Bangl@news

Newsletter settimanale sul Bangladesh, pace, mondialità e diritti umani  

Anno X

N°  427

28/7/10

Questo numero è inviato a 6.095 lettori e a 489 lettori nella versione inglese

        

                 

      Sommario

  

Missione

"Io, primo gesuita turco" di Gerolamo Fazzini

La nostra piccola missione quotidiana di p. Piero Gheddo

Scrive un missionario dalla Tanzania… di p. Piero Gheddo

Mondialità

Zapatero condividerà con il criminale Kagame un onorifico incarico dell'ONU

Cosa insegna la storia recente di p. Piero Gheddo

Stallo della concertazione globale E rispunta la tentazione protezionistica di Giancarlo Galli

Una vuvuzela per la pace

Africa

Mezzo secolo d'indipendenza (e delusioni) di Anna Pozzi

Diffusione armi contribuisce a sottosviluppo, presidente Nigeria a G8

È nato il primo Mercato Comune dell'Africa

Asia

Fra 20 anni oltre un miliardo le vittime dei cambiamenti climatici di Kalpit Parajuli

Europa

"Nella croce le radici della libertà religiosa" di Pierluigi Fornari

"Obiettivi del Millennio, l'Europa guidi il mondo"

Afghanistan

I taleban: non negozieremo, stiamo vincendo noi di Marina Forti

Algeria

Rinascere dalla debolezza di p. Silvano Zaccarato

Azerbaijan

"Modello" di convivenza per i Paesi musulmani moderni

Bangladesh

Schegge di Bengala - 60 (seconda parte) di p. Franco Cagnasso

Premio di solidarietà a padre Adolfo

Morire d'arsenico di Stefano Vecchia

200 arresti durante un corteo di protesta contro il governo di William Gomes

Leader islamici accusati di blasfemia: proteste e più di 100 arresti di Wlliam Gomes

Missione in... ufficio di Isabella Mastroleo

Il Pime nella Chiesa del Bangladesh di p. Piero Gheddo

Cina

India e Cina, lotta per l'energia

Colonialismo alla pechinese di Walden Bello

Colombia

Governo, aziende e narcotraffico alleati contro i diritti umani di Raffaele K Salinari

Congo RD

Dai vescovi, messaggio alla popolazione per "un Congo più bello di prima"

Costa d'Avorio

Dopo scandalo 'probo Koala', un laboratorio per rifiuti tossici

Cuba

Salute infantile, L'Avana esempio mondiale

Guinea Bissau

Ordinati tre sacerdoti della diocesi di Bafatá di Mons. Zilli, Pime

Haiti

L'appello dei vescovi: la situazione è ancora gravissima, servono gli aiuti del mondo

L'inferno di Port-au-Prince a sei mesi dal sisma 

India

Delitto d'onore e dote continuano a mietere vittime in India di Nirmala Carvalho

Indonesia

Islamisti pronti alla guerra ai cristiani

Iraq

Baghdad chiede di non accettare richieste di asilo

Italia

G8, le promesse di Berlusconi...

Migranti: missionari su diritti negati e "fabbrica della paura"

Kirghizistan

Il paese può insegnare la democrazia anche alla Cina

Libia

Eritrei deportati, appelli al rispetto del diritto internazionale

Madagascar

Radio Don Bosco compie 14 anni. E presto arriverà una tv

Medio Oriente

Obama e re Abdullah: due popoli, due Stati, per la pace in Medio oriente

Il premier Netanyahu: «Per Shalit libereremo 1.000 prigionieri» di Geraldina Colotti

Al di là delle armi di Mel Frykberg

Il difficile ruolo dei cristiani in Medio Oriente

Niger

Emergenza alimentare più grave del previsto, raddoppiati aiuti

Nigeria

Dieci milioni di bambini mancano dai banchi di scuola

Pakistan

I cristiani accanto ai musulmani sufi per costruire armonia e pace

Attacco al cuore dei musulmani di Marina Forti

Ruanda

Le divisioni all'interno dei militari rwandesi: un'analisi

Editoriale da Congo attualità n. 112

Sri Lanka

Libri di testo delle scuole diffamano cristiani, Chiesa e Papa di Melani Manel Perera

Prigionieri politici Tamil cercano l'appoggio della Chiesa di Melani Manel Perera

Nella capitale Colombo un sacerdote in missione tra i giovani

Stati Uniti

Riforma immigrazione: Obama, "l'America guardi alla sua storia"

Obama alla prova dell'immigrazione di Matteo Bosco Bortolaso

Sudan

Guerra o pace?

Altri articoli edizione inglese

World: G20 amid disagreements and divisions, criticisms increase * Gender equality seen as goal, not yet realised by Jim Lobe * The Iranian threat by Noam Chomsky * U.S. had the last word, but China was the winner at G20 by Mitch Moxley * "Anti-counterfeit deal threatens accessibility of drugs" by Adam Robert Green  Asia: Alzheimer's scourge hangs over ill-prepared Asia * Making the twain meet by M.J. Akbar  Bangladesh: 67pc ultra poor spend NGO money on non-productive purposes * Climate Change and Migration in Bangladesh by Rabab Fatima and Anita J Wadud * A critical need to share the benefits of development by Dr Anwar Islam * Disappearing city wetlands * Of performance and corruption by S M Aktaruzaman * Poor aid flow threatens MDG achievement * Reducing poverty in the countryside by Dhiraj Kumar Nath * Voices against violence by Shudeepto Ariquzzaman  El Salvador: Church responds to violence on public transport  Egypt: 2.7 million children aged 6-14 working  Indonesia: Weak government leaving room for Islamic extremist groups * Islamic extremists' campaign against Christians; for the Church “the only way is dialogue”  Pakistan: Children trafficked to the United Arab Emirates to work as camel jockeys  South Korea: President of Caritas Korea affirms yes to reconciliation  Sri Lanka: School texts defame Christians, the Church and the Pope by Melani Manel Perera * Tamil political prisoners seek Church help by Melani Manel Perera   Uganda: Too young to know, yet too young to die by Evelyn Matsamura Kiapi  Zambia: Need to mainstream gender equality into all policies by Kelvin Kachingwe

    

Siti internet:  Bangladesh  Asianomads  Congo  Congo blog  Pamoia na KakaLuigi  Ladymercyindia  Mondialità  Psergio

Agenzie:  Asianews  Misna  Fides      Banglanews arretrati: indice index       email: bernig@fastwebnet.it   brguiz@yahoo.it

Se vuoi ricevere Banglanews in forma zippata o con il solo sommario, scrivici

Banglanews è anche disponibile, cliccando l'apposita icona, su www.miriguarda.org

    

     

   

MISSIONE

"Io, primo gesuita turco" di Gerolamo Fazzini

MissiOnLine - 3 luglio 2010  

Padre Antuan si racconta

             

Ordinato prete il 26 giugno, a Roma, il 4 luglio Antuan presiederà la sua prima Eucaristia in turco ad Ankara. Padre Antuan Ilgit è il primo gesuita turco.

E' stato ordinato sacerdote il 26 giugno scorso, presso la Chiesa del Gesù all'Argentina a Roma, poche settimane dopo l'assassinio, in Turchia, del vescovo Luigi Padovese. A mons. Padovese e a don Santoro padre Antuan ha fatto esplicito riferimento durante la sua Prima Messa.  

Clicca qui per leggere la sua omelia integrale.

Il 4 luglio padre Antuan presiederà la sua prima Eucaristia in turco presso la Chapelle Sainte-Thérèse de l'Enfant Jésus ad Ankara.

Quella di padre Ilgit è una storia particolare, che merita di essere conosciuta.  

                

Storia di una conversione

Nasce in Germania, il 22 giugno 1972, da genitori turchi, emigrati dalla città di Mersin, sulla costa mediterranea della Turchia. Nel 1978 la famiglia ritorna in patria. Il padre riprende a fare il pescatore. Nel 1994 Ilgit consegue la laurea in Scienze economiche e amministrative presso l'Università Gazi, ad Ankara. A Mersin, nella Chiesa dei cappuccini, dedicata a Padovali Aziz Antuan, assiste alla prima Eucaristia della sua vita. "Per la prima volta compresi chiaramente le parole delle preghiere rivolte ad Allah e rimasi stupito per il fatto che mi veniva presentato un Dio amico dell'umanità, compagno del cammino, misericordioso, umile fino a darsi da mangiare e da bere", dichiara Ilgit.

Dopo questa scoperta, padre Raimondo Bardelli, un frate cappuccino italiano, lo prepara al Battesimo seguendo il vangelo di Marco. Dal dicembre del '95 all'aprile del '97 Ilgit svolge ad Ankara il servizio di leva in qualità di tenente carrista. Durante i sedici mesi del servizio militare frequenta la Chapelle Sainte-Thérèse de l'Enfant Jésus di Ankara (gestita all'epoca dai padri Assunzionisti e dal 2000 dalla Compagnia di Gesù). Due giorni prima di congedarsi dall'esercito, il 29 marzo 1997, alla Veglia pasquale, in quella Cappella riceve il battesimo, la cresima e la prima comunione. Prende il nome di Antuan, in memoria della chiesa di Mersin dedicata a sant'Antonio da Padova in cui aveva cominciato a camminare verso il Signore.

         

Il "debito" con l'islam

Su questo punto Ilgit parla chiaramente: "Bisogna usare molta discrezione e rispetto per la sensibilità dei musulmani. Per questo non apprezzo i battesimi pubblicizzati in modo esagerato: sono inutilmente offensivi. Allo stesso modo non apprezzo chi discredita il cristianesimo senza conoscerlo davvero. Oggi le religioni vengono molto strumentalizzate politicamente e questo non aiuta il dialogo. Non mi piacerebbe che la mia storia venisse strumentalizzata. Una volta un giornale ha scritto di "Antuan strappato a Maometto". Questo modo di intendere il mio cammino non mi piace: non è vero che sono stato strappato dalla mia fede originaria: il Signore piuttosto mi ha fatto percorrere un itinerario per conoscerlo più intimamente attraverso Gesù Cristo. E la cosa più bella che ho scoperto è che attraverso di Lui amo ancora di più il mio paese e la mia gente".

In Italia frequenta per sette anni un convento di cappuccini. Nel luglio del 2004, d'accordo coi superiori cappuccini, vive un periodo di discernimento con i gesuiti a Villa S. Giuseppe, a Bologna. Si ferma sedici mesi, frequentando nel frattempo lo Studio Teologico di S. Antonio.

Il primo novembre del 2005 entra nel noviziato dei Gesuiti a Genova. Il 24 novembre 2007 a Padova emette i primi voti. Lui stesso traduce la formula dei voti in turco, incoraggiato dalla Compagnia di Gesù a non dimenticare le sue origini. "In effetti, la parte islamica del mio cammino per me è molto importante - sostiene Ilgit - perché attraverso la fede musulmana il Signore si è rivelato a me, come unico Dio. Si è avvicinato a me in questo modo. Non rinuncio a questa parte della mia vita: il cristianesimo è un'ulteriore tappa del mio cammino che, nel suo insieme, considero un dono inestimabile che Dio mi ha fatto".

Attualmente Ilgit vive presso il Collegio Internazionale del Gesù. Dopo aver concluso il primo ciclo di studi teologici in Gregoriana, per un anno accademico ha frequentato i corsi della Facoltà di Scienze ecclesiastiche orientali dell'Istituto Orientale; successivamente si è iscritto, per la licenza in Teologia Morale indirizzo di bioetica, all'Accademia Alfonsiana della Lateranense. Il 18 aprile 2009, a Venezia, è stato ordinato diacono.

      

Nel futuro (forse) la bioetica

P. Antuan esplicita così i suoi desideri: "Ho deciso di studiare la morale e la bioetica, perché sono interessato a promuovere e approfondire la conoscenza reciproca e il dialogo su quelle tematiche delicate che coinvolgono l'uomo di ogni cultura e religione. Mi interessa cercare una parola comune per salvaguardare la vita e la dignità della persona. Voglio stimolare la collaborazione su temi di interesse reciproco, come la ricerca del bene comune, la costruzione della pace, lo sviluppo. Per questo, - continua - sto lavorando ad una tesi sui temi di inizio vita - come aborto, contraccezione, fecondazione assistita e uso delle cellule staminali - nella bioetica turca, a confronto con il magistero cattolico. Vorrei dare al mio lavoro una chiave di lettura antropologica e religiosa. Studierò le fatwa della Presidenza degli affari religiosi. È il primo passo dello stile di dialogo che desidero portare avanti."  

MissiOnLine aveva già seguito la vicenda di p. Antuan. Clicca qui per leggerla.

 

 Inizio pagina

   

    

La nostra piccola missione quotidiana di p. Piero Gheddo

zenit.org - Roma - 23 giugno 2010 

      

Il 14 giugno scorso (alla sera c'era la partita di calcio Italia-Paraguay per il Campionato mondiale in Sud Africa) vado dall'occhialaio a ritirare un paio di occhiali.

Li provo, vanno bene, pago con uno sconto e dico:

"Grazie e auguri".

"Auguri anche a lei, che le vada sempre bene".

"Ma io le facevo gli auguri per un altro motivo".

"Che questa sera vinca l'Italia?".

"Sì, ma è scontato".

"E allora, per cosa?".

"Che Dio la benedica e sia sempre con lei e la sua famiglia".

"Ha ragione, ne abbiamo proprio bisogno".

Il negozio è deserto, sono le tre e un quarto del pomeriggio. Segue un'amichevole chiacchierata con sue domande e mie risposte sul valore della preghiera che "dà una marcia in più nella vita, perché quando io prego sento in me la forza e il calore di Dio che ci vuole bene, perché è Padre di tutti noi. Quando si prega, si vive meglio".

Se mi capita l'occasione, cerco sempre di richiamare in modo naturale la presenza di Dio, di Gesù, della Madonna, dei santi nella nostra vita. Il nostro mondo secolarizzato ci porta a vivere "come se Dio non esistesse", mentre sono convinto che la grandissima maggioranza degli italiani conservano un forte senso religioso ma non lo manifestano. Il problema è che di Dio e della preghiera non si parla mai, nemmeno in famiglia, tra amici, sui mass media, nelle scuole.

Parlare di Dio, della preghiera, di Gesù Cristo, è un tema tabù, mentre dovrebbe essere uno degli argomenti fondamentali nell'educazione dei giovani e nella nostra vita di adulti e di anziani. In fondo, è quello che conta davvero, e più vai avanti negli anni e più te ne accorgi.

Ecco perché chi ha avuto la fortuna di ricevere e conservare la fede ha anche l'impegno di trasmetterla agli altri. Senza fare prediche o essere importuni, ma in modo naturale, perché la situazione in cui ci troviamo lo richiede.

"Quello che gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente datelo", dice Gesù. Se questo vale per i soldi, infatti se uno non dà mai niente diciamo che è un egoista, perché non dovrebbe valere per la fede?  

   

 Inizio pagina

    

  

Scrive un missionario dalla Tanzania… di p. Piero Gheddo

MissiOnLine - 20 giugno 2010

Nota: Questa e' una lettera di un missionario in Tanzania in risposta ad un articolo di Gheddo che abbiamo pubblicato sul b424 del 7 luglio 2010  

    

Carissimo p.Piero, sono un sacerdote diocesano di Roma (ma originario di Treviso), missionario fidei donum in Tanzania. Ho letto con piacere, come sempre, il tuo articolo sull'assenza di sacerdoti italiani tra i nuovi ordinati del Pime e lo condivido in tutto. Venendo la mia vocazione dal Cammino Neocatecumenale, mi chiedo: possibile che tanti ordini religiosi non si rendano conto della bellezza straordinaria delle nuove realta' ecclesiali? Possibile che ci sia ancora (dopo decenni) un cosi' generale rifiuto da parte di tanta Chiesa ufficiale? Possibile che non si vedano i frutti e non si accolgano? Non sarebbe ora di riconoscerli nei fatti come dono dello Spirito Santo che puo' fecondare istituti religiosi e diocesi? Eppure, a fronte di tante vocazioni che producono le nuove realta' ecclesiali, e il Cammino tra queste, sono praticamente snobbate. Poco male, ci sarebbe da dire, se altrove le cose andassero bene. Ma le cose tanto bene non vanno.

Ti faccio un esempio: nel mio piccolo paesello in provincia di Treviso (Santrovaso di Preganziol), dove fino a qualche tempo fa ancora esisteva un seminario del Pime, ora venduto, in cui da ragazzino andavo a fare i "Congressini missionari", la mia parrocchia conta, dopo quasi 30 anni di presenza del Cammino Neocatecumenale, 4 nuovi sacerdoti e 4 seminaristi in procinto di diventarlo e uno stuolo di ragazzi con 3, 4, 5, 8, 9 fratelli che si stanno preparando per entrare in seminario non appena l'eta' lo consenta... Io stesso sono secondogenito di 8 figli e ho un altro fratello già ordinato sacerdote presso il Seminario 'Redemptoris Mater' di Varsavia.

Questo per dire semplicemente che la risposta alla crisi demografica, almeno all'interno della Chiesa, c'e' eccome... E cosi tante famiglie di altre nuove realta' della Chiesa... E perchè non dire chiaramente che dal '68 in poi anche tanti preti hanno letteralmente tradito il magistero della Chiesa sull'apertura alla vita, consigliando di limitare le nascite senza motivi e insegnando i metodi naturali con modalita' contraccettive?

Ha ragione il Card. Bagnasco, ha totalmente ragione, ma tanti sacerdoti e vescovi, in Italia e in Europa, dovrebbero andare dal Papa e chiedere perdono perchè l'Humanae Vitae è rimasta assolutamente inascoltata, respinta e disprezzata proprio da chi la doveva difendere e diffondere. Mi hanno raccontato addirittura che nei decenni passati si organizzavano nelle nostre campagne incontri dell'Azione Cattolica (allora ancora solida e forte) per insegnare come non avere figli!!! E oggi purtroppo piangiamo sulla crisi demografica...

Non vorrei sembrarti un pessimista o risentito ma credo che la rigenerazione della Chiesa passi anche attraverso l'ammissione di questo tipo di colpe nei confronti di Pietro e nei confronti del popolo di Dio. Altrimenti continueremo a fare tanti dibattiti e a produrre tanti documenti ma le cose rimarranno tali e quali. Da parte mia sono semplicemente stupefatto delle meraviglie di vocazioni che vedo intorno a me (sono tra l'altro rettore di un piccolo seminario di

16 ragazzi) ma, come si dice dalle nostre parti, "mi piange il cuore" al vedere il mio caro Pime e altre gloriose istituzioni ridotte ai minimi termini, perlomeno in Europa.

Un abbraccio. Il Signore benedica la tua missione.

don Michele Tronchin, Dar es Salaam (Tanzania)

    

Carissimo padre Michele,

che gioia ricevere e leggere la tua lettera! Grazie della bella testimonianza che dai con queste parole. Conosco poco il Cammino Neo-catecumenale sebbene li abbia visto ad esempio un 24-25 vocazioni sacerdotali e missionarie nel loro seminario teologico a Kaoshiung in Taiwan, dov'era rettore padre Antonio Sergianni del Pime, che ora è a Roma come consultore di Propaganda Fide per la Cina. Conosco abbastanza da vicino C.L. a Milano e vedo che anche loro raccomandano di avere molti figli, diverse famiglie cielline li hanno e, attraverso un'educazione seriamente cattolica in famiglia, le vocazioni sacerdotali e religiose con l'aiuto di Dio vengono.

Bisogna far conoscere queste realtà della Chiesa italiana e personalmente cerco di fare il possibile, anche se il discorso sui movimenti è abbastanza lungo e complesso. Ma nei miei articoli (vedi il Sito www.gheddo.piero.it) li cito spesso. Proprio questa mattina mi ha scritto l'amico Antonio Gaspari di Roma, gli mando il Blog perché sia pubblicato su Zenit nel giorno stesso del mio Sito internet, il quale mi segnala un'altra famiglia neo-catecumenale e romana con sei figlie giovani, che vanno a stabilizzarsi ad Hong Kong per lavoro e come missionarie.

I miei due Blog sulle poche vocazioni sacerdotali e missionarie in Italia (8 e 12 giugno) avevano appunto questo scopo. Di far riflettere i missionari e il "movimento missionario" in Italia, che anche il nostro carisma missionario può suscitare un "movimento" nella Chiesa, di entusiasmo della fede e di amore al Papa (e di vocazioni sacerdotali-religiose), se noi ci rendiamo conto di quel che potremmo essere, animando missionariamente la Chiesa italiana invece di fare campagne d'opinione pubblica suil debito estero, la vendita delle armi, la privatizzaione delle acque e altri temi che ci fanno perdere l'identità missionaria e le vocazioni dei giovani. Ciao, ti saluto con affetto Dio ti benedica, tuo padre  

Piero Gheddo

 

 Inizio pagina

 

 

MONDIALITA'

Zapatero condividerà con il criminale Kagame un onorifico incarico dell'ONU

ricevuto da info@muungano.it  

    

Il 7 giugno, la segretaria di Stato della Cooperazione Internazionale, Soraya Rodríguez, spiegava con soddisfazione al Senato (ndr: spagnolo) che, come chiaro riconoscimento dell'impegno spagnolo in favore degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, il segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon ha scelto José Luis Rodríguez Zapatero come presidente del gruppo internazionale incaricato dell'effettivo compimento di tale programma. Lo farà come rappresentante dei paesi sviluppati e condividerà l'onore di detta presidenza col rappresentante dei paesi in via di sviluppo. Si tratta degli otto obiettivi che i 192 paesi membri delle Nazioni Unite si proposero per il 2015. Nel settembre 2000, si pubblicò in New York la solenne Dichiarazione del Millennio che si proponeva, finalmente, degli obiettivi attesi da milioni di esseri umani: nobili obiettivi come lo sradicamento della povertà e della fame, la scuola elementare per tutti, l'uguaglianza tra i generi, la riduzione della mortalità infantile, la sostenibilità ambientale.

Fino qui, tutto è meraviglioso, ma… sorpresa!: un così rispettabile regalo al nostro presidente (Zapatero) porta nascosto nel suo interno, come un uovo di pasqua, un sorprendente "regalo". Non si tratta, però, di quella sorpresa che, già dal secolo III, trasformava in re, almeno per alcuni giorni, chi aveva avuto la fortuna di trovarla nel suo uovo di pasqua. Si tratta, invece, di un regalo avvelenato che trasformerà Zapatero nel penoso simbolo mondiale dell'impensabile grado di corruzione a cui è giunta l'ONU. Una ONU manipolata da una ridotta, potente e oscura elite globale, massima responsabile di una situazione mondiale con effetti collaterali altamente criminali e generalizzati, una ONU corrotta che si lascia convertire da alcuni nel nuovo ed unico Governo Mondiale. Quel regalo non è altro che quel mostro che è stato scelto come co-presidente del gruppo incaricato della realizzazioni degli obiettivi del millennio in qualità di rappresentante dei paesi non sviluppati: Paul Kagame, presidente del Rwanda.

Chi è questo individuo? 

Paul Kagame è colui che, secondo molteplici testimoni, nell'ottobre 1990, dopo l'assassinio del suo compagno, il moderato generale Fred Rwigema, si impadronì della leadership del Fronte Patriottico Rwandese che aveva appena invaso il Rwanda dall'Uganda. Kagame è colui che delineò alcune nuove strategie: provocare il terrore tra gli Hutu e lo spopolamento di una gran parte del paese, al fine di arrivare più facilmente al potere nella capitale, Kigali. Fu così che, in seguito ai suoi ordini, e solo a titolo di esempio, centinaia di contadini hutu furono sventrati e legati a qualche oggetto con le loro stesse viscere, affinché i loro parenti e conoscenti li ritrovassero in quello stato. Kagame è colui che diede l'ordine di assassinare nove cittadini spagnoli, testimoni scomodi dei suoi crimini. È colui che diede l'ordine di assassinare tre vescovi e decine di persone che li accompagnavano, dicendo ai suoi subalterni sconcertati e che dubitavano di avere capito bene i suoi ordini: "Già vi ho detto che puliate quella spazzatura". Kagame è colui che, utilizzando personalmente una potente mitragliatrice, assassinò, sghignazzando, decine di civili hutu che si trovavano in un mercato. È quello che, ancora recentemente, in un esaltato discorso, si diceva dispiaciuto di avere assassinato solo alcune centinaia di migliaia di rifugiati hutu nel Congo e non tutti… Sarebbe interminabile la lista di esempi simili. Ma chiunque può trovarli nell'Atto emesso dal Giudice Fernando Andreu Meralles il 5 febbraio 2008, nel quale si dimostra la responsabilità di Kagame nei più gravi crimini qualificati dal diritto internazionale e si emette ordine di arresto contro quaranta dei suoi più importanti collaboratori. È, in definitiva, come dice Filips Reynjens, insieme a molti altri esperti che lo conoscono bene, "il più grande criminale in attivo" del nostro mondo.

Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio rimangono in tal modo così degradati, che solo appaiono ormai come una mascherata, un filantropico lavaggio di immagine dell'enorme saccheggio che una potente elite del nostro mondo globalizzato, utilizzando mostri come Kagame, sta portando a termine in paesi come il Congo, paesi dei quali quell'elite pretende, inoltre, di essere la gran benefattrice. Non conosco una metafora che sia tanto rivelatrice del deplorevole stato attuale del nostro mondo, come lo è la scelta di quel criminale per la presidenza di un'organizzazione filantropica dell'ONU. È questo ciò che lei, signor Zapatero, accetta di personificare insieme a lui? Essere il nuovo volto mondiale visibile di una farsa filantropica che affonda le sue radici già nelle società segrete di secoli fa; farsa criminale che è oggi una delle strategie basilari per raggiungere il Nuovo Ordine Mondiale, in cui l'ONU deve essere il "benefico" strumento principale?

 Chi sono quelli che, ostentando un così grande potere, tanto da imporre all'Onu un'agenda criminale, sono capaci di corrompere, in tal modo, tutto ciò che vi è di più sacro, tutti i più profondi desideri dell'umanità? Come abbiamo potuto arrivare a tanta perversione e pazzia collettive, tanto da arrivare ad accettare come modello di riferimento degli Obiettivi del Millennio uno che è non solo il responsabile del grande impoverimento del Congo e della massa di contadini hutu del Rwanda, ma anche della distruzione di entrambi i paesi e della morte di milioni di Rwandesi e Congolesi? Che importanti interessi hanno quelle elite nel Congo e in tutta l'Africa Centrale, per agire apertamente con un cinismo così incredibile, proponendo al mondo come modello un simile mostro? Si capisce ora perfettamente perché Ban Ki-moon non abbia risposto al giudice Fernando Andreu Meralles che, in un nuovo Atto di inizio 2009, gli chiedeva le prove della spoliazione del Congo eseguita da Kagame. Si capisce anche che il gruppo di esperti dell'ONU, nel rapporto di novembre 2009, accusasse la nostra piccola organizzazione promotrice di detta procedura giudiziaria, di essere la più importante finanziatrice dell'enorme conflitto del Congo. Che esagerazione in questa incredibile storia!

