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Anno X N° 427 28/7/10 |
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"Io,
primo gesuita turco" di Gerolamo Fazzini
MissiOnLine
- 3 luglio 2010
Padre
Antuan si racconta
Ordinato
prete il 26 giugno, a Roma, il 4 luglio Antuan presiederà la sua prima
Eucaristia in turco ad Ankara. Padre Antuan Ilgit è il primo gesuita turco.
E'
stato ordinato sacerdote il 26 giugno scorso, presso la Chiesa del Gesù
all'Argentina a Roma, poche settimane dopo l'assassinio, in Turchia, del vescovo
Luigi Padovese. A mons. Padovese e a don Santoro padre Antuan ha fatto esplicito
riferimento durante la sua Prima Messa.
Clicca qui per leggere la sua omelia integrale.
Il
4 luglio padre Antuan presiederà la sua prima Eucaristia in turco presso la
Chapelle Sainte-Thérèse de l'Enfant Jésus ad Ankara.
Quella
di padre Ilgit è una storia particolare, che merita di essere conosciuta.
Nasce
in Germania, il 22 giugno 1972, da genitori turchi, emigrati dalla città di
Mersin, sulla costa mediterranea della Turchia. Nel 1978 la famiglia ritorna in
patria. Il padre riprende a fare il pescatore. Nel 1994 Ilgit consegue la laurea
in Scienze economiche e amministrative presso l'Università Gazi, ad Ankara. A
Mersin, nella Chiesa dei cappuccini, dedicata a Padovali Aziz Antuan, assiste
alla prima Eucaristia della sua vita. "Per la prima volta compresi
chiaramente le parole delle preghiere rivolte ad Allah e rimasi stupito per il
fatto che mi veniva presentato un Dio amico dell'umanità, compagno del cammino,
misericordioso, umile fino a darsi da mangiare e da bere", dichiara Ilgit.
Dopo
questa scoperta, padre Raimondo Bardelli, un frate cappuccino italiano, lo
prepara al Battesimo seguendo il vangelo di Marco. Dal dicembre del '95
all'aprile del '97 Ilgit svolge ad Ankara il servizio di leva in qualità di
tenente carrista. Durante i sedici mesi del servizio militare frequenta la
Chapelle Sainte-Thérèse de l'Enfant Jésus di Ankara (gestita all'epoca dai
padri Assunzionisti e dal 2000 dalla Compagnia di Gesù). Due giorni prima di
congedarsi dall'esercito, il 29 marzo 1997, alla Veglia pasquale, in quella
Cappella riceve il battesimo, la cresima e la prima comunione. Prende il nome di
Antuan, in memoria della chiesa di Mersin dedicata a sant'Antonio da Padova in
cui aveva cominciato a camminare verso il Signore.
Il
"debito" con l'islam
Su
questo punto Ilgit parla chiaramente: "Bisogna usare molta discrezione e
rispetto per la sensibilità dei musulmani. Per questo non apprezzo i battesimi
pubblicizzati in modo esagerato: sono inutilmente offensivi. Allo stesso modo
non apprezzo chi discredita il cristianesimo senza conoscerlo davvero. Oggi le
religioni vengono molto strumentalizzate politicamente e questo non aiuta il
dialogo. Non mi piacerebbe che la mia storia venisse strumentalizzata. Una volta
un giornale ha scritto di "Antuan strappato a Maometto". Questo modo
di intendere il mio cammino non mi piace: non è vero che sono stato strappato
dalla mia fede originaria: il Signore piuttosto mi ha fatto percorrere un
itinerario per conoscerlo più intimamente attraverso Gesù Cristo. E la cosa più
bella che ho scoperto è che attraverso di Lui amo ancora di più il mio paese e
la mia gente".
In
Italia frequenta per sette anni un convento di cappuccini. Nel luglio del 2004,
d'accordo coi superiori cappuccini, vive un periodo di discernimento con i
gesuiti a Villa S. Giuseppe, a Bologna. Si ferma sedici mesi, frequentando nel
frattempo lo Studio Teologico di S. Antonio.
Il
primo novembre del 2005 entra nel noviziato dei Gesuiti a Genova. Il 24 novembre
2007 a Padova emette i primi voti. Lui stesso traduce la formula dei voti in
turco, incoraggiato dalla Compagnia di Gesù a non dimenticare le sue origini.
"In effetti, la parte islamica del mio cammino per me è molto importante -
sostiene Ilgit - perché attraverso la fede musulmana il Signore si è rivelato
a me, come unico Dio. Si è avvicinato a me in questo modo. Non rinuncio a
questa parte della mia vita: il cristianesimo è un'ulteriore tappa del mio
cammino che, nel suo insieme, considero un dono inestimabile che Dio mi ha
fatto".
Attualmente
Ilgit vive presso il Collegio Internazionale del Gesù. Dopo aver concluso il
primo ciclo di studi teologici in Gregoriana, per un anno accademico ha
frequentato i corsi della Facoltà di Scienze ecclesiastiche orientali
dell'Istituto Orientale; successivamente si è iscritto, per la licenza in
Teologia Morale indirizzo di bioetica, all'Accademia Alfonsiana della
Lateranense. Il 18 aprile 2009, a Venezia, è stato ordinato diacono.
Nel
futuro (forse) la bioetica
P.
Antuan esplicita così i suoi desideri: "Ho deciso di studiare la morale e
la bioetica, perché sono interessato a promuovere e approfondire la conoscenza
reciproca e il dialogo su quelle tematiche delicate che coinvolgono l'uomo di
ogni cultura e religione. Mi interessa cercare una parola comune per
salvaguardare la vita e la dignità della persona. Voglio stimolare la
collaborazione su temi di interesse reciproco, come la ricerca del bene comune,
la costruzione della pace, lo sviluppo. Per questo, - continua - sto lavorando
ad una tesi sui temi di inizio vita - come aborto, contraccezione, fecondazione
assistita e uso delle cellule staminali - nella bioetica turca, a confronto con
il magistero cattolico. Vorrei dare al mio lavoro una chiave di lettura
antropologica e religiosa. Studierò le fatwa della Presidenza degli affari
religiosi. È il primo passo dello stile di dialogo che desidero portare
avanti."
MissiOnLine aveva già seguito la vicenda di p. Antuan. Clicca qui per leggerla.
La
nostra piccola missione quotidiana di p. Piero Gheddo
zenit.org - Roma - 23 giugno 2010
Il
14 giugno scorso (alla sera c'era la partita di calcio Italia-Paraguay per il
Campionato mondiale in Sud Africa) vado dall'occhialaio a ritirare un paio di
occhiali.
Li
provo, vanno bene, pago con uno sconto e dico:
"Grazie
e auguri".
"Auguri
anche a lei, che le vada sempre bene".
"Ma
io le facevo gli auguri per un altro motivo".
"Che
questa sera vinca l'Italia?".
"Sì,
ma è scontato".
"E
allora, per cosa?".
"Che
Dio la benedica e sia sempre con lei e la sua famiglia".
"Ha
ragione, ne abbiamo proprio bisogno".
Il
negozio è deserto, sono le tre e un quarto del pomeriggio. Segue un'amichevole
chiacchierata con sue domande e mie risposte sul valore della preghiera che
"dà una marcia in più nella vita, perché quando io prego sento in me la
forza e il calore di Dio che ci vuole bene, perché è Padre di tutti noi.
Quando si prega, si vive meglio".
