione nei CIE da 2 a 6 mesi, non erano previsti adeguamenti nell'erogazione dei servizi.

È quanto emerge dall'indagine svolta da Medici Senza Frontiere, che a distanza di 5 anni, unica organizzazione indipendente a scrivere un rapporto sui CIE e CARA, è tornata nei luoghi di detenzione per i migranti privi di permesso di soggiorno e di transito per i richiedenti asilo.

"Al di là del muro" rappresenta la seconda fotografia della realtà che si vive all'interno dei CIE (Centri di identificazione ed espulsione), CARA (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e CDA (Centri di accoglienza) in Italia. Il rapporto indaga gli aspetti socio-sanitari e le condizioni di vita all'interno di queste strutture. Con "Al di là del muro" MSF intende far conoscere la realtà di questi spazi chiusi ad osservatori esterni e far emergere la quotidianità vissuta da migliaia di persone.

L' indagine è basata su due diverse visite condotte da MSF a distanza di otto mesi tra il 2008 e il 2009, quando sono stati visitati 21 centri tra CIE, CARA e CDA disseminati sul territorio nazionale. In alcuni centri, gli operatori di MSF si sono trovati di fronte a un atteggiamento ostile da parte dei gestori, incontrando difficoltà nel condurre liberamente l'indagine, subendo limitazioni e dinieghi nell'accedere in determinate aree: emblematici i casi dei centri di Lampedusa e del CIE di Bari dove è stata negata dalla Prefettura l'autorizzazione a entrare nelle aree alloggiative, nonostante la visita di MSF fosse stata comunicata con diverse settimane di preavviso.

"Rispetto alle visite condotte nel 2003 poco è cambiato, molti sono i dubbi che persistono, su tutti la scarsa assistenza sanitaria, strutturata per fornire solo cure minime, sintomatiche e a breve termine. Stupisce inoltre l'assenza di protocolli sanitari per la diagnosi e il trattamento di patologie infettive e croniche. Mancano soprattutto nei CIE, come ad esempio in quello di Torino, i mediatori culturali senza i quali si crea spesso incomunicabilità tra il medico e il paziente. Sconcerta in generale l'assenza delle autorità sanitarie locali e nazionali", dichiara Alessandra Tramontano, coordinatrice medica di MSF in Italia.

"Tra i CIE, Trapani e Lamezia Terme andrebbero chiusi subito perché totalmente inadeguati a trattenere persone in termini di vivibilità. Ma anche in altri CIE abbiamo riscontrato problemi gravi: a Roma mancavano persino beni di prima necessità come coperte, vestiti, carta igienica, o impianti di riscaldamento consoni", continua Tramontano.

"Nei CARA abbiamo rilevato invece servizi di accoglienza inadeguati. Il caso dei centri di Foggia e Crotone ne è un esempio: 12 persone costrette a vivere in container fatiscenti di 25 o 30 metri quadrati, distanti diverse centinaia di metri dai servizi e dalle altre strutture del centro. Negli stessi centri l'assenza di una mensa obbligava centinaia di persone a consumare i pasti giornalieri sui letti o a terra", conclude Alessandra Tramontano.

La gestione complessiva dei centri per migranti, sia dei CIE che dei CARA e dei CDA, appare dunque in larga parte inefficiente. I servizi erogati sono spesso scarsi e scadenti e non si riesce di fatto a garantire una effettiva identificazione, protezione e assistenza dei soggetti vulnerabili che rappresentano una parte consistente (se non prevalente) della popolazione ospitata.

   

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Il Vangelo radicale - Armi, pace e nonviolenza: quale pastorale è possibile? di Fabio Corazzina

www.peacelink.it  - Mosaico di pace - Gennaio 2010  

  

Dall’inizio del terzo millennio ci aspettavamo qualcosa di meglio. Per lo meno il secolo breve dell’odio e della guerra speravamo potesse essere semplicemente materia di storia contemporanea, sostituito dal secolo della pace. E invece... “Nel terzo millennio perdura l’abitudine di rubare cioè di perpetuare comportamenti ingiusti nei confronti del bene e dei beni altrui, del bene e dei beni di tutti. ...Perdura l’abitudine di mentire, cioè di parlare e operare non secondo verità ma secondo convenienza. ...Perdura l’abitudine di dimenticare o di negare i poveri, la civiltà della ricchezza non può sopportare una convivenza sgradevole. ...Perdura l’abitudine di uccidere, cioè di non rispettare la vita o di considerarla come una variabile dipendente da altri valori ritenuti superiori: la guerra, in tutte le sue espressioni, è la struttura che rivela il massimo di devastazione umana” (cfr d. V. Nozza, direttore Caritas Italia). In questo perdurare le nostre comunità cristiane si affannano a sopravvivere, si vendono alla paura e dimenticano il testimoniare.  

    

GESTI DI PACE COME TESTIMONIANZA

Il desiderio umano di pace rivendica alcune scelte e gesti coerenti anche da parte delle nostre comunità cristiane e delle parrocchie. Scelte e gesti nei quali sia possibile riconoscere germi di futuro e di speranza.

   
1. Il rifiuto della logica delle armi e del riarmo. Dire armi significa dire produzione, commercio, finanza armata, uso, guerra, criminalità, difesa violenta, mafia, paura, sopruso, corsa al riarmo, bambini soldato, ferite, morte, controllo sociale, eserciti. Non è sufficiente mascherare questo fenomeno con la logica degli interventi umanitari, con la scusa della protezione dei deboli, con la legittimità della difesa armata.
Come comunità cristiane, parrocchie, Chiese non ci è più permesso benedire, approvare, sostenere, giustificare la logica delle armi e del riarmo, troppo spesso recanti il marchio di fabbriche italiane, in cui tranquillamente lavorano operai, dirigenti, ricercatori e tecnici cristiani. In fondo è il Vangelo che ce lo chiede.

   
2. La scelta della nonviolenza evangelica come linguaggio, progetto sociale e politico, testimonianza e primizia del Regno di Dio. Resta strano il fatto che nelle nostre comunità cristiane trova maggiormente accoglienza la giustificazione della guerra e della violenza, della legittima difesa armata e della ingerenza umanitaria con gli eserciti piuttosto che la difesa popolare nonviolenta, la passione per la verità e i concreti gesti di amore che danno prospettive a un mondo nuovo e possibile che lo stesso Gesù ha inaugurato. Il cristiano nonviolento non distoglie il volto dalla brutalità dell’oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole “nemico” perché altri lo hanno definito come tale. Resta un mistero e uno scandalo il motivo per cui la Chiesa cattolica non si definisca evangelicamente e nei comportamenti come nonviolenta. Forse teme di pagare un prezzo troppo alto di fronte a poteri politici ed economici che hanno altri fini e obiettivi.  

 

3. L’obiezione di coscienza a tutto ciò che calpesta la vita. Inutile nascondere che l’obiezione di coscienza è invocata nelle nostre comunità cristiane solo in riferimento a questioni di bioetica, e rivolta a medici o a farmacisti. Che l’economia uccida, che la politica uccida, che l’industria uccida, che l’informazione uccida, che l’educazione uccida, che certa legalità uccida, che la religione uccida per noi è irrilevante. Credo che pochi ordini del giorno dei nostri consigli pastorali presbiterali prevedano la questione dell’obiezione di coscienza al servizio militare volontario, alla produzione e commercio di armi, al sostegno di politiche immigratorie omicide, alla approvazione di leggi inique, alle alleanze trono-altare che rilanciano lo scontro di civiltà come criterio di letture del tempo presente. In tal senso ci rendiamo conto che non è più sufficiente semplicemente sostenere la scelta del Servizio Civile.

  

4. Una liturgia che da’ vita e non che sacrifica. I testi liturgici e il nostro modo di celebrare Dio troppo spesso contengono termini sacrificali. Ci si è abituati, nella preghiera, a contemplare la necessità del sacrificio come generatrice di futuro e salvezza. Che Cristo ci abbia detto “non voglio più sacrifici ma solo misericordia, giustizia, amore, riconciliazione”non è che ci conforti molto. Molto più congeniale alle nostre comunità è la logica pagana (vorrei dire padano-leghista, o mafiosa) che qualcuno deve morire per il popolo, e chi deve morire lo decidono i potenti di turno, non certo gli ultimi e gli esclusi. 

    

5. La riconciliazione come stile e impegno. Non solo la società secolarizzata, ma anche le nostre comunità cristiane sono sempre più divise, incapaci di dialogo, accusatorie, “l’un contro l’altra armata”. Scegliere la pace significa fare ogni sforzo per riuscire a essere presenza di riconciliazione, facilitatori di incontro, generatori di dialogo, tessitori di perdono. Se è ormai consolidata l’idea che ogni parrocchia abbia al proprio interno la Caritas attenta alle povertà del territorio e alle politiche sociali oppure un gruppo di catechisti, è sempre più urgente che ogni parrocchia si attrezzi di un “gruppo di verità e riconciliazione” capace di ricucire le fratture senza che il prezzo sia quello dell’avvocato, dei giudici di pace o dei tribunali penali. Quante energie e denaro risparmiati e quanta comunione preservata!  

    

6. Un rapporto evangelico con il denaro e i contributi economici e non. Con troppa facilità gestiamo le nostre economie senza criterio. Abbiamo soldi in banche armate o che sostengono il commercio di armi, investiamo in fondi immorali e omicidi, accettiamo contributi da tutti convinti che noi possiamo “lavare e purificare” ogni cosa attraverso il bene che facciamo. Accettiamo accordi e convenzioni che ci privilegiano e ci mettono in cattiva luce sul piano sociale e umano. Tacciamo su ciò che non funziona pur di poter sopravvivere, pieni di timori più che di parresia. Laici e sacerdoti, gruppi e associazioni cristiane dovranno pur domandarsi cosa significa essere Chiesa “povera e libera”.