 Sig. Zapatero, questa denuncia non è contro di lei, bensì a suo favore. È la denuncia di persone profondamente deluse per il suo comportamento di fronte al maggiore conflitto attuale, un conflitto nel quale sono stati assassinati, per ordine di Kagame, nove cittadini spagnoli; persone che, nel momento delle elezioni hanno votato per lei e che ora non vorrebbero vederla cadere così in basso. Non ceda un'altra volta, presidente. Questa volta no, per favore. Sarebbe troppo denigratorio. Faccia attenzione con chi dal di fuori o perfino dal di dentro del suo stesso circolo di fiducia, possono portarla a situazioni tanto antipatiche. Non insulti a tanti spagnoli che sappiamo il significato di quello che lei fa. Ora ormai non potrà dire che non lo sapeva. O per caso sta pagando qualche "favore" a quelli che hanno nelle loro mani le redini del nostro mondo? Sig. Zapatero, non condivida la presidenza degli Obiettivi del Millennio con Kagame, non passi alla storia come un complice di simile mostro e dei suoi potenti sostenitori nella sua operazione di spogliazione ed inganno globali. Non dia loro la mano, non si sporchi anche lei con sangue innocente. Questo tentativo di lavare l'immagine del loro sbirro Kagame e del suo saccheggio criminale del Congo è tanto grossolano e eccessivo che si volgerà contro di loro.

Joan Carrero, president de Fundació S´Olivar

Bernat Vicens, president de Drets Humans de Mallorca  

 

 Inizio pagina

    

 

Cosa insegna la storia recente di p. Piero Gheddo

MissiOnLine - 28 giugno 2010  

  

Sono stato due mesi a Roma (aprile-maggio 2010) per esaminare, purificare e portare a Milano i libri che ancora mi possono servire e il materiale scritto accumulato in 16 anni a Roma sul tema missionario.E' una pena vedere come, negli ultimi cinquant'anni, sono tramontati tanti modelli e ideologie, che hanno suscitato entusiasmo e dedizione nei popoli poveri e poi sono falliti; e anche in Occidente sono stati sostenuti con foga da non pochi cattolici convinti e praticanti. Per grazia di Dio, mi sono sempre battuto contro questi falsi ideali di "liberazione" che mi apparivano destinati al fallimento per la loro radice pagana e disumana.

 Il crollo di un mito rivoluzionario lascia sempre tanti orfani: orfani di Mao, orfani del Vietnam di Ho Chi Minh e dei Khmer rossi di Pol Pot, orfani di Fidel Castro e di Che Guevara, orfani di altri miti minori ma non meno coinvolgenti: Sandinisti del Nicaragua,Thomas Sankara del Burkina Faso, Samora Machel del Mozambico, Eduardo Dos Santos dell'Angola, Sekù Turé della Guinea Konakry, Amilcar Cabral e i guerriglieri della Guinea Bissau, Menghistu dell'Etiopia, Afeworki dell'Eritrea, Robert Mugabe dello Zimbabwe, Siad Barre della Somalia, tutti dittatori o movimenti (li ho visto sul posto) che avevano sposato l'ideologia marxista-leninista-maoista, già fallita in Unione Sovietica e nell'Europa dell'Est, ma ancora capace di suscitare speranze sia nelle élites dei popoli poveri che in Occidente e in Italia.

 Non c'è in me alcune intenzione di irridere alle illusioni generose di tanti fratelli e sorelle. Quei modelli erano palloni gonfiati e si sono sgonfiati, erano sogni e sono svaniti uno ad uno per la logica implacabile della storia, che ci insegna questo: la rivoluzione violenta e le guerriglie di liberazione (ispirate al marxismo-leninismo-maoismo e sostenute dall'Urss e dalla Cina) quando conquistano il potere diventano regimi peggiori di quelli contro i quali si è combattuto per "liberare il popolo". Il cammino della sinistra italiana, in questo quadro globale, sembra sfociare in un orfanotrofio, pieno di orfani di tutte le rivoluzioni violente e delle guerriglie di liberazione. Fra le decine che le sinistre hanno esaltato e appoggiato, non se ne salva nemmeno una! Ho buttato via quasi tutti i ritagli di giornali e di riviste che sostenevano queste "liberazioni" illusorie. "Parce sepultis", dicevano i latini, "Lascia che i morti seppelliscano i morti" dice Gesù.

Forse i più giovani fra i miei pochi lettori non mi capiscono. Ma sto parlando di lotte politiche e sociali di popoli lontani che dagli anni sessanta fino ai novanta del Novecento hanno spaccato in due l'opinione pubblica italiana e anche cattolica. Porto un solo esempio per farmi capire. I "sandinisti" in Nicaragua (dal nome di Augusto Nicolàs Sandino (1895-1934) che aveva organizzato una rivolta contro la presenza militare degli Usa negli anni dal 1927 al 1933), erano giunti al potere nel 1980 dopo la rivoluzione vittoriosa contro il dittatore Somoza, uomo nefasto per il paese e il popolo, contro il quale scrissi nei miei articoli su "Avvenire" e in "Mondo e Missione" dopo il viaggio in Nicaragua del 1979.

 Negli anni ottanta, i sandinisti avevano suscitato un entusiasmo non giustificato dal loro governo rivoluzionario, decaduto dopo le elezioni del 1990 quando venne eletto Presidente il rappresentante del partito loro opposto con il 55% dei voti (i Sandinisti ebbero solo il 40%). Ecco alcune espressioni tratte da ritagli della stampa italiana (anche cattolica) di quegli anni ottanta:"Il Nicaragua è il paese dell'America Latina dove il Vangelo trova le migliori condizioni per essere annunziato e vissuto"; "In Nicaragua, fin che esisterà il Sandinismo esisterà il cristianesimo"; "Sandino ieri, oggi e sempre"; "Chi opta per la rivoluzione dei Sandinisti opta per la vita; chi opta per la controrivoluzione dei Contras opta per la morte e non è cristiano": "la Chiesa popolare del Nicaragua è per Sandino" .

 Infatti i vescovi condannavano il movimento rivoluzionario che toglieva libertà alla Chiesa e all'opposizione e realizzava un programma chiaramente ispirato a quello della vicina Cuba comunista. E' solo un esempio. Ne potrei citare altri simili.

 Concludo. Tutte le ideologie e tutti i sistemi politici, di destra o di sinistra o di centro, sono inevitabilmente caduchi, tramontano in pochi anni o decenni. Il cristiano fa la sua scelta secondo il Vangelo e la propria coscienza(tenendo anche conto degli orientamenti che dà la Chiesa), per ottenere il maggior bene comune possibile o anche evitare il peggior male. Con passione e dedizione, ma senza assolutizzare nulla, perchè di assoluto c'è solo Dio.  

 

 Inizio pagina

   

      

Stallo della concertazione globale. E rispunta la tentazione protezionistica di Giancarlo Galli

Avvenire - 29 giugno 2010  

Dopo il G20. Ha ragione Cameron: vertici inconcludenti

       

Al Summit dei Grandi del Mondo (G20) (nota.. ma vogliamo almeno finirla di chiamarli "grandi"??) di Toronto il più schietto, forse perché parlava da neofita, è stato il premier inglese David Cameron. Senza peli sulla lingua, ha confessato di non capire l'utilità del susseguirsi di "vertici" talmente inconcludenti: "Si parla molto e si fa poco o nulla". E dopo una pausa: "Dovremmo riuscire a passare, finalmente, ai fatti...".

Già, i fatti. Abbiamo sotto gli occhi il deprimente scenario di una recessione globale che da un biennio s'è sostituita al miraggio di uno sviluppo senza frontiere. Sui motivi della crisi si sono spesi fiumi di analisi mettendo a nudo le degenerazioni del consumismo, le follie speculative e finanziarie, il lassismo dei governi incapaci di scelte radicali per non porre a repentaglio il consenso elettorale. Sennonché, al momento di passare dall'elencazione dei "peccati del capitalismo", alla ricerca di soluzioni per tamponare le falle e rimettere l'economia mondiale in linea di navigazione, a Toronto s'è annaspato nel vuoto.

Gli interessi delle Grandi Potenze divaricano sul 'che fare' e nell'esprimere una comune determinazione. Gli Usa, nuovamente potenza egemone, con il presidente Barack Obama hanno insistito sulla necessità di mettere al guinzaglio la speculazione borsistica, ma con scarsa convinzione. Forse nel timore delle elezioni parlamentari di novembre, in un Paese dove Wall Street è un bicentenario simbolo del liberismo. La Cina persevera nel tira-molla su una rivalutazione dello yuan che frenerebbe l'export. Quanto alla vecchia Europa, a ranghi dispersi. La poco angelica cancelliera Merkel a impartire a destra e a manca lezioni di rigore: tagli al Welfare e amare medicine ai partner di Eurolandia, paventando che dopo il crac di Atene vengano al pettine i nodi di Lisbona, Madrid e magari anche Roma, nonostante la buona pagella ottenuta dal ministro Giulio Tremonti.

A proposito di pagelle: gli osservatori hanno assegnato a Toronto un brutto 5. Bocciatura secca, pur in presenza di lodevoli propositi. Nell'ordine: Ogni governo valuterà discrezionalmente in quale misura tassare le transazioni finanziarie. Così s'è finto di non vedere (financo un profano capirebbe) che ciò comporta il rischio di migrazioni incontrollate di capitali alla ricerca delle legislazioni più favorevoli.

I Venti si sono impegnati (in maniera soft) a dimezzare i deficit di bilancio corrente entro il 2013. Per l'Italia, prescindendo dal debito pubblico accumulato, si tratta di ridurlo dal 5,3 al 2,6% del prodotto interno lordo. In che modo, con quali strumenti, non si precisa, moltiplicando gli interrogativi sui settori da sfrondare: dipendenti pubblici, enti locali (già sotto pressione), sanità, pensioni?

L'elemento più preoccupante del G20 canadese è però racchiuso in un paragrafo indicante "la volontà di non adottare atteggiamenti protezionistici fino alla fine del 2013". In apparenza, l'impegno è da salutare con entusiasmo. Tuttavia, letto in controluce, come si ha da fare per ogni documento diplomatico, traspare la minaccia di un protezionismo dietro l'angolo che si tenta di esorcizzare.

Riportandoci così al punto di partenza dell'analisi: lo stallo della concertazione su scala mondiale e le tentazioni di alcuni (Usa e Cina, in Europa la Germania) di marciare per la propria strada. All'insegna dell'egoismo tecnocratico. Con i Paesi poveri o in difficoltà abbandonati in sostanza al loro destino.

Certo, al modello capitalistico, che ora presenta il suo volto più arcigno e meno nobile, non esistono alternative. Al momento. Dopo Toronto diviene tuttavia urgente una riflessione sul futuro di un'economia che sembra volere rinunciare a ogni solidarismo.

    

 Inizio pagina

           

   

Una vuvuzela per la pace

Comunicato Stampa del Consiglio Nazionale di Pax Christi - 23 giugno 2010

C’è bisogno di scelte audaci dettate da una sincera ricerca del bene comune, in vista di una Pace vera, frutto di giustizia e di sviluppo solidale.

  

Il Consiglio Nazionale di Pax Christi, riunitosi a Firenze il 20 giugno, giornata mondiale del rifugiato e anniversario dell’uccisione in Iran di Neda Agha Soltan, dopo aver affrontato questioni riguardanti le migrazioni, la democrazia, lo sviluppo e la formazione al bene comune, ha manifestato serie preoccupazioni per la manovra finanziari in atto.

Nel momento in cui si chiedono enormi sacrifici ai settori sociali più deboli e si riducono drasticamente le risorse destinate agli Enti locali, Pax Christi - in accordo ideale col suo Presidente Internazionale, mons Kevin Dowling, vescovo di Rustenburg, in Sud Africa - intende far risuonare la vuvuzela della pace, della giustizia e dello sviluppo solidale.  

Riteniamo imperativo morale e civile tagliare le spese per armamenti destinate a lievitare senza controllo, soprattutto dopo la nascita della “Difesa Servizi spa”. 

          

Negli ultimi tre anni, l’Italia ha speso per armamenti 3.5 miliardi di euro l’anno.

Nel 2009 i nuovi contratti di esportazione d'armi hanno raggiunto i 5 miliardi di euro, il doppio rispetto al 2007, un livello mai visto da vent’anni.

Sul bilancio dello Stato incombono 71 programmi di ‘ammodernamento e riconfigurazione’ di sistemi d’arma fino al 2026, sfuggiti allo sguardo ‘tagliente’ del governo. Basti citare i 131 caccia-bombardieri F-35 e i 121 Eurofighter.

Chiediamo ai parlamentari di affrontare con senso di responsabilità e coscienza tutto il problema degli armamenti, tenendo conto dei richiami del Magistero della Chiesa. Non possiamo dimenticare il monito della Santa Sede, che fin dal lontano 1976 denunciava "La corsa agli armamenti, anche quando è dettata da una preoccupazione di legittima difesa...costituisce in realtà un furto, ...un’ aggressione che si fa crimine: gli armamenti, anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame ".

Siamo convinti che un segnale chiaro e forte in questa direzione si possa dare subito, bloccando il progetto degli aerei da guerra F 35, il cui costo è di quasi 15 miliardi di euro! Si avrà il coraggio di farlo?

C’è bisogno di scelte audaci dettate da una sincera ricerca del bene comune, in vista di una Pace vera, frutto di giustizia e di sviluppo solidale.

 

 Inizio pagina

     

       

AFRICA

Mezzo secolo d'indipendenza (e delusioni) di Anna Pozzi

Avvenire - 4 luglio 2010  

        

Indifferenza e irritazione. Le celebrazioni per il cinquantesimo di indipendenza delle ex colonie africane stanno suscitando sentimenti opposti.

Nella migliore delle ipotesi è indifferenza per cerimonie piene di retorica e vuote di significato. Ma anche un certo malumore. La ricorrenza, infatti, non solo non è servita, come molti speravano, a fare un bilancio serio di questi cinquant'anni di indipendenza (o presunta tale), ma si è spesso risolta in mere celebrazioni ad uso e consumo del potere. A ciò si aggiunge la decisione delle ex colonie francesi di far sfilare i propri militari in occasione della Festa della Repubblica di Francia, il 14 luglio a Parigi. Decisione che non è piaciuta a moltissimi africani, non solo perché il presidente francese Nicolas Sarkozy ha, dal canto suo, declinato tutti gli inviti africani, ma soprattutto perché, fanno notare i più critici, in quella occasione il colonizzatore celebra la fine della sua stessa oppressione. Forse era meglio evitare... Sta di fatto che la ricorrenza del cinquantenario delle indipendenze è andata sostanzialmente sprecata, almeno come occasione di riflessione su un continente che fatica a inserirsi nei processi di globalizzazione, giocando un ruolo alla pari con gli altri soggetti mondiali. Eppure, nel cuore di questi processi l'Africa c'è, eccome. Ma più come fornitrice di materie prime che come protagonista del proprio sviluppo; più come nuova frontiera per attingere acque e terre arabili che come partner economico, commerciale e politico su scala internazionale. Certo, parlare di Africa è fuorviante, essendoci forti differenze da Paese a Paese. Tuttavia alcune linea di tendenza solcano trasversalmente l'intero continente.

La prima riguarda il sensibile rallentamento dello sviluppo in tutta l'Africa, come conseguenza della crisi mondiale, ma anche a causa di un'economia poco diversificata, incentrata per l'80 per cento sulle esportazioni di petrolio, materie prime e prodotti agricoli. La crescita è passata da un tasso annuo attorno al 6 per cento nel biennio 2006-2008 (con picchi dell'8% per i Paesi produttori di idrocarburi) al 2,5% del 2009. Con prospettive di crescita stimate attorno al 4,5% nel 2010 e al 5,2 nel 2011. Sta di fatto che nel rapporto sullo sviluppo umano, stilato dall'Undp, gran parte dell'Africa si colloca ancora oggi in fondo alla classifica. Sono, infatti, africani 22 dei 24 Paesi a più basso sviluppo (gli altri due sono Afghanistan e Timor Est), ovvero circa metà dell'Africa subsahariana. Ma la crisi economica e finanziaria di questi ultimi anni è solo una delle ragioni: leggi commerciali sfavorevoli, sfruttamento iniquo delle materie prime, interessi economici e finanziari di governi e imprese occidentali, riduzione dei fondi della cooperazione; ma anche persistente corruzione, malgoverno, mancanza di infrastrutture, sistemi economici, educativi e sanitari allo sfascio...

Sta di fatto che oggi povertà e fame sono una realtà quotidiana e drammatica in molte parti dell'Africa. E le nuove generazioni - il 70% degli africani ha meno di 30 anni -, invece di rappresentare un potenziale di futuro, vanno ad alimentare l'enorme massa di migranti, che cercano di raggiungere l'Europa o il Nord America. In questo scenario, si consolida la presenza della Cina con interventi a 360 gradi - accesso alle materie prime, ma anche prestiti preferenziali ai Paesi africani per 10 miliardi di dollari, costruzione di infrastrutture ma anche vendita di manufatti - a detrimento soprattutto delle ex potenze coloniali, che tuttavia continuano a contendersi le risorse minerarie africane. A ciò va ad aggiungersi il (relativamente) nuovo interesse dei Paesi del Golfo Persico - e non solo - per le terre agricole africane, al fine di approvvigionarsi in prodotti alimentari e scongiurare pericoli di crisi e innalzamento dei prezzi. Un paradosso in un continente dove, secondo la Banca Mondiale, il 90% della terra agricola è disponibile, ma i Paesi maggiormente interessati, come Sudan, Etiopia, Mali o Madagascar, non riescono a garantire la sicurezza alimentare alla propria popolazione. Nuovi scenari di accesso agli idrocarburi si stanno invece aprendo nella regione dei Grandi Laghi, già fortemente destabilizzata proprio a causa dello sfruttamento di materie prime, specialmente nelle regioni congolesi del Nord e Sud Kivu, come l'oro, il coltan o la cassiterite. Ora si parla anche di petrolio e gas nel Lago Alberto, di cui l'Uganda ha iniziato a vendere le concessione. In questa zona, infatti, sarebbe stato scoperto uno dei più importati giacimenti di petrolio sulla terra ferma. E sono già pronte a contenderselo la compagnia britannica Tullow Oil, la francese Total e la cinese Cnooc. Altri Paesi, tuttavia, si stanno affacciando in maniera sempre più importante sul continente africano e sono principalmente India e Brasile. La prima, bisognosa anch'essa di materie prime, è anche interessata agli investimenti: l'ultimo, un progetto di raffinazione in Angola, l'altro gigante petrolifero africano, insieme alla Nigeria. Il Brasile, dal canto suo, moltiplica gli attestati di solidarietà con l'Africa, cercando di spostare l'asse politico e geostrategico mondiale dal G7 al G20, coinvolgendo i Paesi in via di sviluppo. Resta il fatto che l'Africa è tuttora sotto-rappresentata in tutte le istanze mondiali che contano. E spesso, nonostante i cinquant'anni di indipendenza, sono ancora gli altri che decidono del suo destino.  

             

La Cina fa shopping e paga in strade

Con un fondo sovrano che dispone di 1500 miliardi di euro in riserve valutarie estere, la Cina può fare sostanzialmente quello che vuole. O quasi. Ripartita l'economia con tassi di crescita che hanno di nuovo superato il dieci per cento, il gigante asiatico ha grande e urgente bisogno di materie prime: ferro, rame, alluminio, petrolio, gas, coltan... E qui entra in gioco l'Africa, dove la Cina è riuscita a stipulare contratti molto vantaggiosi. Soprattutto per se stessa. Come l'accordo con la Repubblica Democratica del Congo, del 2007, criticato da tutte le istanze internazionali. L'hanno ribattezzato il "contratto cinese", ma si tratta piuttosto di un "baratto": minerali contro infrastrutture (in particolare strade). Solo che lo scambio non sarebbe propriamente equo: la Cina, infatti, ha ottenuto diritti su più di dieci milioni di tonnellate di rame e seicentomila di cobalto, così come sulle miniere d'oro. In cambio, dovrebbe costruire infrastrutture per l'equivalente di 4,8 milioni di euro. (A.P.)

        

La battaglia contro la desertificazione

"Chiediamo una posizione africana di valore scientifico, attuata e rafforzata per includere un obiettivo planetario". È la proposta avanzata dai giovani africani durante la XIII sessione della Conferenza ministeriale africana sull'ambiente (Cmae) che si è tenuta in Mali, a fine giugno.

Quello del cambiamento climatico è molto più che una sfida in Africa. È una drammatica attualità. Di qui l'urgenza di far emergere una posizione africana comune da sostenere durante le trattative internazionali sul clima, specialmente in vista del vertice di novembre in Messico. Temi come il riscaldamento globale, la desertificazione, lo sviluppo sostenibile e le politiche agricole rappresentano altrettante emergenze in molti contesti africani. "I nostri Paesi - ha detto durante il vertice il ministro dell'Ambiente del Mali, Tiémoko Sangaré - sono fragili a causa dei loro ecosistemi e sono stati resi ancora più fragili da diversi fenomeni come la deforestazione, l'insabbiamento dei fiumi, la progressione del deserto, nonché da interventi che hanno contribuito al degrado di risorse oggi fortemente compromesse. Proteggere la natura non è più un lusso ma un'esigenza fondamentale". (A.P.)

         

Arabi e asiatici s'accaparrano i campi

l caso più clamoroso è quello del Madagascar. Nel 2009 il governo sta per firmare un accordo che concede alla sudcoreana Daewoo l'affitto per 99 anni di 1,3 milioni di ettari di terre coltivabili. La poca trasparenza dell'operazione ha portato alla caduta del presidente Marc Ravalomanana. Ma anche in Mali, Paese particolarmente rischio-carestie, il governo sta affittando le terre più fertili, quelle del sud, lungo il fiume Niger, a investitori stranieri. In prima fila c'è la Libia, e in particolare la società Malibya legata al colonnello Muammar Gheddafi, che sta già sfruttando mille ettari per la produzione di riso, mais, canna da zucchero e miglio. In Sudan, invece, è l'Arabia Saudita ad aver ottenuto concessioni; ma gli Stati Uniti non sono da meno, visto che si parla di un'acquisizione effettuata da Jarch Capital, un fondo di investimento statunitense. Anche la Cina è della partita. A conferma che l'industria agroalimentare è uno dei settori decisivi dell'economia.

          

 Inizio pagina   

 

 

Diffusione armi contribuisce a sottosviluppo, presidente Nigeria a G8

Misna - 28 giugno 2010   

    

La vendita sottocosto in Africa di armi di piccolo calibro prodotte nei paesi industrializzati del nord del mondo è tra le principali cause del sottosviluppo del continente. Ad affermarlo a Toronto, in Canada, dove si sono tenuti nel finesettimana i vertici dei G8 e dei G20, è il presidente della Nigeria Goodluck Jonathan, secondo il quale "la proliferazione del possesso di armi leggere tra la popolazione civile rappresenta uno dei fattori che causano il ritardo della crescita economica nei paesi dell'Africa". Facendo appello ai paesi del G8 affinché attuino maggiori controlli nel commercio internazionale di armi e si impegnino piuttosto per la realizzazione degli obiettivi di sviluppo del Millennio (Mdg), il presidente Jonathan ha sottolineato che la mancanza di sicurezza impedisce l'avvio di attività economiche in grado di stimolare la creazione di ricchezza. "Ricordo - ha detto il presidente nigeriano - quando da studente leggevo opere di autori che accusavano i paesi europei di mantenere sottosviluppata l'Africa attraverso la schiavitù e altre attività di sfruttamento: oggi, la schiavitù è diventata un argomento di storia, ma l'uso diffuso delle armi prodotte nel nord del mondo e il loro traffico imposto da organizzazioni criminali contribuiscono ancora a mantenere sottosviluppati i paesi del continente". [MV][CO]  

 

 Inizio pagina

     

    

È nato il primo Mercato Comune dell'Africa

Agenzia Fides - Arusha - 2 luglio 2010

    

È entrato ufficialmente in vigore il 1° luglio 2010 il Mercato Comune della Comunità Economica dell'Africa Orientale (EAC), al quale aderiscono Kenya, Tanzania, Uganda, Rwanda e Burundi.

Secondo quanto stabilito da un accordo raggiunto nel novembre 2009 ad Arusha (Tanzania), dove ha sede l'EAC, i 5 Paesi dell'Africa centro-orientale hanno dato vita al primo mercato comune del continente che prevede la libera circolazione di persone, servizi, merci e capitali tra i partecipanti.

Secondo il Ministro keniano per l'integrazione regionale, il mercato comune sarà pienamente operativo solo nel 2015, perché occorre ancora armonizzare le diverse legislazioni nazionali.

Il prossimo passo è la creazione di un'Unione Monetaria. Entro dicembre di quest'anno le Banche centrali nazionali dei cinque paesi membri della Comunità dovranno creare un meccanismo per facilitare gli scambi di valuta all'interno dell'EAC. Attualmente infatti quando un abitante di uno dei Paesi della Comunità si reca in un altro Stato partner, in genere usa valuta straniera (dollari, euro) come mezzo di scambio. Secondo gli accordi presi ad Arusha dai governatori delle Banche Centrali dei 5 Stati dell'AEC, dal gennaio 2011 sarà possibile usare la propria valuta in un altro Stato della Comunità. Si vuole infine creare un sistema che faciliti i pagamenti all'interno dell'area AEC.

La creazione della zona di libero scambio dell'EAC ha suscitato l'attenzione di partner esterni. La Turchia intende negoziare con la Comunità un'intesa di libero scambio e un accordo quadro per facilitare gli investimenti. Dal 28 al 30 settembre 2010 a Dar es Salaam, capitale della Tanzania, si terrà inoltre un forum d'affari tra la Turchia e l'EAC. (L.M.)  

 

 Inizio pagina

   

    

ASIA

Fra 20 anni oltre un miliardo le vittime dei cambiamenti climatici di Kalpit Parajuli

AsiaNews - Kathmandu - 2 luglio 2010

Lo rivela lo studio di una società di ricerca indiana, che ha previsto il drastico calo dei bacini idrici dell'area Himalayana. Per i ricercatori la produzione di frumento e riso di Cina e India diminuirà fino al 50%. In Nepal, migliaia di persone hanno già abbandonato le loro terre per mancanza di cibo e rischio di inondazioni provocate dallo scioglimento dei ghiacci.  

 

Nei prossimi 20 anni oltre 1,3 miliardi di persone saranno colpite dalla siccità. I bacini idrici himalayani e i fiumi che attraversanoBangladesh, Cina, India e Nepal subiranno una riduzione della portata pari a oltre 275 miliardi di metri cubi d'acqua, per lo scioglimento dei ghiacciai e l'inquinamento. Lo rivela uno studio del Strategic Foresight Group, società di ricerca indiana.

Il documento, pubblicato lo scorso 28 giugno, mostra scenari inquietanti. Secondo i ricercatorinei prossimi 20 anni la produzione di frumento e riso di Cina e India diminuirà fino al 50%, per le più frequenti siccità, mentre la domanda di cibo della popolazione aumenterà del 20%."La disponibilità di acqua dolce - afferma il rapporto - cadrà in tutti e quattro i Paesi a causa dei cambiamenti climatici, diminuzione delle precipitazioni e altri fattori di disturbo naturale, come l'inquinamento". Entro il 2050 oltre 200 milioni di persone dovranno spostarsi dalla regione himalayana per mancanza di acqua e cibo.

Secondo i media nepalesi il processo di spopolamento dell'area himalayana è già iniziato. Il quotidiano Gorkha Patra, ha calcolato che oltre 10mila persone hanno abbandonato le loro terre per la diminuzione del raccolto dovuta allo scioglimento precoce delle nevi e all'irregolarità delle piogge monsoniche. Nel distretto di Solukhumbu, alle pendici dell'Himalaya, centinaia di abitanti dei villaggi situati intorno al lago glaciale Imja (nella foto) hanno abbandonato le loro case per l'esondamento del bacino.

Bidur Upadhya,studioso dei cambiamenti climatici, afferma ad AsiaNews: "La frequenza delle siccità è aumentata di 3 volte rispetto ai decenni passati e l'agricoltura è in seria crisi. I raccolti dipendono da quanta pioggia cadrà nella stagione dei monsoni . Paesi come Nepal, Bangladesh e India, non riescono più a nutrire la loro popolazione a causa della rapida crescita demografica e dalla sempre più decrescente produttività delle aree agricole".