Se
mi capita l'occasione, cerco sempre di richiamare in modo naturale la presenza
di Dio, di Gesù, della Madonna, dei santi nella nostra vita. Il nostro mondo
secolarizzato ci porta a vivere "come se Dio non esistesse", mentre
sono convinto che la grandissima maggioranza degli italiani conservano un forte
senso religioso ma non lo manifestano. Il problema è che di Dio e della
preghiera non si parla mai, nemmeno in famiglia, tra amici, sui mass media,
nelle scuole.
Parlare
di Dio, della preghiera, di Gesù Cristo, è un tema tabù, mentre dovrebbe
essere uno degli argomenti fondamentali nell'educazione dei giovani e nella
nostra vita di adulti e di anziani. In fondo, è quello che conta davvero, e più
vai avanti negli anni e più te ne accorgi.
Ecco
perché chi ha avuto la fortuna di ricevere e conservare la fede ha anche
l'impegno di trasmetterla agli altri. Senza fare prediche o essere importuni, ma
in modo naturale, perché la situazione in cui ci troviamo lo richiede.
"Quello
che gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente datelo", dice Gesù. Se
questo vale per i soldi, infatti se uno non dà mai niente diciamo che è un
egoista, perché non dovrebbe valere per la fede?
Scrive
un missionario dalla Tanzania… di p. Piero Gheddo
MissiOnLine
- 20 giugno 2010
Nota:
Questa e' una lettera di un missionario in Tanzania in risposta ad un articolo
di Gheddo che abbiamo pubblicato sul b424
del 7 luglio 2010
Carissimo
p.Piero, sono un sacerdote diocesano di Roma (ma originario di Treviso),
missionario fidei donum in Tanzania. Ho letto con piacere, come sempre, il tuo
articolo sull'assenza di sacerdoti italiani tra i nuovi ordinati del Pime e lo
condivido in tutto. Venendo la mia vocazione dal Cammino Neocatecumenale, mi
chiedo: possibile che tanti ordini religiosi non si rendano conto della bellezza
straordinaria delle nuove realta' ecclesiali? Possibile che ci sia ancora (dopo
decenni) un cosi' generale rifiuto da parte di tanta Chiesa ufficiale? Possibile
che non si vedano i frutti e non si accolgano? Non sarebbe ora di riconoscerli
nei fatti come dono dello Spirito Santo che puo' fecondare istituti religiosi e
diocesi? Eppure, a fronte di tante vocazioni che producono le nuove realta'
ecclesiali, e il Cammino tra queste, sono praticamente snobbate. Poco male, ci
sarebbe da dire, se altrove le cose andassero bene. Ma le cose tanto bene non
vanno.
Ti
faccio un esempio: nel mio piccolo paesello in provincia di Treviso (Santrovaso
di Preganziol), dove fino a qualche tempo fa ancora esisteva un seminario del
Pime, ora venduto, in cui da ragazzino andavo a fare i "Congressini
missionari", la mia parrocchia conta, dopo quasi 30 anni di presenza del
Cammino Neocatecumenale, 4 nuovi sacerdoti e 4 seminaristi in procinto di
diventarlo e uno stuolo di ragazzi con 3, 4, 5, 8, 9 fratelli che si stanno
preparando per entrare in seminario non appena l'eta' lo consenta... Io stesso
sono secondogenito di 8 figli e ho un altro fratello già ordinato sacerdote
presso il Seminario 'Redemptoris Mater' di Varsavia.
Questo
per dire semplicemente che la risposta alla crisi demografica, almeno
all'interno della Chiesa, c'e' eccome... E cosi tante famiglie di altre nuove
realta' della Chiesa... E perchè non dire chiaramente che dal '68 in poi anche
tanti preti hanno letteralmente tradito il magistero della Chiesa sull'apertura
alla vita, consigliando di limitare le nascite senza motivi e insegnando i
metodi naturali con modalita' contraccettive?
Ha
ragione il Card. Bagnasco, ha totalmente ragione, ma tanti sacerdoti e vescovi,
in Italia e in Europa, dovrebbero andare dal Papa e chiedere perdono perchè
l'Humanae Vitae è rimasta assolutamente inascoltata, respinta e disprezzata
proprio da chi la doveva difendere e diffondere. Mi hanno raccontato addirittura
che nei decenni passati si organizzavano nelle nostre campagne incontri
dell'Azione Cattolica (allora ancora solida e forte) per insegnare come non
avere figli!!! E oggi purtroppo piangiamo sulla crisi demografica...
Non
vorrei sembrarti un pessimista o risentito ma credo che la rigenerazione della
Chiesa passi anche attraverso l'ammissione di questo tipo di colpe nei confronti
di Pietro e nei confronti del popolo di Dio. Altrimenti continueremo a fare
tanti dibattiti e a produrre tanti documenti ma le cose rimarranno tali e quali.
Da parte mia sono semplicemente stupefatto delle meraviglie di vocazioni che
vedo intorno a me (sono tra l'altro rettore di un piccolo seminario di
16
ragazzi) ma, come si dice dalle nostre parti, "mi piange il cuore"
Un
abbraccio. Il Signore benedica la tua missione.
don
Michele Tronchin, Dar es Salaam (Tanzania)
Carissimo
padre Michele,
che
gioia ricevere e leggere la tua lettera! Grazie della bella testimonianza che
dai con queste parole. Conosco poco il Cammino Neo-catecumenale sebbene li abbia
visto ad esempio un 24-25 vocazioni sacerdotali e missionarie nel loro seminario
teologico a Kaoshiung in Taiwan, dov'era rettore padre Antonio Sergianni del
Pime, che ora è a Roma come consultore di Propaganda Fide per la Cina. Conosco
abbastanza da vicino C.L. a Milano e vedo che anche loro raccomandano di avere
molti figli, diverse famiglie cielline li hanno e, attraverso un'educazione
seriamente cattolica in famiglia, le vocazioni sacerdotali e religiose con
l'aiuto di Dio vengono.
Bisogna
far conoscere queste realtà della Chiesa italiana e personalmente cerco di fare
il possibile, anche se il discorso sui movimenti è abbastanza lungo e
complesso. Ma nei miei articoli (vedi il Sito www.gheddo.piero.it) li cito
spesso. Proprio questa mattina mi ha scritto l'amico Antonio Gaspari di Roma,
gli mando il Blog perché sia pubblicato su Zenit nel giorno stesso del mio Sito
internet, il quale mi segnala un'altra famiglia neo-catecumenale e romana con
sei figlie giovani, che vanno a stabilizzarsi ad Hong Kong per lavoro e come
missionarie.