   

7. La giustizia prima della solidarietà e della sussidiarietà. In effetti siamo più abituati a vivere la solidarietà (vedi la quantità incredibile di gruppi, movimenti, Onlus, parrocchie, oratori, patronati... che fanno cooperazione internazionale o interventi solidali sul territorio) e quindi a rivendicare la sussidiarietà (ci pensiamo noi, dateci spazio e fondi) piuttosto che accettare la sfida della giustizia. Chiede coraggio politico, intelligenza sociale e progettuale e scelta del bene comune nonché della priorità dei poveri rispetto ai “nostri” interessi, fossero pure di territorio o di Chiesa.

 

8. Non primi ma ultimi. Si tratta di superare il complesso di “primogenitura” di Caino che rivendica per se stesso un pericoloso “esser primo”. Primogenitura che si esprime in una serie di complessi che mettono in croce natura e umanità e non danno pace: complesso di orgoglio nei confronti di se stessi, complesso di superiorità nei confronti del prossimo, complesso di sottomissione della natura, complesso di dominio nei confronti dei popoli. Ultimi, ci dice Gesù. Capaci di incontro e dialogo con tutti in atteggiamento di “compagnia” coscienti che la Chiesa non esiste per sé e per tutelarsi, ma per annunciare e testimoniare il Vangelo a ogni creatura.

 

9. Coraggiosa nelle sfide che scrivono e provocano il suo quotidiano: la sfida della speranza contro la disperazione, la sfida della povertà contro la dissipazione, la sfida della nonviolenza contro la vendetta , la sfida della giustizia contro l’elemosina, la sfida della partecipazione contro il potere autoritario e populista, la sfida della comunità contro l’egoismo, la sfida del disarmo contro la guerra, la sfida della Pasqua contro la morte, la sfida dell’abitare contro la sopravvivenza, la sfida dell’accoglienza contro la paura, la sfida della conversione contro la rigidità, la sfida della vita contro la morte.

 

10. Cristo è la nostra pace e la Chiesa è erede di una Parola pericolosa per la violenza. Le radici sono importantissime, ma il Signore ci giudica a partire dalle radici non meno che dai fiori e dai frutti che queste radici realizzano. Costruire un mondo nuovo significa porre attenzione alle truffe edilizie troppo frequenti. Si mette più sabbia che cemento nell’impasto e tanti edifici dopo un po’ di anni cominciano a sfaldarsi… Non possiamo continuare a parlare di pace in tutte le salse, preghiere, incontri e non metterci il collante della nonviolenza evangelica. Si sfalda tutto, e la storia continua a mostrarcelo. Tu rispondi al male con il bene.  

 

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Immigrazione: presentato rapporto Caritas

Misna - 4 febbraio 2010    

        

"La riflessione sugli immigrati è inquinata, c'è bisogno di essere più sereni": lo ha detto oggi Franco Pittau, coordinatore del gruppo redazionale per conto della Caritas diocesana, presentando il VI Rapporto dell'Osservatorio Romano sulle Migrazioni. Invitando tutti a scardinare il binomio "immigrazione-criminalità" - messaggio che un certo tipo di politica e di media continua a veicolare da anni - Pittau ha fornito alcuni dati diffusi dal ministero dell'Interno che smentiscono chiaramente l'associazione tra immigrazione e criminalità: "Prendendo in esame i dati del quadriennio che va dal 2005 al 2008 - ha detto Pittau - a Roma e Provincia a fronte di un aumento del 60% della popolazione immigrata si è verificato un aumento della criminalità inferiore al 5%". Il rapporto entra nel dettaglio della presenza di immigrati: 293.948 residenti stranieri nel Comune di Roma, 123.635 nei restanti Comuni della Provincia, 83.791 nelle altre Province laziali. Diversi i fenomeni messi in evidenza: l'età media bassa (31,4 anni), la prevalenza delle donne (53,8%), il consistente apporto degli occupati immigrati (165.000), i nati da entrambi i genitori stranieri (5.290), il consistente numero di minori (71.170, dei quali circa sette su 10 nati in Italia), l'aumento delle aziende con titolare straniero anche in periodo di crisi (23.018), l'aiuto ai paesi di origine attraverso le rimesse (un miliardo e 700 milioni di euro) e l'interesse alla nostra lingua attraverso la frequenza a corsi di italiano per adulti (13.514 solo a Roma). In generale in tre anni la popolazione di stranieri residenti è cresciuta del 60%. Il rapporto contiene una serie di approfondimenti sulle diverse collettività, analizzando le più numerose (quella romena, cinese e marocchina) e le più piccole (capoverdiani e malgasci), soffermandosi poi sulla delicata questione dei rom e dei sinti. Lorenzo Tagliavanti, vice-presidente della Camera di commercio di Roma, ha detto: "L'immigrazione è decisiva per soddisfare la domanda di personale in settori in cui l'offerta italiana scarseggia. Nella maggioranza dei casi sono persone desiderose di affermarsi socialmente ed economicamente e anche per questo costituiscono la parte più dinamica del nostro tessuto produttivo, tra l'altro mantenendo in vita antichi mestieri artigiani che fanno parte della nostra tradizione".[MZ]  

 

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P. Sorge: "Non è il tempo di chiuderci in casa e di rinunciare a partecipare" di Giuseppe Delfrate

www.unimondo.org - 3 febbraio 2010         

Dobbiamo, per responsabilità, contribuire a dare un indirizzo al nostro futuro. Non possiamo essere soltanto degli spettatori. Rosarno: perché è successo quel putiferio?  

  

La crisi può essere congiunturale o strutturale. Noi, ora, stiamo vivendo una profonda crisi che è strutturale in quanto è finita la rivoluzione industriale ed è iniziata quella tecnologica. Un esempio: la casa. Quando anche il pavimento crolla, cade la struttura e viene a mancare ogni riferimento. Oggi siamo in questa situazione e c'è urgente bisogno di costruire un cambio di civiltà; un nuovo pavimento sul quale costruire la casa.

Anche la crisi della famiglia è strutturale; quale famiglia, come costruirla?

Crisi del lavoro e della scuola. Esuberi nel mondo del lavoro, cosa produrre e per chi produrre. La scuola che manca di un indirizzo completo in merito a cosa serve conoscere per vivere nel futuro e saperci rapportare con i vari soggetti sociali?

Siamo alla quinta crisi strutturale in duemila anni; la precedente ha avuto inizio con l'era industriale, nel "settecento". Anche la Dottrina sociale della Chiesa, con la Caritas in Veritate dell'attuale Papa, proclama la "Populorum Progessio" come la Magna carta del 21° secolo. Si tratta del Documento di Paolo VI° che ha trattato dello sviluppo globale ed integrale. E' la globalizzazione che determina lo sviluppo, quindi il modello sociale, così pure le malattie (l'influenza asiatica), le mafie ed altro? Attraverso le comunicazioni planetarie il mondo si va unificando, nel bene e nel male. La globalizzazione produce certamente cultura; ma quale cultura? Occorre essere presenti per contribuire a definire le nuove culture: che siano, sempre ed ovunque, a misura d'uomo.

           

Un mondo migliore è possibile

La situazione attuale che c'è nel mondo non può continuare: l'83% delle risorse vengono utilizzate soltanto da 900 milioni di persone, mentre gli altri 6 miliardi dispongono soltanto del 17%. E' un problema strutturale che va affrontato e risolto.

Giovanni Paolo II° ebbe a scrivere, nel 2001, che non è più tollerabile che ci siano ancora queste pesanti ingiustizie. Sono 120.000 le persone che ogni anno muoiono di fame. La gente, poi, reagisce, anche in modo violento.

Sul tema della sicurezza, collegata all'immigrazione, c'è stata una forte degenerazione; non si può considerare l'immigrato un problema di ordine pubblico.

Questa cultura dominante è pericolosa. Il problema è complesso, ma, come ha scritto il Papa nel 2008, deve essere affrontato responsabilmente per costruire una nuova civiltà, che includa gli immigrati, non a creare paure e tensioni sociali. L'immigrato è sempre una persona, non solo un lavoratore disposto a lavorare a poco prezzo.

Siamo in una società avvelenata da alcune affermazioni insensate. C'è ancora bisogno di Dio nel contesto attuale? - Si, dice il Papa. Dobbiamo dare un anima alle nuove tecnologie; serve un etica che comprenda tutto lo sviluppo fatto dall'umanità. Connessione tra etica personale ed etica sociale. Ci vuole coerenza morale ed un giusto equilibrio per far crescere un anima etica nella cultura nichilista che pare essere dominante.

    

L'ora dei laici è suonata con il Concilio.

Oggi l'impegno dei cristiani va declinato attraverso la libertà collegata alla responsabilità. Nessuna struttura umana può essere valida e produrre benefici alla persona se manca la libertà e la responsabilità.

Poi ricorda come PaoloVI° nel 1967 ammoniva come il male peggiore del mondo fosse la mancanza di fraternità e di solidarietà. Tutti abbiamo bisogno di amore, verità e di tanta solidarietà reciproca. Senza una forte socialità non si può vivere bene; almeno in quest'era globale. Pensiamo e decidiamo quali strumenti adottare per uscire dalla palude nella quale siamo immersi e crescere bene insieme.

    

Verso quale Italia stiamo andando?

Bisogna innanzitutto conoscere e riflettere sulla situazione italiana. Nella Caritas in Veritate, al n° 61, il Papa tratta il ruolo dello Stato: non ci può essere sviluppo se non c'è la capacità di impegnare l'economia per il bene comune di tutti.