"Gli agricoltori - afferma Bhusan Tuladhar, referente per il Comitato sui cambiamenti climatici del governo nepalese - sono costretti a cambiare il tipo di semina in base ai mutamenti dei monsoni. Al momento noi non possiamo fare nulla se non adeguare le nostre abitudini in base ai cambiamenti del clima".

Dal 27 al 28 settembre il Nepal ospiterà l'incontro dell'Alleanza dei Paesi montani (Alliance of Mountain Countries). L'evento nato dall'iniziativa dei governi di Nepal e Bhutan avrà lo scopo di studiare le misure necessarie ad affrontare il disgelo dei ghiacci dell'Himalaya.  

 

 Inizio pagina

   

    

EUROPA

"Nella croce le radici della libertà religiosa" di Pierluigi Fornari

Avvenire - 1 luglio 2010

Il rappresentante italiano Lettieri: è chi chiede di non esporla a negare un diritto. Strasburgo - Ieri ha preso le mosse alla Corte per i diritti dell’uomo il riesame della sentenza dello scorso 3 novembre, secondo cui il simbolo cristiano dovrebbe essere rimosso dalle aule scolastiche. In difesa del ricorso presentato dal governo italiano le memorie e gli interventi di dieci Paesi europei e di numerose associazioni  

   

Un giurista ebreo con la kippah, dieci Stati tra cui alcuni di religione prevalentemente ortodossa, un team di legali statunitensi di cui molti protestanti, tutti intervenuti a difesa della esposizione del crocifisso nelle scuole italiane. Qualunque sia la decisione che la Corte europea dei diritti dell'uomo vorrà prendere sulla questione, dopo la sua lunga riflessione, (forse sei mesi o persino un anno, si è anticipato), il dibattimento di ieri alla Grande Chambre è destinato comunque a segnare non il passato, ma il futuro dell'Europa.

"Non è un caso - dice Nicola Lettieri intervenendo a nome dell'Italia - se la 'contestazione politica' delle tesi della ricorrente (Soile Lautsi, ndr ) e alla sentenza di novembre (quella contro l'esposizione del crocifisso nelle scuole italiane, ndr ) della Corte vengono in gran parte da Paesi che hanno duramente sofferto dell'ateismo di Stato". Lo 'scandalo', dunque, è che si voglia evocare surrettiziamente la 'libertà religiosa' per negare la 'libertà religiosa'. Un gioco di prestigio che non può riuscire contro Paesi che portano ancora le ferite della persecuzione contro il culto. Ci si deve ricordare, insiste Lettieri, che i principi richiamati nel dibattimento sono stati introdotti nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo proprio a difesa di quelle nazioni.

Ma il gioco di prestigio ha un trucco : una concezione della dimensione 'negativa' della libertà religiosa (libertà di non credere a nessuna religione) estesa fin al punto di negare la dimensione 'positiva', dunque una battaglia 'ideologica', 'politica', quella iscenata con il ricorso contro l'esposizione del crocifisso che non ha nulla a che fare con i tanti casi affrontati ogni settimana di violazione dei diritti umani più elementari, un compito che è la ragione e l'onore di Strasburgo.

Nella memoria presentata alla fine di aprile, il governo, a riprova del fatto che si tratta di una battaglia ideologica, portata avanti da una atea militante, cita il fatto che la ricorrente è partner della Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti).

Nicolò Paoletti, che apre l'udienza, difende la Lautsi assicurando che non si tratta di questo, che non si è mai pronunciata su questi temi, neppure con lui, che la sua è una semplice battaglia di 'laicità'. Il riferimento è ovviamente alla sentenza 203 dell'89 della Consulta nella quale viene definita principio 'fondamentale' e 'supremo' del nostro ordinamento. Al fatto che 'il giudice delle leggi' ha deciso nel 2001 di rimuovere il crocifisso della sua aula. Paoletti tenta, poi, di rintuzzare la tesi della Federazione russa, secondo cui la sentenza del 3 novembre ha ristretto ad una angusta formula "il margine di apprezzamento" degli Stati sulle questioni di libertà religiosa. Ma non è facile replicare, visto che anche altri nove Paesi, più l'Italia dicono lo stesso. Concezione ideologica quella della 'laicità' della Lautsi - insiste Lettieri - perché la stessa Consulta, nella citata sentenza, specifica che non è indifferenza dello Stato alle religioni. Una concezione così ideologica da ritenere che senza la rimozione dei simboli religiosi non ci sarebbe neppure democrazia. Invece è vero il contrario. Cosa fare altrimenti con i numerosi Stati membri del Consiglio d'Europa che prendono espressamente posizione a favore di una religione, che la esprimono nei loro simboli?

Quanto al comportamento dei giudici italiani, l'agente a nome del nostro governo osserva che hanno seguito le norme europee, appurando tra l'altro che il consiglio di Istituto della scuola frequentata dai figli della Lautsi, dopo aver cercato di risolvere la questione con la discussione, ha respinto la richiesta di togliere il crocifisso con un voto democratico.

    

Le memorie

    

RUSSIA 

«Nessun detrimento»

«Riconosciamo che il simbolo del crocifisso ha un significato religioso che è predominante – sostiene la memoria presentata ieri dalla Russia –.Tuttavia, questo non nega il suo significato etico.La sua presenza in una aula non deve essere percepita come detrimento per le religioni non cristiane».

    

BULGARIA

«Errore di competenze» 

«La Corte ha affermato spesso che non è nella sua competenza trattare direttamente delle relazioni tra chiesa e Stato – sottolinea la memoria bulgara –. Non viola la Convenzione per un Paese membro avere una chiesa di Stato o manifestare una preferenza religiosa».

    

ROMANIA 

«E la sussidiarietà?»

«Il fatto di non tenere in conto il contesto storico, politico, culturale e giuridico in tali questioni – spiega la Romania – e di non considerare il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati in materia è incomprensibile alla luce del principio di sussidiarietà istituito dalla Convenzione».

 

SAN MARINO 

«Conta solo l’ateismo?»

Secondo la memoria presentata da San Marino l’argomentazione della sentenza «privilegia un approccio ateo, dato che solo la non esposizione dei simboli sarebbe considerato rispettoso delle convinzioni dei genitori degli alunni. Solo ciò che deriva dall’assenza di Dio è rispettoso del pluralismo?».

 

GRECIA 

«Si lede la democrazia»

«La democrazia non si può ridurre sempre alla supremazia costante dell’opinione maggioritaria e la più forte ragione non può riservare alla maggioranza un trattamento ingiusto. È proprio della democrazia assicurare un equilibrio che tiene conto del peso qualitativo delle opinioni». Così la memoria greca.

 

ARMENIA 

«Un simbolo dell’Italia»

«Il crocifisso – sostiene l’Armenia – è anche un simbolo dei princìpi di eguaglianza, libertà, e tolleranza e del valore laico della Costituzione italiana e della vita sociale degli italiani.

Rappresenta la antica e ricca eredità dello Stato italiano ed è divenuto una parte importante della sua cultura».  

   

 Inizio pagina

 

 

"Obiettivi del Millennio, l'Europa guidi il mondo"

ItaliaCaritas - giugno 2010

"Raccomandazioni" di Caritas Europa ai leader continentali: per battere la povertà serve un "Piano d'azione", che indichi in sede Onu la strada per centrare gli otto traguardi di sviluppo 

      

Un forte appello. Rivolto ai capi di stato e di governo Ue, che all'inizio di giugno si sono incontrati a Barcellona, nel corso di un vertice chiamato a fare il punto, tra le altre cose, sulle strategie di lotta alla povertà, nel continente e a livello planetario. Caritas Europa, rete che riunisce 44 Caritas nazionali del continente, non ha voluto perdere l'occasione di far sentire la sua voce. E ha elaborato un articolato documento di "Raccomandazioni all'Unione europea", intitolato, senza troppi giri di parole, La Comunità europea può realizzare gli Obiettivi di sviluppo del Millennio. Il vertice spagnolo, infatti, era programmato come passaggio cruciale per definire le posizioni e le decisioni delle istituzioni continentali e dei paesi membri, in vista del vertice delle Nazioni Unite che a New York, nella terza decade di settembre, sarà dedicato allo stato di attuazione degli otto Obiettivi di sviluppo del Millennio (approvati da quasi tutti i paesi del mondo in sede Onu nel 2000, da attuare entro il 2015). Barcellona, insomma, come occasione di coordinamento delle politiche europee in materia di aiuti ai paesi poveri e di cooperazione allo sviluppo: tema tanto più impegnativo, anche dal punto di vista etico, se considerato in relazione al fatto che, nel 2010, stiamo vivendo l'Anno europeo di lotta alla povertà e all'esclusione sociale. 

  

Scandalo, non interesse

L'esordio delle "Raccomandazioni" Caritas ai leader politici convocati a Barcellona è all'altezza, per eloquenza e drammaticità, delle sfide che il momento pone: "Per la Caritas - asserisce il documento - la povertà è uno scandalo, in tutte le sue forme e in ogni continente; essa è la negazione della più basilare dignità umana". All'annullamento di questo scandalo, per Caritas, conduce anche un calcolo di razionalità politica ed economica: alimentare o tollerare la povertà "non costituisce un interesse, né per i singoli né per le nazioni. Essa è costosa e pone una grave minaccia alla stabilità economica e alla sicurezza globale. La lotta alla povertà non è solo un gesto di carità, è una lotta per i diritti di base. È l'espressione della solidarietà tra la gente, al di là dei continenti, delle generazioni, delle culture. 

   

È alla base della nostra umanità".

Imperativi etici intrecciati a interessi globali: Caritas Europa, "in quanto rete cattolica", afferma di essere "molto sensibile al fatto che gli Obiettivi di sviluppo del Millennio (Osm) sono molto vicini all'insegnamento sociale della Chiesa, che sottolinea quanto siano fondamentali i principi di solidarietà e reciprocità, in un mondo tanto interconnesso". A ogni livello, da quello internazionale a quelli nazionali, la rete Caritas ha dunque "sostenuto costantemente e attivamente gli Osm. Le organizzazioni Caritas, tramite molti partenariati internazionali sul campo, hanno realizzato migliaia di programmi sociali, umanitari e di sviluppo, in tutti i cinque continenti".

Introducendosi sul terreno dell'analisi, Caritas ricorda ai leader europei che "nel 2010 sono già trascorsi due terzi del tempo stabilito, e molto resta da fare" per centrare gli Osm. "Sono stati fatti progressi, ma con molte differenze tra il raggiungimento di un Obiettivo e dell'altro, tra gli interventi nei differenti paesi, e persino tra diverse regioni dello stesso paese". L’analisi non trascura il fatto che oggi, a differenza di quando gli Obiettivi furono fissati, “il mondo, Europa inclusa, soffre delle conseguenze di una grave crisi economica globale”.

Ma l’Europa non può sottrarsi alle responsabilità che le derivano dal fatto di essere un partner privilegiato, a diversi livelli, dei paesi poveri: “La Ue (…) provvede il 60%” del complesso degli aiuti allo sviluppo che si stanziano a livello planetario, e costituisce “un partner commerciale importante dei paesi in via di sviluppo”. Dunque, scrive Caritas Europa, "ci preoccupa che il contesto della nuova crisi possa influire sugli impegni presi dalla Ue riguardo agli Osm, e sui preventivi" di aiuto all'estero. Il 2010, Anno europeo della lotta alla povertà e all'esclusione sociale, "è anche l'anno in cui la Ue adotterà la sua nuova strategia economica decennale Europa 2020": proprio per questo, è il "momento ideale" perché l'Unione e gli stati membri intraprendano "azioni decisive per gli Osm".

 

Urgenza e responsabilità

La rete Caritas intende dunque fare pressione sulla Ue, e su altri partecipanti influenti al Summit Onu, perché "agiscano con senso di urgenza e più che mai con un senso di responsabilità", accelerando "gli sforzi per realizzare gli Osm" e insistendo sulla "integralità del quadro degli Osm. Data la forte interconnessione tra i diversi Obiettivi, si può arrivare al successo soltanto se tutti essi, non uno o due soli, possono essere raggiunti".

Per arrivare a tanto, Caritas Europa non ha dubbi: si deve "fare molto di più" di quanto fatto, dedicando tra l'altro "più sforzi a raggiungere i più poveri e marginalizzati, in particolare donne, bambini e migranti, con approcci partecipatori". Sul piano del metodo, infatti, "la partecipazione sociale è veramente il modo migliore per combattere e prevenire la povertà". Inoltre Caritas Europa "sottolinea specialmente la necessità di investimenti a lungo termine, che proteggano e rafforzino la famiglia, come pilastro essenziale per il benessere sociale e la solidarietà".

 

Secondo Caritas, all'incontro Onu di settembre occorre adottare un "Piano di azione che definisca obiettivi chiari e tempi che facciano seguito agli impegni", e mettere a punto meccanismo di verifica trasparente" Per poter ottenere tanto, la Ue deve adottare, a Barcellona,“una strategia omnicomprensiva riguardo agli Osm, orientata verso l’azione e con previsioni di spesa pienamente fissate(…). La strategia Ue deve avere l’ambizione di motivare i leader mondiali a impegnarsi fermamente verso un adeguato piano di azione pro-poveri”. Da ultimo, prima di avanzare alla Ue “raccomandazio-ni specifiche” molto articolate per ciascuno degli otto Obiettivi, un ragionamento sugli aiuti e la loro destinazio-ne: secondo Caritas, “la cooperazione e gli aiuti Ue dovrebbero essere destinati molto meglio”, raggiungendo prioritariamente “i gruppi più poveri e vulnerabili e le regioni in cui essi risiedono”. In questa prospettiva, è “necessario un maggior numero di progetti di cooperazione, a finanziamento Ue, a sostegno delle popolazioni rurali e dei piccoli agricoltori”, ed è urgente che istituzioni e stati europei “accrescano la loro capacità di gestire un dialogo sostenuto tra i molti attori, e anche di formare la capacità, negli altri attori, di essere efficaci in tale dialogo.

    

 Inizio pagina

      

      

AFGHANISTAN

I taleban: non negozieremo, stiamo vincendo noi di Marina Forti

Il Manifesto - 2 luglio 2010

Il generale Petraeus alla Nato: proteggerò i nostri soldati

     

Il generale David Petraeus, appena confermato dal Senato degli Stati Uniti come nuovo comandante delle forze Usa e di quelle occidentali in Afghanistan, ieri ha ricevuto gli auspici delle due sponde opposte: quelli della Nato e quelli dei Taleban. Da un lato il «pieno sostegno» dei 28 paesi membri della Nato - ovvio, anche se c'è qualche malumore tra gli alleati atlantici di Washington per non essere stati neppure consultati sull'avvicendamento al comando. Dall'altro un messaggio di sfida, espresso in un'intervista ieri alla Bbc: i Taleban si sentono forti sul terreno e non negozieranno.

In visita al comando generale della Nato a Bruxelles, Petraeus ha illustrato le linee generali della sua strategia, come il giorno prima al Senato di Washington durante l'audizione di conferma del suo incarico. Ha ribadito l'obiettivo di fondo - combattere la ribellione, eliminare al Qaeda, garantire che le forze di sicurezza afghane siano capaci di prendere la responsabilità del proprio paese. Né cambia la strategia della «controinsorgenza» inaugurata dal suo predecessore Stanley McChrystal - anche perché l'autore di quella strategia è proprio lui, David Petraeus, accreditato di averla applicata con un certo successo in Iraq.

Gran parte del discorso di Petraeus a Bruxelles ha riguardato piuttosto le regole di ingaggio: se e come rivedere le restrizioni all'uso della forza aerea a copertura delle truppe sul terreno. Queste restrizioni sono state emanate per limitare le vittime civili - i numerosi casi di raid aerei che hanno fatto stragi di afghani. Ma quelle restrizioni hanno «messo in pericolo le vite degli americani», rinfacciano i critici (era questa una delle critiche attribuite all'entourage di McChrystal nel famoso articolo del magazine Rolling Stones che gli è costato la posizione). Che la guerra sia diventata più sanguinosa per le forze Nato è indubbio: oltre 320 soldati morti quest'anno di cui 102 nel mese di giugno, il più letale in 9 anni di guerra afghana.

Al senato americano Petraeus aveva dunque detto che quelle restrizioni saranno «riesaminate». A Bruxelles ha precisato: le regole di ingaggio non cambiano, ma il modo di applicarle sarà riconsiderato, «ci sono preoccupazioni nei ranghi delle nostre truppe sul terreno che alcuni dei processi stanno diventando un po' troppo burocratici», ha detto. «Ho l'imperativo morale, come comandante, ... di usare tutte le forze disponibili» per salvaguardare le nostre truppe «e gli alleati afghani». Ma «ridurre al minimo le morti tra i civili» resta «un imperativo di controinsorgenza».

Per il resto, lo stesso Petraeus ha dichiarato che non bisogna aspettarsi svolte positive a breve termine. I fatti sono evidenti: l'offensiva a Kandahar da tempo annunciata, che doveva dare una svolta decisiva alla guerra a favore della Nato, è continuamente rinviata - forse sospesa. E' cominciata invece una nuova offensiva nei distretti di Marjah, in Helmand, che due mesi fa erano stati dati per riconquistati - ma dove invece resta forte la presenza dei ribelli.

Sono segnali di difficoltà che i Taleban sottolineano nella propria propaganda. O nell'intervista alla Bbc - intervista indiretta, perché si tratta delle risposte di Zabiullah Mujahid, il portavoce riconosciuto della leadership Taleban, fatte avere all'emittente britannica tramite un intermediario. «Non vogliamo parlare con nessuno, né non Karzai, né con gli stranieri, finché le forze straniere se ne andranno dall'afghanistan», dice. «Noi siamo certi che stiamo vincendo. Perché dovremmo parlare, se abbiamo la meglio e le truppe straniere stanno pensando come ritirarsi, e ci sono divergenze nei ranghi dei nostri nemici?». Le parole del portavoce non vanno prese alla lettera - altri segnali nell'ultimo anno alludevano invece alla volontà di negoziare. Ma il segnale al nuovo comandante è chiaro.  

 

 Inizio pagina

      

    

ALGERIA

Rinascere dalla debolezza di p. Silvano Zaccarato

Missionari del Pime -  luglio/agosto 2010

 

La Chiesa vive un momento di debolezza. Ci sentiamo tutti coinvolti e ne portiamo il peso. Padre Silvano, dalla sua missione in Algeria, riflette sul bene che ne può nascere.

La parola si fa più sommessa, la forza della verità più discreta, il silenzio… medicina. Nel cuore cresce il lamento, la preghiera. Ma l’animo si fa più forte, la voglia di migliorare c’è ancora. L’appartenenza è più convinta, diventa fierezza anche se meno visibile.

Christian Chessel, giovane Padre Bianco ucciso a Tizi Ouzu assieme a tre confratelli, aveva scritto: «La debolezza non è in sé una virtù, ma l’espressione di una realtà fondamentale del nostro essere che deve essere ripresa, rimessa al suo posto, animata dalla fede, dalla speranza e dalla carità per lasciarci conformare alla debolezza di Cristo.

Questa debolezza ben compresa diventa il linguaggio migliore per esprimere l’amore discreto di Dio agli uomini, amore pieno di discernimento, discreto come quello di chi ha voluto condividere la nostra situazione umana. Diventa un invito a creare delle relazioni di non-potenza con gli altri. Accettata la mia debolezza, capisco quella degli altri e a condividerla come ha fatto Gesù».  

 

Il Papa nel suo messaggio pasquale ha detto: «L’umanità sta vivendo una crisi profonda. Anche ai nostri giorni l’umanità ha bisogno della salvezza del Vangelo - afferma - per uscire da una crisi che è profonda e come tale richiede cambiamenti profondi, a partire dalle coscienze». C’è bisogno, ha spiegato, «di un esodo, non di aggiustamenti superficiali, ma di una conversione spirituale e morale».

È la Chiesa che sta vivendo la sua crescita e lo sviluppo delle sue note: una, santa, cattolica, apostolica. Bisogno di purezza, di santità, di cattolicità aperta. Sta rinascendo e sarà nuova, più bella. Anche in Algeria.

Vorrei ridire il pensiero del vescovo emerito di Algeri, monsignor Tessier, che ha vissuto la sua vita credendo nella venuta del Regno di Dio e nel lavoro dello Spirito Santo anche in Algeria. Scrive: «Quando comunichiamo insieme negli stessi valori, noi prepariamo l’avvenire della Chiesa. L’avvenire della Chiesa sarà un dono di Dio. Tale avvenire non è il frutto di tattiche per cercare protettori per la Chiesa. Ciò può permettere di attraversare qualche difficoltà, ma non costruisce l’avvenire. Questo nasce quando i nostri amici ci riconoscono interessati insieme con loro su dei valori che fanno crescere l’uomo e la comunità umana. Per i credenti questi valori sono accolti come dono di Dio. Un’amica algerina della Chiesa a Orano dice: “La presenza dei cristiani, il loro sacrificio, il dono di sé, la loro opera sono un conforto per chi a volte è scoraggiato. Con questo esempio vivente di Dio, noi riprendiamo fiducia. La Chiesa in Algeria ci dà l’occasione di imparare a lottare perché l’umanità cresca nella giustizia, nella verità, nella libertà, nella solidarietà e nella fraternità”». E il vescovo continua: «Così si forma una Chiesa nuova non di soli cristiani ma anche di non cristiani che vivono con i cristiani la propria fedeltà a Dio e alla coscienza. Noi crediamo alla nostra responsabilità nella nascita di un avvenire per la Chiesa».  

 

 Inizio pagina

    

    

AZERBAIJAN

"Modello" di convivenza per i Paesi musulmani moderni

AsiaNews - Baku - 2 luglio 2010

Dopo la visita ufficiale di mons. Ravasi a Baku, un membro della delegazione vaticana racconta la situazione della Chiesa nell'ex Stato sovietico: dopo la persecuzione delle religioni, ora il clima è di sostegno e rispetto. Piccola, ma attiva la comunità cattolica. L'esempio delle suore di Madre Teresa.  

   

Un Paese a maggioranza musulmana, ma "attento a mantenersi laico e rispettoso delle minoranze", e dove la piccola comunità cattolica riesce a dare il suo contributo alla società. "Un esempio di come potrebbe essere una nazione islamica moderna". Così p. Theodore Mascarenhas - responsabile per l'Asia, l'Africa e l'Oceania presso il Pontificio consiglio per la cultura - descrive l'Azerbaijan. Qui il sacerdote si è recato in visita ufficiale (dal 14 al 18 giugno), al seguito del presidente del consiglio vaticano, mons. Gianfranco Ravasi, invitato dallo stesso ministro della Cultura e del Turismo, Abulfas Garayev.

Parlando ad AsiaNews, p. Mascarenhas racconta della situazione della Chiesa cattolica nell'ex Stato satellite sovietico. A Baku i fedeli sono appena 450 e nel 2000 il Vaticano vi ha istituito una missio sui iuris. "L'originale chiesa dell'Immacolata Concezione, nella capitale, era stata distrutta per ordine del governo sovietico nel 1931 - spiega il sacerdote - quella nuova è nata su un appezzamento di terreno concesso dal governo locale e consacrata nel 2006 dal nunzio mons. Claudio Guggerotti". Una storia di persecuzione che, in queste terre, accomuna cristiani e musulmani. Durante la visita della delegazione vaticana, un rappresentante dell'Ufficio dei musulmani caucasici ha guidato gli ospiti cattolici alla moschea Bibi Heybat, contente le tombe di alcuni dei discendenti di Maometto, e anche questa costretta alla chiusura sotto l'Unione Sovietica.

Nonostante ancora stia risolvendo con lo Stato la questione della sua registrazione (la nuova legge sulle religione, approvata nel 2009, impone una nuova registrazione per tutte le comunità, ma i requisiti richiesti contraddicono la legge canonica; per questo Vaticano e governo stanno trattando per trovare una soluzione alternativa, ndr) la Chiesa cattolica gode del sostegno delle autorità, "impegnate non semplicemente a tollerare, ma a sostenere le minoranze etniche (circa 70) e religiose", spiega p. Mascarenhas. "Anche se i cattolici sono una minuscola minoranza - continua il sacerdote - provano in tutti i modi a contribuire allo sviluppo del loro Paese". Un esempio in questo senso arriva dalle suore di Madre Teresa, "simbolo dell'apertura del governo al lavoro della Chiesa e anche dell'impatto che l'amore cristiano può avere su una società musulmana". A Baku sono cinque le suore di Madre Teresa, di cui quattro indiane e una filippina. La loro casa ospita al massimo 14 persone e la maggior parte di queste, di solito, è musulmana.

Alla fine della visita, secondo la testimonianza di p. Mascarenhas, quello che emerge è "un Paese impegnato a realizzare un modello di società multiculturale e di armonia interreligiosa, un vero ponte tra Oriente e Occidente, un esempio a cui potrebbero guardare anche altre nazioni musulmane per dirsi veramente moderne". (NC)  

 

 Inizio pagina

     

    

BANGLADESH

Schegge di Bengala - 60 (seconda parte) di p. Franco Cagnasso

Dhaka - 7 luglio 2010 

  

Infermiere

Come ogni anno in luglio, le infermiere cattoliche del Bangladesh si sono riunite per tre giorni nel seminario – vuoto a causa delle vacanze – per la loro assemblea. Quest’anno erano più di sessanta, in rappresentanza di un numero molto più alto di donne di ogni età che si dedicano a questa professione. In una società che ancora offre poche prospettive a quelle che non si sposano giovanissime o non si fanno religiose, fra le ragazze cristiane la professione di infermiera è popolare. Sono percentualmente molto più numerose delle musulmane e sono molto stimate. Nelle cliniche private le cercano, nelle pubbliche trovano posto, ma in queste ultime la loro condizione di minoranza si fa sentire: salvo pochissime eccezioni, niente posti di prestigio o di responsabilità.

 

Elettricità

Traballanti, brutti, lenti, si stanno rapidamente diffondendo in alcune zone rurali i taxi-triciclo elettrici, fabbricati in Cina o in India. Sono silenziosi e non fumano...

 

Lutto

“La coppa del mondo in Bangladesh è finita”. Così titola un giornale il giorno dopo la sconfitta dell’Argentina, che ha fatto uscire fiumi di parole e versare fiumi di lacrime. Considerando il numero di abitanti del Bangladesh, e quelli dell’Argentina, credo proprio che la loro nazionale abbia più sostenitori qui che in patria. Brucia un po’ sapere che un giornalista, comunicando ad un gruppo di Argentini la curiosità di un tifo appassionato in un paese lontano, abbia chiesto loro: “Sapete dove si trova il Bangladesh?”. Nessuno lo sapeva.- D’altra parte, anche fra i Bengalesi nessuno sa dove sia l’Argentina.- Un caso interessante per una ricerca sulla psicologia di massa...

 

 Inizio pagina

 

 

Premio di solidarietà a padre Adolfo

Mola di Formia - 23 luglio 2010

     

L'associazione musicale-culturale "Mola" di Formia, nell'ambito delle attività "Mola in Festa" ha assegnato, il 23 luglio 2010, il premio di solidarietà 2010 a p. Adolfo l'Imperio per la sua attività in Bangladesh, in particolare nel campo dell'educazione dei bambini.

I 1000 euro attribuiti sono il risultato di un torneo di Burraco svolto il giorno precedente.
Prenti alla preesmiazione il Presidente dell'associazione Franco Simeone, il tesoriere Antonio Persico e l'Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Formia: Treglia; che hanno anche consegnato una targa raffigurante una gouache di J.C. Peter Arkenausen datata 1820.