I
miei due Blog sulle poche vocazioni sacerdotali e missionarie in Italia (8 e 12
giugno) avevano appunto questo scopo. Di far riflettere i missionari e il
"movimento missionario" in Italia, che anche il nostro carisma
missionario può suscitare un "movimento" nella Chiesa, di entusiasmo
della fede e di amore al Papa (e di vocazioni sacerdotali-religiose), se noi ci
rendiamo conto di quel che potremmo essere, animando missionariamente la Chiesa
italiana invece di fare campagne d'opinione pubblica suil debito estero, la
vendita delle armi, la privatizzaione delle acque e altri temi che ci fanno
perdere l'identità missionaria e le vocazioni dei giovani. Ciao, ti saluto con
affetto Dio ti benedica, tuo padre
Piero Gheddo
Zapatero
condividerà con il criminale Kagame un onorifico incarico dell'ONU
ricevuto
da info@muungano.it
Il
7 giugno, la segretaria di Stato della Cooperazione Internazionale, Soraya Rodríguez,
spiegava con soddisfazione al Senato (ndr: spagnolo) che, come chiaro
riconoscimento dell'impegno spagnolo in favore degli Obiettivi di Sviluppo del
Millennio, il segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon ha scelto José Luis Rodríguez
Zapatero come presidente del gruppo internazionale incaricato dell'effettivo
compimento di tale programma. Lo farà come rappresentante dei paesi sviluppati
e condividerà l'onore di detta presidenza col rappresentante dei paesi in via
di sviluppo. Si tratta degli otto obiettivi che i 192 paesi membri delle Nazioni
Unite si proposero per il 2015. Nel settembre 2000, si pubblicò in New York la
solenne Dichiarazione del Millennio che si proponeva, finalmente, degli
obiettivi attesi da milioni di esseri umani: nobili obiettivi come lo
sradicamento della povertà e della fame, la scuola elementare per tutti,
l'uguaglianza tra i generi, la riduzione della mortalità infantile, la
sostenibilità ambientale.
Fino
qui, tutto è meraviglioso, ma… sorpresa!: un così rispettabile regalo al
nostro presidente (Zapatero) porta nascosto nel suo interno, come un uovo di
pasqua, un sorprendente "regalo". Non si tratta, però, di quella
sorpresa che, già dal secolo III, trasformava in re, almeno per alcuni giorni,
chi aveva avuto la fortuna di trovarla nel suo uovo di pasqua. Si tratta,
invece, di un regalo avvelenato che trasformerà Zapatero nel penoso simbolo
mondiale dell'impensabile grado di corruzione a cui è giunta l'ONU. Una ONU
manipolata da una ridotta, potente e oscura elite globale, massima responsabile
di una situazione mondiale con effetti collaterali altamente criminali e
generalizzati, una ONU corrotta che si lascia convertire da alcuni nel nuovo ed
unico Governo Mondiale. Quel regalo non è altro che quel mostro che è stato
scelto come co-presidente del gruppo incaricato della realizzazioni degli
obiettivi del millennio in qualità di rappresentante dei paesi non sviluppati:
Paul Kagame, presidente del Rwanda.
Chi è questo individuo?
Paul
Kagame è colui che, secondo molteplici testimoni, nell'ottobre 1990, dopo
l'assassinio del suo compagno, il moderato generale Fred Rwigema, si impadronì
della leadership del Fronte Patriottico Rwandese che aveva appena invaso il
Rwanda dall'Uganda. Kagame è colui che delineò alcune nuove strategie:
provocare il terrore tra gli Hutu e lo spopolamento di una gran parte del paese,
al fine di arrivare più facilmente al potere nella capitale, Kigali. Fu così
che, in seguito ai suoi ordini, e solo a titolo di esempio, centinaia di
contadini hutu furono sventrati e legati a qualche oggetto con le loro stesse
viscere, affinché i loro parenti e conoscenti li ritrovassero in quello stato.
Kagame è colui che diede l'ordine di assassinare nove cittadini spagnoli,
testimoni scomodi dei suoi crimini. È colui che diede l'ordine di assassinare
tre vescovi e decine di persone che li accompagnavano, dicendo ai suoi
subalterni sconcertati e che dubitavano di avere capito bene i suoi ordini:
"Già vi ho detto che puliate quella spazzatura". Kagame è colui che,
utilizzando personalmente una potente mitragliatrice, assassinò, sghignazzando,
decine di civili hutu che si trovavano in un mercato. È quello che, ancora
recentemente, in un esaltato discorso, si diceva dispiaciuto di avere
assassinato solo alcune centinaia di migliaia di rifugiati hutu nel Congo e non
tutti… Sarebbe interminabile la lista di esempi simili. Ma chiunque può
trovarli nell'Atto emesso dal Giudice Fernando Andreu Meralles il 5 febbraio
2008, nel quale si dimostra la responsabilità di Kagame nei più gravi crimini
qualificati dal diritto internazionale e si emette ordine di arresto contro
quaranta dei suoi più importanti collaboratori. È, in definitiva, come dice
Filips Reynjens, insieme a molti altri esperti che lo conoscono bene, "il
più grande criminale in attivo" del nostro mondo.
Gli
Obiettivi di Sviluppo del Millennio rimangono in tal modo così degradati, che
solo appaiono ormai come una mascherata, un filantropico lavaggio di immagine
dell'enorme saccheggio che una potente elite del nostro mondo globalizzato,
utilizzando mostri come Kagame, sta portando a termine in paesi come il Congo,
paesi dei quali quell'elite pretende, inoltre, di essere la gran benefattrice.
Non conosco una metafora che sia tanto rivelatrice del deplorevole stato attuale
del nostro mondo, come lo è la scelta di quel criminale per la presidenza di
un'organizzazione filantropica dell'ONU. È questo ciò che lei, signor
Zapatero, accetta di personificare insieme a lui? Essere il nuovo volto mondiale
visibile di una farsa filantropica che affonda le sue radici già nelle società
segrete di secoli fa; farsa criminale che è oggi una delle strategie basilari
per raggiungere il Nuovo Ordine Mondiale, in cui l'ONU deve essere il
"benefico" strumento principale?
Chi
sono quelli che, ostentando un così grande potere, tanto da imporre all'Onu
un'agenda criminale, sono capaci di corrompere, in tal modo, tutto ciò che vi
è di più sacro, tutti i più profondi desideri dell'umanità? Come abbiamo
potuto arrivare a tanta perversione e pazzia collettive, tanto da arrivare ad
accettare come modello di riferimento degli Obiettivi del Millennio uno che è
non solo il responsabile del grande impoverimento del Congo e della massa di
contadini hutu del Rwanda, ma anche della distruzione di entrambi i paesi e
della morte di milioni di Rwandesi e Congolesi? Che importanti interessi hanno
quelle elite nel Congo e in tutta l'Africa Centrale, per agire apertamente con
un cinismo così incredibile, proponendo al mondo come modello un simile mostro?
Si capisce ora perfettamente perché Ban Ki-moon non abbia risposto al giudice
Fernando Andreu Meralles che, in un nuovo Atto di inizio 2009, gli chiedeva le
prove della spoliazione del Congo eseguita da Kagame. Si capisce anche che il
gruppo di esperti dell'ONU, nel rapporto di novembre 2009, accusasse la nostra
piccola organizzazione promotrice di detta procedura giudiziaria, di essere la
più importante finanziatrice dell'enorme conflitto del Congo. Che esagerazione
in questa incredibile storia!
Sig.
Zapatero, questa denuncia non è contro di lei, bensì a suo favore. È la
denuncia di persone profondamente deluse per il suo comportamento di fronte al
maggiore conflitto attuale, un conflitto nel quale sono stati assassinati, per
ordine di Kagame, nove cittadini spagnoli; persone che, nel momento delle
elezioni hanno votato per lei e che ora non vorrebbero vederla cadere così in
basso. Non ceda un'altra volta, presidente. Questa volta no, per favore. Sarebbe
troppo denigratorio. Faccia attenzione con chi dal di fuori o perfino dal di
dentro del suo stesso circolo di fiducia, possono portarla a situazioni tanto
antipatiche. Non insulti a tanti spagnoli che sappiamo il significato di quello
che lei fa. Ora ormai non potrà dire che non lo sapeva. O per caso sta pagando
qualche "favore" a quelli che hanno nelle loro mani le redini del
nostro mondo? Sig. Zapatero, non condivida la presidenza degli Obiettivi del
Millennio con Kagame, non passi alla storia come un complice di simile mostro e
dei suoi potenti sostenitori nella sua operazione di spogliazione ed inganno
globali. Non dia loro la mano, non si sporchi anche lei con sangue innocente.