Il modello imperante, oggi, è preoccupante, e nessuno si sente contento. Personalmente non sono tranquillo di come si sta evolvendo la società attuale.

C'è troppa rassegnazione, sfiducia, si crede che non ci sia nulla da fare, che anche con il nostro impegno non cambi nulla. I cattolici, oggi, sono disorientati politicamente, dicono che sono "tutti uguali". No: questo non è il tempo di chiuderci in casa e di rinunciare a partecipare, a riflettere, a valutare e a scegliere.  

   

Padre Bartolomeo passa ad esaminare alcuni dati ed alcuni fatti avvenuti di recente.

Alle elezioni Europee il 39% dei cattolici non hanno votato; e qui era possibile esprimere tre preferenze. Certo, l'attuale sistema elettorale è una finzione, bisogna dirlo. Con il voto gli italiani possono soltanto ratificare ciò che i rappresentanti dei partiti hanno deciso, ossia chi mettere in lista e con quale ordine. Vuol dire che gli eletti sono alla mercé dei capi partito e che chi detiene la maggioranza del consenso può fare tutto quello che vuole. Questa non è più democrazia, ma populismo. Non soltanto quello di Berlusconi; c'è anche il comico Beppe Grillo ed altri. Il populismo nega nei fatti l'esercizio della democrazia; è una forma di dittatura con il consenso, ed è anche più pericolosa.

Ecco perché ci vuole un bilanciamento ed il controllo del potere politico, che avviene attraverso il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale. Solo nella situazione attuale il potere giudiziario diventa nemico del Premier. Si dimentica che il giudizio di legalità, anche delle leggi, appartiene alla Magistratura.

L'equilibrio è necessario, anche perché la cultura politica che si sta diffondendo è aberrante, individualista e sta avvelenando ogni germe di civiltà. Quanto è avvenuto nel 2009 non è civiltà; la caccia al "nero" ed altre persone; il clima di odio che si sta diffondendo non è certo civiltà, meno ancora amore cristiano. Ci sono troppi esempi.

Dobbiamo fermare questo piano che vorrebbe considerare gli immigrati cittadini di serie B, che alimenta la paura e crea inutili contrapposizioni e tensioni sociali. Si punta sull'effetto psicologico della gente attraverso proposte che sono inique e che, di fatto, non possono venire realizzate, perché vanno contro la Costituzione italiana.

Come si può tacere, oggi, di questa puzza? - A Milano danno l'Ambrogino d'oro ai Vigili che maggiormente sono andati alla caccia dello straniero, fermandolo, magari, dieci volte per niente.

Abbiamo assistito a pesanti attacchi al cardinale Tettamanzi da parte di uomini di Governo; per di più che questi si dichiarano difensori del cristianesimo e si pongono, aspramente, contro l'Arcivescovo lombardo che presta troppa attenzione e da spazio ai mussulmani che vivono nella Diocesi di Milano. Quanta ipocrisia si sta diffondendo, anche nelle nostre comunità, senza che qualcuno se ne accorga e ci aiuti ad aprire gli occhi; distinguendo la verità dalla menzogna!

L'Italia ha bisogno di laici maturi, responsabili verso i fratelli, incominciando dai cristiani.

Ricorda come il Concilio già aveva affidato ai Laici il compito di svolgere la loro attività singolarmente e in gruppo. La Dottrina sociale della Chiesa ci indica come testimoniare nelle opere e con la vita i principi cristiani. E' la professionalità che aiuta a compiere le "opere buone", ed è indispensabile per quanti entrano a far parte delle varie Istituzioni. Non si può usare la politica per fini religiosi, o per fare gli interessi della Chiesa altrimenti si cade nel fondamentalismo.

In politica, il cristiano agisce come laico. Dall'unica Fede si possono trarre scelte diverse. Il Catechismo della Chiesa cattolica dice che non ci sarà mai un partito in piena sintonia con lo stesso Catechismo. La religione di stato porta all'assolutismo, e non è libertà democratica.

Nell'attuale situazione italiana, ritengo che i cristiani possano militare nelle varie formazioni politiche, pur diverse nelle loro dichiarazioni e nei loro programmi.

Nella Lega ritiene che sia possibile un'eventuale testimonianza, rischiando molto personalmente; ciò perché la cultura della Lega è, oggi, individualista; non parla neppure del bene comune ed è marcatamente xenofoba.

Ricordo diversi esempi di persone che storicamente si sono impegnate politicamente, mettendosi al servizio dei cittadini e delle Istituzioni che rappresentavano. Da De Gasperi, La Pira, Lazzati, Moro, Zaccagnini, Pertini ed altri. Laici che hanno agito con rettitudine morale, rispondendo, non alla Chiesa o al Partito ma alla propria coscienza, ampiamente formata. Persone che in percentuale non avevano ampi consensi, ma per la forza delle loro idee riuscivano a far passare le loro proposte.

L'esempio più conosciuto per il contagio delle idee riguarda Aldo Moro.

In merito alle prospettive ha ricordato che, in Italia, il bipartitismo all'americana è impossibile, mentre il bipolarismo ha bisogno di nuove iniziative, negli spazi intermedi, per recuperare quei dieci milioni di italiani che non votano più, perché delusi o perché non hanno ancora maturato l'idea che il sistema democratico si alimenta attraverso la partecipazione popolare.

Concludo. V'è la necessità che la Chiesa continui ad illuminare le coscienze e non dia mai indicazioni in merito alle alleanze politiche. Certo, ha rimarcato, ci vuole un laicato cattolico maturo. E' una illusione pensare alla difesa del crocifisso contro i mussulmani. Gesù vuole diffondere l'Amore, non essere piantato al muro! Il Magistero della Chiesa dica chiaro ciò che si deve fare in coscienza, la quale è trascendenza, secondo una celebre frase di Sandro Pertini.

In merito ai mezzi di informazione, richiamo al pericolo della manipolazione ed auspico che le notizie abbiano a circolare maggiormente e liberamente,

incominciando da ciò che è utile per una crescita culturale, sociale e di relazione, perché tutte le persone siano poste nella condizione di conoscere, quindi di pensare e di riflettere, sapendo che il futuro dell'Italia e del mondo sarà ciò che noi oggi decidiamo che sia.

 (Relazione raccolta al cinema "Agotà" di Ospitaletto. Sintesi non rivista dal relatore)  

 

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Sbarca in Italia la banca di Yunus

Avvenire - 3 febbraio 2010  

      

Potrebbe essere operativa già entro la fine del 2010 la Grameen Bank italiana per la promozione del microcredito. Ad annunciarlo è stato il fondatore dell'istituto di microcredito più famoso al mondo, Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006, che ha fatto tappa in questi giorni in Italia, a Milano, dopo aver partecipato al World economic forum di Davos. Grameen Bank Italia partirà grazie a un accordo con Unicredit e con l'Università di Bologna, prima a Milano e poi anche in altre città italiane.

Ma Yunus intende portare il modello Grameen, che ha già dato prova di essere efficace sia nei Paesi poveri, sia nelle economie industrializzate (come Stati Uniti e Francia), anche nei Paesi dell'Est. Motivo per cui dopo Milano il 'banchiere dei poveri' sarà impegnato in un tour europeo (fra le tappe pure Londra e Stoccolma) per creare una rete di realtà che operino con l'obiettivo di favorire lo sviluppo contrastando la povertà.

Insieme al sindaco di Milano, Letizia Moratti,Yunus ha anche annunciato la prossima nascita nel capoluogo lombardo di Grameen creative Lab, un laboratorio per la promozione non solo di buone pratiche di microcredito ma anche di imprese che pongano alla base della loro attività obiettivi sociali prima ancora che economici. In vista di Expo 2015, quindi, la città di Milano, che è già la capitale italiana del volontariato (con 900 organizzazioni attive e oltre 42mila volontari impegnati), si propone di diventare un incubatore per il business socialmente orientato.

L'ultima idea, utopica quanto affascinante, di Yunus (che ha trovato accoglienza nel sindaco Moratti) è quella di creare dei "musei della povertà". Perché, se si arriverà a farli, vorrà dire che la povertà sarà stata archiviata, appunto, a...reperto da museo.  

 

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Uno sciopero per difendere la dignità degli immigrati di don Paolo Farinella

Micromega.net - 23 febbraio 2010
      
Mi rivolgo a voi, Donne e Uomini che provenite da ogni paese del mondo, dando forma alla visione del profeta che alla fine del sec. I contemplava "una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua" (Ap 7,9). Voi siete Arabi e Asiatici, Indiani e Pakistani, Latinoamericani e Romeni, Orientali e Occidentali. Non possiamo più considerarvi "ospiti", perché i vostri figli nascono e crescono in terra d'Italia e voi a buon diritto siete cittadine e cittadini, parte integrante del popolo italiano. La grande maggioranza della città di Genova e dell'Italia lo sa e ne è consapevole. Sappiamo che voi saldate in positivo il rapporto tra nascite e morti, impedendo che la Liguria diventi sempre più una regione vecchia senza speranza. I vostri bambini salvano molte nostre scuole che la precaria intelligenza della ministra Gelmini vorrebbe chiudere. Accompagnate i nostri anziani nella fatica dell'ultimo miglio, accudite i nostri bambini nelle case, curate i malati e vi umiliate a fare i lavori che gli Italiani e le Italiane non voglio più fare: lavori manuali pesanti come muratori, raccoglitori di frutta, contadini, operatori nelle stalle e nelle fattorie, ecc. Senza di voi, noi saremmo già morti, sì, perché una parte del vostro lavoro garantisce la pensione alle donne e agli uomini italiani nel rapporto di uno a tre. Vi dovremmo essere riconoscenti concedendovi, trascorsi cinque anni di permanenza, il diritto alla cittadinanza come diritto basilare perché collaborate e contribuite alla crescita e allo sviluppo del nostro/vostro popolo.
      