       

A ricevere il premio erano tre amici di p. Adolfo: Bruno, Tommaso e Salvatore che hanno anche spiegato le varie attività di p. Adolfo in questi 40 anni di vita bengalese.
L'attore Maurizio Stammati ha poi letto la bella lettera che p. Adolfo, per l'occasione, aveva inviato, e che vi alleghiamo.

  

Dhanjuri, 13 Luglio 2010  
Carissimo Franco ed Amici di Mola, 
sono tre settimane che mi arrovello il cervello per trovare una risposta alla "bella notizia" da parte dell'Associazione Mola di Formia. 
Cosa dire: non sono abituato a ricevere premi; forse è anche perché sono sempre nell'atteggiamento di premiare altri. Per questo mi prendete contro piede e resto impalato come il portiere di fronte all'attaccante che con la palla al piede è pronto a fare GOAL!

     

Mi perdonerete innanzitutto che non sarò tra voi dal 17 al 24 Luglio alla pinetina Ginillat di Mola di Formia. E' uno dei luoghi dove da giovane sognavo campetti da gioco per i ragazzi e giovani di Mola di Formia, che ne erano sprovvisti. Non conosco il gioco del Burraco e non potrei partecipare al torneo (e fare una figuraccia ???) 
Inoltre coprire la distanza tra me e voi comporterebbe troppi fastidi ad altri. Ad una certa età, dicono gli esperti, occorre avere un aiutante (badante) sia per muoversi, sia per ricordare ciò che si deve fare prima o dopo. Quindi limito i miei viaggi a Dinajpur-Dhanjuri, tratta settimanale, o all'interno del Bangladesh per impegni di servizio. Se proprio qualcuno mi vuole incontrare di persona, allora e' sempre benvenuto qui in Bangladesh. 

** Vi propongo di dare il premio ai bambine/i delle scuole italiane che con i loro piccoli risparmi esprimono la loro solidarietà verso i bambini/e del Bangladesh. 

        
In Italia vi sono circa 74.000 Bangladeshi (stima Caritas) per lavoro nella speranza di un futuro migliore, e tanti sono quelli che sognano di poter andare fuori del proprio paese verso paesi ......di sogno. 
** Inoltre il premio andrebbe agli educatori di ambi i paesi che sono impegnati a aprire le menti giovani verso orizzonti di impegno di vita e di speranza per vincere dove troppe volte si predica la vita facile, la violenza, il ricatto, la discriminazione. 
All'Amico Bruno chiedo di farsi carico dell'impegno per la mia non presenza e dirvi: 
1. Grazie perché con questo gesto date importanza all'impegno che occorre avere per sostenere l'istruzione delle nuove generazioni. Non e' solo istruzione scolastica ma "educare" a scoprire le proprie doti e proprie qualità da mettere al servizio della società del domani. Mi insegnate che "educere" dal latino ha il significato di "far nascere dall'interno" o "tirar fuori". E' quello che intendiamo portare avanti a Dhanjuri, o a Kudbir, e come è stato fatto prima a Dinajpur o Dhaka. 
2. Grazie perché date importanza a due aspetti necessari nella vita dei giovani : la musica ed il gioco, aspetti presenti in tutte le culture che vanno valorizzate e sviluppate verso nuovi orizzonti. In Bangladesh la musica ha una grande importanza nella vita di ogni giorno. Basta pensare che il gruppo Santal ha circa quattromila canti legati ai vari momenti della vita sociale. P.Sozzi (In Bangladesh dal 1927 al 1977) anni fa' mi diceva che lui andava, con il mandolino nei villaggi o mercati, a "cantare" il Vangelo usando la musica Santal. 
3. Grazie per il ricordo che avete suscitato in me di luoghi e persone che hanno influito nel superare con altri giovani (come Franco, Fabio, Luigi, Tonino, Rosaria, Marina, Salvatore, Tommaso, Gino, Romano, Benedetto, Isabella, Vincenzo, Gianni, Angela, Bruno, Luisa, Vittorio, Erasmo, Stella, Liberato, Rosario, don Mario, don Ettore, don Carmine don Gianni e tanti altri) le mentalità campanalistiche dei nostri tempi e formarci ad una amicizia vera per la vita. Tutto questo è stato un grande premio.

Il vostro essermi vicino e' una spinta a continuare. Vi accompagna in questi giorni della festa di Mola il mio pensiero e la preghiera a Gesù Crocifisso che si trova nella cappella del Santuario della Montagna Spaccata 

" Signore Gesù, che hai versato il tuo Sangue prezioso per tutti gli uomini, fa che non manchino mai operai nella vigna del Padre. ( amici impegnati a costruire una società globale solidale) 
Veglia sull'anima dei giovani e sul cuore del bambini. Aiutaci a superare le grandi minacce morali e sociali che colpiscono la vita e l'amore sulla terra.(operando per una società dove ogni persona sia accolta, rispettata ed amata ) 
Rendici disponibili alla salvezza dei nostri fratelli e sorelle, e facci comprendere che tutti possiamo offrire qualcosa : un pane, un sorriso, una preghiera, perché si compia nel mondo il disegno di Dio e la salvezza della persona. Amen (disegno fondato sul Suo Amore Eterno e salvezza che si concretizza nella scoperta giornaliera del "prossimo" evangelico) 
Di nuovo Grazie di cuore. 
    
Fr.Adolfo L'Imperio 

    

 Inizio pagina

         

     

Morire d'arsenico di Stefano Vecchia

Avvenire - 4 luglio 2010

Un decesso su cinque è determinato dal veleno nei pozzi  

    

Un quinto delle morti in Bangladesh sarebbero collegate alla contaminazione da arsenico delle acque, mentre circa la metà dei circa 150 milioni di bangladeshi sono esposti abitualmente alla minaccia di questa sostanza e altri in modo occasionale. L'articolo ( Arsenic exposure from drinking water, and all-cause and chronic-disease mortalities in Bangladesh, HEALS: a prospective cohort study) pubblicato il 19 giugno dalla versione online della rivista internazionale di medicina 'The Lancet', ha aperto uno scenario da incubo, non unico ma forse il peggiore al mondo per quanto riguarda le conseguenze dell'uso indiscriminato di una sostanza come l'arsenico e le difficoltà di attuare politiche di contenimento di pericoli conclamati o potenziali davanti alle necessità della popolazione. I ricercatori hanno seguito per dieci anni un campione di quasi 12mila persone e monitorato per lo stesso periodo 6.000 pozzi comunemente usati dalla popolazione. I risultati hanno confermato le previsioni dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che un decennio fa aveva previsto "un grave aumento nel numero delle patologie collegate all'arsenico se la popolazione continuerà ad utilizzare acqua contaminata ".

Un allarme lanciato da tempo, quindi. La stessa rivista aveva pubblicato nel 2001 i dati di un altro rapporto a cura dell'Università delle Nazioni Unite ( Arsenic crisis today, strategy for tomorrow, i cui dati erano poco meno drammatici, ma mancavano del sostegno di un monitorag- gio costante sulla popolazione). Un problema che, seppure coinvolge drammaticamente il Bangladesh, non esclude altri paesi, una settantina con in testa Thailandia, Cina e Stati Uniti. Complessivamente almeno 140 milioni di esseri umani a rischio o già condannati: una situazione che, secondo Joseph Graziano della Columbia University, che ha guidato la ricerca i cui risultati sono stati pubblicati su 'The Lancet' insieme a Habibul Ahsan ricercatore dell'Università di Chicago e docente alla stessa Columbia, "richiede chiaramente una risposta globale, perché la situazione va ben oltre i confini del Bangladesh ". Le coordinate di quello che l'Oms considera "il più grande avvelenamento di massa nella storia di una popolazione" sono tracciate chiaramente nel servizio di 'The Lancet'. La popolazione del Bangladesh è da decenni esposta a dosi pari a 10 microgrammi per litro, sufficienti a provocare direttamente il 21% delle morti e indirettamente il 24% di quelle attribuite a malattie croniche, come quelle cardiovascolari. I tumori più frequenti associati al consumo di arsenico colpiscono fegato, cistifellea e pelle. Come si sia arrivati a questa situazione è evidenziato chiaramente nello studio.

Paradossalmente, questa situazione gravissima è anche risultato dello sforzo del governo e delle agenzie per il sostegno allo sviluppo a partire dagli anni '70. Nel tentativo di ridurre le malattie collegate all'acqua non potabile, come colera e dissenteria, si sono costruiti almeno 10 milioni di pozzi. Questi - come sottolinea ancora il professor Graziano - se hanno ridotto la capacità di azione dei microbi che provocano patologie anche mortali, hanno però consentito la concentrazione nell'acqua dell'arsenico, un materiale metallico che si trova in natura nel sottosuolo del paese.

Un rimedio è costruire pozzi più profondi, oltre i 10 metri nel sottosuolo, una pratica avviata negli anni recenti ma che finora beneficiano, secondo gli esperti della Columbia University, soltanto 100mila persone.

In un drammatico tentativo di conciliare le necessità primarie della popolazione e l'impossibilità di utilizzare risorse adeguate in un paese che resta al fondo dello sviluppo asiatico, con una popolazione al 36 per cento sotto la soglia di povertà, ancora due anni fa il governo di Dhaka aveva proclamato il suo obiettivo di liberare l'acqua potabile dall'arsenico entro il 2013. "Un'acqua sicura da bere è uno dei problemi maggiori del Bangladesh - aveva dichiarato allora durante una conferenza scientifica il ministro delle Finanze Abul Maal Abdul Muhit. - Dobbiamo usare più prodotti chimici per maggiori produzioni agricole al fine di nutrire una popolazione crescente. I prodotti chimici contaminano le falde idriche, come pure l'arsenico. A questo fine - aveva concluso Muhit - in anni recenti il nostro governo ha promosso una ricerca scientifica mirata a risolvere il problema e ha reso disponibili maggiori risorse finanziarie ". Oggi, a maggior ragione mentre il paese è nella morsa della crisi economica che sta soprattutto devastando le sue esportazioni tessili, la maggior parte della sua popolazione - si stima il 70 per cento - continua a bere acqua all'arsenico.

 

I dati Oms

20 milioni di abitanti attingono a fonti fortemente inquinate

 Per un trentennio simbolo evidente di un qualche miglioramento della vita della popolazione, soprattutto rurale, almeno il 20 per cento dei cinque milioni di pozzi testati dal 2000 (la metà di quelli censiti nel paese) sono risultati contaminati oltre la soglia di tolleranza. Una beffa, se si tiene conto che furono scavati e dotati di pompe a mano per garantire acqua potabile. Un dramma, anche secondo gli standard di un paese che ha posto un limite cinque volte superiore a quello approvato dall’Oms alla presenza di arsenico nell’acqua: 0,05 microgrammi per litro contro 0,01; ovvero 50 parti su un miliardo contro 10 parti.

Si stima che oggi sono almeno 20 milioni gli abitanti che si riforniscono d’acqua da fonti che superano anche la soglia legale.

Uno studio del British Geological Survey indicava nel 2001 che erano 28-35 milioni gli abitanti esposti a contaminazione superiore alla norma stabilita localmente e 46-57 milioni in 60 dei 64 distretti del paese quelli che utilizzavano comunemente acqua inquinata oltre lo standard internazionale. (S.V.)

 

La ricerca

Araihazar, dopo anni di monitoraggio una dura sentenza

Al centro degli studi, il cui risultato è stato pubblicato su 'The Lancet', sono le ricerche condotte sul campo da diversi studiosi statunitensi e bangladeshi nel villaggio di Araihazar, situato in un’area rurale non lontano dalla capitale Dhaka. Qui, tra case con muri di fango e di cemento con tetti in lamiera o paglia, in un’area non particolarmente povera per gli standard del paese ma soggetta a periodiche inondazioni e alluvioni che inevitabilmente finiscono per inquinare le falde superficiali, sono stati condotti studi importanti per determinare le tipologie di intossicazione e compararle con le cause dei decessi della popolazione.

Con un continuo monitoraggio dei 51 pozzi da cui gli abitanti attingono l’acqua d’uso quotidiano. 11.746 abitanti tra 18 e 75 anni d’età sono stati registrati tra il 2001 e il 2002 e a verificarne le condizioni di salute, con controlli a cadenza biennale, medici all’oscuro delle condizioni di inquinamento da arsenico. I dati raccolti sono stati elaborati nel 2009. Risultato: all’esposizione all’arsenico attraverso l’acqua prelevata dai pozzi inquinati ha corrisposto un accresciuto tasso di mortalità, come dimostrerebbero i 407 decessi registrati nel periodo delle rilevazioni. Nei 400 bambini presi in esame, tutti in età scolare, il livello di apprendimento è risultato inferiore ai parametri internazionali adattati alle condizioni locali. (S.V.)

 

Il bilancio

Decine di migliaia di morti per tumore

 La contaminazione da arsenico per cause naturali fu individuata in Bangladesh nel 1993 e attribuita perlopiù ai materiali depositati nel tempo lungo le rive e alla foce dall’ampio sistema fluviale. Un risultato diretto dell’avvelenamento da arsenico in Bangladesh, suggerito anche nello studio di 'The Lancet', sono decine di migliaia di morti per tumore.

Secondo l’Oms, una prolungata ingestione di arsenico, seppure diluito nell’acqua, ha come risultato gravi problemi cutanei, cancro della pelle, cancro della cistifellea, del fegato e dei polmoni; patologia vascolari nelle gambe e nei piedi. Altri problemi possono essere diabete, alta pressione sanguigna e problemi riproduttivi.

Da tempo i centri sanitari governativi a livello di sotto-distretto sono incaricati di distribuire capsule di antiossidanti e vitamine in cicli di 30 giorni a chi presenta sintomi di intossicazione e prodotti dermatologici a chi ha mostra ulcere.

 

«Cause note e naturali. L’errore? Abusare delle falde»

Souparno Banerjee è il coordinatore delle attività di formazione del Centro per la scienza e l’am­biente (Cse) di Delhi, istituzione che in India promuove coscienza ecologica associata alle necessità dello sviluppo.  

 

 Quali sono le ragioni della grave situazione del Bangladesh?

 Gli studiosi che si occupano dell’inquinamento da arsenico in Bangladesh e nelle aree confinanti dell’India orientale, concordano sulle cause naturali. L’arsenico è arrivato con i depositi alluvionali dei grandi fiumi che attraversano la regione e le concentrazioni maggiori si registrano dove le correnti sono più lente, nelle aree deltizie congiunte del Gange e del Brahmaputra, che sono anche le più popolate. Una questione diversa è capire come questo arsenico arrivi alle falde nel sottosuolo. Una teoria sostiene che, come nel caso del fluoro, è la sempre maggiore e sempre più profonda estrazione di acqua dal sottosuolo a spiegare la presenza di questa sostanza.

     

 Come un problema di tali proporzioni è potuto restare nascosto per anni?

 Non è stato nascosto! I media nazio­nali e regionali, la popolazione e le pubbliche autorità lo conoscono da tempo e sono stati anche intrapresi sforzi per comprendere la natura e le ragioni della contaminazione, per con­trastarla. Si sono anche iniziate ad ap­plicare metodologie di intervento. Nuovi sono i dati scientifici che defi­niscono meglio una situazione sotto gli occhi di tutti.

 

 Quello del Bangladesh è un caso eccezionale oppure tipico di tanti paesi in via di sviluppo?

 Non si può dire che sia un caso eccezionale. L’India, ad esempio, ha vaste aree inquinate da arsenico. Lo Stato del Bangala occidentale, che confina con il Bangladesh, è il caso più noto, ma i nostri ricercatori hanno trovato contaminazione di questa sostanza persino in aree impensate e distanti, come il distretto di Balia nello Stato di Uttar Pradesh. Certamente è un problema che riguarda l’uso, o l’abuso, delle risorse idriche. Oggi noi beviamo acqua contaminata da arsenico perché abbiamo inquinato tutti i nostri corsi d’acqua a un punto tale che la popolazione è costretta a dipendere eccessivamente dalle falde sotterranee. Un controllo efficace e migliori sistemi di filtrazione, associati all’introduzione di tecnologie di disinquinamento disponibili in loco, pos­sono essere la soluzione immediata. Più a lungo termine si dovrebbero e­splorare fonti alternative e metodi co­me bacini di raccolta delle acque piovane.

 

 Possiamo dire che quello che conosciamo del caso del Bangladesh dovrebbe essere un campanello d’allarme per altri paesi?

 Posso citare il caso del mio paese, l’India, che ha visto e vede diverse forme di inquinamento idrico. Molte delle sue fonti superficiali (fiumi, laghi e bacini di varie dimensioni) sono grandemente inquinate degli scarichi do­mestici e industriali. I due casi più eclatanti sono quelli dei fiumi Gange e Yamuna. Tra il 2003 e il 2006, i ricercatori del Cse hanno aperto gli occhi del paese sulla contaminazione dai residui di pesticidi. Abbiamo trovato miscele di pesticidi letali in bevande analcoliche vendute in aree diverse e sempre in aree diverse è stata riscontrata la contaminazione dell’acqua da arsenico, fluoro e metalli pesanti. Investire nei sistemi di acque superficiali, ricaricare i sistemi sotterranei, ricostruire le reti di distribuzione gestite dalle comunità e, soprattutto, creare leggi che proteggano e conservino una risorsa tanto preziosa... Stiamo parlando di una necessità primaria per il paese, non di un’opzione.  

 

 Inizio pagina

        

    

200 arresti durante un corteo di protesta contro il governo di William Gomes

AsiaNews - Dhaka - 28 giugno 2010

La manifestazione è avvenuta ieri in occasione dello sciopero di 24 ore indetto dal Bnp contro il malgoverno del primo ministro Sheikh Hasina. Si tratta del primo sciopero dal 2007. Tra i fermati anche l'ex ministro degli esteri.  

   

La polizia ha arrestato ieri circa 200 persone durante una manifestazione a Dhaka "per avere violato il divieto di organizzare cortei in strade molto trafficate". Tra i fermati, ha rivelato il capo della polizia Tapan Kumar Ghosh, ci sono numerosi membri del Bangladesh national party (Bnp) come Shamsher Mobin Chowdhury, ex ministro degli esteri. Il corteo è stato organizzato in occasione dello sciopero nazionale di 24 ore indetto dal Bnp per protestare contro la cattiva amministrazione del Paese da parte della Awami league (Al), dal 2009 al governo. Quello di ieri è stato il primo sciopero dal 2007 e ha provocato la chiusura di negozi, scuole, mercati oltre ad un parziale blocco dei mezzi pubblici.

Soddisfatto della partecipazione popolare, il segretario generale del Bnp Khandaker Delwar Hossain ha dichiarato ad AsiaNews che lo sciopero è stato organizzato per fare pressione sul governo contro "la persecuzione dei leader dell'opposizione e dei lavoratori, contro l'interferenza del governo nel sistema giudiziario e contro la politicizzazione dell'amministrazione".

Il primo ministro Sheikh Hasina, leader dell'Al ha condannato l'iniziativa, dichiarando che "il Bnp cerca di ostacolare la democrazia e di incitare all'anarchia".  

 

 Inizio pagina

        

    

Leader islamici accusati di blasfemia: proteste e più di 100 arresti di Wlliam Gomes

AsiaNews - Dhaka - 1 luglio 2010

Le manifestazioni scatenate dall'arresto dei tre capi del partito Jamaat-e-Islami, accusati di offese a Maometto. Secondo il vicesegretario generale è "una cospirazione politica contro l'islam e i musulmani". Islam abusato per scopi politici.  

      

Più di cento attivisti di Jamaat-e-Islami (Jel) sono stati arrestati ieri durante manifestazioni avvenute in tutto il Paese, in seguito ad accuse di blasfemia rivolte ai leader del loro partito.

 Il Jel è un partito integralista islamico all'opposizione che mira a conformare "ogni attività umana" agli insegnamenti rivelati da Allah a Maometto. Eppure, tre loro leader - Matiur Rahman Nizami (nella foto), Ali Ahsan Mohammad Mojaheed e Nayebe Ameer Delwar Hossain Sayeede - sono stati accusati di blasfemia e arrestati il 29 giugno scorso.

 Le accuse risalgono al 17 marzo quando in un incontro pubblico Matiur Rahman Nizami ha paragonato le sue sofferenze politiche a quelle del profeta Maometto. Il leader di Jel sostiene di essere perseguitato dall'Awami league, partito al governo dal 2009. L'accusa di blasfemia nei suoi confronti è arrivata da Mohammed Syed Rezaul Haque Chandpuri, segretario generale del Bangladesh Tariqat Federation, che fa parte dell'alleanza di governo. Osservatori fanno notare che gli schieramenti agitano il vessillo dell'islam, ma le loro intenzioni sembrano essere più politiche che religiose.

 Matiur Rahman Nizami, insieme agli altri due massimi esponenti di Jel, si sono ripetutamente rifiutati di presentarsi davanti alla Dhaka metropolitan court e per questo sono stati arrestati. Mohammed Qamaruzzaman, vicesegretario generale del partito, ha parlato di "cospirazione contro l'islam e i musulmani": "Si tratta di un gioco politico, un caso falso costruito ad arte per eliminare l'islam dal Paese".

 I tre leader arrestati resteranno in prigione per 16 giorni per rispondere alle domande degli investigatori.  

  

 Inizio pagina

     

    

Missione in... ufficio di Isabella Mastroleo

Missionari del Pime - giugno/luglio/agosto 2010

Gestire una missione in un Paese straniero significa anche sbrigare pratiche burocratiche, compilare documenti, rinnovare passaporti... Un lavoro "nascosto", ma di non poca importanza per chi si trova in prima linea.

     

Nota. Da tempo volevo scrivere qualcosa sull'amico padre Carlo. Da vari anni è infatti il primo amico che vedo, quando arrivo a Dhaka dopo mezza giornata di aereo e, un mese e mezzo, dopo, l'ultimo amico "bengalese" prima di ripartire. Isabella mi ha preceduto, ma colgo l'occasione per ringraziare Carlo anche a nome di tutti coloro che visitano il Bangladesh per tutti i problemi, piccoli e grandi (da un visto sul passaporto ad un biglietto aereo, dall'organizzazione di un pulmino all' acquisto di qualcosa che non saremmo da soli in grado di trovare etc etc..), di cui si fa quotidianamente carico per tutti noi! Ancora grazie, Carlo.  

Bruno

 

"Intervistare me? Perché? Non faccio niente d'interessante, solo lavoro d'ufficio...".

Così padre Carlo Dotti, 64 anni, si schermisce alla richiesta di rilasciare un'intervista per Missionari del Pime. In Bangladesh da 36 anni, padre Dotti è attualmente rettore e procuratore della casa del Pime di Dhaka, capitale del Bangladesh, città che conta oggi circa 15 milioni di abitanti. Il "lavoro d'ufficio" di cui parla consiste nello sbrigare varie pratiche con le banche o altri uffici, per il rilascio di visti, l'acquisto di biglietti aerei o altri grattacapi burocratici che i missionari del Pime che operano in Bangladesh si trovano a dover affrontare.

Si tratta forse di un lavoro nascosto, non in "prima linea", ma certamente non di poca importanza, perché la missione è fatta anche di carte da controllare, documenti da compilare, passaporti da rinnovare, visti da richiedere e così via. "Nella casa del Pime di Dhaka, che si trova abbastanza vicina al centro della città - racconta padre Carlo -, come residenti "fissi" siamo solamente in tre: io, Alessando, che è un fratello in formazione, e un altro laico. Ma praticamente non siamo mai soli, perché la casa è un viavai di altri missionari e sacerdoti diocesani di passaggio".  

   

In realtà, è facile intuire che restare lontano dall'effettivo annuncio "ad gentes" pesa un po' a padre Carlo, considerato il fatto che la carica di rettore dura tre anni e che questo, per lui, è già il terzo triennio! "D'altra parte, non tutti sono adatti a questo tipo di lavoro - ci spiega - né sarebbero disposti a venire ad abitare nella capitale". Dhaka, infatti, è una città estremamente caotica, piena di gente sempre in movimento, con un traffico reso convulso da ogni tipo di mezzo di trasporto. Inoltre, gli impianti per la produzione di energia elettrica non sono sufficienti a rispondere alle richieste dell'intera città, per cui da gennaio a marzo spesso abbiamo avuto la corrente elettrica un'ora sì e un'ora no (eccetto, ovviamente, qualche quartiere privilegiato come il palazzo del primo ministro...)".

Dal 1990, la casa del Pime di Dhaka sorge in una zona strategica, non è lontana dal centro ed è abbastanza vicina alla stazione delle corriere che raggiungono tutte le località del Paese. Quindi, effettivamente, è una zona di passaggio quasi obbligato per i vari missionari del Pime che si spostano da una parte all'altra del Bangladesh o che devono sbrigare commissioni di vario genere nella capitale.

E a tutto questo pensa padre Carlo, con la sua presenza discreta e solerte. Lui, il Bangladesh, lo conosce bene, perché prima dell'attuale incarico nella capitale ha lavorato per molti anni in varie missioni del Paese, tutte - curiosamente - che iniziano per "B": Boldipukur, Borni, Bonpara, Benedwar, Bogra.

Oltre all'incarico di rettore e procuratore, padre Carlo celebra regolarmente la Messa in quattro conventi. E non solo. Negli ultimi anni si è delineato in maniera più precisa un suo dono particolare, che è quello della direzione spirituale dei giovani che si preparano a diventare sacerdoti. Chi l'ha detto che l'avere a che fare giorno dopo giorno con pratiche burocratiche, soldi, banche, uffici vari inaridisce le persone? Nel caso di padre Dotti non è certamente così, visto che riesce a conciliare serenamente le sue funzioni di procuratore e di direttore spirituale.

"A me sembra che la cosa funzioni - commenta modestamente -, tanto che alcuni dei giovani che ho seguito e che sono ormai diventati preti, tornano ancora adesso a chiedermi di avere un colloquio. Così, di solito dal sabato pomeriggio alla domenica mattina sono in seminario a completa disposizione dei giovani".

Infine, facendo un bilancio complessivo, com'è cambiata la società bengalese negli oltre trent'anni che padre Carlo Dotti ha trascorso in missione? "Il prodotto interno lordo del Paese è aumentato e la società si è secolarizzata, ma come spesso succede anche in altri luoghi, con l'aumentare della secolarizzazione diminuisce l'attaccamento alla fede, ai valori etici... È un discorso generale, che riguarda sia il mondo islamico sia quello cristiano. Ricordiamo, tuttavia, che l'islam è la religione maggioritaria in Bangladesh e che proprio nell'ambito di questa religione è nata una spiccata reazione alla secolarizzazione, spesso identificata con l'Occidente. Questa evoluzione ha in parte influenzato anche il Bangladesh, anche se l'islam bengalese è moderato, perché in questo Paese la diffusione della fede è stata opera dei sufi, che sono mistici e assolutamente contrari alla violenza".  

 

 Inizio pagina

      

       

Il Pime nella Chiesa del Bangladesh di p. Piero Gheddo

zenit.org - Roma - 14 giugno 2010 

     

Il Bangladesh è il secondo paese islamico dopo l'Indonesia: 150 milioni di abitanti su un territorio esteso meno di metà dell'Italia, senza risorse naturali e tormentato da inondazioni, cicloni, terremoti. Un paese islamico tollerante, senza nessun segno di persecuzione anti-cristiana, anzi l'unico che ammette i missionari stranieri, anche perché si dedicano all'evangelizzazione dei tribali animisti (il 3% del totale).

La giovane Chiesa del Bangladesh, molto viva, è stata iniziata nel 1500 dai portoghesi, ma fondata nel 1855 dai missionari del Pime e dai missionari americani della Santa Croce, come racconto in modo documentato con fonti d'Archivio.