Questo tentativo di lavare l'immagine del loro sbirro Kagame e del suo
saccheggio criminale del Congo è tanto grossolano e eccessivo che si volgerà
contro di loro.
Joan
Carrero, president de Fundació S´Olivar
Bernat
Vicens, president de Drets Humans de Mallorca
Cosa
insegna la storia recente di
p. Piero Gheddo
MissiOnLine
- 28 giugno 2010
Sono
stato due mesi a Roma (aprile-maggio 2010) per esaminare, purificare e portare a
Milano i libri che ancora mi possono servire e il materiale scritto accumulato
in 16 anni a Roma sul tema missionario.E' una pena vedere come, negli ultimi
cinquant'anni, sono tramontati tanti modelli e ideologie, che hanno suscitato
entusiasmo e dedizione nei popoli poveri e poi sono falliti; e anche in
Occidente sono stati sostenuti con foga da non pochi cattolici convinti e
praticanti. Per grazia di Dio, mi sono sempre battuto contro questi falsi ideali
di "liberazione" che mi apparivano destinati al fallimento per la loro
radice pagana e disumana.
Il
crollo di un mito rivoluzionario lascia sempre tanti orfani: orfani di Mao,
orfani del Vietnam di Ho Chi Minh e dei Khmer rossi di Pol Pot, orfani di Fidel
Castro e di Che Guevara, orfani di altri miti minori ma non meno coinvolgenti:
Sandinisti del Nicaragua,Thomas Sankara del Burkina Faso, Samora Machel del
Mozambico, Eduardo Dos Santos dell'Angola, Sekù Turé della Guinea Konakry,
Amilcar Cabral e i guerriglieri della Guinea Bissau, Menghistu dell'Etiopia,
Afeworki dell'Eritrea, Robert Mugabe dello Zimbabwe, Siad Barre della Somalia,
tutti dittatori o movimenti (li ho visto sul posto) che avevano sposato
l'ideologia marxista-leninista-maoista, già fallita in Unione Sovietica e
nell'Europa dell'Est, ma ancora capace di suscitare speranze sia nelle élites
dei popoli poveri che in Occidente e in Italia.
Non
c'è in me alcune intenzione di irridere alle illusioni generose di tanti
fratelli e sorelle. Quei modelli erano palloni gonfiati e si sono sgonfiati,
erano sogni e sono svaniti uno ad uno per la logica implacabile della storia,
che ci insegna questo: la rivoluzione violenta e le guerriglie di liberazione
(ispirate al marxismo-leninismo-maoismo e sostenute dall'Urss e dalla Cina)
quando conquistano il potere diventano regimi peggiori di quelli contro i quali
si è combattuto per "liberare il popolo". Il cammino della sinistra
italiana, in questo quadro globale, sembra sfociare in un orfanotrofio, pieno di
orfani di tutte le rivoluzioni violente e delle guerriglie di liberazione. Fra
le decine che le sinistre hanno esaltato e appoggiato, non se ne salva nemmeno
una! Ho buttato via quasi tutti i ritagli di giornali e di riviste che
sostenevano queste "liberazioni" illusorie. "Parce
sepultis", dicevano i latini, "Lascia che i morti seppelliscano i
morti" dice Gesù.
Forse
i più giovani fra i miei pochi lettori non mi capiscono. Ma sto parlando di
lotte politiche e sociali di popoli lontani che dagli anni sessanta fino ai
novanta del Novecento hanno spaccato in due l'opinione pubblica italiana e anche
cattolica. Porto un solo esempio per farmi capire. I "sandinisti" in
Nicaragua (dal nome di Augusto Nicolàs Sandino (1895-1934) che aveva
organizzato una rivolta contro la presenza militare degli Usa negli anni dal
1927 al 1933), erano giunti al potere nel 1980 dopo la rivoluzione vittoriosa
contro il dittatore Somoza, uomo nefasto per il paese e il popolo, contro il
quale scrissi nei miei articoli su "Avvenire" e in "Mondo e
Missione" dopo il viaggio in Nicaragua del 1979.
Negli
anni ottanta, i sandinisti avevano suscitato un entusiasmo non giustificato dal
loro governo rivoluzionario, decaduto dopo le elezioni del 1990 quando venne
eletto Presidente il rappresentante del partito loro opposto con il 55% dei voti
(i Sandinisti ebbero solo il 40%). Ecco alcune espressioni tratte da ritagli
della stampa italiana (anche cattolica) di quegli anni ottanta:"Il
Nicaragua è il paese dell'America Latina dove il Vangelo trova le migliori
condizioni per essere annunziato e vissuto"; "In Nicaragua, fin che
esisterà il Sandinismo esisterà il cristianesimo"; "Sandino ieri,
oggi e sempre"; "Chi opta per la rivoluzione dei Sandinisti opta per
la vita; chi opta per la controrivoluzione dei Contras opta per la morte e non
è cristiano": "la Chiesa popolare del Nicaragua è per Sandino"
.
Infatti
i vescovi condannavano il movimento rivoluzionario che toglieva libertà alla
Chiesa e all'opposizione e realizzava un programma chiaramente ispirato a quello
della vicina Cuba comunista. E' solo un esempio. Ne potrei citare altri simili.
Concludo.
Tutte le ideologie e tutti i sistemi politici, di destra o di sinistra o di
centro, sono inevitabilmente caduchi, tramontano in pochi anni o decenni. Il
cristiano fa la sua scelta secondo il Vangelo e la propria coscienza(tenendo
anche conto degli orientamenti che dà la Chiesa), per ottenere il maggior bene
comune possibile o anche evitare il peggior male. Con passione e dedizione, ma
senza assolutizzare nulla, perchè di assoluto c'è solo Dio.
Stallo
della concertazione globale. E rispunta la tentazione protezionistica di
Giancarlo Galli
Avvenire
- 29 giugno 2010
Dopo
il G20. Ha ragione Cameron: vertici inconcludenti
Al
Summit dei Grandi del Mondo (G20) (nota.. ma vogliamo almeno finirla di
chiamarli "grandi"??) di Toronto il più schietto, forse perché
parlava da neofita, è stato il premier inglese David Cameron. Senza peli sulla
lingua, ha confessato di non capire l'utilità del susseguirsi di
"vertici" talmente inconcludenti: "Si parla molto e si fa poco o
nulla". E dopo una pausa: "Dovremmo riuscire a passare, finalmente, ai
fatti...".
Già,
i fatti. Abbiamo sotto gli occhi il deprimente scenario di una recessione
globale che da un biennio s'è sostituita al miraggio di uno sviluppo senza
frontiere. Sui motivi della crisi si sono spesi fiumi di analisi mettendo a nudo
le degenerazioni del consumismo, le follie speculative e finanziarie, il
lassismo dei governi incapaci di scelte radicali per non porre a repentaglio il
consenso elettorale. Sennonché, al momento di passare dall'elencazione dei
"peccati del capitalismo", alla ricerca di soluzioni per tamponare le
falle e rimettere l'economia mondiale in linea di navigazione, a Toronto s'è
annaspato nel vuoto.