Eppure, voi sapete che così non è perché una parte, una minoranza che per nostra disgrazia e maledizione governa la nostra nazione, ha paura di voi, della vostra pelle, della vostra religione, se ne avete una, e si oppone con veemenza al diritto dei Musulmani e delle Musulmane di avere una moschea. Farebbero lo stesso per una pagoda giapponese o un tempio buddista. Dicono di credere in Dio, invece sono pagani perché se credessero, saprebbero che la libertà religiosa e il diritto alla preghiera in un tempio/chiesa/moschea/pagoda, ecc. è il fondamento della religione e della civiltà. Il giorno 17 gennaio 2010, il papa cattolico è andato nel tempio ebraico di Roma e ha detto parole importanti: "Mai più l'antisemitismo" che è la madre e il padre di tutte le forme di razzismo, di cui i nostri cuori sono ancora intrisi e macchiati. Quel grido significa molto anche per noi e per voi: mai più discriminazione in nome del colore, della religione, del sesso, del paese di provenienza. Sta scritto nell'articolo 3 della nostra Legge fondamentale, la Costituzione, che è il nostro orgoglio e la nostra civiltà: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". I nostri Padri scrissero quel comma per voi, per darvi il benvenuto, per dirvi che nel III Millennio non esistono più confini nazionali, ma solo cittadine e cittadini del mondo. Credenti e non credenti. Tutti uguali nei diritti e nella dignità. Non considerate la Lega che è la vera extracomunitaria della storia.
       
Poiché però alcuni fanno fatica a capire tutto ciò, è necessario che voi ci aiutiate a comprendere l'importanza della vostra presenza nella nostra città. Per questo io vi invito a partecipare in massa allo sciopero del 1 marzo 2010 per "dimostrare" al popolo di Genova e all'Italia intera quanto siete importanti. Cessate per un giorno ogni attività, ogni servizio. Lasciate gli anziani da soli, i bambini a casa, le case da pulire, i lavori deserti. Vi supplico in nome della vostra e nostra dignità di incrociare le braccia e di riposarvi un giorno. Lo pagherete economicamente, ma dimostrerete a tutti che senza di voi, l'Italia cola a picco. Un abbraccio affettuoso e riconoscente.
 

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KYRGYZSTAN

Il Regno di Dio nel cuore dell'Asia:...

"Le nuove restrizioni non toccano la piccola Chiesa kyrgysa", dice a Fides l'Amministratore Apostolico

Agenzia Fides - Bishkek - 1 febbraio 2010

         

Le nuove restrizioni sulla libertà religiosa applicate nei giorni scorsi dal governo del Kyrgyzstan "non toccano la piccola Chiesa cattolica del paese, che prosegue il suo cammino, nella cura pastorale fedeli, nell'opere sociale e umanitaria", dice all'Agenzia Fides S. Ecc. Mons. Nikolaus Messmer, Sj Amministratore Apostolico del Kyrgyzstan.

Il governo ha diramato di recente un nuovo regolamento sulla presenza e l'attività dei gruppi religiosi nel paese. La nuova legge prevede che ogni gruppo, per essere registrato ufficialmente e dunque operare legalmente, debba avere un minino di 200 fedeli. Il provvedimento mette in difficoltà alcune denominazioni cristiane di area protestante che contano piccoli gruppi di fedeli. Ma ha sollevato proteste anche da gruppi musulmani (spesso piccoli) che intendono aprire nuove moschee e scuole islamiche. Il capo della Commissione governativa sulle religioni, Kanibek Osmonaliyev, ha spiegato che il governo intende soprattutto controllare e limitare il proliferare delle sette, riconducibili a qualsiasi credo religioso.

"La Chiesa cattolica non viene invece toccata in alcun modo - spiega all'Agenzia Fides Mons. Messmer - in quanto siamo già ampiamente riconosciuti e abbiamo più di 200 fedeli".

"Certo, il numero dei cattolici resta ancora molto basso. Siamo meno di mille in tutto il paese, e per la maggioranza i fedeli sono di estrazione polacca o tedesca. Va detto anche che molti cittadini cattolici di origine tedesca negli anni scorsi hanno preferito lasciare il paese e tornare in Europa, e così il numero di cattolici è diminuito. Ma in ogni caso non abbiamo alcun problema con le autorità civili. Qualche difficoltà esiste nel rilascio dei visti per i missionari, che devono essere rinnovati ogni sei mesi".

La piccola comunità cattolica nel paese "continua nel suo cammino, operando soprattutto per l'assistenza spirituale e la cura pastorale dei fedeli. Inoltre siamo impegnati in opere sociali e lavoro umanitario, aiutando chiunque abbia bisogno, senza alcun discriminazione".

Le risorse sono comunque limitate: la Chiesa in Kyrgyzstan, su circa cinque milioni di abitanti, ha 6 sacerdoti, 2 religiosi e 4 suore. Solo due preti sono di nazionalità kyrgysa, gli altri sono missionari. "Dobbiamo crescere, con l'aiuto della Provvidenza, per portare la Buona Novella del Regno di Dio nel cuore dell'Asia", conclude l'Amministratore. (PA)  

 

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MEDIO ORIENTE

Berlusconi non ha visto il muro di Raniero La Valle

domani.arcoiris.tv - 4 febbraio 2010  

     

Con mezzo governo Berlusconi è andato in Israele per fare affari e per promettere che non ne farà più col nemico iraniano. Diligentemente è andato a visitare il museo della Shoah, scrivendo un'apposita frase che attesta il suo orrore per quella ignominia. Poi dall'hotel King David dove con il suo seguito occupava una "suite regale" con altre 170 stanze e vestiva un accappatoio bianco con su scritto a lettere d'oro "Silvio Berlusconi", si è spostato alla Knesset per dire che Israele è la migliore democrazia del mondo e che bene ha fatto a punire i palestinesi con l'operazione "Piombo fuso" e con il massacro di Gaza, nonostante la condanna ufficiale dell'ONU da cui l'Italia del resto già si era dissociata votando contro di essa.

Tutto questo il nostro presidente del Consiglio ha fatto nel giorno in cui a Roma alla Camera faceva votare dai suoi devoti la legge-beffa che, unica nelle democrazie dell'Occidente, sancisce la legittima latitanza sua e dei suoi ministri dalle aule giudiziarie nelle quali fossero processati anche per i più gravi reati; una legge così ingegnosa (si raffina con il ripetuto esercizio l'arte di Ghedini) che questa latitanza non ha nemmeno bisogno di essere consumata all'estero, come almeno fece Craxi, ma può essere meramente figurativa e vissuta allegramente in Italia.

Nello stesso giorno Berlusconi si trasferiva nei Territori occupati per una doverosa visita all'infelice Abu Mazen. Per passare da Israele nei Territori bisogna imbattersi nel Muro che sigilla i palestinesi nel loro "apartheid" e sfregia la Terra santa e la stessa Gerusalemme. Ma ai giornalisti che gliene chiedevano le impressioni lo statista ha detto di non averlo veduto, occupato com'era a riordinare le idee per l'incontro con l'Autorità palestinese. Ma non si può avere alcuna idea da scambiare con i palestinesi, se non si vede il Muro, che è come la trave ficcata nel loro occhio. Non vedere il Muro che è la più imponente opera edilizia della regione, è come andare in Egitto e non vedere le piramidi, è come essere andati nella Germania divisa e non aver visto il Muro di Berlino, è come essere andati ad Auschwitz senza aver visto il cancello con la scritta sul "lavoro che libera".

Non vedere il Muro che uccide la Palestina e ghettizza Israele è come non vedere gli operai licenziati di Termini Imerese che salgono sui tetti, o quelli dell'Alcoa, o i disoccupati e i cassintegrati che assediano palazzo Chigi, per proteggere il quale il centro di Roma si è trasformato in un bivacco della polizia.

Non vedere il muro che da Nazaret impedisce di andare a Betlemme, e da Gerusalemme blocca la strada per Emmaus, è come non vedere che c'è la crisi economica che si abbatte su milioni di famiglie, e dire che tutto va bene, basta dare qualche condono ai ricchi che evadendo le tasse hanno messo le mani in tasca agli italiani poveri.

Non vedere il Muro che modernizza la Terra promessa è come non vedere altri monumenti della modernità: lo Stato di Diritto, il Cesare Beccaria dei delitti e delle pene, la divisione dei poteri, la funzione della magistratura, l'universalità della legge penale, l'eguaglianza di tutti davanti alla legge.

Non vedere il Muro oltre il quale è ricacciato l'intero mondo arabo e islamico vuol dire rovesciare la politica estera italiana che ha intessuto legami e gettato ponti in tutto il Medio Oriente; significa distruggere l'immagine dell'Italia che per decenni ha compiuto il miracolo di praticare l'amicizia con Israele senza rompere la solidarietà con i palestinesi; significa ignorare che il Parlamento italiano votò a suo tempo per l'ingresso non del solo Israele, come oggi vorrebbe Berlusconi, ma dei due Stati della Palestina e di Israele nella Comunità europea, intesa non come una fortezza per lo scontro con gli arabi, ma come uno spazio in cui le frontiere si abbassano e Israele e Palestina potessero vivere insieme come Stati indipendenti e sovrani, non confusi ma non divisi nel godimento dello stesso territorio.

Non vedere il Muro che umilia i palestinesi vuol dire andare da loro a promettere non la libertà, ma un po' di soldi di un ipotetico "piano Marshall" per un impossibile "benessere".