Un secolo e mezzo di storia, con molti esempi di morti premature (molti morivano a 26-30 anni!), grandi fatiche, rinunzie e sofferenze per il Vangelo. "Non siamo eroi, ma ci manca poco" diceva un missionario nel 1930 ad una commissione del governo inglese che visitava le campagne del Bengala e definiva i missionari "tutti eroi".

La loro storia avventurosa inizia nel Bengala, definito dei colonizzatori inglesi "La tomba dell'uomo bianco". I primi quattro missionari scrivono: "Noi siamo come pigmei che debbono trasportare delle montagne".

Indù e musulmani erano insensibili all'annunzio del Vangelo, la missione va agli aborigeni, i primitivi delle foreste (santal, oraon, munda, pahari), portandovi la scuola, l'assistenza sanitaria, l'agricoltura moderna, alfabetizza lingue non scritte, compie ricerche etnologiche.

Soprattutto porta la pace fra le varie etnie e tribù. Fra questi popoli considerati "selvaggi" nasce la Chiesa. E' la prima fase storica della missione: occupare tutto il territorio e fondare le comunità cristiane unendole in parrocchie e diocesi.

Quando l'India diventa indipendente (1947) nascono due stati, uno indù (India) e uno musulmano (Pakistan e poi Bangladesh). Si sviluppa la seconda fase della missione: dare alla Chiesa locale solide strutture e proprio personale dirigente.

Nel primo secolo di missione, dal lavoro del Pime sono nate sei diocesi, tre in India (Krishnagar, Jalpaigury e Dumka-Malda) e tre in Bangladesh (Dinajpur, Khulna e Rajshahi), oggi con vescovi locali.

Negli ultimi trent'anni il Bangladesh sta rapidamente cambiando: nasce l'industria tessile con gli investimenti stranieri, una rivoluzione economica e sociale che ha causato l'immigrazione giovanile di massa verso le città e in particolare la capitale Dacca, passata da un milione di abitanti nel 1980 ai 12 milioni di oggi! Incomincia la terza fase della missione, quella attuale: dalle campagne e foreste alle città, per impedire che i giovani cristiani perdano i contatti con le comunità di battezzati.

Ma la Chiesa locale, pur con un buon numero di preti e suore, non ha ancora né il personale, né i mezzi e nemmeno lo spirito missionario per iniziare la missione fra i non cristiani nei difficili ambienti cittadini. I vescovi chiedono aiuto ai missionari.

In Bangladesh sta rapidamente cambiando la cultura popolare, che tende ad imitare le mode dell'Occidente. La Chiesa rischia di perdere molte famiglie cristiane anche perché nella capitale, 25 anni fa, c'erano solo tre parrocchie.

Dal 1985 ad oggi, il Pime ha fondato a Dacca tre parrocchie (Mohammadpur, Mirpur e Kewachola) e ne sta fondando altre due (Utholi e EPZ), con costi anche economici esorbitanti per l'acquisto dei terreni. Ma la Provvidenza aiuta sempre. Oggi a Dacca ci sono dieci parrocchie con altre in costruzione, 80.000cattolici e 12 milioni di abitanti.

A Dacca i missionari del Pime lavorano anche fra i ragazzi di strada nelle baraccopoli e hanno iniziato gli incontri ecumenici con i protestanti e il dialogo inter-religioso con musulmani, indù e buddhisti.

In Bangladesh i cattolici sono solo 400.000 su 150 milioni di abitanti, i cristiani un milione. Il Pime è presente in quattro diocesi: Dinajpur, Rajshahi, Dacca e Chittagong. Sono poco meno di quaranta, aiutati da cinque sacerdoti "Fidei Donum" di due diocesi colombiane (Sonsòn-Rio Negro e Santa Fé de Antioquia), da alcuni volontari laici dell'ALP (Associazione Laici Pime) e dalla congregazione "Missionarie dell'Immacolata", nata dal Pime nel 1936 a Milano.  

 

 Inizio pagina

      

    

CINA

India e Cina, lotta per l'energia

AsiaNews - Hong Kong - 30 giugno 2010

Da anni la diplomazia di Pechino tratta con i Paesi esteri in materia di energia, aprendo la strada alle ditte statali cinesi. Ma ora anche New Delhi affronta il problema in termini politici.  

        

L'India, terza maggior economia in via di sviluppo, ha una nuova strategia in campo energetico per fronteggiare l'agguerrita concorrenza cinese, che nel 2009 le ha sottratto contratti per almeno 12,5 miliardi di dollari. Il ministro per il Petrolio Murli Deora negli ultimi mesi è stato in Paesi ricchi di greggio come Nigeria, Angola, Uganda, Sudan, Arabia Saudita e Venezuela, per ottenere contratti e soddisfare il crescente fabbisogno di energia di 1,2miliardi di abitanti.

L'Agenzia Internazionale per l'Energia ha stimato che nel 2030 il consumo di petrolio per l'India raddoppierà rispetto al 2007 giungendo a 833 milioni di tonnellate, mentre per la Cina crescerà dell'87% a 2,4 miliardi di tonnellate. Da anni Pechino è impegnata nel mercato mondiale e può attingere dalle sue riserve internazionali di 2.400 miliardi di dollari Usa contro i 250 dell'India per comperare partecipazioni. I vertici della diplomazia di Pechino sostengono le ditte petrolifere statali cinesi, che nel 2009 hanno investito la somma record di 32 miliardi di dollari. La recente decisione cinese di consentire un apprezzamento dello yuan si prevede rafforzerà la propensione di Pechino a investire in giacimenti esteri. Le importazioni indiane di greggio sono aumentate di 6 volte negli ultimi 10 anni a una media di 85,47 miliardi di dollari l'anno.

Economisti dicono che New Delhi finora è stata perdente perché ha impostato il discorso in termini solo economici affidati anzitutto alle ditte petrolifere, mentre il petrolio coinvolge interessi politici.

La Cina domina il mercato africano, con aiuti e finanziamenti per miliardi di dollari ai governi in cambio di forniture di energia. L'Africa produce circa un ottavo del greggio mondiale.

La statale China National Petroleum Corp. ha sottratto lucrosi affari all'India arrivando dopo ma con maggiori somme disponibili: nell'agosto 2005 ha concluso un accordo da 4,18 miliardi con la PetroKazakhstan, a settembre 2005 ha comprato una partecipazione della EnCana Corp. in Ecuador.

L'India sta imparando, i suoi vertici politici sostengono le richieste di energia e offre finanziamenti: nel 2005 la statale indiana Oil & Natural Gas Corp. (Ongc) ha finanziato strade, porti, ferrovie e centrali energetiche in Nigeria in cambio di 600mila barili di greggio al giorno per 25 anni.

Lo scorso febbraio il ministro Deora ha convito l'Arabia Saudita a raddoppiare le forniture di greggio a circa 800mila barili al giorno. A marzo la Ongc e altre ditte statali indiane sono entrate in un gruppo per la ricerca e lo sviluppo dei giacimenti in Venezuela, durante una visita di Deora.

Gideon Lo, analista del settore a Hong Kong, spiega all'agenzia Bloomberg che "il sostegno del governo è un vantaggio per le grandi compagnie petrolifere cinesi, è un segreto alla luce del sole. Il governo stabilisce rapporti di alto livello con i Paesi produttori di petrolio. In seguito arrivano le compagnie petrolifere e trattano".

Strategia che Pechino vuole incrementare: Jiang Jiemin, presidente della PetroChina Co., ha detto a marzo che per il 2020 mira ad avere metà della sua produzione dall'estero, mentre oggi ne arriva meno del 10%.

Secondo Tom Deegan, esperto del settore di stanza a Hong Kong, l'altro grande vantaggio delle ditte cinesi è la forte disponibilità finanziaria, grazie al sostegno delle banche statali a tassi molto agevolati, "cosa che forse le ditte indiane non hanno".

Fra l'altro le ditte statali cinesi si possono permettere di produrre in perdita, forti del sostegno pubblico. La cinese Sinopec nel 2009 ha acquistato la Addax Petroleum Corp. per 7,9 miliardi, acquistando le sue licenze di sfruttamento in Nigeria, Gabon e Camerun.

New Delhi non appare poter competere con le ricche offerte cinesi, ma intenzionata a impegnare la sua influenza politica.  

 

 Inizio pagina

         

    

Colonialismo alla pechinese di Walden Bello

Il Manifesto - 4 luglio 2010

Spoliazione di risorse, assalto a mercati vergini, contrabbando. Per i paesi del sud-est asiatico il «Cafta», l'accordo di libero scambio con la Repubblica popolare, rischia di risolversi in un disastro  

    

L'Area di libero scambio Cina-Asean (Cafta) è ormai operante dal 1 gennaio 2010. Pubblicizzata come l'area di libero scambio più grande del mondo, il Cafta conta 1 miliardo e 700 milioni di consumatori, con un prodotto interno lordo complessivo di 5.930 miliardi di dollari e un volume totale di scambi commerciali di 1.300 miliardi di dollari.

In base all'accordo, gli scambi commerciali tra la Cina e sei paesi dell'Asean (Associazione degli stati del sud-est asiatico, che include Brunei, Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e Thailandia) sono diventati duty-free per più di 7.000 prodotti. Entro il 2015 entreranno nell'accordo che elimina i dazi doganali anche paesi Asean più recenti come Vietnam, Laos, Cambogia e Myanmar (la Birmania).

La macchina propagandistica, specialmente a Pechino, sostiene che l'accordo di libero scambio darà «vantaggi reciproci» alla Cina e all'area Asean. Anche la presidente delle Filippine, Gloria Arroyo, ha salutato l'emergere di un «formidabile raggruppamento regionale» che farebbe concorrenza agli Stati Uniti e alla Ue. Tuttavia la realtà è che i vantaggi andranno quasi tutti alla Cina.  

           

Una crescita a rotta di collo

A prima vista, la relazione bilaterale potrebbe apparire positiva. Dopo tutto, la domanda proveniente da un'economia cinese che cresce a rotta di collo è stata un fattore chiave nella crescita del sud-est asiatico intorno al 2003, dopo il periodo di scarsa crescita che aveva fatto seguito alla crisi finanziaria asiatica del 1997/1998.

Durante l'attuale recessione internazionale, i governi Asean contano sulla Cina, il cui prodotto interno lordo nel quarto trimestre 2009 è cresciuto del 10,7% rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente, per uscire dalla crisi.

Eppure il quadro è più complesso rispetto a quello che vede la Cina come la locomotiva che trascina con sé il resto dell'Asia orientale a grande velocità verso il nirvana economico.

Molti nel sud-est asiatico temono che i bassi salari abbiano incoraggiato gli imprenditori locali e stranieri a eliminare gradualmente le loro attività dai paesi dell'Asia sudorientale con salari relativamente alti per trasferirle in Cina.

Questo timore appare fondato. La svalutazione dello yuan da parte della Cina nel 1994 ebbe l'effetto di allontanare alcuni investimenti stranieri diretti dal sud-est asiatico.

Il trend che vede i paesi Asean perdere terreno nei confronti della Cina ha subito un'accelerazione dopo la crisi del 1997. Nel 2000 gli investimenti stranieri diretti nei paesi Asean sono scesi al 10% di tutti gli investimenti nei paesi asiatici in via di sviluppo, dal 30% nella metà degli anni '90. Il declino è proseguito nel resto del decennio. Questo trend è stato attribuito dal World Investment Report dell'Onu, tra l'altro, alla «maggiore competitività della Cina».

Il commercio è un'altra area di preoccupazione, forse maggiore. Il massiccio contrabbando di beni provenienti dalla Cina ha dissestato praticamente tutte le economie Asean. Ad esempio, con una percentuale di circa il 70-80% dei negozi che vendono scarpe cinesi di contrabbando, l'industria calzaturiera vietnamita ha molto sofferto. Ora si teme che l'accordo Cafta legalizzi semplicemente il contrabbando, peggiorando gli effetti già negativi delle importazioni cinesi sull'industria e sull'agricoltura dei paesi Asean.

Secondo i funzionari cinesi, i vantaggi per la Cina di un accordo di libero scambio con i paesi Asean sono chiari. Secondo l'economista cinese Angang Hu, la strategia mira a integrare più pienamente la Cina nell'economia globale come il «centro dell'industria manifatturiera mondiale».

Un aspetto centrale del piano era aprire i mercati Asean ai prodotti cinesi. Alla luce della crescente diffusione di sentimenti protezionistici negli Usa e nell'Ue, l'Asia sudorientale - che assorbe solo l'8% circa delle esportazioni cinesi - presenta un potenziale enorme di maggiore assorbimento delle merci di Pechino. La strategia commerciale della Cina è descritta da Hu come «un modello semi-aperto», cioè «uno scambio aperto o libero per quanto riguarda le esportazioni, e un approccio protezionista per quanto riguarda le importazioni».  

      

L'ora dell'high-tech

Nonostante le coraggiose parole di Arroyo e di altri leader Asean, è molto meno chiaro quali saranno i vantaggi che l'Asean trarrà dalla sua relazione con la Cina.

Certamente non ci saranno benefici nella produzione con manodopera intensiva, dove la Cina gode di una posizione imbattibile per la costante pressione verso l'abbassamento dei salari esercitata dai migranti: si tratta di una forza lavoro rurale pressoché inesauribile, con un reddito medio di 285 dollari l'anno. Certamente non ci saranno benefici nell'high-tech, visto che persino gli Usa e il Giappone sono spaventati dalla rimarchevole capacità della Cina di spostarsi molto rapidamente nelle industrie high-tech consolidando allo stesso tempo la sua posizione di vantaggio nella produzione con mano d'opera intensiva.

Sarà l'agricoltura dei paesi Asean a godere di un vantaggio netto? La Cina è chiaramente super-concorrenziale in una vasta gamma di prodotti agricoli - dalle colture dei climi temperati a quelle dei climi semi-tropicali - e nella trasformazione dei prodotti agricoli.

Inoltre, anche se con l'introduzione dell'area Cafta i paesi Asean dovessero guadagnare o mantenere competitività in alcuni settori della produzione, dell'agricoltura e dei servizi, molto difficilmente la Cina si allontanerà da quel modello di commercio internazionale che Hu definisce «semi-aperto».

E per quanto riguarda le materie prime? Naturalmente l'Indonesia e la Malesia hanno il petrolio, di cui la Cina ha scarsa disponibilità, la Malesia ha la gomma e lo stagno, e le Filippine hanno l'olio di palma e i metalli.

Ma ad un secondo sguardo si pone l'interrogativo se la relazione con la Cina non stia riproducendo la vecchia divisione coloniale del lavoro, in virtù della quale i prodotti agricoli e le risorse naturali a basso valore aggiunto venivano spediti al centro mentre le economie del sud-est asiatico assorbivano i prodotti pregiati dell'Europa e degli Stati Uniti. Probabilmente, con l'accordo Cafta, questi trend subiranno un'accelerazione. Ma con una differenza: la Cina batterà i suoi vicini Asean raggiungendo il controllo del mercato interno.

Per riassumere, l'accordo commerciale probabilmente sarà svantaggioso per i paesi Asean. Anche se alcuni settori sono temporaneamente esenti da una piena liberalizzazione commerciale, l'area Asean sarà prigioniera di un processo unidirezionale in cui le barriere ai beni supercompetitivi della Cina, industriali e agricoli, tenderanno a sparire.

copyright Ips/il manifesto

traduzione di Isa Melampo

       

 Inizio pagina

 

 

COLOMBIA

Governo, aziende e narcotraffico alleati contro i diritti umani di Raffaele K Salinari

Il Manifesto - 3 luglio 2010

Parla Augustin Jimenez della Coalizione contro la tortura: abusi sistematici, il paese sacrificato sullo scacchiere geopolitico  

   

Il salone principale della «Nuova Casona», sede del centro di attenzione psicosociale alle vittime della tortura, è dedicato a Leonidas, un leader sindacale ucciso dai paramilitari a Bogotà l'anno scorso. L'inaugurazione del centro, qualche giorno fa, ha rappresentato un'occasione per fare il punto sulla lotta contro la tortura che «in questo paese è una pratica politica quotidiana», come ci ricorda Augustin Jimenez, portavoce della Coalizione Colombiana contro la tortura.

    

Che significa usare la tortura come strumento politico?

Anzitutto negare che esiste. In questi ultimi anni, a livello internazionale il governo Uribe ha cercato di far passare l'idea che il paese fosse in uno stato di normalità democratica, che non vi fosse alcun uso sistematico della tortura che, in generale, le convenzioni internazionali venissero rispettate. La tortura esiste e viene praticata sistematicamente, a tutti i livelli. Per questo il governo ha rifiutato di ratificare la Convenzione Onu sulla tortura, che gli avrebbe imposto di presentare un rapporto alternativo, redatto dalla nostra rete di organizzazioni.

 

Possiamo tracciare una mappa della tortura?

Se analizziamo le torture a livello comunitario, la violenza che viene esercitata su intere popolazioni, anche attraverso gli spostamenti forzati o i rapimenti, o l'uccisione dei leader comunitari e sindacali, vediamo come gli interessi del narcotraffico, dell'esecutivo, delle grandi imprese minerarie, siano assolutamente coincidenti. Quando si vuole un territorio, sia per farne altri campi per la coltivazione della coca, o per estrarre il coltan o l'oro, non si esita a organizzare vere e proprie campagne di tortura, minacce, uccisioni, per liberarlo dalle popolazioni.

 

Cosa cambierà dopo l'arrivo alla presidenza di Santos?

Gli otto anni di Uribe sono stati drammatici per l'aumento della violenza generalizzata nel Paese. La dottrina di Uribe, la cosiddetta «sicurezza democratica», ha massimizzato il controllo militare del territorio attraverso i fondi del «Plan Colombia» e intessuto con il narcotraffico una rete di relazioni a tutti i livelli. Il Paese è stato svenduto alle multinazionali straniere, tutto quello che funzionava è stato privatizzato. Il narcotraffico ha cambiato radicalmente la visione di molti giovani colombiani che, oggi, preferiscono il danaro facile all'impegno quotidiano. Tutto questo difficilmente potrà cambiare con l'elezione di Santos che era, non lo dimentichiamo, il Ministro della difesa del Governo Uribe. Se poi aggiungiamo che ben sette basi militari degli Usa saranno aperte in diverse zone del Paese, i margini della nostra sovranità nazionale, per non parlare di quella popolare, si riducono ancora di più. Questi interessi, e la situazione degli altri stati latino-americani con i quali confiniamo, penso al Venezuela ad esempio, fanno si che la Colombia sia troppo importante nello scenario geopolitico continentale, perché possa nascere un Governo realmente democratico.  

 

 Inizio pagina

    

    

CONGO RD

Dai vescovi, messaggio alla popolazione per "un Congo più bello di prima"

Misna - 30 giugno 2010  

     

Un appello alla popolazione congolese “a mobilitare le sue energie in vista della ricostruzione della sua identità e l’instaurazione di un nuovo ordine sociale capace di rispondere alle sue più profonde aspirazioni”. Lo rivolge la Conferenza episcopale nazionale del Congo (Cenco) nel messaggio scritto ai congolesi in occasione del 50° anniversario dell’indipendenza, dal titolo “Il nostro sogno di un Congo più bello di prima”. Nella prima parte del documento, i presuli riflettono sul “momento di grazia” rappresentato dalla ricorrenza ricordando i sogni dei padri dell’indipendenza per una riflessione collettiva, “perché – affermano – chi non vuole apprendere lezioni dalla sua storia è condannato a ripeterla”. La seconda parte si sofferma sulla situazione attuale al livello politico, economico e sociale, facendo da introduzione alla terza e conclusiva parte, sul “sogno” dei vescovi stessi per il futuro della nazione. I presuli si dicono “convinti che gli uomini e le donne di questo paese sono capaci oggi di superare gli handicap della nostra situazione per costruire un Congo più bello di prima” ponendosi come principale obiettivo “ravvivare la speranza” e denunciando “le forme di religiosità e spiritualità che deresponsabilizzano i congolesi” su cui ricade invece la grande responsabilità “di partecipare attivamente alla nascita di una società nuova e a impegnarsi per lo sviluppo del nostro paese”. I politici di domani sono chiamati a “vivere il loro impegno politico come un servizio per il bene comune. E’ l’uomo – sottolineano – che deve essere messo al cuore di ogni impegno politico”. Anche l’economia deve essere messa “al servizio dell’uomo” perché “una nazione non può prosperare a lungo se favorisce unicamente i suoi membri già abbienti”. Per un nuovo Congo, aggiungono i vescovi, “bisognerebbe adottare un modello di crescita economica sostenibile e orientato verso la soluzione del problema della povertà” basato su settori produttivi, dall’agricoltura, alle infrastrutture, all’habitat, ai trasporti, all’energia, per cui “è imperativo che lo stato svolga il suo ruolo di responsabile del benessere delle popolazioni e dello sviluppo umano nel paese”. E’ necessario “investire sulla sanità, l’alimentazione e soprattutto sull’istruzione” affermano i vescovi. E’ allo stesso tempo necessario che i cittadini facciano la loro parte: per questo, si legge nel documento, “chiediamo solennemente a tutto il nostro popolo di compiere il dovere civico e costituzionale di pagare imposte e tasse”. La Chiesa “si impegna a collaborare con il governo alla costruzione di una cultura fiscale capace di preservare la sovranità nazionale e garantire lo sviluppo solidale” aggiungono i vescovi annunciando una grande campagna nazionale di lotta alla corruzione attraverso l’adempimento degli obblighi fiscali. Un “civismo fiscale” che andrà costruito con una gestione trasparente della spesa pubblica e a cui intende contribuire anche un manuale pubblicato di recente dalla Chiesa dal titolo “Costruire un Congo più bello di prima. La cultura fiscale”.

Particolare attenzione dovrà essere posta secondo i vescovi al settore nevralgico della gestione delle risorse naturali e al debito estero, definito il "principale ostacolo allo sviluppo del paese" e un "problema spinoso" per cui "l'esperienza dimostra che l'iniziativa 'Hipc' (paesi poveri altamente indebitati) è lungi dal rappresentare la soluzione miracolosa". I vescovi congolesi fanno loro l'appello di Benedetto XVI al G8 "per un annullamento rapido, completo e senza condizioni del debito estero". L'istruzione inoltre dovrà essere rimessa al centro delle priorità: Quale futuro potrà esserci per il Congo, si interrogano i presuli, "se i giovani avvezzi alla legge del minimo sforzo credono che i risultati si ottengono con tutti i mezzi, anche al prezzo della loro dignità umana? Quale futuro se l'istruzione resta sempre marginalizzata nelle previsioni di bilancio nazionali?". La Chiesa, aggiungono, "sa che lo stato oggi ha i mezzi per remunerare come dovuto coloro che hanno la responsabilità di donare alla nazione i suoi futuri quadri dirigenti. Esige che i proventi dell'annullamento del debito annunciati siano destinati in via prioritaria a questo settore vitale della nazione". Il futuro del Congo, evidenziano ancora i vescovi, "esige un nuovo spirito e una nuova cultura: il rispetto del bene comune e della parola data, il senso dello sforzo, l'amore per il lavoro e il patriottismo", un cambiamento di mentalità che "non può riuscire senza strutture sociali che lo sostengono e lo alimentano, senza la costituzione di nuove istituzioni politiche e sociali di gestione della vita collettiva secondo principi differenti da quelli che, oggi, tradiscono la nazione". La Repubblica democratica del Congo "ha bisogno di rifondare la sua esistenza sui suoi valori vitali e di aprirsi alla linfa del Vangelo per produrre la nuova cultura dell'amore per gli altri e la patria, la giustizia e la pace", attraverso "una conversione spirituale e morale". Per segnare questo nuovo inizio, "la Chiesa chiede la liberazione dei prigionieri politici e d'opinione, la costruzione di un memoriale a Kinshasa e in ogni provincia per i nostri milioni di morti vittime della violenza che si è abbattuta, cieca e spietata, su una vasta frangia della popolazione". Il 50° anniversario dell'indipendenza, concludono i vescovi, "deve essere il momento di far trionfare la speranza sulla paura, l'unità del nostro destino sui conflitti; il momento di scegliere di garantire alla giustizia i mezzi adeguati per applicare la legge, il momento di non versare più il sangue degli innocenti; il momento di scegliere una cooperazione e un'intesa rafforzata con i paesi vicini e la comunità internazionale nel rispetto della legge internazionale e la salvaguardia della nostra sovranità nazionale". [FB]  

  

 Inizio pagina

      

    

COSTA D'AVORIO

Dopo scandalo 'probo Koala', un laboratorio per rifiuti tossici

Misna - 28 giugno 2010  

   

Un laboratorio per testare rifiuti pericolosi entranti nei porti dell'Africa occidentale è stato inaugurato ad Abidjan, teatro nell'Agosto 2006 di un grave episodio di inquinamento da sostanze tossiche scaricate illegalmente. Ideato dal Programma dell'Onu per l'ambiente (Unep), il progetto del laboratorio è cominciato nel 2008 con il sostegno dei governi di Olanda, Svezia, Danimarca e di un laboratorio statale svizzero. L'Unep riferisce che la struttura, ospitata presso il centro ivoriano anti-inquinamento, è specializzata nell'analisi di campioni di suolo e acqua alla ricerca di possibili contaminazioni. Il caso della 'Probo Koala, la nave noleggiata dalla multinazionale 'Trafigura', protagonista dell'inquinamento del 2006, aveva attirato l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale e internazionale sul mancato riciclaggio di sostanze nocive da parte di aziende di paesi 'ricchi' che preferiscono sbarazzarsi dei rifiuti a poco prezzo in qualche paese povero e poco sviluppato. Almeno 16 abitanti di Abidjan morirono nei giorni immediatamente successivi allo scarico, decine furono ricoverate e decine di migliaia hanno manifestato disturbi e patologie legate all'inalazione di veleno. [CC]  

 

 Inizio pagina

   

    

CUBA

Salute infantile, L'Avana esempio mondiale

Misna - 30 giugno 2010

        

Indicatori di mortalità infantile migliori di quelli di alcuni paesi sviluppati confermano che Cuba è un "buon esempio" in materia di sanità pubblica. "Quando mi metto a paragonare le statistiche di Cuba a quelle degli Stati Uniti, i dati dell'Avana sono migliori" ha detto il dottor Chok-wan Chan, presidente dell'Associazione mondiale di pediatria, intervenendo a un convegno internazionale dedicato alla salute dei bambini. Anche Elizabeth Mason, direttrice del dipartimento di salute infantile e adolescenziale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha elogiato gli ottimi risultati del sistema sanitario nazionale, interamente gratuito e aperto a tutti, del governo cubano. La signora Mason ha definito "eccellente" il tasso di mortalità infantile sull'isola, di 4,8 per mille. Altro esperto dell'Oms, José Carlos Martínez, ricordando che Cuba è un paese molto povero, ha commentato: "Forse il risultato più utile dei nostri modesti sforzi nella lotta per un mondo migliore sarà quello di riuscire a dimostrare come si riesca a ottenere molto anche avendo poco a disposizione, se tutte le risorse della società, umane e materiali vengono messe a servizio del popolo".[CC]  

 

 Inizio pagina

     

    

GUINEA BISSAU

Ordinati tre sacerdoti della diocesi di Bafatá di Mons. Zilli*, Pime

www.pime.org   - 11 giugno 2010

      

Cari amici,

vi scrivo per condividere con voi una grande gioia. Sabato 5 giugno ho avuto la grazia di ordinare tre sacerdoti guineani nella mia diocesi di Bafatà: Ademir Cristiano Barreiro della parrocchia di Bambadinca, Avito José Fernandes e Francisco Fernandes della parrocchia della Cattedrale; queste due parrocchie erano state affidate ai missionari PIME per 50 anni.