Gli
interessi delle Grandi Potenze divaricano sul 'che fare' e nell'esprimere una
comune determinazione. Gli Usa, nuovamente potenza egemone, con il presidente
Barack Obama hanno insistito sulla necessità di mettere al guinzaglio la
speculazione borsistica, ma con scarsa convinzione. Forse nel timore delle
elezioni parlamentari di novembre, in un Paese dove Wall Street è un
bicentenario simbolo del liberismo. La Cina persevera nel tira-molla su una
rivalutazione dello yuan che frenerebbe l'export. Quanto alla vecchia Europa, a
ranghi dispersi. La poco angelica cancelliera Merkel a impartire a destra e a
manca lezioni di rigore: tagli al Welfare e amare medicine ai partner di
Eurolandia, paventando che dopo il crac di Atene vengano al pettine i nodi di
Lisbona, Madrid e magari anche Roma, nonostante la buona pagella ottenuta dal
ministro Giulio Tremonti.
A
proposito di pagelle: gli osservatori hanno assegnato a Toronto un brutto 5.
Bocciatura secca, pur in presenza di lodevoli propositi. Nell'ordine: Ogni
governo valuterà discrezionalmente in quale misura tassare le transazioni
finanziarie. Così s'è finto di non vedere (financo un profano capirebbe) che
ciò comporta il rischio di migrazioni incontrollate di capitali alla ricerca
delle legislazioni più favorevoli.
I
Venti si sono impegnati (in maniera soft) a dimezzare i deficit di bilancio
corrente entro il 2013. Per l'Italia, prescindendo dal debito pubblico
accumulato, si tratta di ridurlo dal 5,3 al 2,6% del prodotto interno lordo. In
che modo, con quali strumenti, non si precisa, moltiplicando gli interrogativi
sui settori da sfrondare: dipendenti pubblici, enti locali (già sotto
pressione), sanità, pensioni?
L'elemento
più preoccupante del G20 canadese è però racchiuso in un paragrafo indicante
"la volontà di non adottare atteggiamenti protezionistici fino alla fine
del 2013". In apparenza, l'impegno è da salutare con entusiasmo. Tuttavia,
letto in controluce, come si ha da fare per ogni documento diplomatico, traspare
la minaccia di un protezionismo dietro l'angolo che si tenta di esorcizzare.
Riportandoci
così al punto di partenza dell'analisi: lo stallo della concertazione su scala
mondiale e le tentazioni di alcuni (Usa e Cina, in Europa la Germania) di
marciare per la propria strada. All'insegna dell'egoismo tecnocratico. Con i
Paesi poveri o in difficoltà abbandonati in sostanza al loro destino.
Certo,
al modello capitalistico, che ora presenta il suo volto più arcigno e meno
nobile, non esistono alternative. Al momento. Dopo Toronto diviene tuttavia
urgente una riflessione sul futuro di un'economia che sembra volere rinunciare a
ogni solidarismo.
Comunicato Stampa del Consiglio Nazionale di Pax Christi - 23 giugno 2010
C’è
bisogno di scelte audaci dettate da una sincera ricerca del bene comune, in
vista di una Pace vera, frutto di giustizia e di sviluppo solidale.
Il Consiglio Nazionale di Pax Christi, riunitosi a Firenze il 20 giugno, giornata mondiale del rifugiato e anniversario dell’uccisione in Iran di Neda Agha Soltan, dopo aver affrontato questioni riguardanti le migrazioni, la democrazia, lo sviluppo e la formazione al bene comune, ha manifestato serie preoccupazioni per la manovra finanziari in atto. Nel
momento in cui si chiedono enormi sacrifici ai settori sociali più
deboli e si riducono drasticamente le risorse destinate agli Enti
locali, Pax Christi - in accordo ideale col suo Presidente
Internazionale, mons Kevin Dowling, vescovo di Rustenburg, in Sud Africa
- intende far risuonare la vuvuzela della pace, della giustizia e dello
sviluppo solidale. Riteniamo imperativo morale e civile tagliare le spese per armamenti destinate a lievitare senza controllo, soprattutto dopo la nascita della “Difesa Servizi spa”. |
Negli
ultimi tre anni, l’Italia ha speso per armamenti 3.5 miliardi di euro
l’anno.
Nel
2009 i nuovi contratti di esportazione d'armi hanno raggiunto i 5 miliardi di
euro, il doppio rispetto al 2007, un livello mai visto da vent’anni.
Sul
bilancio dello Stato incombono 71 programmi di ‘ammodernamento e
riconfigurazione’ di sistemi d’arma fino al 2026, sfuggiti allo sguardo
‘tagliente’ del governo. Basti citare i 131 caccia-bombardieri F-35 e i 121
Eurofighter.
Chiediamo
ai parlamentari di affrontare con senso di responsabilità e coscienza tutto il
problema degli armamenti, tenendo conto dei richiami del Magistero della Chiesa.
Non possiamo dimenticare il monito della Santa Sede, che fin dal lontano 1976
denunciava "La corsa agli armamenti, anche quando è dettata da una
preoccupazione di legittima difesa...costituisce in realtà un furto, ...un’
aggressione che si fa crimine: gli armamenti, anche se non messi in opera, con
il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame ".
Siamo
convinti che un segnale chiaro e forte in questa direzione si possa dare subito,
bloccando il progetto degli aerei da guerra F 35, il cui costo è di quasi 15
miliardi di euro! Si avrà il coraggio di farlo?
C’è
bisogno di scelte audaci dettate da una sincera ricerca del bene comune, in
vista di una Pace vera, frutto di giustizia e di sviluppo solidale.
Mezzo
secolo d'indipendenza (e delusioni) di Anna Pozzi
Avvenire
- 4 luglio 2010
Indifferenza
e irritazione. Le celebrazioni per il cinquantesimo di indipendenza delle ex
colonie africane stanno suscitando sentimenti opposti.
Nella
migliore delle ipotesi è indifferenza per cerimonie piene di retorica e vuote
di significato. Ma anche un certo malumore. La ricorrenza, infatti, non solo non
è servita, come molti speravano, a fare un bilancio serio di questi
cinquant'anni di indipendenza (o presunta tale), ma si è spesso risolta in mere
celebrazioni ad uso e consumo del potere. A ciò si aggiunge la decisione delle
ex colonie francesi di far sfilare i propri militari in occasione della Festa
della Repubblica di Francia, il 14 luglio a Parigi. Decisione che non è
piaciuta a moltissimi africani, non solo perché il presidente francese Nicolas
Sarkozy ha, dal canto suo, declinato tutti gli inviti africani, ma soprattutto
perché, fanno notare i più critici, in quella occasione il colonizzatore
celebra la fine della sua stessa oppressione. Forse era meglio evitare... Sta di
fatto che la ricorrenza del cinquantenario delle indipendenze è andata
sostanzialmente sprecata, almeno come occasione di riflessione su un continente
che fatica a inserirsi nei processi di globalizzazione, giocando un ruolo alla
pari con gli altri soggetti mondiali. Eppure, nel cuore di questi processi
l'Africa c'è, eccome. Ma più come fornitrice di materie prime che come
protagonista del proprio sviluppo; più come nuova frontiera per attingere acque
e terre arabili che come partner economico, commerciale e politico su scala
internazionale. Certo, parlare di Africa è fuorviante, essendoci forti
differenze da Paese a Paese. Tuttavia alcune linea di tendenza solcano
trasversalmente l'intero continente.