Il primo ministro Netanyau ha detto che Israele non ha un altro amico pari a Berlusconi in tutta la comunità internazionale. Povero Israele. Se amico di Israele è chi non vede il Muro, allora vuol dire che Israele vive nella irrealtà, in un mondo che non è quello vero, in un mondo dove non c'è nessun altro che lui, un mondo che esiste solo nel sogno di chi è senza ragione. Questo sogno è molto pericoloso. Se ne può morire. E quello di far entrare il solo Israele nella Unione europea, per meglio combattere tutti insieme l'Islam, non è un sogno, è un incubo.  

 

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NEPAL

Poliziotti compiono torture, uccisioni e stupri nella regione del Tarai

AsiaNews - Kathmandu - 3 febbraio 2010

Organizzazione per i diritti umani denuncia i continui abusi di polizia e forze armate nelle carceri di 11 distretti del Tarai (Nepal meridionale). Colpite soprattutto le minoranze etniche e religiose. Tra i torturati anche bambini di 9 anni.  

    

Aumentano le esecuzioni sommarie e l'utilizzo della tortura nelle carceri della regione del Terai (Nepal meridionale), caratterizzata da scontri etnici. A dirlo è l'organizzazione per i diritti umani Advocacy Forum (Af) che in un report di 93 pagine pubblicato ieri documenta le  ripetute violenze - omicidi, stupri, sequestri, torture - compiute tra gennaio e settembre 2009 da polizia e forze armate a danno delle minoranze etniche presenti nella regione.

Il rapporto di Af dal titolo "Torture and extrajudicial excecutions amid widespread violence in the Tarai" fa riferimento a un totale di 15 esecuzioni sommarie rimaste impunite. Secondo l'organizzazione la Nepal police (Np) sarebbe responsabile di ben 13 uccisioni, mentre due sarebbero state commesse da membri della Armed Police Force (Af). Le persone uccise appartengono per la maggior parte a gruppi politici legati alla comunità madeshi, etnia della regione che si batte per l'autonomia. Testimoni affermano che le vittime sono state arrestate durante scontri tra polizia ed esponenti madeshi e uccise sul posto dagli agenti.  

 

"Ancora una volta vediamo come il governo nepalese abbia fallito nel condurre indagini credibili e nel perseguire i responsabili di questi crimini", afferma Mandira Sharma, direttrice dell'Af. "L'impunità - continua - manifesta la mancanza di un adeguato sistema di sicurezza. Tutto questo non fa che aumentare il risentimento dei gruppi etnici verso il governo centrale di Kathmandu".   

Nel documento è presente anche un'indagine basata su interviste a 1473 detenuti. Questa mostra la diffusione della tortura nelle carceri in 11 distretti: Banke, Barda, Dhanusha, Jhapa, Kanchapur, Kapilvastu, Morang, Siraha, Sunsari, Rupandehi e Udayapur. Nella prigione del distretto di Dhanusha oltre il 30% degli intervistati ha ammesso di essere stato torturato. In particolare le donne denunciano continui abusi sessuali da parte delle guardie. Le torture riguardano anche il 52% dei minori, in alcuni casi di soli 9 anni di età. Oggetto delle torture sono soprattutto le minoranze etniche e religiose. I detenuti appartenenti alle etnie del Tarai e i musulmani sono i più colpiti, mentre agli indù è riservato un migliore trattamento.   

Nel luglio 2009 il governo nepalese ha varato uno speciale piano di sicurezza per limitare le violenze compiute dalle forze dell'ordine, soprattutto nella regione del Tarai. Nonostante ciò esso non è stato ancora applicato e nessun provvedimento è stato preso nei confronti dei poliziotti responsabili delle violenze.   

"Finché non sarà applicata la legge e non vi sarà un maggiore controllo su questi fatti - dice Mandira Sharma -   la polizia continuerà a utilizzare l'elettroshock nelle carceri, a compiere esecuzioni sommarie e violenze sui  detenuti, inclusi i bambini, senza dover rendere conto a nessuno".   

 

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PAKISTAN

Attivisti pakistani: l'omicidio della 12enne cristiana a rischio impunità di Fareed Khan

AsiaNews - Islamabad - 2 febbraio 2010)

Il delitto della giovane domestica, stuprata e uccisa dal padrone, bloccato da ritardi e ostacoli alla giustizia. L'assassino, un ricco avvocato di Lahore, è trattato dalla polizia come un "ospite di Stato". Cattolici e membri per la tutela dei diritti umani parte civile a sostegno della famiglia.  

       

Leader cattolici e attivisti per i diritti umani in Pakistan lanciano l'allarme: lo stupro e l'omicidio della 12enne cristiana Shazia Bashir, del 23 gennaio scorso, rischia di restare impunito. Il principale indiziato è un ricco e potente avvocato musulmano di Lahore, Chaudhry Muhammad Naeem, presso il quale la giovane lavorava come domestica. L'associazione dei legali della città si è schierata a difesa dell'uomo - ex presidente della Lahore Bar Association - che riceve un trattamento di tutto riguardo dagli agenti che lo hanno in custodia. La giustizia, intanto, continua a rimandare l'incriminazione.

I parenti di Shazia affermano di non credere al comitato istituito da Shahbaz Sharif, Capo ministro del Punjab, accusato di rimandare i tempi della giustizia. Un gruppo di familiari della vittima e attivisti si sono costituiti parte civile e hanno inscenato proteste di fronte al Circolo della stampa di Lahore.

Peter Jacob, segretario esecutivo di Giustizia e pace della Chiesa cattolica pakistana (Ncjp), sottolinea ad AsiaNews la "debolezza" del governo nel garantire giustizia ai più poveri e punire i colpevoli. L'attivista cattolico, insieme a membri per i diritti umani, è impegnato nel "mantenere viva la lotta per la giustizia" perché gli assassini di Shazia rispondano del loro crimine.

Il 29 gennaio scorso un giudice ha prolungato di altri sei giorni i termini di custodia cautelare a carico di Chaudhry Muhammad Naeem. La polizia ha spiegato imponenti misure di sicurezza attorno all'uomo; il team di legali che lo difende ha ottenuto il bando dei media dall'aula di tribunale. All'esterno (nella foto) i familiari della giovane uccisa e membri della società civile scandivano slogan di protesta.

Intanto la All Pakistan Minorities Alliance (Apma) e la Pakistan Masihi League (Pml), due organizzazioni cristiane, hanno lanciato un appello al Capo della Corte suprema pakistana, perché intervenga in prima persona contro i criminali.

Il professor Salamat Akhtar, presidente della Pml, denuncia una manomissione del certificato di morte e accusa la polizia di trattare l'imputato come un "ospite di Stato", che gode di tutti i favori. Egli aggiunge che l'associazione degli avvocati di Lahore "può difendere l'amico in tribunale", ma "non può danneggiare o distruggere la giustizia con minacce o azioni contrarie all'etica e alla legge".

In un comunicato congiunto mons. Lawrence John Saldanha, presidente di Ncjp, e Peter Jacob ribadscono che la morte di Shazia "non è un incidente isolato" perché i domestici sono spesso "vittime di violenze e coercizioni dai loro padroni", mentre il governo nazionale e provinciale non sono in grado di "assicurare giustizia". Essi chiedono all'esecutivo di introdurre una norma contro il lavoro minorile e garantire "la velocità nei processi a carico dei colpevoli".  

 

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Avvocati musulmani: "bruceremo vivo" chi difende la 12enne cristiana uccisa di Fareed Khan

AsiaNews - Islamabad - 6 febbraio 2010

Nessun legale intende assumere la difesa di Shazia Bashir, la giovane domestica uccisa dal suo datore di lavoro. La potente associazione degli avvocati di Lahore, schierata a difesa dell'assassino, lancia minacce di morte e impedisce l'accesso all'aula di tribunale. Associazione cristiana: condanniamo questa nuova forma di terrorismo.  

     

A causa delle minacce lanciate dalla potente Lahore Bar Association - organizzazione che riunisce i legali della città - nessun avvocato cristiano o musulmano è pronto ad assumere le parti della difesa nell'omicidio della 12enne Shazia Bashir. È quanto denunciato ieri da un'associazione cristiana pakistana che si occupa di assistenza legale.

La ragazza, di fede cristiana, è morta il 23 gennaio scorso in seguito alle violenze - anche sessuali - inflitte dal suo datore di lavoro, un ricco e potente avvocato musulmano di Lahore. Il presunto assassino, Chaudhry Mohammad Naeem, è un ex-presidente della Lahore High Court Bar Association. La giovane, di soli 12 anni, negli ultimi sei mesi aveva lavorato come domestica nell'abitazione di Naeem.

Il Centre for Legal Aid Assistance And Settlement (Claas) denuncia l'impossibilità di accedere all'aula del tribunale dove si sono svolte le udienze a carico dell'imputato, perché un gruppo di avvocati musulmani (nella foto) ne ha "impedito l'ingresso". L'associazione che si batte - a titolo gratuito - per la difesa dei diritti dei più poveri ed emarginati ha subito le minacce di migliaia di legali - amici dell'assassino - che promettono di "bruciare vivo chiunque voglia rappresentare la vittima in tribunale".

M. Joseph Francis, direttore di Claas, chiede a membri della società civile, leader politici e religiosi di ribellarsi e assumere in prima persona l'iniziativa per "condannare questa nuova forma di terrorismo" ad opera di avvocati che "dovrebbero garantire la giustizia". Il quotidiano pakistano The News riferisce che il 4 febbraio scorso la polizia ha condotto l'imputato davanti ai giudici fra "rigide misure di sicurezza". E, come di consueto, gli agenti hanno impedito ai giornalisti e ai parenti della vittima di entrare in aula per "motivi di sicurezza".