Durante la predica ho detto che queste tre ordinazioni sono state un vero regalo per me, perché proprio quest’anno celebro i miei 25 anni di sacerdozio e del mio arrivo in Guinea Bissau. Sono stato, infatti, ordinato il 5 gennaio 1985 e sono arrivato in Guinea nel luglio dello stesso anno.

All’inizio della celebrazione i genitori dei candidati sono venuti a consegnarmi i loro figli, dicendo di essere felici che essi siano entrati in una nuova famiglia di cui io sono il padre. Alla sera dello stesso giorno ho visitato le case dei novelli sacerdoti. La gioia era grande! Grato al Signore, ho pensato nel mio cuore: “La gente semplice capisce la bellezza e il mistero del sacerdozio”.

Come missionario del PIME, sono stato contento nel vedere che gli sforzi dei missionari di questo Istituto sono stati ricompensati dal buon cammino che la Chiesa sta facendo in questo paese. Come brasiliano, ho provato una grande gioia interiore per il fatto di rappresentare qui in Guinea la Chiesa dal Brasile e adesso di ordinare questi sacerdoti, testimoni di Gesù tra questo popolo che sta facendo il suo pellegrinaggio nella fede.

Siamo un bel gruppo di missionari brasiliani in Guinea: sacerdoti, suore e laici. Inoltre, la Chiesa brasiliana ha già inviato otto professori di filosofia e teologia per insegnare nel nostro Seminario Maggiore di Bissau, contribuendo alla formazione di questi tre neo sacerdoti.

In quest’anno 2010, dodici giovani guineani saranno ordinati sacerdoti: cinque diocesani, sei francescani e uno del PIME. Gaudêncio Francisco Pereira sarà il primo missionario PIME guineano e ha già ricevuto la sua destinazione in Papua Nuova Guinea in Oceania. Quindi la Chiesa in Guinea Bissau diventa a sua volta Chiesa missionaria che si apre alla missione ad extra, al di fuori cioè del proprio paese.

Un saluto a tutti.  

* Vescovo di Bafatà  

 

 Inizio pagina

       

        

HAITI

L'appello dei vescovi: la situazione è ancora gravissima, servono gli aiuti del mondo

www.radiovaticana.org - 2 luglio 2010  

     

Sono trascorsi quasi cinque mesi dal terremoto che ha devastato Haiti, provocando 250 mila morti ed oltre un milione e mezzo di senzatetto. Nonostante la macchina degli aiuti si sia messa in moto rapidamente, i 10 miliardi di dollari promessi dalla comunità internazionale alla Conferenza dei contribuenti di New York del marzo scorso stentano ad arrivare. La denuncia arriva dallo stesso segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che qualche giorno fa si è detto preoccupato per la situazione in cui vive la popolazione haitiana. Ma qual è la situazione oggi? Salvatore Sabatino lo ha chiesto a padre Hans Alexandre, segretario permanente della Conferenza episcopale haitiana:

 

R. – La gente vive nelle tende. Fa caldo, e quando piove la gente sta male perché la vita in tenda non è sana. E’, per loro, una situazione gravissima. Posso dire anche che la vita di famiglia non esiste quasi più nelle tendopoli. Tutto questo porta la Chiesa in Haiti a chiedere: ma quando ci sarà finalmente una vita migliore per queste popolazioni?

 

D. – La Chiesa ha sempre ricoperto un ruolo importantissimo nel tessuto sociale haitiano, e il terremoto l’ha colpita fortemente. Qual è il suo ruolo e come viene vista dagli haitiani?

R. – Gli haitiani sanno che la Chiesa è sempre accanto a loro, perché la Chiesa ha promesso di rimanere fedele a questo popolo, che ha sempre accompagnato. Anche se le chiese sono distrutte, la loro fede rimane.

 

D. – Gli appelli lanciati da Benedetto XVI in sostegno e vicinanza delle popolazioni colpite dal terremoto sono rimasti nella memoria degli haitiani?

R. – L’appello lanciato dal Papa è stato accolto con gioia da noi, perché – come diciamo nel Paese – abbiamo visto che più che la terra, si è mosso il cuore del mondo per gli haitiani. E questo ci aiuta ad andare avanti.

 

D. – Padre Alexandre, si ha l’impressione che – come purtroppo spesso accade – si siano spenti i riflettori dei media su Haiti, e con essi l’attenzione nei confronti di questa tragedia. Vuole lanciare un appello attraverso i microfoni della Radio Vaticana?

R. – Non dobbiamo essere dimenticati, perché senza l’aiuto internazionale veramente non potremo uscire da questa gravissima situazione, che è tale non soltanto per gli haitiani, ma per l’umanità intera.  

 

 Inizio pagina

      

    

L'inferno di Port-au-Prince a sei mesi dal sisma

www.radiovaticana.org - 4 luglio 2010  

        

 Anche se l’attenzione mediatica è drasticamente calata, la situazione ad Haiti - a sei mesi dal sisma che ha provocato 250 mila vittime - è in continuo peggioramento. Tendopoli, macerie e persistenti difficoltà nel distribuire gli aiuti umanitari continuano a segnare lo scenario del Paese caribico. E’ quanto denuncia da Port au Prince Valeria Lenner della Fondazione Rava - N.P.H Onlus, intervistata da Fabio Colagrande:

 

R. – Adesso, la situazione sta ancora peggiorando. Infatti, Port-au-Prince è tutta una tendopoli, le persone continuano a vivere in questa situazione precaria tra le macerie. Il problema è che scarseggiano proprio gli aiuti umanitari e le condizioni igienico-sanitarie stanno peggiorando e purtroppo se ne parla sempre meno. Però, loro sono sempre qui e continuano ad aumentare gli abusi, i rapimenti, gli omicidi. Quindi, la situazione è veramente tragica.

 

D. – Questo nonostante l’enorme flusso di aiuti internazionali, la grande solidarietà da parte di tutto il mondo…

R. - Infatti, nonostante tutti gli aiuti, le persone vivono per la maggior parte all’interno di queste baraccopoli che si sono create dopo il terremoto e che, comunque, sono delle situazioni provvisorie che però a sei mesi dal terremoto continuano a rimanere e anzi ad aumentare.

 

D. – In questo momento, quale stato d’animo vedete tra la gente in questa condizione così tragica che continua a persistere?

R. – Sono una popolazione stupenda perché comunque sorridono, sono persone solari. Però, sono sicuramente provate, perché vivere all’interno delle baraccopoli ovviamente crea forti disagi. Infatti, immagino che ci saranno anche delle manifestazioni in breve.

 

D. – Cioè, dei movimenti popolari di protesta?

R. – Diciamo che adesso la situazione sembra un po’ meno tesa per lo svolgimento dei Mondiali di calcio, un fenomeno che, comunque, contribuisce a placare gli animi. Ma ormai gli aiuti umanitari iniziano anche a scarseggiare. E noi, insomma, noi siamo sempre qua.

 

D. – Riuscite a continuare anche il vostro lavoro, siete anche voi in difficoltà?

R. – Noi continuiamo, non ci siamo mai fermati. L’ospedale, da ospedale pediatrico si è aperto a tutti. Non abbiamo mai spesso la produzione di pane e adesso stiamo lavorando per avviare il pastificio che produrrà circa 2.500 pacchetti di pasta. Non é facile ad Haiti fare le cose, perché manca tutto. Lo sforzo dei volontari e lo sforzo delle persone che ci stanno vicine è davvero tanto.

    

 Inizio pagina

 

 

INDIA

Delitto d'onore e dote continuano a mietere vittime in India di Nirmala Carvalho

AsiaNews - New Delhi - 28 giugno 2010

Un uomo e una donna di caste diverse si suicidano perché il loro matrimonio "è impossibile". Ragazza di 24 anni si getta dal 28esimo piano di un palazzo dopo le torture subite dal marito e dai suoceri che pretendono il pagamento della dote.  

         

Una giovane coppia si è suicidata ieri a Samalkha, a 50 km da Delhi, buttandosi sotto un treno. Secondo la polizia, si tratta dell'ennesimo caso di "delitto d'onore". Deepak e Teena, rispettivamente di 25 e 18 anni, erano dello stesso villaggio e volevano sposarsi, ma appartenevano a caste diverse.

 Il giovane faceva parte della comunità Saini mentre la ragazza apparteneva alla casta Luhar. I genitori hanno dichiarato alla polizia che più volte avevano cercato di convincere i ragazzi a non frequentarsi perché la loro relazione "era impossibile".

 È solo l'ultimo dei numerosi delitti d'onore che continuano a consumarsi in India. Il 20 giugno Mandeep Nagar, 23 anni, e Ankit Chaudhury, 22, aiutati da un terzo uomo, hanno ucciso le proprie sorelle perché si erano unite a uomini di casta differente, esponendoli in questo modo "agli insulti di tutto il villaggio. Non potevamo sopportare l'umiliazione".

 Il "delitto d'onore" in India consiste tradizionalmente nell'uccisione di un membro della famiglia da parte dei parenti quando questo li umilia, ad esempio sposandosi con una persona di casta diversa. Secondo lo United nations population fund avvegono 5mila delitti d'onore all'anno nel mondo, la maggior parte dei quali in India.

 Un'altra piaga culturale che affligge il Paese è il sistema della dote. Nishi Jethwani, 24 anni, si è gettata ieri dal 28esimo piano di un palazzo di Mumbai dopo avere subito torture fisiche e mentali da parte del marito e dei suoceri, che volevano ottenere il pagamento della dote.

 Nonostante sia stata abolita per legge nel 1961, la dote ha causato 8172 morti solo nel 2008, secondo l'Indian National crime records bureau. Il pagamento della dote ammonta a milioni di rupie (decine di migliaia di euro) e spesso molte famiglie, non potendo permettersela, uccidono le figlie prima ancora che nascano per evitare il rischio di un matrimonio che non potrebbero permettersi.  

 

 Inizio pagina

    

    

INDONESIA

Islamisti pronti alla guerra ai cristiani

MissiOnLine - 30 giugno 2010

Il Bekasi Islam Presidium chiama tutte le moschee del Paese alla lotta contro la cristianizzazione del paese  

 

Si sono radunati appositamente domenica per discutere del cosiddetto "problema-cristianizzazione". E le conclusioni non sono incoraggianti.

Il Bekasi Islamic Presidium (BIK), una nuova organizzazione islamica nata nell'omonima città in Indonesia, ha deciso di lanciare una campagna di comunicazione rivolta a tutte le moschee del Paese islamico più popoloso al mondo.

Obiettivo, preparare i fedeli ad una "possibile guerra" contro il fenomeno della cristianizzazione, cioè di un presunto aumento di battesimi nella regione.

L'allarme su questo possibile nuovo fronte di scontri lo ha lanciato il più importante quotidiano di lingua inglese dello Stato asiatico, il "Jakarta Post", che ha dato conto con dovizia di particolari di questo importante summit, cui hanno preso parte rappresentanti di 9 associazioni islamiche che ora hanno formato il BIK.

"Tutti i musulmani devono unirsi e stare in guardia perché i cristiani si stanno preparando a fare qualcosa" ha dichiarato Murhali Barda, uno dei responsabili dell'Islam Presidium. Che ha poi continuato: "Apparentemente, i cristiani vogliono mettere alla prova la nostra pazienza. Stiamo prevedendo di organizzare un dialogo con loro ma se questo dovesse fallire, questo potrebbe significare la guerra".

L'accusa indiretta di Barda, segnala il "Jakarta Post", riguarda una non meglio identificata associazione cristiana che avrebbe battezzato alcune persone nella città di Bekasi, già in passato - segnala il quotidiano - sede di alcuni scontri interreligiosi.

In particolare, la denuncia verteva su alcuni battesimi realizzati la scorsa settimana e di cui sarebbero stati protagonisti alcuni giovani.

Ma la polizia locale ha smentito che vi siano state celebrazioni cristiane di battesimi di massa. "Quei giovani erano là solo per andare in piscina" ha minimizzato il capo della polizia locale Imam Sugianto.

Secondo gli organizzatori, al convegno islamico di domenica hanno partecipato 2 mila persone.

Sulla situazione dei cristiani in Indonesia, come approfondimento, è utile consultare il nuovo libro dell'onorevole Mario Mauro, delegato Ocse per la libertà religiosa.

Leggi qui la scheda del volume.  

 

 Inizio pagina

    

    

IRAQ

Baghdad chiede di non accettare richieste di asilo

AsiaNews - Baghdad - 1 luglio 2010

Ad accrescere il dramma dei fedeli, vi è la divisione fra le comunità cristiane. Chiesti programmi per facilitare il rientro dei profughi. Il ministro dell'Immigrazione domanda a Ue, Usa, Australia di rifiutare richieste di asilo da parte dei cristiani.  

         

I leader cristiani in Iraq, preoccupati dell'emorragia di fedeli che lasciano il Paese, chiedono al governo maggiore protezione per le minoranze; intanto Baghdad si appella ai Paesi occidentali perché non accettino le richieste di asilo da parte dei profughi delle stesse minoranze. L'idea è quella di scoraggiare le partenze, ma la soluzione reale del problema risiede nella garanzia di sicurezza e  servizi base alla popolazione, ancora fortemente carenti.

Lo scorso 26 giugno, 76 esponenti delle diverse denominazioni cristiane in Iraq si sono riuniti a Qaraqosh - nel nord del Paese, vicino Mosul - per fare il punto sulla difficile situazione della comunità afflitta da persecuzione ed emigrazione. I leader religiosi e politici hanno lanciato un appello alle autorità, chiedendo maggiore protezione per le minoranze, il rispetto dei diritti e un numero maggiore di rappresentanti cristiani nelle istituzioni nazionali e locali. Tra le richieste, emendamenti costituzionali per rafforzare i diritti della minoranza cristiana, il finanziamento di programmi che facilitino il rientro dei rifugiati, l'istituzione di una Commissione nazionale per gli Affari delle minoranze che promuova il dialogo pacifico tra gruppi etnici e religiosi e maggiori investimenti per infrastrutture nelle aree più arretrate e popolate dalle minoranze.

Tra i partecipanti anche l'arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako. Il presule ha ribadito l'importanza che "i cristiani non lascino l'Iraq, ma testimonino la loro fede al loro Paese". Allo stesso tempo, però, ha messo in luce alcune sfide che spetta agli stessi leader cristiani affrontare con urgenza, senza aspettare l'intervento della politica. Prima tra tutte, la divisione interna alla stessa comunità: "Siamo piccole Chiese che devono unificare le loro voci. Finora non c'è stata una posizione comune sull'emigrazione. Questo è una vergogna e un ostacolo. Rimarremo divisi finché guardiamo solo ai nostri interessi personali: soldi e potere. Rimarremo vulnerabili finché le nostre differenze rappresenteranno solo conflitti. Manca un'azione collettiva", ha detto mons. Sako.

Durante l'incontro Athil Al-Najifi, governatore della provincia di Ninive - dove si concentra la maggior parte dei cristiani - ha annunciato l'impegno a evitare strumentalizzazioni delle minoranze e a stabilire un meccanismo di inclusione di tutti gli elementi della società civile.

Anche il governo centrale è preoccupato per il forte flusso di emigrazione. Per ora, però, non è riuscito a mettere a punto alcuna politica che incoraggi realmente i rimpatri e aumenti il livello di sicurezza. L'ultima iniziativa a riguardo è stata annunciata il 23 giugno dal ministro iracheno dell'Immigrazione, Abdel Sultan: Baghdad ha chiesto a Unione Europea, Usa e Australia di rifiutare le richieste di asilo che arrivano da cristiani iracheni appartenenti alle minoranze. L'idea è quella di scoraggiare le partenze, al fine di "preservare la diversità etnica e religiosa del Paese". Immediata la protesta dell'Organizzazione irachena per i diritti umani: "Si tratta di una violazione della Costituzione irachena, che garantisce il diritto dell'individuo a vivere ovunque scelga, e dei diritti umani universali", ha detto il presidente Hasan Shabaan. (LYR)  

 

 Inizio pagina

   

    

ITALIA

G8, le promesse di Berlusconi...

Famiglia Cristiana - 24 giugno 2010

Un anno fa, il nostro Presidente del Consiglio assicurava che l'Italia avrebbe versato quanto dovuto al Fondo Globale contro Aids, Tbc e malaria. I soldi non sono ancora arrivati.  

    

Un anno fa, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, davanti a una platea di giornalisti, prometteva che l'Italia avrebbe al più presto versato la quota per il 2009 al Fondo Globale contro Aids, tubercolosi e malaria: 130 milioni di euro più 30 milioni di dollari aggiuntivi chiesti l'anno scorso dal direttore esecutivo del Fondo, Michel Kazatchkine. L'Italia è l'unico Paese donatore del Fondo Globale che non ha ancora versato la quota 2009, denuncia l'Osservatorio italiano sull'azione globale contro l'Aids, alla vigilia di un nuovo summit del G8, questa volta convocato Oltreoceano, in Canada

Nel 2010 scade il termine che i Paesi del G8 avevano fissato per realizzare l'accesso universale alle cure, alla prevenzione e al trattamento per l'Hiv/Aids. L'obiettivo è ancora lontano ed è necessario che al vertice di Muskoka, in Canada, appunto, previsto il 25 e 26 giugno, gli otto leader stabiliscano un piano che indichi le risorse da erogare e i tempi in cui intendono farlo.

Nato nel 2002, il Fondo Globale è diventato in pochi anni il principale meccanismo di finanziamento della lotta contro le tre pandemie, con oltre 600 programmi in 144 Paesi. Finora sono state salvate 4,5 milioni di vite umane rendendo possibile l'accesso alle cure per l'Aids a 2,3 milioni di persone. Sono stati altresì assistiti 3,7 milioni di bambini resi orfani dall'Aidsi e 445mila donne incinte sieropositive sono state sottoposte al trattamento di prevenzione della trasmissione madre-figlio del virus Hiv . Attraverso le Oorganizzazioni non governative che lo compongono, tutte impegnate nella lotta contro la sindrome da immunodeficienza acquisita nei Paesi in via di sviluppo, l'Osservatorio italiano sull'azione globale contro l'Aids ha l'opportunità di toccare con mano e monitorare tali risultati direttamente sul campo.  

 

 Inizio pagina

   

      

Migranti: missionari su diritti negati e "fabbrica della paura"

Misna - 30 giugno 2010  

    

"Stiamo dalla parte degli immigrati, la nostra è una scelta di campo, la scelta degli ultimi": è uno dei passaggi centrali di un documento diffuso oggi dalla Conferenza degli istituti missionari italiani (Cimi), un testo ampio, nel quale si denunciano negazioni dei diritti umani e responsabilità politiche diffuse. Il documento, redatto dalla Commissione Giustizia, pace e integrità del Creato dell'organismo missionario, comincia con una citazione di monsignor Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta, terra che più di altre vive i drammi di un'integrazione negata. "Oggi - ha scritto il religioso - la forma di povertà più vistosa e drammatica in Italia è quella degli immigrati e dei rom. In nome di una fantomatica 'sicurezza sociale' si sta costruendo, soprattutto nel nostro paese, la fabbrica della paura verso tutto ciò che può ledere la tranquillità del cittadino. Per questa prospettiva inquietante l'incriminato di dovere è l'immigrato ed è il rom, considerati quasi naturalmente soggetti di reato". Il documento della Cimi colloca la situazione italiana in un contesto mondiale. "Oltre 214 milioni di migranti internazionali - sottolineano i missionari - vi sono circa 740 milioni di sfollati, in parte sfollati interni. Ciò significa che una persona su sette nel mondo è un migrante". Centrale è la denuncia di "un accanimento senza precedenti" contro lo straniero in Italia e in Europa, un accanimento solo in apparenza in contrasto con il bisogno di braccia delle economie ricche. "C'è chi si azzarda ad affermare che il rafforzamento delle frontiere non serve solo e in primo luogo a fermare i movimenti migratori - sostiene la Cimi - ma a definire come irregolari i migranti che le attraversano, dando loro un'identità che li pone in una posizione di inferiorità e di mancanza di diritti: un esercito di invisibili ricattabile e sfruttabile". Tanti i riferimenti alla legislazione italiana che, scrivono i missionari, "da quasi 20 anni" alimenta "un crescente razzismo e una forte xenofobia". Rivelatore il caso del "pacchetto sicurezza", le norme sull'immigrazione che nell'Agosto scorso hanno introdotto il reato di "immigrazione clandestina". Nel documento della Cimi sono passate in rassegna le regole più contestate, dall'estensione da due a sei mesi del periodo massimo di detenzione nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) alla tassa sui permessi di soggiorno o alle nuove restrizioni sui ricongiungimenti familiari. Lo sguardo si allarga poi al Mediterraneo, divenuto un mare che divide anche a causa della nuova politica dei respingimenti. "Questa spinta migratoria, proveniente dall'Africa, che tenta di attraversare il Mediterraneo - sottolineano i missionari - è dovuta alla tormentata situazione del continente nero, in particolare dell'Africa orientale e centrale. La situazione di miseria, i regimi oppressivi, le guerre in atto dell'Eritrea, Etiopia, Somalia, Sudan, Repubblica democratica del Congo e Ciad sospingono migliaia di persone a fuggire attraverso il deserto per arrivare in Tunisia e in Libia, dove sono sfruttati come schiavi".[VG]  

 

 Inizio pagina

         

    

KIRGHIZISTAN

Il paese può insegnare la democrazia anche alla Cina

AsiaNews - Hong Kong - 3 luglio 2010

Dopo il referendum per la democrazia, Rosa Otunbayeva ha prestato oggi giuramento come presidente del Kirghizistan diventando il primo capo di stato donna di una repubblica centroasiatica. Bao Tong, ex dirigente cinese del Pcc, parla della volontà di democrazia del popolo kirghiso, più forte di decenni di poca libertà e delle drammatiche violenze etniche delle ultime settimane. Un esempio che deve far meditare i leader di ogni Paese.  

        

Quest'oggi, Rosa Otunbayeva ha prestato giuramento come presidente del Kirghizistan, diventando il primo capo di stato donna di una repubblica centroasiatica. La Otunbayeva ha assunto la guida ad interim del paese in aprile, dopo le rivolte che hanno costretto alla fuga l'ex presidente Kurmanbek Bakiyev. Lo scorso 27 giugno la popolazione ha votato un referendum per la revisione costituzionale, tenuto nonostante le perduranti violenze nel sud. Oltre il 90% dei votanti ha approvato maggiori poteri al parlamento riducendo quelli del presidente, portando il Paese verso la svolta democratica. Lo statista Bao Tong fa emergere alcuni insegnamenti per la Cina.

"Il desiderio di democrazia del Kirghizistan, è più forte delle drammatiche violenze etniche nel meridione del Paese": lo afferma Bao Tong, ex segretario del premier del Partito Comunista cinese Zhao Ziyang, in un articolo apparso su Radio Free Asia in occasione dell'89° anniversario dalla fondazione del Pcc il 1° luglio 1921. Il dissidente vede nei fatti accaduti in Kirghizistan un esempio e un monito per il futuro della Cina.

"Il Kirghizistan ha deciso con il referendum di diventare una democrazia, portando speranza di una stabilità duratura. La popolazione del Kirghizistan ha prodotto una nuova legge elettorale, con alcune certezze, sulla base del referendum".

Lo scorso aprile la popolazione era scesa in piazza costringendo il presidente Kurmanbek Bakiyev a fuggire all'estero. Il governo di Bakiyev era criticato per la concentrazione del potere nelle sue mani e per la diffusa corruzione.

"Un popolo che non ha paura di [tenere un] referendum universale, non avrà nulla da temere da elezioni universali, dirette. Con la loro mancanza di paura, essi hanno trovato la via per una pace e una stabilità durature", scrive Bao Tong dalla sua casa di Pechino dove è agli arresti domiciliari, dopo avere scontato 7 anni di carcere per le proteste pro-democrazia di piazza Tiananmen. Zhao e i suoi sostenitori caddero in disgrazia per non avere voluto stroncare le proteste con la violenza, come ha poi fatto la leadership che l'ha sostituito.

I media statali cinesi hanno parlato in modo positivo del referendum del Kirghizistan e riferito il deciso sostegno dato dalle Nazioni Unite a questi cambiamenti, che possono portare a elezioni parlamentari entro il 2010. L'agenzia ufficiale Xinhua ha riportato il commento del Segretario Onu Ban Ki-Moon che "l'adozione di una nuova costituzione è un passo importante verso la promozione di uno Stato di diritto e l'instaurazione di governo eletto democratico e legittimo".

Xinhua ha anche riportato il commento della premier del governo provvisorio Roza Otunbayeva che ha salutato il risultato come l'inizio di "un'autentica democrazia popolare" e la fine di una sistema "autoritario e nepotista". Nelle settimane subito prima del referendum ci sono stati gravi scontri tra gli etnici kirghisi e uzbeki, che hanno causato centinaia di morti e oltre 400mila profughi etnici uzbeki.

Bao, sulla base della vicenda kirghisa, parla dei metodi usati nella storia cinese per trasferire il potere da una generazione a quella successiva. Egli scarta il metodo di "designare i successori" come sembra stia per fare il leader nordcoreano Kim Jong Il e come non riuscì a fare l'ex leader supremo cinese Mao Zedong.

"E' troppo rischioso e allo stesso tempo troppo instabile affidare il potere supremo di governo di un popolo a un tipo di decisione con un sistema-senza-sistema", dice Bao, che precisa che la Rivoluzione del 1911 guidata da Sun Yat-sen aveva "aperto una nuova finestra" al popolo cinese.

"In un Paese che voleva chiamarsi una repubblica - scrive Bao - la popolazione era l'artefice ultimo". "E così l'idea di elezioni piene e dirette si affermò in modo profondo nella mente della gente... Era un principio nuovo".

Ma con la fondazione della Repubblica popolare di Cina nel 1949, la via verso elezioni democratiche fu abbandonata in favore delle elezioni del candidato-unico, nelle quali il solo candidato è predeterminato dai leader del Pcc.

"Ognuno - scrive ancora Bao - può vedere subito l'indescrivibile genialità dell'elezione con il candidato-unico". "E' abbastanza semplice quello che è l'essenza della storia del nostro Paese - è stato abbandonato il sistema ceh favoriva la tradizione della famiglia reale, [per varare] il sistema-senza-sistema nel quale chi detiene il potere decide chi gli succederà".

All'inizio di questa settimana il presidente Hu Jintao ha richiamato i membri del Pcc a "svolgere un ruolo di esempio", in risposta alla continua protesta pubblica contro la diffusa corruzione tra i funzionari comunisti, alla crescente richiesta di riforme politiche e per cambiamenti sociali. Da tempo analisti osservano che la corruzione è conseguenza proprio della mancanza di democrazia e di libertà di critiche verso chi ha potere.  