La
prima riguarda il sensibile rallentamento dello sviluppo in tutta l'Africa, come
conseguenza della crisi mondiale, ma anche a causa di un'economia poco
diversificata, incentrata per l'80 per cento sulle esportazioni di petrolio,
materie prime e prodotti agricoli. La crescita è passata da un tasso annuo
attorno al 6 per cento nel biennio 2006-2008 (con picchi dell'8% per i Paesi
produttori di idrocarburi) al 2,5% del 2009. Con prospettive di crescita stimate
attorno al 4,5% nel 2010 e al 5,2 nel 2011. Sta di fatto che nel rapporto sullo
sviluppo umano, stilato dall'Undp, gran parte dell'Africa si colloca ancora oggi
in fondo alla classifica. Sono, infatti, africani 22 dei 24 Paesi a più basso
sviluppo (gli altri due sono Afghanistan e Timor Est), ovvero circa metà
dell'Africa subsahariana. Ma la crisi economica e finanziaria di questi ultimi
anni è solo una delle ragioni: leggi commerciali sfavorevoli, sfruttamento
iniquo delle materie prime, interessi economici e finanziari di governi e
imprese occidentali, riduzione dei fondi della cooperazione; ma anche
persistente corruzione, malgoverno, mancanza di infrastrutture, sistemi
economici, educativi e sanitari allo sfascio...
Sta
di fatto che oggi povertà e fame sono una realtà quotidiana e drammatica
in molte parti dell'Africa. E le nuove generazioni - il 70% degli africani ha
meno di 30 anni -, invece di rappresentare un potenziale di futuro, vanno ad
alimentare l'enorme massa di migranti, che cercano di raggiungere l'Europa o il
Nord America. In questo scenario, si consolida la presenza della Cina con
interventi a 360 gradi - accesso alle materie prime, ma anche prestiti
preferenziali ai Paesi africani per 10 miliardi di dollari, costruzione di
infrastrutture ma anche vendita di manufatti - a detrimento soprattutto delle ex
potenze coloniali, che tuttavia continuano a contendersi le risorse minerarie
africane. A ciò va ad aggiungersi il (relativamente) nuovo interesse dei Paesi
del Golfo Persico - e non solo - per le terre agricole africane, al fine di
approvvigionarsi in prodotti alimentari e scongiurare pericoli di crisi e
innalzamento dei prezzi. Un paradosso in un continente dove, secondo la Banca
Mondiale, il 90% della terra agricola è disponibile, ma i Paesi maggiormente
interessati, come Sudan, Etiopia, Mali o Madagascar, non riescono a garantire la
sicurezza alimentare alla propria popolazione. Nuovi scenari di accesso agli
idrocarburi si stanno invece aprendo nella regione dei Grandi Laghi, già
fortemente destabilizzata proprio a causa dello sfruttamento di materie prime,
specialmente nelle regioni congolesi del Nord e Sud Kivu, come l'oro, il coltan
o la cassiterite. Ora si parla anche di petrolio e gas nel Lago Alberto, di cui
l'Uganda ha iniziato a vendere le concessione. In questa zona, infatti, sarebbe
stato scoperto uno dei più importati giacimenti di petrolio sulla terra ferma.
E sono già pronte a contenderselo la compagnia britannica Tullow Oil, la
francese Total e la cinese Cnooc. Altri Paesi, tuttavia, si stanno affacciando
in maniera sempre più importante sul continente africano e sono principalmente
India e Brasile. La prima, bisognosa anch'essa di materie prime, è anche
interessata agli investimenti: l'ultimo, un progetto di raffinazione in Angola,
l'altro gigante petrolifero africano, insieme alla Nigeria. Il Brasile, dal
canto suo, moltiplica gli attestati di solidarietà con l'Africa, cercando di
spostare l'asse politico e geostrategico mondiale dal G7 al G20, coinvolgendo i
Paesi in via di sviluppo. Resta il fatto che l'Africa è tuttora
sotto-rappresentata in tutte le istanze mondiali che contano. E spesso,
nonostante i cinquant'anni di indipendenza, sono ancora gli altri che decidono
del suo destino.
La
Cina fa shopping e paga in strade
Con
un fondo sovrano che dispone di 1500 miliardi di euro in riserve valutarie
estere, la Cina può fare sostanzialmente quello che vuole. O quasi. Ripartita
l'economia con tassi di crescita che hanno di nuovo superato il dieci per cento,
il gigante asiatico ha grande e urgente bisogno di materie prime: ferro, rame,
alluminio, petrolio, gas, coltan... E qui entra in gioco l'Africa, dove la Cina
è riuscita a stipulare contratti molto vantaggiosi. Soprattutto per se stessa.
Come l'accordo con la Repubblica Democratica del Congo, del 2007, criticato da
tutte le istanze internazionali. L'hanno ribattezzato il "contratto
cinese", ma si tratta piuttosto di un "baratto": minerali contro
infrastrutture (in particolare strade). Solo che lo scambio non sarebbe
propriamente equo: la Cina, infatti, ha ottenuto diritti su più di dieci
milioni di tonnellate di rame e seicentomila di cobalto, così come sulle
miniere d'oro. In cambio, dovrebbe costruire infrastrutture per l'equivalente di
4,8 milioni di euro. (A.P.)
La
battaglia contro la desertificazione
"Chiediamo
una posizione africana di valore scientifico, attuata e rafforzata per includere
un obiettivo planetario". È la proposta avanzata dai giovani africani
durante la XIII sessione della Conferenza ministeriale africana sull'ambiente
(Cmae) che si è tenuta in Mali, a fine giugno.
Quello
del cambiamento climatico è molto più che una sfida in Africa. È una
drammatica attualità. Di qui l'urgenza di far emergere una posizione africana
comune da sostenere durante le trattative internazionali sul clima, specialmente
in vista del vertice di novembre in Messico. Temi come il riscaldamento globale,
la desertificazione, lo sviluppo sostenibile e le politiche agricole
rappresentano altrettante emergenze in molti contesti africani. "I nostri
Paesi - ha detto durante il vertice il ministro dell'Ambiente del Mali, Tiémoko
Sangaré - sono fragili a causa dei loro ecosistemi e sono stati resi ancora più
fragili da diversi fenomeni come la deforestazione, l'insabbiamento dei fiumi,
la progressione del deserto, nonché da interventi che hanno contribuito al
degrado di risorse oggi fortemente compromesse. Proteggere la natura non è più
un lusso ma un'esigenza fondamentale". (A.P.)
Arabi
e asiatici s'accaparrano i campi
l caso più clamoroso è quello del Madagascar. Nel 2009 il governo sta per firmare un accordo che concede alla sudcoreana Daewoo l'affitto per 99 anni di 1,3 milioni di ettari di terre coltivabili. La poca trasparenza dell'operazione ha portato alla caduta del presidente Marc Ravalomanana. Ma anche in Mali, Paese particolarmente rischio-carestie, il governo sta affittando le terre più fertili, quelle del sud, lungo il fiume Niger, a investitori stranieri. In prima fila c'è la Libia, e in particolare la società Malibya legata al colonnello Muammar Gheddafi, che sta già sfruttando mille ettari per la produzione di riso, mais, canna da zucchero e miglio. In Sudan, invece, è l'Arabia Saudita ad aver ottenuto concessioni; ma gli Stati Uniti non sono da meno, visto che si parla di un'acquisizione effettuata da Jarch Capital, un fondo di investimento statunitense. Anche la Cina è della partita. A conferma che l'industria agroalimentare è uno dei settori decisivi dell'economia.