I familiari di Shazia Bashir non hanno potuto accedere al tribunale non una, ma tre volte; un fatto anomalo, per quanto concerne il sistema giudiziario pakistano. Gli ufficiali di polizia spiegano che "non sarebbe possibile" impedire scontri e violenze, nel caso in cui "i parenti di Shazia e i rappresentanti delle minoranze entrassero in aula".

Nel frattempo Ashgar Ali, titolare dell'inchiesta, ha chiesto la comparizione dell'imputato davanti ai giudici e un prolungamento dei termini di custodia cautelare per altri sei giorni. Il magistrato aggiunge che non è ancora stata recuperata l'arma usata per il delitto e l'accusato potrebbe fornire i nomi dei complici, che hanno partecipato alle torture e all'omicidio della 12enne cristiana. Il tribunale, tuttavia, ha accolto in parte la richiesta, disponendo solo quattro giorni di carcere.  

 

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RUSSIA

Chiesa ortodossa russa, vicina ai cattolici, ma lontana dai protestanti

AsiaNews - Mosca - 4 febbraio 2010

Il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill riscontra la vicinanza tra Roma e Mosca sulle maggiori sfide della modernità: globalizzazione, secolarizzazione, erosione dei principi morali tradizionali. Aumentano invece le distanze con i protestanti accusati di tradire l'eredità cristiana adeguandosi agli standard del mondo.  

 

Mentre con la Chiesa cattolica riscontra una vicinanza di visioni almeno sulle maggiori sfide poste dalla contemporaneità, il Patriarcato di Mosca non può dire lo stesso dei protestanti.        

Parla così il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill, intervenendo all'incontro dei vescovi che si è svolto nella capitale il 2 febbraio scorso. "Con la Chiesa di Roma - ha detto - abbiamo posizioni simili su molti problemi che affrontano i cristiani nel mondo moderno. Come ad esempio la secolarizzazione, la globalizzazione e l'erosione dei principi morali tradizionali. Bisogna notare che in molte questioni Benedetto XVI ha preso posizioni vicine a quelle ortodosse".

Sembrano, invece, aumentare le distanze con le varie denominazioni protestanti. Negli ultimi anni, "c'è stata una diminuzione della collaborazione delle comunità protestanti nello sforzo di preservare l'eredità cristiana" e questo a causa della "costante liberalizzazione" del loro mondo, ha spiegato Kirill. "Non solo - aggiunge il Patriarca - hanno fallito nel propagare in modo concreto i valori cristiani nella società laica, ma molte comunità protestanti preferiscono adeguarsi a quegli standard". Il riferimento sembra essere alla recente elezioni della donna vescovo, Margot Kassmann, come capo della Chiesa evangelica in Germania.  

Kirill spiega chiaramente che nel dialogo con i protestanti la Chiesa ortodossa deve cercare il modo di superare le differenze fondamentali e se questo non sarà possibile, "rimarranno molti altri importanti questioni, non direttamente legate al raggiungimento dell'unità nella fede e alla struttura ecumenica, ma importanti in termini di collaborazione per il bene della pace, della giustizia, del Creato e importanti per risolvere altri problemi che richiedono uno sforzo comune da parte di coloro che credono nella Trinità".  

  

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SOMALIA 

I Paesi vicini temono un'estensione del conflitto somalo alle aree finora risparmiate dalle violenze

Agenzia Fides - Mogadiscio - 1 febbraio 2010

       

Mentre dalla capitale somala, Mogadiscio, continuano a giungere notizie di nuovi scontri, i Paesi limitrofi esprimono la preoccupazione per una possibile estensione del conflitto ad aree finora risparmiate dalle violenza.

"I gruppi terroristici hanno di recente esteso le loro azioni alle regioni relativamente stabili del Somaliland e del Puntland" afferma un comunicato dell'IGAD (Autorità intergovernativa per lo Sviluppo, che raggruppa 6 Paesi dell'Africa dell'est), pubblicato a margine del Vertice dell'Unione Africana che si tiene ad Addis Abeba (Etiopia).

L'IGAD "fa appello alle autorità del Somaliland e del Puntland di coordinare la loro risposta e di lavorare in stretta unione con il governo di transizione somalo, per far fronte alla minaccia comune rappresentata dagli Shebab e dall' Hezb al-Islam". Si tratta dei due gruppi islamisti che si oppongono al governo di transizione (installato a Mogadiscio e riconosciuto dalla comunità internazionale), che controllano buona parte della Somalia centro-meridionale. Il Puntland, regione centro-settentrionale, ha un'amministrazione autonoma dal resto del Paese. Il Somaliland corrisponde al territorio della ex colonia britannica, nel settentrione del Paese, che venne unito alla ex Somalia italiana nel 1960 per formare lo Stato unitario, dissoltosi con la caduta del dittatore Siad Barre nel 1991. Proprio in quell'anno il Somaliland ha proclamato la sua indipendenza, non riconosciuta dalla comunità internazionale. I due territori hanno finora goduto di una relativa pace e stabilità, anche se il Puntland è la base dei pirati che rendono insicuro il Golfo di Aden e un'ampia area dell'Oceano Indiano.

Nel frattempo continuano gli scontri a Mogadiscio dove 12 civili hanno perso la vita e altre 55 persone sono rimaste ferite nel corso di uno scontro a colpi d'arma da fuoco nel distretto di Suqa Holaha, fra i caschi blu dell'Unione Africana e un gruppo di ribelli islamici. (L.M.) 

 

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SRI LANKA

La scomparsa del "p. Gandhi" italiano di Melani Manel Perera

AsiaNews - Colombo - 6 febbraio 2010

Ieri a Lewella, nel centro dello Sri Lanka, si sono svolti i funerali del missionario p. Angelo Stefanizzi. Il sacerdote ha trascorso 58 anni nell'isola, lavorando a contatto con gli agricoltori della zona. Provinciale dei gesuiti: "un cuore grande e una profonda educazione".  

    

Moltissimi agricoltori della provincia di Kandy, nello Sri Lanka centrale, hanno partecipato ai funerali del missionario italiano p. Angelo Stefanizzi, scomparso il 3 febbraio scorso. Le esequie di "p. Gandhi" - questo il soprannome dato dai fedeli - si sono svolte ieri a Lewella. Le spoglie del sacerdote, che ha trascorso 58 anni nel Paese, sono state seppellite nella casa dei gesuiti, ordine nel quale era entrato nell'agosto del 1936 per il noviziato.

P. Gandhi ha trascorso l'ultimo periodo su una sedie a rotelle a causa dell'artrite, curato con affetto e dedizione dai confratelli. Egli ha vissuto con serenità e presenza di spirito la malattia, senza perdere mai lo zelo missionario, la devozione per la preghiera e l'Eucaristia.

K.s.s.a. Francis, direttore dell'organizzazione Foliseb Sri Lanka con base nella città di Hatton, lo ricorda come un "santo dei nostri tempi" e "una guida accurata ed eccellente" per tutti i lavoratori della terra. Egli sottolinea la particolare attenzione mostrata da p. Stefanizzi per i poveri agricoltori della provincia e il suo impegno "nel cercare di parlare con loro e aiutarli a risolvere i problemi, per questo lo chiamavamo con affetto... p. Gandhi".

Il suo segreto, come riferisce K.s.s.a. Francis, era quello di "parlare in modo fluente sia il singalese che il tamil, nonostante fosse uno straniero"; una particolare dote che gli ha permesso di "conquistare il cuore delle persone" che potevano "avvicinarlo senza incontrare barriere o ostacoli".

P. Maria Anthony, superiore provinciale dei Gesuiti nello Sri Lanka, spiega ad AsiaNews che "abbiamo perduto un missionario di lungo corso, con un cuore grande e una profonda educazione". "Mi piaceva chiamarlo uomo per i poveri" continua il confratello, perché "era pronto a lavorare in mezzo a ogni difficoltà. Non gli interessava una vita agiata, voleva solo stare vicino ai contadini poveri".

P. Angelo Stefanizzi è nato nel comune di Matino, in provincia di Lecce, il 2 ottobre 1919. Egli è entrato come novizio nell'ordine dei Gesuiti, a Napoli, nell'agosto del 1936 e ha compiuto gli studi di filosofia a Gallarate, in provincia di Varese (Italia settentrionale). Nel 1949 è partito per l'India, dove ha studiato teologia, lingua tamil ed è stato ordinato sacerdote il 21 novembre dello stesso anno.

Nel 1952 si è trasferito nell'isola di Ceylon (l'attuale Sri Lanka) e ha intrapreso anche gli studi della lingua singalese. La sua vita missionaria è stata spesa a contatto della popolazione, con una particolare attenzione ai poveri coltivatori della terra. Fino alla morte, avvenuta lo scorso 3 febbraio.  