 

 Inizio pagina

     

    

LIBIA

Eritrei deportati, appelli al rispetto del diritto internazionale

Misna - 2 luglio 2010  

  

"Per salvare la vita ai circa 300 eritrei che si trovano ora rinchiusi nel centro di detenzione di Sebha in Libia il Governo italiano deve muoversi immediatamente usando tutti i mezzi diplomatici e tutte le pressioni politiche del caso": è l'appello rivolto da Jean Leonard Touadi, parlamentare italiano, sulla vicenda dei circa 300 migranti irregolari eritrei protagonisti tra il 29 e 30 Giugno di una rivolta nel centro di detenzione libico di Misratah, dopo che le autorità libiche avevano fatto firmare un foglio di rimpatrio forzato. A distanza di due giorni, sottolinea il parlamentare, il governo di Roma continua a tenere "un silenzio imbarazzante" pur di fronte ad una palese violazione del diritto internazionale che, aggiunge, "deve far riflettere sull'opportunità degli accordi per i respingimenti presi con il governo libico". Dal canto suo, Mario Lana, presidente dell'Unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo, non esita a parlare di possibile "disastro umanitario", poiché i migranti sono per lo più persone "che se tornassero nel loro paese sarebbero sottoposte a violenze di ogni genere". Le organizzazioni umanitarie denunciano che in seguito alla rivolta, i circa 300 eritrei, tra cui numerose donne e bambini, sono stati caricati su container chiusi, senza cibo e acqua, e deportati nel centro di Sebha, affrontando un viaggio di oltre mille chilometri e da lì saranno probabilmente rimandati in Eritrea.[AdL]  

 

 Inizio pagina

    

    

MADAGASCAR

Radio Don Bosco compie 14 anni. E presto arriverà una tv

www.radiovaticana.org - 4 luglio 2010

       

È nata il 27 giugno 1996 e dunque ha appena festeggiato 14 anni di vita Radio Don Bosco, una delle prime emittenti a trasmettere da Antananarivo, capitale del Madagascar. Il direttore, don Luca Treglia, ripercorre con l’agenzia Fides i primi tempi: “Abbiamo cominciato con una redazione di 20 persone – ricorda – ora ne lavorano in radio una trentina, molti dei quali sono giovani formati direttamente da noi, secondo la vocazione specifica dei Salesiani, ispirata all’insegnamento di don Bosco. Molti altri, comunque, circa la metà dei nostri allievi, hanno trovato spazio nel campo dei media”. Oggi, Radio Don Bosco trasmette in tutta l’isola, grazie all’ausilio di quattro ripetitori e i suoi programmi – il giornale radio, le interviste, gli approfondimenti e le dirette in occasione di eventi speciali come l’insediamento di un vescovo – vengono trasmessi anche dalle radio cattoliche aderenti a un circuito, che ne riunisce circa una ventina, creato dalla Conferenza episcopale locale. L’emittente è considerata una fonte affidabile di notizie ed è ascoltata giornalmente da 400 mila persone. Ma c’è anche un progetto per il futuro: fondare un canale televisivo. “Abbiamo ottenuto dal governo i permessi – annuncia don Treglia – siamo fiduciosi che con l’aiuto di Dio un giorno verrà alla luce”. (R.B.)  

 

 Inizio pagina

      

    

MEDIO ORIENTE

Obama e re Abdullah: due popoli, due Stati, per la pace in Medio oriente

AsiaNews - Washington - 30 giugno 2010

Il re saudita e il presidente americano affermano che è la sola soluzione che potrà portare la pace, garantendo allo stesso tempo una patria per i palestinesi e un rafforzamento e la sicurezza di Israele.  

         

La soluzione "due Stati, due Popoli" è la sola che potrà portare la pace in Medio oriente, garantendo allo stesso tempo una patria per i palestinesi e un rafforzamento e la sicurezza di Israele. È quanto hanno affermato ieri il presidente Usa Barack Obama e il re saudita Abdullah, in visita ufficiale - la prima dal cambio di amministrazione negli Usa - a Washington. I due leader hanno discusso anche di Iran, Pakistan e Afghanistan, sottolineando a più riprese il rapporto di "amicizia" fra i due Paesi.

Le nazioni arabe sono contrariate per gli scarsi risultati ottenuti da Obama con il governo di Tel Aviv, che ha proseguito nella politica degli insediamenti nei territori e ha innalzato la tensione internazionale con l'attacco alle nave carica di aiuti umanitari diretta a Gaza. Il prossimo 6 luglio è in programma un vertice alla Casa Bianca fra il presidente Usa e il premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Obama e re Abdullah hanno discusso di diverse questioni definite "strategiche", fra cui Iran, Pakistan e Afghanistan, e dei prigionieri sauditi detenuti a Guantanamo. Tuttavia, il centro dei colloqui ha riguardato il conflitto Israelo-palestinese e i passi da compiere per "assicurare una patria ai palestinesi, perché possano vivere fianco a fianco con un prospero Stato di Israele". Sempre ieri, in mattinata, sulla questione è intervenuto anche il Ministro israeliano degli esteri Avigdor Lieberman, il quale ha puntualizzato che gli stalli nei colloqui e le divisioni fra palestinesi impediscono la nascita dello Stato palestinese "prima del 2012".

Tuttavia, Barack Obama e re Abdullah auspicano una ripresa nei "colloqui diretti" e la convivenza pacifica fra le due realtà. Il monarca saudita ha rilasciato una breve dichiarazione al termine dei colloqui in cui ringrazia il presidente Usa per l'ospitalità e "apprezza l'amicizia" che lega Stati Uniti e Arabia Saudita. Una frase sottolineata a più riprese dal Washington Post, secondo cui il re saudita ha voluto rimarcare con particolare attenzione "l'amicizia fra il popolo americano e il popolo saudita, le popolazioni arabe e il mondo musulmano".

L'incontro fra i leader statunitense e saudita ha segnato anche un significativo cambiamento. Il quotidiano Arab News riferisce che l'ambasciata saudita a Washington ha usato il popolare social network Twitter per lanciare aggiornamenti sulla visita del monarca. Oltre a brevi messaggi, ha caricato video su You Tube, al link www.youtube.com/saudiembassyusa.  

     

 Inizio pagina

    

 

Il premier Netanyahu: «Per Shalit libereremo 1.000 prigionieri» di Geraldina Colotti

Il Manifesto - 2 luglio 2010

Dall'Europa presto altre sei navi pacifiste acquistate con la raccolta di fondi solidali salperanno di nuovo verso Gaza  

 

Dopo il sanguinoso attacco alla nave pacifista turca della Freedom flotilla, abbordata il 31 maggio, Israele allenta la presa su Gaza? Alcune notizie, enfatizzate dai media, suggerivano ieri questa interpretazione. In primo luogo il discorso di Benjamin Netanyahu, trasmesso in diretta dalla tv al-Jazeera, in cui il primo ministro israeliano ha detto di aver accolto la proposta del mediatore tedesco Gerhard Konrad: lo scambio di 1.000 prigionieri con Hamas nell'ottica di liberare il caporale Gilad Shalit, nelle mani dei militanti palestinesi dal 25 giugno 2006. Lo stesso schema, però, a ben vedere, era stato avanzato dal premier già un anno fa, e considerato inaccettabile dalla controparte palestinese: perché prevedeva l'espulsione di un gruppo di detenuti o il loro ritorno a Gaza. «Siamo disposti a pagare un prezzo alto, ma non qualunque prezzo», ha dichiarato infatti Netanyahu, ribadendo negli stessi termini la proposta di allora. «La sola questione umanitaria a Gaza è quella di Ghilad Shalit», gli ha fatto eco il viceministro degli esteri Danny Ayalon, mentre il generale Eitan Dangof riceveva gli ambasciatori stranieri inviati a constatare sul terreno l'annunciato alleggerimento del blocco della striscia di Gaza. Secondo il generale, una lista delle merci vietate «per motivi di sicurezza» sarà presto completata da Israele.

«Non è vero che Israele ha allentato la morsa su Gaza», ha affermato invece AbdelHadi Abu Khousa, direttore del Palestinian Medical Reliefe Society di Gaza, in una conferenza stampa che si è tenuta ieri a Roma nella redazione di Carta. Dopo oltre tre settimane di aggressione armata da parte di Israele, nel gennaio 2009, per il milione e mezzo di persone confinate nella «prigione a cielo aperto» di Gaza, le conseguenze sono disastrose sotto ogni punto di vista: la disoccupazione colpisce il 65% della popolazione che, «al 70% vive sotto la soglia di povertà: 17.000 case sono state distrutte insieme a tutte le industrie, ma Israele non permette che entri il cemento. Mancano le attrezzature mediche necessarie agli ospedali. Le carrozzine per i disabili portate dalla Freedom flotilla sono state consegnate, ma senza le batterie». Invitato in Italia dall'associazione Ya Basta, il medico ha elencato malattie e malformazioni riscontrate per l'impiego di armi chimiche. Ha raccontato che le famiglie dei malati vengono ricattate: «o fai il confidente, oppure non ti diamo il permesso di passare».

La solidarietà, però, non si arresta. Giovanni Franzoni, della Comunità cristiana di base di San Paolo, ha illustrato la spedizione di un impianto fotovoltaico all'ospedale di Gaza. Il videoreporter Manolo Luppichini, uno dei partecipanti alla Freedom flotilla, la determinazione di chi viaggiava sulla «8.000», dedicata al numero di prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane. E «6 nuove navi, acquistate con la raccolta fondi partiranno a breve» (www.savegaza.eu; www.flotillaitalia.net)  

 

 Inizio pagina

 

  

Al di là delle armi di Mel Frykberg

ipsnotizie.it - Ramallah - 30 giugno 2010

 

La maggior parte dei media continua a utilizzare l’immagine di una kamikaze come simbolo della resistenza delle donne palestinesi. Ma al di là di questi casi estremi, queste donne stanno portando avanti una lunga battaglia contro l’occupazione israeliana.

Ciò che Israele chiama terrorismo, per le donne palestinesi è una lotta legittima che riguarda da vicino anche loro, non solo gli uomini. “Le donne palestinesi hanno imbracciato le armi, hanno seguito un addestramento militare, e hanno sempre teso la mano alle donne israeliane nei negoziati di pace, come parte della loro battaglia per la liberazione”, ha detto in un’intervista a Terraviva il ministro per le politiche femminili dell’Autorità Palestinese (AP) Rabiha Diab.  

    

La lotta ha reso le donne molto determinate. “L’aspetto politico della resistenza ha visto le donne palestinesi protagoniste indiscusse”, osserva Diab. “Mentre erano rinchiuse nelle carceri israeliane, le donne palestinesi si sono fortemente politicizzate e sono cresciute nella loro capacità di leadership, tanto che alcune di esse oggi sono leader nell’AP”.

Il ruolo politico delle donne palestinesi si è poi sviluppato nelle università, dove hanno guidato le organizzazioni studentesche nell’organizzazione di scioperi e altre attività di resistenza giovanile.

Le donne forniscono un sostegno in tanti modi diversi, anche con i sistemi considerati più tradizionali: hanno formato ad esempio cooperative che forniscono cibo, coltivano ortaggi in casa loro e crescono conigli e pollame per le uova e la carne.

Associazioni di medici, ambulanze e ambulatori richiedono la presenza di donne al loro interno. Quando Israele ha chiuso scuole e università, compromettendo seriamente l’istruzione palestinese, le donne hanno organizzato corsi alternativi in casa per ragazzi e studenti universitari.

È stato durante la seconda Intifada, cominciata nel 2000, che sono aumentate le militanti palestinesi. Ahlam Tamimi, una giovane donna single di Ramallah, sta scontando una pena di 16 ergastoli per aver trasportato un kamikaze che nel 2001 si è fatto saltare in aria in una pizzeria di Gerusalemme uccidendo 16 israeliani.

Rawda Habibi, abitante di Gaza ed ex membro della Jihad islamica, è stata liberata lo scorso anno per uno scambio di prigionieri dopo aver trascorso 2 anni in una prigione israeliana. Habibi, madre di quattro figli, era accusata di aver tentato di entrare in Cisgiordania per trasportare un kamikaze.

“Nonostante l’isolamento e l’interrogatorio brutale che ho subito, non ho rimpianti, credo che sia un dovere per le donne combattere per la liberazione sullo stesso piano degli uomini” ha detto Habibi all’ IPS.

Ma la pace rimane una priorità. “Siamo costantemente in contatto con donne israeliane appartenenti a diversi gruppi pacifisti per cercare di costruire un consenso in quanto madri e donne”, ha spiegato Diab. “Ma la pace si potrà raggiungere solo quando ai palestinesi verranno riconosciuti i loro diritti legittimi”.  

 

 Inizio pagina

        

    

Il difficile ruolo dei cristiani in Medio Oriente

www.acs-italia.glauco.it - 30 giugno 2010

  

L’impatto dell’estremismo nei confronti dei Cristiani in medio Oriente è stato messo a nudo da uno dei maggiori esperti vaticani di Islam, che ha lanciato un appello per una azione di salvaguardia della presenza della Chiesa in una regione in cui la sua sopravvivenza è minacciata.

Parlando ad Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), padre Samir Khalil Samir ha spiegato il problema dell’estremismo, sia in Medio Oriente che in Occidente.

Analizzando in particolare la situazione in Medio Oriente, il padre gesuita di origini egiziane e vissuto in Libano, ha classificato i Paesi della regione secondo una scala variabile di oppressione anti-cristiana, che vede l’Arabia Saudita come quello in cui vi è la situazione peggiore.

Padre Samir, che sta coordinando i preparativi per il Sinodo dei Vescovi del Medio Oriente che si terrà il prossimo autunno a Roma, riferisce: «I cristiani in Arabia Saudita non possono riunirsi a pregare nemmeno nelle proprie case. Questa è la situazione peggiore, i diritti umani sono praticamente sconosciuti».  

  

Sottolineando come in molte zone del Medio Oriente i Cristiani sono ridotti ad una piccola minoranza, ha proseguito: «Per molti, l’unica soluzione è l’emigrazione; il proselitismo, l’annuncio di Cristo a tutti è proibito. Non vi è uguaglianza».

Padre Samir ha descritto come a partire dalla fine degli anni ’60 alcuni Paesi mediorientali, in particolare l’Arabia Saudita, hanno tratto vantaggio dalle risorse petrolifere per finanziare la setta militante dell’Islam Wahabi che, ha detto, si è diffusa in lungo e in largo, anche in occidente.

«Hanno costruito moschee, principalmente finanziate dall’Arabia Saudita ma anche da Teheran, inviando predicatori ed imam ed hanno dato questa visione molto ristretta dell’Islam».

Sottolineando un passaggio drammatico nell’oppressione dei Cristiani risalente agli anni ’70, padre Samir ha continuato a sottolineare la necessità del dialogo con l’Islam, puntualizzando che i fedeli in Medio Oriente svolgono un ruolo fondamentale in questa area.

Ha detto: «La domanda è: chi è in grado di dialogare con l’Islam? Di fatto, nonostante la situazione sia difficile per i cristiani arabi, i principali interlocutori con i musulmani, in grado di portare un cambiamento sono proprio i cristiani arabi. Noi siamo coinvolti nel dialogo ogni giorno. Lavoriamo insieme, andiamo a scuola insieme».

Padre Samir, che ha istituito 20 scuole ed è autore di almeno 40 libri, ha sottolineato la necessità di progetti comuni con i musulmani, al fine di abbattere l'ignoranza e la sfiducia e promuovere la formazione.

Affermando che l’Islam «è in crisi» nella crescente insicurezza tra i musulmani a proposito del rapporto tra fede e modernità, egli ha tuttavia precisato che le discussioni teologiche sono rese estremamente difficili a causa della diversa visione su Gesù Cristo e la Bibbia da un lato, e dall’altro il Profeta Maometto ed il Corano.

Padre Samir, professore universitario nella capitale libanese di Beirut, a Parigi e presso l’Università Gregoriana di Roma, ha detto: «Abbiamo bisogno del vostro aiuto, in particolare di quello spirituale. Le vostre preghiere sostengono il popolo in una regione in cui vi è oppressione. Abbiamo bisogno del vostro aiuto per progetti che promuovano l’educazione e la pace».  

 

 Inizio pagina

    

    

NIGER

Emergenza alimentare più grave del previsto, raddoppiati aiuti

Misna - 2 luglio 2010  

      

Raddoppiare gli aiuti destinati al Niger per far fronte a un netto peggioramento della crisi alimentare che sta colpendo soprattutto i bambini: è questa la decisione presa dal Programma alimentare mondiale (Pam) in seguito ai risultati di una indagine del governo secondo cui la percentuale di minori di cinque anni di età malnutriti è salita ben oltre le previsioni passando dal 12,3% dello scorso anno all'attuale 16,7%. L'obiettivo del Pam è adesso quello di distribuire aiuti alimentari ad almeno 4 milioni 700 mila persone con particolare riferimento ai bambini. Il Pam ha anche predisposto piani specifici per assistere le donne incinte e le mamme che allattano. Secondo alcune stime la siccità dello scorso anno ha determinato un calo del 30% della produzione di cereali, nell'ultimo biennio quella di foraggio è calata di oltre il 60% con gravi conseguenze per gli allevatori di bestiame. Particolarmente esposte sono le popolazione del nord del paese, abitato in prevalenza dai tuareg. Benché meno grave, la situazione è difficile anche nel vicino Ciad dove il Pam sta distribuendo aiuti per circa 850 mila persone.[GB]  

  

 Inizio pagina

       

     

NIGERIA

Dieci milioni di bambini mancano dai banchi di scuola

Misna - 28 giugno 2010  

  

Sono dieci milioni i bambini nigeriani in età scolare che non frequentano la scuola, la maggior parte sono "bambini di strada" che vivono nel nord del paese, un termine che indica i minori orfani, abbandonati o fuggiti da casa che vivono per le vie delle città. I dati sono stati resi noti dal ministro nigeriano dell'Educazione Ruqayyatu Rufa'i, aggiornando sugli sviluppi del programma federale "Educazione di base per tutti". La signora Rufa'i ha precisato che sono stati liberati 32 miliardi di nairas (172 milioni di euro) dal fondo per costruire 600.000 nuove aule in tutto il paese ed altre infrastrutture necessarie per migliorare i servizi scolastici e aumentare le iscrizioni. Il ministro ha sollecitato i governi dei singoli stati federati di partecipare al programma nazionale. Con una popolazione di circa 150 milioni di abitanti, secondo il censimento del 2009, in Nigeria vivono almeno 54 milioni di minori dai zero ai 14 anni, pari al 44% del totale degli abitanti.[BF]  

 

 Inizio pagina

      

    

PAKISTAN

I cristiani accanto ai musulmani sufi per costruire armonia e pace

Agenzia Fides - Lahore - 3 luglio 2010  

     

"Come cristiani del Pakistan continueremo a pregare e a collaborare con i musulmani sufi per la costruzione di una società giusta, armoniosa e fraterna, contro ogni forma di estremismo. Larghi settori della società pakistana apprezzano i musulmani sufi. Condanniamo l'atto terroristico che li ha colpiti, esprimiamo loro vicinanza e solidarietà": lo dice in un colloquio con l'Agenzia Fides S. Ecc. Mons. Max John Rodrigues, Vescovo di Hyderabad, all'indomani dell'esplosione kamikaze in un santuario musulmano sufi di Lahore, che ha fatto 42 morti e centinaia di feriti. In Pakistan si registra lo stato di "massima all'erta" delle forze di sicurezza ma vi è ancora grande paura, specialmente fra la gente di Lahore.

L'analisi del Vescovo prosegue: "I musulmani sufi sono pacifici, aperti al dialogo e alla collaborazione con tutti. Per questo danno fastidio agli estremisti, che li consideranno eretici. Nel marzo del 2009 un santuario sufi, a Peshawar, è stato distrutto con una bomba dai talebani. Ora quest' atto terroristico contro innocenti: i sufi e la loro mentalità ispirata ai principi dell'amore sono un bersaglio per l'ideologia settaria e ristretta dei gruppi radicali".

Mons. Rodrigues conclude: "Non sappiamo chi vi sia dietro l'attentato. Siamo addolorati. Il terrorismo è un nemico infido, che non si vede e che si nasconde. Nel paese si parla molto della lotta al terrorismo, ma finora le istituzioni non sono riuscite a sconfiggerlo e la popolazione ha paura".

Il cattolico Francis Mehboob Sada, Direttore del "Christian Study Center" a Rawalpindi - apprezzato centro ecumenico di documentazione, studio e riflessione, attivo anche nel dialogo interreligioso - condivide l'analisi del Vescovo e dichiara a Fides: "Il terrorismo attacca i sufi proprio perchè sono musulmani che predicano la pace e il dialogo. Per questo suo atteggiamento, l'islam sufi sta acquistando crescenti consensi e seguaci in Pakistan. Inoltre quel santuario di Lahore è un luogo frequentato da molti poveri che ricevono ogni giorno aiuto e solidarietà. Molti si recano lì a pregare. L'attentato è stato perciò particolarmente crudele: intendeva colpire poveri innocenti e scoraggiare i fedeli a seguire il sufismo".

Mehboob Sada rimarca a Fides: "Il Christian Study Center ha un ottimo rapporto con i leader musulmani sufi. Di recente abbiamo tenuto un convegno sottolineando lo stretto rapporto fra la mistica del sufismo e la pace. Come cristiani pakistani continueremo a collaborare con i sufi, in un dialogo sereno e costruttivo, per il bene della nazione".

Sul fenomeno dilagante del terrorismo, il Direttore spiega: "Il terrorismo è forte e semina panico. I gruppi terroristi, con un islam ideologico, spesso manovrano i giovani poveri e privi di istruzione. Alcuni eminenti leader islamici ribadiscono che tali atti terroristici sono contrari all'islam. Ma occorre un'opera massiccia di educazione e informazione da parte delle istituzioni e dei mass-media. Governo ed esercito ribadiscono ogni giorno l'impegno nella lotta al terrorismo. In realtà sembra che le istituzioni siano impotenti. Anche al recente summit del G8 si è ribadito che urge un aiuto esterno per combattere il terrorismo in Pakistan". (PA)  

 

 Inizio pagina

   

    

Attacco al cuore dei musulmani  di Marina Forti

Il Manifesto - 3 luglio 2010

L'antico santuario nella città di Lahore era in una lista di possibili obiettivi di attacchi, ma le misure di sicurezza erano deboli. Sospettato uno dei gruppi più nuovi e feroci della galassia dei Taleban pakistani. Ora le polemiche: il governo fino all'ultimo ha negato i legami tra i taleban della frontiera afghana e la militanza armata nel Punjab. Sarà costretto a perseguirli? Attentatori suicidi in un mausoleo sufi, 42 morti. E migliaia di persone protestano contro il governo  

   

Un doppio attacco suicida ha fatto strage giovedì sera a Lahore, la città orientale del Pakistan, capitale della provincia del Punjab. Questa volta la scena è un santuario molto popolare, noto come Data Ganj Bakhsh, mausoleo di un santo sufi dell'11esimo secolo, una sorta di patrono della città: tanto che la sua tomba, diventata un santuario con ampia moschea coperta di marmi bianchi, è considerato un punto di riferimento di grande importanza culturale e religiosa, nel cuore della parte antica di questa città di 8 milioni di abitanti, «hub» politico e culturale di tutto il paese. E' qui che la sera del 1 luglio due uomini si sono mercolati ai fedeli e si sono fatti esplodere, il primo nella zona delle abluzioni vicino all'ingresso, il secondo nella principale sala di preghiera: il bilancio è di 42 morti e 175 feriti.

La scena è stata catturata dalle telecamere a circuito chiuso all'interno del santuario, e quelle immagini trasmettono shock. Lo stesso shock traspare dai commenti raccolti ieri dai cronisti pakistani e stranieri davanti a quel santuario: «hanno fatto l'impensabile», dice una donna. Lahore non è nuova al terrorismo: alla fine di maggio erano state prese di mira due moschee appartenenti alla minoranza religiosa Ahmadi, che si considerano musulmani anche se non sono riconosciuti dalla legge del pakistan: il bilancio era stato di 100 morti. E dallo scorso ottobre, tra attacchi a caserme e accademie militari, mercati e altri luoghi pubblici, circa 300 persone sono morte.

L'attacco al santuario sufi però ha suscitato particolare indignazione. E ieri alcune migliaia di persone hanno protestato, con una manifestazione in cui sono stati urlati slogans contro Shabbaz Sharif, capo del governo provinciale (e fratello dell'ex premier Nawaz Sharif, capo dell'opposizione). «Attacchi così sono avvenuti troppo spesso in Punjab. Invece di minacciare il pugno di ferro dopo ogni strage, è ora che le autorità facciano qualcosa subito», commentava un mullah, Mohammad Naeem, alla tv privata Dunya.

I media e gli osservatori locali ieri hanno sollevato parecchie questioni sull'ultimo attentato a Lahore. Primo, le misure di sicurezza. Un paio di mesi fa la polizia a Lahore aveva scoperto un nascondiglio di armi ed esplosivi di notevole entità e proprio pochi giorni fa era da fonti della polizia era trapelata una lista di possibili obiettivi per prossimi attentati: il santuario di Data Ganj era tra questi. In effetti all'ingresso del mausoleo c'erano un paio di agenti e un metal detector, che si sono rivelati del tutto inefficaci. Alcuni testimoni dicono che quella sera erano aperti anche due ingressi supplementari, per far entrare i fedeli. La immagini della telecamera a circuito chiuso mostrano un agente che nota un uomo sospetto e lo rincorre, ma prima di acciuffarlo questo esplode.

Altra questione: chi è responsabile di un attacco così odioso? La polizia ha recuperato i corpi decapitati dei due attentatori; uno è stato identificato come un uomo proveniente da un villaggio vicino a Lahore (la sua famiglia non lo vedeva da mesi). Gli esecutori dunque sono «autoctoni». Nessuno ha rivendicato, ma gli osservatori più autorevoli puntano i sospetti su uno dei gruppi armati legato alla galazzia dei Taleban pakistani. Più precisamente, indicano una delle sigle più nuove e feroci, la Brigata Ghazi, gruppo nato in risposta al famoso assedio della «moschea rossa» di Islamabad nel luglio del 2007, divenuta un centro di azioni violente di ispirazione taleban - la polizia ne prese il controllo facendo 154 morti, tra cui il leader della moschea, Abdul Rashid Ghazi, da cui il nome del nuovo gruppo.

il fatto è che fino a recentemente il governo pakistano - e quello del Punjab in particolare - ha negato l'esistenza di gruppi di «Taleban del Punjab», ovvero che gruppi estremisti radicati nella provincia siano operativamente legati alla rete dei taleban della frontiera afghana. Solo di recente il governatore del Punjab, Salman Taseer, ha ammesso l'esistenza di «pateban del Punjab» in una intervsita alla Bbc-urdu. Fiorse ora l'attentato al santuario sufi costringerà il riluttante governo a prendere le misure che ha cercato di evitare, commentavano ieri alcuni giornalisti pakistani. Anche per ormai è visibile una opposizione pubblica ai Taleban, che hanno perso l'aura di cui pure avevano goduto - quella di musulmani che si battevano contro la presenza straniera, o contro un governo asservito agli americani.  

 

 Inizio pagina

    

    

RUANDA

Le divisioni all'interno dei militari rwandesi: un'analisi

Agenzia Fides - Kigali - 2 luglio 2010

   

"Il recente arresto del generale Jean Bosco Kazura e l'attentato contro il gen. Kayumba Nyamwasa in Sudafrica (dove si è rifugiato perché ricercato dalle autorità del suo Paese) mostrano le divisioni che attraversano la gerarchia militare" afferma una nota inviata a Fides dalla "Rete Pace per il Congo". Il motivo ufficiale evocato per l'arresto di Kazura è che sarebbe uscito dal paese senza autorizzazione e all'insaputa dei suoi superiori. "Questa versione non sembra credibile" afferma la nota. "Se ha viaggiato con un passaporto diplomatico, ha certamente dovuto ritirarlo presso un servizio abilitato. In ogni caso, ha dovuto chiedere un visto per il Sudafrica. Tali pratiche hanno certamente permesso alle autorità rwandesi di essere informate del viaggio del generale". Per la giustizia spagnola Nyamwasa è il mandante dell'uccisione del missionario catalano Joaquim Vallmajó, nel 1994, e di tre membri dell'organizzazione "Medicos del Mundo".

Questo ennesimo allontanamento di alti graduati dell'esercito viene a mettere ancora a nudo le profonde divisioni esistenti in seno al gruppo di ufficiali tutsi che dirige il Paese.