Diffusione
armi contribuisce a sottosviluppo, presidente Nigeria a G8
Misna - 28 giugno 2010
La
vendita sottocosto in Africa di armi di piccolo calibro prodotte nei paesi
industrializzati del nord del mondo è tra le principali cause del sottosviluppo
del continente. Ad affermarlo a Toronto, in Canada, dove si sono tenuti nel
finesettimana i vertici dei G8 e dei G20, è il presidente della Nigeria
Goodluck Jonathan, secondo il quale "la proliferazione del possesso di armi
leggere tra la popolazione civile rappresenta uno dei fattori che causano il
ritardo della crescita economica nei paesi dell'Africa". Facendo appello ai
paesi del G8 affinché attuino maggiori controlli nel commercio internazionale
di armi e si impegnino piuttosto per la realizzazione degli obiettivi di
sviluppo del Millennio (Mdg), il presidente Jonathan ha sottolineato che la
mancanza di sicurezza impedisce l'avvio di attività economiche in grado di
stimolare la creazione di ricchezza. "Ricordo - ha detto il presidente
nigeriano - quando da studente leggevo opere di autori che accusavano i paesi
europei di mantenere sottosviluppata l'Africa attraverso la schiavitù e altre
attività di sfruttamento: oggi, la schiavitù è diventata un argomento di
storia, ma l'uso diffuso delle armi prodotte nel nord del mondo e il loro
traffico imposto da organizzazioni criminali contribuiscono ancora a mantenere
sottosviluppati i paesi del continente". [MV][CO]
È
nato il primo Mercato Comune dell'Africa
Agenzia Fides - Arusha - 2 luglio 2010
È
entrato ufficialmente in vigore il 1° luglio 2010 il Mercato Comune della
Comunità Economica dell'Africa Orientale (EAC), al quale aderiscono Kenya,
Tanzania, Uganda, Rwanda e Burundi.
Secondo
quanto stabilito da un accordo raggiunto nel novembre 2009 ad Arusha (Tanzania),
dove ha sede l'EAC, i 5 Paesi dell'Africa centro-orientale hanno dato vita al
primo mercato comune del continente che prevede la libera circolazione di
persone, servizi, merci e capitali tra i partecipanti.
Secondo
il Ministro keniano per l'integrazione regionale, il mercato comune sarà
pienamente operativo solo nel 2015, perché occorre ancora armonizzare le
diverse legislazioni nazionali.
Il
prossimo passo è la creazione di un'Unione Monetaria. Entro dicembre di
quest'anno le Banche centrali nazionali dei cinque paesi membri della Comunità
dovranno creare un meccanismo per facilitare gli scambi di valuta all'interno
dell'EAC. Attualmente infatti quando un abitante di uno dei Paesi della Comunità
si reca in un altro Stato partner, in genere usa valuta straniera (dollari,
euro) come mezzo di scambio. Secondo gli accordi presi ad Arusha dai governatori
delle Banche Centrali dei 5 Stati dell'AEC, dal gennaio 2011 sarà possibile
usare la propria valuta in un altro Stato della Comunità. Si vuole infine
creare un sistema che faciliti i pagamenti all'interno dell'area AEC.
La
creazione della zona di libero scambio dell'EAC ha suscitato l'attenzione di
partner esterni. La Turchia intende negoziare con la Comunità un'intesa di
libero scambio e un accordo quadro per facilitare gli investimenti. Dal 28 al 30
settembre 2010 a Dar es Salaam, capitale della Tanzania, si terrà inoltre un
forum d'affari tra la Turchia e l'EAC. (L.M.)
Fra
20 anni oltre un miliardo le vittime dei cambiamenti climatici di Kalpit
Parajuli
AsiaNews - Kathmandu - 2 luglio 2010
Lo
rivela lo studio di una società di ricerca indiana, che ha previsto il drastico
calo dei bacini idrici dell'area Himalayana. Per i ricercatori la produzione di
frumento e riso di Cina e India diminuirà fino al 50%. In Nepal, migliaia di
persone hanno già abbandonato le loro terre per mancanza di cibo e rischio di
inondazioni provocate dallo scioglimento dei ghiacci.
Nei
prossimi 20 anni oltre 1,3 miliardi di persone saranno colpite dalla siccità. I
bacini idrici himalayani e i fiumi che attraversanoBangladesh, Cina, India e
Nepal subiranno una riduzione della portata pari a oltre 275 miliardi di metri
cubi d'acqua, per lo scioglimento dei ghiacciai e l'inquinamento. Lo rivela uno
studio del Strategic Foresight Group, società di ricerca indiana.
Il
documento, pubblicato lo scorso 28 giugno, mostra scenari inquietanti. Secondo i
ricercatorinei prossimi 20 anni la produzione di frumento e riso di Cina e India
diminuirà fino al 50%, per le più frequenti siccità, mentre la domanda di
cibo della popolazione aumenterà del 20%."La disponibilità di acqua dolce
- afferma il rapporto - cadrà in tutti e quattro i Paesi a causa dei
cambiamenti climatici, diminuzione delle precipitazioni e altri fattori di
disturbo naturale, come l'inquinamento". Entro il 2050 oltre 200 milioni di
persone dovranno spostarsi dalla regione himalayana per mancanza di acqua e
cibo.
Secondo
i media nepalesi il processo di spopolamento dell'area himalayana è già
iniziato. Il quotidiano Gorkha Patra, ha calcolato che oltre 10mila persone
hanno abbandonato le loro terre per la diminuzione del raccolto dovuta allo
scioglimento precoce delle nevi e all'irregolarità delle piogge monsoniche. Nel
distretto di Solukhumbu, alle pendici dell'Himalaya, centinaia di abitanti dei
villaggi situati intorno al lago glaciale Imja (nella foto) hanno abbandonato le
loro case per l'esondamento del bacino.
Bidur
Upadhya,studioso dei cambiamenti climatici, afferma ad AsiaNews: "La
frequenza delle siccità è aumentata di 3 volte rispetto ai decenni passati e
l'agricoltura è in seria crisi. I raccolti dipendono da quanta pioggia cadrà
nella stagione dei monsoni . Paesi come Nepal, Bangladesh e India, non riescono
più a nutrire la loro popolazione a causa della rapida crescita demografica e
dalla sempre più decrescente produttività delle aree agricole".
"Gli
agricoltori - afferma Bhusan Tuladhar, referente per il Comitato sui cambiamenti
climatici del governo nepalese - sono costretti a cambiare il tipo di semina in
base ai mutamenti dei monsoni. Al momento noi non possiamo fare nulla se non
adeguare le nostre abitudini in base ai cambiamenti del clima".
Dal
27 al 28 settembre il Nepal ospiterà l'incontro dell'Alleanza dei Paesi montani
(Alliance of Mountain Countries). L'evento nato dall'iniziativa dei governi di
Nepal e Bhutan avrà lo scopo di studiare le misure necessarie ad affrontare il
disgelo dei ghiacci dell'Himalaya.