 

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SUDAN

Onu e Unione Africana rilanciano l'unità del paese

Misna - 2 febbraio 2010    

    

"Sono sfide senza precedenti" quelle che i prossimi appuntamenti elettorali pongono al futuro del Sudan, ma anche della regione e dell'intero continente: lo hanno sostenuto i responsabili africani riuniti per un incontro, organizzato a margine del vertice dell'Unione Africana in corso ad Addis Abeba, interamente dedicato al Sudan e al mantenimento della pace nel paese. Tra pochi mesi i sudanesi si recheranno alle urne per scegliere un nuovo presidente, mentre il prossimo anno dovranno esprimersi con un referendum per decidere se il Sud Sudan dovrà restare unito al resto del paese o diventare indipendente. La questione della possibile indipendenza del Sud sta cominciando a preoccupare seriamente molti paesi africani e soprattutto le istituzioni continentali. Il referendum, infatti, metterebbe in discussione il principio (che è uno dei fondamenti della stessa UA) dell'intangibilità dei confini disegnati nel continente dalle ex-potenze coloniali e sono in molti a non escludere che, un'eventuale separazione del Sud, potrebbe portare al sorgere di iniziative analoghe in altre zone del continente. Presente all'incontro a cui hanno partecipato i presidenti di sei importanti paesi africani, il Commissario per la pace e la sicurezza dell'Unione Africana, Ramtane Lamamra, ha sottolineato la necessità di "lavorare con tutti i responsabili sudanesi per promuovere la pace nel paese" e, evidenziando la volontà di rispettare pienamente la volontà del popolo sudanese, ha anche aggiunto: "in ogni caso dobbiamo darci da fare per rendere l'unità attraente". Le parole di Lamamra, su una esplicita preferenza per l'unità sudanese, ricalcano alla lettera quelle utilizzate dal Segretario Generale dell'Onu, Ban Ki Moon, nel suo discorso per l'apertura del vertice UA. Una posizione giudicata tardiva da alcuni esponenti del governo di Khartoum, i quali sostengono che le popolazioni del Sud si siano ormai già formate un'idea sul voto da esprimere nel referendum del prossimo anno, e criticata oggi da una parte del Splm (Sudan people's liberation movement) la principale forza politica del Sud Sudan che fa parte del governo d'unità nazionale sudanese e che guida l'autorità amministrativa autonoma del Sud. [MZ]  

 

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THAILANDIA

L’odissea dei migranti birmani di Alessandro Ursic

PeaceReporter - 1 febbraio 2010  

Oltre un milione di lavoratori stranieri rischiano la deportazione, perché le regole imposte da Bangkok sono quasi impossibili da applicare  

 

Stretti tra un Paese ospitante diventato irremovibile sui documenti necessari e una patria che non muove un dito per venire loro incontro, quasi un milione e mezzo di migranti birmani in Thailandia sono a rischio di deportazione nei prossimi mesi. E al momento, se nessuno dei due Stati accetterà dei compromessi, la soluzione del problema appare un rompicapo quasi impossibile.

Secondo le norme di Bangkok, che ha appena esteso di un mese la data massima, entro il 28 febbraio gli 1,3 milioni di immigrati birmani - oltre a circa 200mila lavoratori provenienti da Laos e Cambogia - dovranno esibire un certificato che provi la loro nazionalità, se intendono rinnovare il loro permesso di lavoro. Ma se le autorità di Vientiane e di Phnom Penh si sono mosse per tempo, inviando in Thailandia funzionari che hanno aiutato i migranti a compilare i moduli necessari, la giunta militare birmana si è limitata a istituire uffici appositi solamente presso tre valichi al confine, e oltre non intende andare.

Per l'esercito di lavoratori birmani in Thailandia, si tratta di un sacrificio e di un pericolo allo stesso tempo. Come i messicani negli Stati Uniti, queste persone svolgono i lavori più umili e contemporaneamente necessari al funzionamento del Paese: manovali, braccianti, donne delle pulizie. Con paghe che raramente superano i 100 euro, per loro un viaggio di andata e ritorno al confine è già un salasso. Le organizzazioni per i diritti umani - calcolando i costi per i documenti necessari, qualche occasionale bustarella o l'appoggio di un'apposita agenzia - hanno stimato in due mesi di salario il prezzo che questi lavoratori dovrebbero fronteggiare per mettersi in regola.

Inoltre, molti migranti temono per la loro incolumità e quella delle loro famiglie. La gran parte dei birmani in Thailandia appartengono all'etnia Karen, Mon o Shan, e sono fuggiti dalla Birmania per la povertà e per le persecuzioni dei militari. E' tutto da vedere se gli ufficiali birmani al confine forniranno la collaborazione necessaria. Ma soprattutto, dati gli abusi subiti in passato, gli immigrati birmani temono ripercussioni per le loro famiglie, rimaste in patria, se dovessero uscire allo scoperto.

Il 19 gennaio, 36 organizzazioni per i diritti umani hanno scritto una lettera aperta al premier thailandese Abhisit Vejjajiva, chiedendogli di intervenire per scongiurare la deportazione di massa dei migranti. Le autorità di Bangkok hanno prolungato di due anni la data di scadenza per la regolarizzazione, fino al febbraio 2012; ma il rischio di essere espulsi resta, se non si presenta domanda entro questo 28 febbraio, iniziando un procedimento che potrebbe durare fino a due anni. E per evitare di "perdere la faccia" - concetto chiave da queste parti - rimangiandosi le norme già fissate, è difficile che Bangkok o Naypiydaw facciano un passo indietro.  

 

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Davos, premier thai: sicurezza alimentare e lotta alla corruzione le priorità di Weena Kowitwanij

AsiaNews - Bangkok - 1 febbraio 2010

Al Forum economico mondiale Abhisit Vejjajiva promuove la cooperazione internazionale per migliorare la qualità dei prodotti e lo sviluppo agricolo. Il Primo Ministro sottolinea i progressi economici del Paese e il ruolo delle nazioni dell'Asia dell'est in un'ottica globale.  

    

Un sistema per migliorare la sicurezza alimentare, il problema della lotta alla corruzione e il ruolo delle nazioni dell'Asia dell'est, in un'ottica di mercato globale. Sono i punti-chiave dell'intervento del premier thai Abhisit Vejjajiva all'annuale Forum economico mondiale, che si è tenuto a Davos (in Svizzera) dal 29 al 31 gennaio.

Insieme a 2.500 funzionari in rappresentanza di oltre 90 nazioni, il Primo ministro thai ha partecipato al summit annuale incentrato sul tema: "Migliorare lo stato del pianeta: ripensare, ridisegnare , ricostruire". Durante la tre giorni di incontri si è parlato, soprattutto, dei provvedimenti da adottare per la regolamentazione del settore bancario e della catastrofe umanitaria di Haiti, che ha causato la morte di decine di migliaia di persone.

La cooperazione internazionale, puntualizza il premier thai, ricopre un ruolo essenziale nel rafforzare la sicurezza alimentare a livello globale e nello sviluppo di un'agricoltura sostenibile. Sottolineando la posizione della Thailandia quale produttrice di riso, egli spiega che "si deve essere responsabili verso il consumatore sia in termini di qualità che di sicurezza" e realizzare "una regolamentazione nel settore del commercio".

Abhisit ha affrontato il tema della corruzione, illustrando i progressi compiuti nel Paese grazie al ruolo del "settore pubblico". Il premier ha confermato lo stato di salute di cui gode l'economia nazionale, che ha saputo riprendersi - in particolare nel settore del turismo e della produzione agricola - dalla grave crisi finanziaria mondiale. Egli ha infine ricordato il ruolo delle nazioni dell'Asia dell'est, che hanno acquisito un ruolo di primo piano nel panorama economico-commerciale mondiale.  

 

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TURCHIA

In Turchia c'è chi prega ancora nella lingua di Gesù di Egidio Picucci

(c)L'Osservatore Romano - 31 gennaio 2010

A Tur Abdin la comunità siro-ortodossa conserva con fierezza l'uso dell'aramaico nella liturgia  

  

Parlato un tempo in tutto il Medio Oriente, l'aramaico, la lingua di Gesù, non è stato più usato dal popolo a partire dall'VIII secolo ma è sopravvissuto nel ceto colto per altri cinque secoli, e si usa ancora come lingua liturgica. Le "isole" in cui esso sopravvive si trovano nei dintorni di Tur Abdin, una regione montagnosa del sud-est della Turchia che comprende la metà orientale della provincia di Mardin e la parte occidentale del Tigri della provincia di Sirnak, confinante con la Siria. Nella vita comune qui si parla l'arabo ma nella liturgia dei cristiani siriaci si adotta l'aramaico con evidente fierezza dei monaci che non nascondono il privilegio e la soddisfazione di poter consacrare, unici al mondo, il pane e il vino con le stesse parole usare da Gesù.

Nella zona di Mardin - din vuol dire religione, mar significa santo - il cristianesimo è ancora parte della comunità e della storia. La città è una sentinella arroccata sul precipizio che separa l'altipiano anatolico dalla piana dei babilonesi e si affaccia sulle terre di Abramo. La civiltà più antica della storia è quindi ai suoi piedi. Tur Abdin, il luogo dove il cristianesimo si nota di più, deriva dal siriaco e significa "montagna dei servi di Dio", perché un tempo era tutto un gradevole ondeggiare di chiese, e oggi, invece, è punteggiato solo di minareti immobili nel vento incandescente e un immenso silenzio. Impressiona, comunque, vedere ancora tra loro, alti sulle frontiere fra Turchia, Iran, Iraq e Siria, millenari campanili cristiani. Il perché è da cercare nella tradizione, secondo la quale, subito dopo la Pentecoste, il discepolo Addai (Taddeo) arrivò a Nisibis e a Edessa, dove più tardi sorse un'università in cui insegnò sant'Efrem e nella quale ottocento alunni trascrissero la Bibbia in aramaico, parlato anche oggi nel dialetto turoyo nei villaggi di questo ventilato pianoro dell'alta Mesopotamia. Isolato in una rocciosa solitudine geografica, che fu rispettata anche dalle grandi vie di comunicazione, l'altopiano non risentì neppure marginalmente della cultura ellenistica, consentendo così la sopravvivenza della cultura nata nella comunità e nei numerosi monasteri sorti all'ombra delle università, nonché la fioritura di un monachesimo nelle diverse forme di vita eremitica (stilitica reclusa, cenobitica) che distinguono tuttora la Chiesa siriaco-ortodossa e la pongono all'attenzione di tutte le altre Chiese.