1. Divisioni tra gli ufficiali venuti dall'Uganda e quelli venuti da altri paesi vicini al Rwanda. Fin dalla loro conquista del paese, nel luglio 1994, è apparso chiaro che gli ufficiali venuti dall'Uganda, come l'attuale Presidente, Paul Kagame, si consideravano come superiori agli altri venuti dalla Repubblica Democratica del Congo e dal Burundi. Sono convinti che l'iniziativa della riconquista del Rwanda è stata presa dai Tutsi che provengono dall'Uganda e che gli altri non sono venuti che in appoggio alla vittoria già assicurata.

Conseguenze: gli anglofoni", venuti dall'Uganda e dalla Tanzania, sono saliti rapidamente di grado nella gerarchia militare e parecchi di loro si sono ritrovati nominati, in breve tempo, colonnelli o generali, mentre gli altri, i francofoni, erano mandati sistematicamente in pensione. Il generale Jean Bosco Kazura, nato ed educato in Burundi, è uno dei rari ufficiali superiori che non è venuto dall'Uganda.

2. Divisioni tra gli ufficiali che hanno frequentato l'università e quelli che hanno un basso livello di studio. Il nucleo di ufficiali più vicini al Presidente Kagame spesso adolescenti reclutati appena dopo la presa di Kampala, sono stati tutti, dopo la presa di Kigali, promossi di grado, insieme ad altri ufficiali che erano entrati nel Fronte Patriottico Rwandese (FPR), dopo gli studi universitari. Se i primi non hanno grandi diplomi e devono tutto a Paul Kagame, i secondi sono degli intellettuali che possono far prova di spirito critico. Conseguenza: nel momento in cui i primi raggiungono il vertice della gerarchia, i secondi, sono costretti all'esilio o sono arrestati.

3. Divisioni tra Abanyiginya ed Abega. L'antagonismo tra questi due clan tutsi è famoso. Paul Kagame, essendo Umwega, diffida dei suoi rivali Banyiginya.

4. Divisioni tra i discendenti degli emigrati naturali e i rifugiati del 1959. Molti Tutsi rwandesi si sono installati in Congo dagli anni '30 in cerca di pascoli per i loro greggi o nel contesto dello spostamento di popolazioni deciso dall'autorità di Tutela. In Burundi, dei funzionari coloniali tutsi erano stati mandati in questo Paese fin dagli anni '40. In Uganda alcune ricche famiglie tutsi vi avevano acquistato terre e pascoli, molto prima del 1959. Poi arrivarono i rifugiati del 1959 (anno dell'indipendenza del Rwanda e della presa di potere degli hutu). Sono i loro discendenti, degli emigrati e dei rifugiati, che hanno intrapreso la conquista del Rwanda nell'ottobre 1990. Non c'è dunque da meravigliarsi se nella gestione del Paese che hanno conquistato insieme, possono apparire delle divisioni tra queste due componenti della diaspora tutsi rwandese. (L.M.)  

 

 Inizio pagina

   

    

Editoriale da Congo attualità n. 112

ricevuto da info@muungano.it  

       

Il "nuovo Rwanda" è sempre più oggetto di critica per le severe restrizioni imposte all'opposizione, ai giornalisti e alle ONG internazionali, spesso in nome di una supposta lotta contro "l'ideologia genocidaria". Numerosi dissensi sono apparsi anche in seno all'élite tutsi anglofona del FPR che comanda il paese dal 1994. Tale dissenso si manifesta particolarmente nella fuga in esilio di varie personalità chiave del regime, tra cui il generale Nyamwasa, attualmente esiliato in Sud Africa. Quest’ultimo è ricercato da Interpool in seguito ad un’inchiesta francese sull’attentato contro l’aereo presidenziale, il 6 aprile 1994 e ad un’inchiesta spagnola sull’assassinio di cittadini spagnoli in Rwanda e in RDCongo dal 1992 al 2002. Nyamwasa è una spina nel tallone del regime rwandese, perché qualora fosse estradato verso la Francia o la Spagna e cadesse nelle mani della giustizia internazionale, egli potrebbe rivelare la verità di tanti crimini commessi dal FPR, attualmente al potere e da Paul Kagame, l’attuale presidente. In questo contesto, vari osservatori sono del parere che il fallito tentativo di assassinare Nyamwasa in Sud Africa sia stato orchestrato a Kigali. Chi osa denunciare tali intrighi, rischia di essere arrestato o , addirittura, assassinato. Probabilmente, è il caso del giornalista Jean Léonard Rugambage, recentemente assassinato a Kigali. Se in Rwanda la giustizia fosse libera e indipendente, potrebbe accertare la verità su questi avvenimenti.

Nyamwsa è un personaggio controverso. Minacciato dal regime rwandese, il Sud Africa gli ha concesso asilo politico. Per la giustizia spagnola, è il mandante dell’uccisione del missionario catalano Joaquim Vallmajó nel 1994 e dei tre membri di medicos del mundo Flors Sirera, Manuel Madrazo y Luis Valtueña, tre anni dopo e ne richiede al Sud Africa l’estradizione. Pretoria riconosce la difficoltà di estradarlo verso la Spagna a causa della protezione internazionale che gli ha concesso.

All'avvicinarsi delle elezioni presidenziali del 9 agosto, il clima politico è sempre più pesante. Le autorità organizzano una campagna elettorale bloccata e monolitica emarginando l'opposizione e soffocando ogni voce critica. I pochi candidati che si sono presentati finora per le prossime elezioni presidenziali di agosto sono tutti dei rappresentanti di partiti filogovernativi che già nel 2003 avevano appoggiato la candidatura di Paul Kagame. Queste candidature servono solo per ingannare l’opinione nazionale e internazionale e dare alle elezioni stesse una parvenza di democrazia.Ma i Rwandesi non hanno più paura e il 24 giugno hanno sfidato la dittatura di Kigali, manifestando in massa e pacificamente per richiedere la vera democrazia e la libertà per i leader dell'opposizione.

È in questa situazione che l’Unione Europea avrebbe dovuto inviare in Rwanda una missione di osservatori elettorali. In caso contrario, ella diventerà complice di una dittatura.  

 

 Inizio pagina

      

    

SRI LANKA

Libri di testo delle scuole diffamano cristiani, Chiesa e Papa di Melani Manel Perera

AsiaNews - Colombo 30 giugno 2010

I nuovi testi scolastici proposti dal ministero mettono sullo stesso piano cultura occidentale e cristianità, accusate di aver tentato di distruggere le culture singalesi. Arcivescovo di Colombo: "Questo è un tentativo per portare disarmonia tra le comunità religiose e per inculcare un'immagine diffamante nella mente degli studenti".  

 

"I programmi di storia e geografica utilizzati nelle scuole e pubblicati dal Ministero, contengono giudizi che diffamano la Chiesa cattolica, il Santo Padre e i cattolici". Lo ha denunciato mons. Malcom Ranjit, arcivescovo di Colombo, che in questi giorni ha incontratoBandula Gunawerdena, ministro dell'educazione, per mettere a tema il problema.

I nuovi testi scolastici proposti dal ministero mettono sullo stesso piano cultura occidentale e cristianità, accusate di aver tentato di distruggere le culture singalesi, Secondo questi libri, il messaggio di bontà portato da Gesù non è più vissuto all'interno della Chiesa. Nella sezione "Rinnovamento religioso", il cristianesimo è introdotto come un ostacolo alle altre religioni e l'educazione degli istituti cattolici viene vista come un modo per propagare la fede cattolica.Ad attirare l'attenzione dell'arcivescovo su questa problematica sono state le ripetute denunce di presidi e insegnanti cattolici di storia e geografia.

"Questoè un tentativo per portare disarmonia tra le comunità religiose e per inculcare un concetto diffamante nella mente degli studenti", ha affermato mons. Ranjit, durante l'incontro con il ministro. L'arcivescovo ha invitato il ministro a rivedere l'uscita dei testi, consigliando un confronto con una commissione interreligiosa. Egli ha anche confermato la disponibilità a collaborare con il governo nella costruzione della società.

Per ora Gunawerdena ha assicurato l'immediata revisione dei libri e la correzione degli eventuali errori.  

 

 Inizio pagina

    

    

Prigionieri politici Tamil cercano l'appoggio della Chiesa di Melani Manel Perera

AsiaNews - Colombo - 1 luglio 2010

A oltre un anno dalla fine della guerra, nessuno dice cosa accadrà alle centinaia di prigionieri politici detenuti per prevenire il terrorismo. Una lettera inviata al Papa, che nessuno ha però visto.  

 

"Anche se la guerra è finita da oltre un anno, le autorità non hanno ancora affrontato i loro compiti". Il quotidiano srilankese Daily Mirror del 29 giugno mostra il dramma dei prigionieri politici detenuti da mesi per l'Atto di Prevenzione del terrorismo, e rivela che essi hanno scritto a Papa Benedetto XVI e al vescovo dello Sri Lanka perché intercedano per un perdono presidenziale o un rilascio su cauzione. La Chiesa nega però di avere ricevuto una simile lettera. Su AsiaNews interviene il vescovo Harold Anthony Perera.

Secondo fonti di stampa, sono parecchie centinaia i prigionieri ancora detenuti, tra cui donne con bambini piccoli, giovani e anziani.

"Noi - è scritto nella lettera - abbiamo bisogno di vivere in libertà e in pace nel Paese, come ogni altro cittadino". I prigionieri lamentano che le loro ripetute richieste al presidente Mahinda Rajapaksa perché sia fatta giustizia sono rimaste inascoltate e chiedono l'intervento di Papa Benedetto.

AsiaNews non ha potuto parlare con l'arcivescovo di Colombo mons. Malcolm Ranjith, ma il suo segretario padre Quintus Fernando ha detto che l'arcivescovo non ha ricevuto una simile lettera. Egli ha aggiunto che ha interpellato il cappellano del carcere dell'arcidiocesi, ma pure questi non ha conoscenza della lettera.

Anche mons. Perera, presidente della Commissione nazionale cattolica per Giustizia e Pace, non ha notizie della lettera.

Rimane per ora il mistero di questo appello, che forse vuole proprio suscitare dibattito e interesse, ricordando centinaia di persone incarcerate e sospese nell'incertezza.  

 

 Inizio pagina

      

    

Nella capitale Colombo un sacerdote in missione tra i giovani

www.acs-italia.glauco.it - 6 luglio 2010

 

Ogni mattina ed ogni sera lo Sri Lanka sembra vestirsi di bianco. Sia all’orario di apertura che a quello di chiusura delle scuole, migliaia di bambini e ragazzi riempiono le strade della città. Le ragazze indossano gonne e camicette bianche, i ragazzi camice e pantaloni lunghi bianchi. Solo i bambini più piccoli indossano pantaloncini blu con le loro camice bianche.

È evidente che lo Sri Lanka, come confermano anche le statistiche, è un Paese giovane. Su una popolazione di circa 20 milioni di persone, il 25% ha fino a 15 anni. Per avere un’idea, basti pensare che in Gran Bretagna appartiene a questo fascia d’età il 17% della popolazione mentre in Germania arriva solo al 13%. Naturalmente bisogna anche considerare che in Europa i giovani hanno migliori

È evidente che lo Sri Lanka, come confermano anche le statistiche, è un Paese giovane. Su una popolazione di circa 20 milioni di persone, il 25% ha fino a 15 anni.

Per avere un’idea, basti pensare che in Gran Bretagna appartiene a questo fascia d’età il 17% della popolazione mentre in Germania arriva solo al 13%.

Naturalmente bisogna anche considerare che in Europa i giovani hanno migliori possibilità formative ed opportunità di carriera rispetto ai loro coetanei nello Sri Lanka.  

Infatti in questo stato insulare non è affatto facile per i diplomati acquisire una formazione o adeguate opportunità lavorative e poiché molti di essi basano sempre più le loro aspettative di vita secondo gli standard occidentali, viene a crearsi sempre di più un enorme divario tra aspettative e realtà.

 

La conseguenza, specialmente tra i giovani, è un senso di disillusione e disorientamento, come ha detto padre Priyantha Silva, sacerdote cattolico dell’arcidiocesi di Colombo, in una recente conversazione con rappresentanti di Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS).

Circa 10 anni fa padre Silva subì una lesione spinale che gli causò una paralisi temporanea. Completamente recuperato, questo energico sacerdote quasi cinquantenne, si è dedicato da allora al lavoro pastorale tra gli adolescenti ed i giovani adulti. Organizza brevi ritiri e seminari ed accompagna molti giovani con buoni consigli ed avvertimenti prestando particolare attenzione alla formazione di una solida personalità. Cerca di insegnare ai giovani come vivere la loro fede in ogni giorno; in altre parole, come responsabilizzarsi seriamente nella famiglia, a scuola ed al lavoro.

I ritiri quaresimali che l’arcidiocesi di Colombo ha offerto negli ultimi dieci anni sono stati organizzati in gran parte da padre Priyantha Silva. A queste sessioni, che si tengono dal Venerdì alla Domenica, partecipano regolarmente più di 2.000 tra ragazzi e ragazze che, oltre a parlare dei problemi fondamentali della vita e della fede, si riuniscono anche per momenti di preghiera comune per poi concludere le giornate con la celebrazione dell’Eucaristia. Durante questi incontri circa 50 sacerdoti sono disponibili per conversazioni personali e per amministrare il Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione.

Grazie a queste sessioni, nel tempo, molti giovani sono riusciti a superare problemi familiari o di dipendenza ad un eccessivo consumo di alcol e droghe. Una parte del programma riguarda la pastorale dei giovani che, sottolineando la giusta relazione tra sessualità, matrimonio e famiglia, ha lo scopo di aiutarli a scoprire questi valori come obiettivo di un completo processo personale di maturazione, anziché lasciarsi andare alle pressioni della promiscuità e di relazioni occasionali.

  

Ai rappresentanti di ACS padre Silva ha riferito che «oltre a questi incontri annuali, incoraggiamo anche altre iniziative a livello parrocchiale e diocesano». Da anni ormai ACS sostiene diversi progetti pastorali nello Sri Lanka. «Anche in questo modo i giovani imparano come sviluppare le loro capacità e tutto si svolge in un’atmosfera che affonda le sue radici nei valori biblici ed umani», ha aggiunto.

I giovani rispondono bene a padre Priyantha Silva, e questo appare ovvio guardando questo sacerdote mentre svolge il suo lavoro con loro.

Apprezzano la sua apertura e la sua capacità di ascoltare le loro domande ed i loro problemi, invece di evitarli. Si tratta di una particolare sensibilità che è stimata allo stesso modo anche dai non cristiani e che padre Silva ha saputo esprimere anche artisticamente. Infatti è stato lui a disegnare il primo francobollo postale a tema natalizio per le Poste dello Sri Lanka.  

     

All’epoca aveva appena 18 anni ed era ancora un seminarista ma da allora ha utilizzato il suo talento anche per progettare chiese e cappelle. Da molti anni la sua comprensione ed i suoi consigli sono molto apprezzati e ricercati in tutta l’arcidiocesi di Colombo. Non solo attraverso l’arte ma anche con la musica, il teatro ed il cinema padre Priyantha Silva ha realizzato con successo il suo apostolato pastorale tra i giovani.  

 

 Inizio pagina

   

    

STATI UNITI

Riforma immigrazione: Obama, "l'America guardi alla sua storia"

Misna - 2 luglio 2010  

     

"È tempo di una riforma onnicomprensiva che tenga conto delle legittime aspettative di tutti... La questione non è neppure più una questione politica o economica. È una questione morale". Con queste parole, pronunciate ieri alla American University di Washington, luogo simbolo in cui ricevette l'appoggio dei Kennedy alla sua candidatura, il presidente Barack Obama ha affrontato la "necessità e l'urgenza" di una riforma omnicomprensiva dell'immigrazione, perché - ha detto - "è impossibile pensare di mandare a casa 11 milioni di persone", immigrati 'irregolari' - tra cui la vasta comunità dei 'latinos' che contribuì in modo consistente alla sua vittoria elettorale nel 2008 - che negli Stati Uniti vivono e lavorano da tempo sostenendo l'economia nazionale. Rivolgendosi al Congresso, esortato ad "avere coraggio" e ad affrontare la questione migratoria, Obama ha parlato della necessità di "un approccio pragmatico", nonché "federale e bipartisan": se l'America vuole trovare una soluzione, ha aggiunto, "deve trovare il coraggio di guardare alla sua stessa storia, ricordando oggi che per milioni di immigrati è stata nei secoli una terra di opportunità ed è grazie ai suoi valori fondanti che è diventata quello che è". L'approccio globale, ha osservato allo stesso tempo il presidente, non può prescindere dal "diritto e il dovere" per ogni paese "di avere pieno controllo dei suoi confini", e gli 'irregolari' "non devono pensare che se varcano i confini illegalmente non subiranno per questo alcuna conseguenza". La strada appare tutta in salita, viste anche le difficoltà previste di raccogliere il sostegno necessario di almeno una parte dei repubblicani a quattro mesi dalle elezioni di medio termine. Riportando oggi il discorso di Obama, il quotidiano 'Christian Science Monitor' osserva tra l'altro che Obama ha inteso più mettere un 'segna-posto' che "rivolgere uno specifico appello all'azione, perché il presidente conosce la difficoltà politiche attorno alla questione. Non c'è possibilità - aggiunge il prestigioso giornale - che il Congresso affronti la riforma dell'immigrazione quest'anno e le prospettive per il prossimo potrebbero essere altrettanto cupe. I repubblicani dovrebbero ottenere vantaggi significativi in termini di seggi alle elezioni di medio termine, conquistando al livello potenziale una o entrambe le camere del Congresso". La soluzione all'immigrazione, ha in ogni caso precisato Obama, non passa per leggi come quella che entrerà in vigore il 29 Luglio in Arizona, contestata da molti paesi latinoamericani a cominciare dal Messico, che darà alla polizia facoltà di fermare un immigrato anche sulla base del semplice sospetto della sua 'irregolarità'. "Leggi come questa - ha detto - hanno il potenziale di violare diritti di cittadini americani innocenti e di residenti in regola con la legge, rendendoli passibili di fermo sulla sola base del loro aspetto".[FB]  

 

 Inizio pagina

  

 

Obama alla prova dell'immigrazione di Matteo Bosco Bortolaso

Il Manifesto - 2 luglio 2010

La Casa bianca: tutelare i lavoratori senza documenti «L'America è stata fondata da persone venute da fuori» Il presidente democratico chiede al Congresso di occuparsi nei prossimi mesi della questione degli stranieri senza documenti. Il discorso è abbastanza generico, ma la sfida è grande, in un paese sempre più attraversato da spinte xenofobe (come dimostra l'Arizona) e in un anno elettorale in cui, a novembre, metà Congresso sarà rinnovato  

      

Ci sono 11 milioni di immigrati illegali negli Stati uniti. Che farne? Difficile pensare ad una amnistia collettiva, così come è difficile programmare una deportazione di massa. Sull'immigrazione, per Barack Obama, è un gioco di equilibri. Ieri il presidente è intervenuto alla American University, a Washington, e ha affrontato la questione in termini ampi e generici, auspicando una riforma che, comunque, non potrà veder luce prima della fine del 2010, anno elettorale per parecchi parlamentari.

Il presidente ha iniziato il suo lungo intervento sottolineando che gli Stati uniti sono sempre stati «una nazione di immigrati», e che «questo flusso costante» ha portato crescita e prosperità. Obama ha ricordato immigrati geniali come Albert Einsten, Nicola Tesla e, più di recenti, i guru che hanno costruito il motore di ricerca Google. «E poi ci sono stati i molti che non sono entrati nei libri di storia, ma hanno contributo in egual modo», ha aggiunto.

Gli Usa sono sempre stati, fin dalla loro fondazione, un luogo «dove vivere, lavorare e pregare liberamente». E ancora oggi, ha continuato il presidente, «rimaniamo un magnete per i migliori e più brillanti, che vengono qui da ogni parte del mondo». Questo «ha creato una forza lavoro giovane» e una variegata popolazione che si può chiamare americana «non per il sangue, ma per la fede» (naturalmente nei valori americani).

«È questo che ci rende unici e forti», ha continuato Obama nella sua alata introduzione, dove ha ricordato che, come ha detto Thomas Jefferson, l'America dovrebbe essere il rifugio per «l'umanità oppressa», ma spesso è patria di discriminazioni razziali come è stato «per italiani e per polacchi, e per i cinesi reclusi a San Francisco».

Insomma, le politiche sull'immigrazione «sono sempre state dibattute», ed in questo contesto si deve collocare anche la «controversa» legge dell'Arizona, la quale è «comprensibile», ma «pensata male». Più in là il presidente non si è spinto, ma nei palazzi di Washington gira voce che il governo potrebbe sfidare lo stato «leghista» in una complessa battaglia legale.

Obama ha alternato aperture e chiusure. Da una parte c'è l'idea di aprire la strada verso la cittadinanza a «coloro che pagano le multe ed imparano l'inglese». Dall'altra c'è l'annuncio di nuovi soldati che andranno a controllare il confine con il Messico, dove sono già dispiegati 20 mila uomini. Ora arriveranno un migliaio di agenti di sicurezza e 1.200 militari della Guardia Costiera. Da un lato il presidente ha criticato la politica statunitense di dare visti a studenti in ingegneria e biologia, ai quali però poi «non viene consentito di rimanere a lavorare: così li offriamo alla concorrenza». Dall'altro lato, Obama ha auspicato una serie di misure più stringenti per il controllo di chi percepisce redditi in nero, con maggiori ispezioni per i datori di lavoro.

La Casa bianca, insomma, ha lanciato diverse idee, ma sarà poi il Congresso, tra diversi mesi, ad affrontare la questione. Intanto, però, le tragedie al confine col Messico continuano. Ieri la Cnn ha accennato alle tante persone che, «disperate per raggiungere i loro parenti che vivono negli Stati uniti», si nascondono nei bagagliai delle automobili e spesso muoiono soffocate.

Prima del discorso, ad inizio settimana, Obama aveva incontrato il gruppo dei parlamentari ispanici al Congresso, molto sensibili sul tema, naturalmente, e aveva tentato di rassicurare anche i gruppi che vogliono proteggere gli immigrati. Alcuni attivisti si sono riuniti lo scorso fine settimana a San Diego, in California, e non hanno nascosto la loro delusione per un presidente che continua ad usare uomini in divisa per governare l'immigrazione.

«A questo punto, quasi quasi vorremmo indietro George W. Bush - scherza Louie Gilot di Border Network for Human Rights - l'amministrazione ci aveva promesso cambiamenti, e non solo abbiamo la stessa politica poliziesca: ne abbiamo pure di più».

È interessante capire i termini delle trattative tra le associazioni e la Casa bianca. La dice lunga una delle loro richieste: servono ripetitori telefonici in mezzo al deserto di Arizona e Messico, affinché gli immigrati possano chiamare i loro cari che li aspettano negli Stati uniti, e per evitare una morte nell'arsa terra di nessuno.  

 

 Inizio pagina

   

    

SUDAN

Guerra o pace?

www.acs-italia.glauco.it - 18 giugno 2010

 

Il vescovo emerito di Torit, nel Sud Sudan, che ha diretto la sua diocesi durante uno dei conflitti più cruenti che l’Africa ha conosciuto, è fiducioso che nel suo Paese non tornerà la guerra

In un’intervista concessa ad Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), monsignor Paride Taban, si è detto in disaccordo con coloro che sono inquieti per l’instabilità seguita alle elezioni generali dello scorso aprile e che credono che questo porterà ad un ritorno alla violenza.

Il vescovo, salutato da molti come un eroe per i suoi venti anni trascorsi a capo della diocesi di Torit quando infuriava la guerra civile, ha dichiarato che la popolazione è determinata a svolgere pienamente il suo ruolo nel prossimo referendum.

Lo scrutinio, previsto per il gennaio 2011, potrebbe portare alla secessione del Sud Sudan, dando così vita al più giovane Paese del continente africano. Monsignor Taban ha dichiarato che le sue speranze di pace sono rafforzate dai recenti commenti di Salva Kiir, presidente della regione semi autonoma del Sud Sudan, che si è fatto sentire per tentare di eliminare tutte le possibilità di un ritorno della violenza.  

«E’ stato strano sentire il presidente del Sud Sudan dichiarare che [noi non dobbiamo] mai andare in guerra», ha detto il vescovo emerito. «Il popolo del Sud Sudan sembra essere più maturo di quanto molti non pensano», ha aggiunto.

Riferendosi alla fase di transizione che aveva fatto seguito al piano di pace (Accordo di Pace Globale) del gennaio 2005 tra il nord ed il sud, monsignor Taban ritiene che, «già durante questo breve periodo, [la popolazione] ha affrontato molte sfide, ma una guerra diffusa non ha mai avuto luogo».

Un diverso punto di vista

Il suo punto di vista diverge nettamente da quelli degli altri vescovi del Sud, come ad esempio monsignor Eduardo Hiiboro Kussala, vescovo di Tombura-Yambio che, in un’intervista rilasciata ad ACS all’inizio di quest’anno, aveva dichiarato: «La possibilità che la nazione intera precipiti nell’abisso [della guerra] è uno scenario verosimile».

Monsignor Hiiboro segnalò episodi di violenza nella sua diocesi, esprimendo una preoccupazione diffusa riguardante casi di brogli elettorali, di intimidazioni agli elettori ed altre irregolarità commesse durante lo scrutinio, il primo ad essere multipartitico dopo 25 anni.

Molti temono un ritorno alla violenza, vissuta dal Sudan tra il 1983 ed il 2005, quando sono morte circa due milioni di persone ed almeno cinque milioni sono stati gli sfollati, durante quello che si è rivelato essere il più lungo conflitto ininterrotto in Africa.

Almeno per il momento sono stati evitati scontri su larga scala grazie ai buoni risultati di Kiir e della base degli ex ribelli del Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese nel sud (92%), così come per la vittoria sicura per il presidente in carica del Paese, Omar Al Bashir nella capitale Khartoum.

Monsignor Taban riconosce che tutto dipenderà dal presidente Al Bashir e se rispettarà o meno il risultato del referendum con il quale il Sud Sudan voterà per la separazione dal Nord. «Se quello che dice il presidente Bashir è vero a proposito del suo rispetto del risultato del referendum, allora va bene; ma non sappiamo se quel che dice è vero», dice il vescovo.

Riconoscendo che il processo è un terreno fertile per i problemi, tuttavia monsignor Taban rimane ottimista. «Non sarà facile, ma dobbiamo imparare a condividere le risorse che abbiamo e queste includono le riserve petrolifere». Sostenendo che il referendum sarà tenuto come previsto, il vescovo dice: «Lasciate scegliere la popolazione. Non lasciate che le persone siano pressate in un senso o in un altro. Aiutiamole ad essere felici».

Monsignor Taban rivolge un appello anche affinché la comunità internazionale continui nel suo impegno per aiutare il Sudan attraverso questa fase di transizione. «Le persone del Sud Sudan sono forse persone di buona volontà, ma hanno bisogno di molto sostegno da parte della comunità internazionale. Hanno bisogno di essere rafforzate, altrimenti molte se ne andranno per il timore di un ritorno alla guerra», ha aggiunto.

Il vescovo ha anche ringraziato Aiuto alla Chiesa che Soffre per il suo sostegno alla Chiesa del Sudan. «ACS è stata con noi fin dall’inizio, e per noi è sempre stata un segno di speranza». L’anno passato l’Opera ha aiutato la Chiesa del Sudan con più di 1.200.000 euro per sostenere diversi progetti pastorali, tra i quali «Save the Saveable schools» (a Khartoum e nei dintorni), programmi di catechesi, formazione di sacerdoti, religiosi, seminaristi e laici, costruzione di chiese, offerte per messe, automezzi per il clero che opera in regioni remote, e diffusione di Bibbie del Fanciullo «Dio parla ai suoi figli»

 

 Inizio pagina