Attorno a Tur Abdin sorgono infatti alcuni villaggi cristiani, sopravvissuti alle bufere della storia e alle malefatte degli uomini che, purtroppo, hanno allontanato molte famiglie. Ma alcune hanno resistito, pur ricordando quanto successe all'indomani della prima guerra mondiale, e cioè un massacro simile a quello degli armeni. Pare che circa cinquecentomila cristiani siriaci (secondo i registri siro-ortodossi novantamila appartenevano alla loro comunità) morirono con altri per la stessa fede. Tristissimi tempi nei quali furono rubate vite, averi, chiese (trasformate in moschee), donne, bambini. Poi venne la guerriglia che tutti conosciamo e che dura ancora. E questo perché, a differenza delle tre minoranze non musulmane tutelate dal Trattato di Losanna (greci, armeni ed ebrei), la loro è priva di ogni garanzia di libertà di culto e di espressione. "Non abbiamo un territorio - dicono - siamo sparpagliati per il mondo, ma siamo molto uniti grazie alla nostra identità linguistica, sociale e culturale. La religione, ce lo insegna la storia, ha sempre avuto una parte predominante nella civiltà. Il nostro è un popolo molto religioso e siamo orgogliosi di parlare la lingua che fu di Gesù".

Coloro che sono rimasti sono conosciuti come siro-kadim, cioè vecchio, antico, rispetto a una divisione successiva. Il centro spirituale è proprio Tur Abdin, chiamato anche "il monte Athos dei siro-ortodossi", famoso per la presenza dei monasteri che si scambierebbero per il prolungamento naturale delle rocce se non se ne distaccassero per un'architettura che si rifà più ai templi assiro-babilonesi che alle basiliche cristiane. Un fatto che conferma come il cristianesimo di questa regione, anche nell'architettura, abbia mantenuto stretti legami con le più antiche tradizioni locali. Fino al 1970 i monasteri erano quaranta, oggi non superano le dita di una mano. Con le partenze che si sono succedute - secondo alcune stime la Chiesa siriaca ha oggi 2.250.000 fedeli sparsi nel mondo - è scomparsa una cultura che risale agli albori del cristianesimo e di cui è possibile vedere qualche favilla in alcune opere conservate gelosamente nei monasteri, e particolarmente nella Kirklar Kilisesi (chiesa dei 40 Martiri) di Mardin, fondata nel 569 e fino a qualche anno fa chiesa patriarcale. Oggi è retta da un papas che insegna l'aramaico ad alcuni giovani, tra cui i suoi tredici figli, che non vogliono rassegnarsi alla possibile scomparsa della cultura della propria gente. Fra le varie opere preziose, egli conserva la famosa Bibbia di Mardin, un lavoro del 1200 rilegato in pelle di gazzella e impreziosito delle miniature dell'amanuense Dioscoro Teodoro.

I monasteri attualmente aperti sono cinque, e precisamente Mar Gabriel, Der El Zafaràn, Mar Mekel, Meryemana, Mar Yacoup. L'unico accessibile ai turisti è quello di El Zafaràn (dello Zafferano), così detto per il colore giallastro delle sue pietre. Risale ai tempi di san Giovanni Crisostomo (397). Il monastero più importante, comunque, è quello di Mar Gabriel, 120 chilometri da Mardin, un luogo mitico fondato nel 397 e da allora sempre abitato. I muraglioni di un metro e mezzo lo fanno somigliare a una fortezza, ma hanno consentito ai monaci di resistere ai turchi, agli arabi, ai crociati, ai persiani, ai mongoli, ai bizantini. Nonostante tutto è rimasto sempre lì, sulla linea più rovente del Medio Oriente. Qui vive il metropolita di Tur Abdin, Mor Timotheus Samuel Aktas, con tre monaci, quattordici suore e trentacinque giovani studenti:  è perciò punto di riferimento religioso e culturale per tutti i cristiani siro-ortodossi, che conservano ancora, com'è stato detto, l'aramaico antico, la lingua di Gesù. Da Mardin fino a qui pare che i cristiani abbiano un'unica passione:  conservare la lingua più antica della cristianità, che la Turchia centralista di Ataturk bandì per quasi un secolo in tutte le sue forme scritte.

Oggi Tur Abdin si nutre di memorie, ma queste non garantiscono la sopravvivenza. Custodire belle chiese e preziosissime pergamene miniate può costituire un privilegio e un'invidiabile ricchezza, ma il pericolo che tutto possa finire come e quando non si vorrebbe provoca una comprensibile angoscia. Le piccole comunità, inoltre, pur essendo libere di praticare la propria fede, sono costrette a pesanti rinunce, come l'insegnamento del siriaco e il suo uso. La catechesi deve essere tenuta nella lingua nazionale.

Eppure la lingua siriaca ha avuto un ruolo fondamentale nella trasmissione della cultura greca a quella araba:  il corpus scientifico greco fu tradotto (dal VII al X secolo) in arabo attraverso traduzioni intermedie in siriaco. I traduttori, come il famoso Isa Ibn Ishaq, erano siriaci, conoscevano perfettamente l'arabo e lavoravano non solo nell'ambito dei monasteri, ma anche al servizio dei califfi abbasidi. Oltre questo, essa ha trasmesso molte fonti orientali, come il Kalila wa Disma, derivato dalla raccolta di quelle favole moralizzanti indiane conosciute sotto il nome di Panchatantra. Perciò i monaci di Tur Abdim e i siro-kadim usciti dal proprio territorio sono decisi a non farla morire. Mentre, infatti, alcuni si interessano perché la imparino i pochi ragazzi rimasti vicino a loro, altri la insegnano tutte le domeniche dopo la messa festiva, preoccupandosi che la si parli con proprietà e correttezza. Per gli emigrati adulti all'estero vengono stampati in siriaco due giornali, in Olanda e in Svezia. Inoltre, per salvare questo immenso patrimonio che potrebbe scomparire si è costituita a Milano e a Linz, in Austria, l'associazione "Amici del Tur Abdin".

Oggi occorre decidere se si vuole conservare una cultura antica di milleseicento anni o se si vogliono cancellare anche gli ultimi resti di una tradizione non musulmana. È in gioco la multiculturalità che ha sempre caratterizzato questa nazione sin dai tempi dell'Impero ottomano.  

 

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YEMEN

Sono oltre 250 mila gli sfollati in Yemen

www.unhcr.it - 29 gennaio 2009  

    

Si fa sempre più grave la crisi umanitaria in Yemen e l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) stima che dall'inizio del conflitto nel 2004 i civili sfollati siano ormai più di 250.000. La cifra è più che raddoppiata dall'agosto 2009 quando ha avuto inizio l'ultima serie di scontri.

Nelle ultime sei settimane si è assistito all'arrivo costante di circa 1.000 famiglie (7.000 persone) ogni settimana nella provincia di Hajjah. Queste persone sono originarie soprattutto della provincia di Sa'ada che sta sopportando il peso più gravoso del conflitto tra truppe governative e forze di Al Houti.

I combattimenti si sono gradualmente spostati dalla città di Sa'ada e dintorni verso il nord-ovest. Questo viene evidenziato dalla composizione della popolazione di sfollati interni, infatti i primi arrivati erano originari dell'area intorno alle città di Sa'ada e Al-Dhaher, mentre nelle ultime settimane la maggior parte delle persone arrivano dai distretti di Razeh, Ghamr e Saqayn. Un altro fattore preoccupante è il collasso di ogni sistema di sostentamento - nella provincia di Sa'ada le persone non riescono più a provvedere a loro stesse.

Nonostante l'esistenza di tre campi per sfollati in continua espansione nel governatorato di Hajjah, la mancanza di alloggi adeguati è fonte di grande preoccupazione per l'UNHCR. Molti yemeniti sfollati si trovano nei numerosi siti provvisori che sono sorti intorno alle strade che portano ai campi. Anche nella provincia di Amran la situazione è difficile: qui la maggioranza degli sfollati sono alloggiati presso parenti e amici o sono in affitto. L'UNHCR e i suoi partner stanno fornendo tende alle famiglie di sfollati ospitate dalle comunità locali per cercare di aumentare gli spazi abitabili nei complessi residenziali. Per alleggerire la situazione l'UNHCR sta lavorando alla costruzione di un centro di transito in attesa di individuare un sito adatto all'edificazione di un nuovo campo.

Il governo yemenita, l'UNHCR e altre agenzie umanitarie stanno distribuendo aiuti, ma sta diventando sempre più difficile per gli sfollati provvedere a se stessi e accedere ai servizi di base come la sanità e l'istruzione. Molti sono fuggiti abbandonando tutti i loro averi e il loro bestiame, che era il pilastro su cui fondavano la loro esistenza e la loro fonte primaria di reddito.

Il proseguire degli scontri nel nord ha anche fatto aumentare il numero di sfollati interni che si dirigono verso la capitale Sa'ana in cerca di sicurezza e assistenza. Finora nella città sono stati registrati 12.000 sfollati. L'UNHCR, il governo e altre agenzie stanno continuando a distribuire cibo e altri aiuti.

Intanto, cinque camion dell'UNHCR - carichi di tende, materassi, coperte, set da cucina e articoli per l'igiene per 2.000 persone - dovrebbero attraversare il confine tra Arabia Saudita e Yemen nella giornata di domani (sabato, 30 gennaio). Si tratta del terzo convoglio di questo tipo. Ci sono 10.000 yemeniti alloggiati nel campo provvisorio nell'area di Mandaba dove il governo e altre agenzie umanitarie stanno fornendo assistenza.

L'UNHCR chiede ai Paesi donatori di continuare a sostenere le operazioni in Yemen per riuscire a far fronte alla situazione e fornire la necessaria assistenza. In totale, per i programmi di protezione e assistenza in Yemen quest'anno sono necessari 35 milioni di dollari, 16 milioni dei quali sono destinati ai programmi per gli sfollati interni ed i rimanenti ai rifugiati.  

   

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