"Nella
croce le radici della libertà religiosa" di Pierluigi Fornari
Avvenire
- 1 luglio 2010
Il
rappresentante italiano Lettieri: è chi chiede di non esporla a negare un
diritto. Strasburgo - Ieri ha preso le mosse alla Corte per i diritti
dell’uomo il riesame della sentenza dello scorso 3 novembre, secondo cui il
simbolo cristiano dovrebbe essere rimosso dalle aule scolastiche. In difesa del
ricorso presentato dal governo italiano le memorie e gli interventi di dieci
Paesi europei e di numerose associazioni
Un
giurista ebreo con la kippah, dieci Stati tra cui alcuni di religione
prevalentemente ortodossa, un team di legali statunitensi di cui molti
protestanti, tutti intervenuti a difesa della esposizione del crocifisso nelle
scuole italiane. Qualunque sia la decisione che la Corte europea dei diritti
dell'uomo vorrà prendere sulla questione, dopo la sua lunga riflessione, (forse
sei mesi o persino un anno, si è anticipato), il dibattimento di ieri alla
Grande Chambre è destinato comunque a segnare non il passato, ma il futuro
dell'Europa.
"Non
è un caso - dice Nicola Lettieri intervenendo a nome dell'Italia - se la
'contestazione politica' delle tesi della ricorrente (Soile Lautsi, ndr ) e alla
sentenza di novembre (quella contro l'esposizione del crocifisso nelle scuole
italiane, ndr ) della Corte vengono in gran parte da Paesi che hanno duramente
sofferto dell'ateismo di Stato". Lo 'scandalo', dunque, è che si voglia
evocare surrettiziamente la 'libertà religiosa' per negare la 'libertà
religiosa'. Un gioco di prestigio che non può riuscire contro Paesi che portano
ancora le ferite della persecuzione contro il culto. Ci si deve ricordare,
insiste Lettieri, che i principi richiamati nel dibattimento sono stati
introdotti nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo proprio a difesa di
quelle nazioni.
Ma
il gioco di prestigio ha un trucco : una concezione della dimensione
'negativa' della libertà religiosa (libertà di non credere a nessuna
religione) estesa fin al punto di negare la dimensione 'positiva', dunque una
battaglia 'ideologica', 'politica', quella iscenata con il ricorso contro
l'esposizione del crocifisso che non ha nulla a che fare con i tanti casi
affrontati ogni settimana di violazione dei diritti umani più elementari, un
compito che è la ragione e l'onore di Strasburgo.
Nella
memoria presentata alla fine di aprile, il governo, a riprova del fatto che si
tratta di una battaglia ideologica, portata avanti da una atea militante, cita
il fatto che la ricorrente è partner della Uaar (Unione degli atei e degli
agnostici razionalisti).
Nicolò
Paoletti, che apre l'udienza, difende la Lautsi assicurando che non si tratta di
questo, che non si è mai pronunciata su questi temi, neppure con lui, che la
sua è una semplice battaglia di 'laicità'. Il riferimento è ovviamente alla
sentenza 203 dell'89 della Consulta nella quale viene definita principio
'fondamentale' e 'supremo' del nostro ordinamento. Al fatto che 'il giudice
delle leggi' ha deciso nel 2001 di rimuovere il crocifisso della sua aula.
Paoletti tenta, poi, di rintuzzare la tesi della Federazione russa, secondo cui
la sentenza del 3 novembre ha ristretto ad una angusta formula "il margine
di apprezzamento" degli Stati sulle questioni di libertà religiosa. Ma non
è facile replicare, visto che anche altri nove Paesi, più l'Italia dicono lo
stesso. Concezione ideologica quella della 'laicità' della Lautsi - insiste
Lettieri - perché la stessa Consulta, nella citata sentenza, specifica che non
è indifferenza dello Stato alle religioni. Una concezione così ideologica da
ritenere che senza la rimozione dei simboli religiosi non ci sarebbe neppure
democrazia. Invece è vero il contrario. Cosa fare altrimenti con i numerosi
Stati membri del Consiglio d'Europa che prendono espressamente posizione a
favore di una religione, che la esprimono nei loro simboli?
Quanto
al comportamento dei giudici italiani, l'agente a nome del nostro governo
osserva che hanno seguito le norme europee, appurando tra l'altro che il
consiglio di Istituto della scuola frequentata dai figli della Lautsi, dopo aver
cercato di risolvere la questione con la discussione, ha respinto la richiesta
di togliere il crocifisso con un voto democratico.
Le
memorie
RUSSIA
«Nessun
detrimento»
«Riconosciamo
che il simbolo del crocifisso ha un significato religioso che è predominante
– sostiene la memoria presentata ieri dalla Russia –.Tuttavia, questo non
nega il suo significato etico.La sua presenza in una aula non deve essere
percepita come detrimento per le religioni non cristiane».
BULGARIA
«Errore di competenze»
«La
Corte ha affermato spesso che non è nella sua competenza trattare direttamente
delle relazioni tra chiesa e Stato – sottolinea la memoria bulgara –. Non
viola la Convenzione per un Paese membro avere una chiesa di Stato o manifestare
una preferenza religiosa».
ROMANIA
«E
la sussidiarietà?»
«Il
fatto di non tenere in conto il contesto storico, politico, culturale e
giuridico in tali questioni – spiega la Romania – e di non considerare il
margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati in materia è incomprensibile
alla luce del principio di sussidiarietà istituito dalla Convenzione».
SAN MARINO
«Conta
solo l’ateismo?»
Secondo
la memoria presentata da San Marino l’argomentazione della sentenza «privilegia
un approccio ateo, dato che solo la non esposizione dei simboli sarebbe
considerato rispettoso delle convinzioni dei genitori degli alunni. Solo ciò
che deriva dall’assenza di Dio è rispettoso del pluralismo?».
GRECIA
«Si
lede la democrazia»
«La
democrazia non si può ridurre sempre alla supremazia costante dell’opinione
maggioritaria e la più forte ragione non può riservare alla maggioranza un
trattamento ingiusto. È proprio della democrazia assicurare un equilibrio che
tiene conto del peso qualitativo delle opinioni». Così la memoria greca.
ARMENIA
«Un
simbolo dell’Italia»
«Il
crocifisso – sostiene l’Armenia – è anche un simbolo dei princìpi di
eguaglianza, libertà, e tolleranza e del valore laico della Costituzione
italiana e della vita sociale degli italiani.
Rappresenta
la antica e ricca eredità dello Stato italiano ed è divenuto una parte
importante della sua cultura».
"Obiettivi del Millennio, l'Europa guidi il mondo"
ItaliaCaritas
- giugno 2010
"Raccomandazioni" di Caritas Europa ai leader continentali: per battere la povertà serve un "Piano d'azione", che indichi in sede Onu la strada per centrare gli otto traguardi di sviluppo
Un forte appello. Rivolto ai capi di stato e di governo Ue, che all'inizio di giugno si sono incontrati a Barcellona, nel corso di un vertice chiamato a fare il punto, tra le altre cose, sulle strategie di lotta alla povertà, nel continente e a livello planetario. Caritas Europa, rete che riunisce 44 Caritas nazionali del continente, non ha voluto perdere l'occasione di far sentire la sua voce. E ha elaborato un articolato documento di "Raccomandazioni all'Unione europea", intitolato, senza troppi giri di parole, La Comunità europea può realizzare gli Obiettivi di sviluppo del Millennio. Il vertice spagnolo, infatti, era programmato come passaggio cruciale per definire le posizioni e le decisioni delle istituzioni continentali e dei paesi membri, in vista del vertice delle Nazioni Unite che a New York, nella terza decade di settembre, sarà dedicato allo stato di attuazione degli otto Obiettivi di sviluppo del Millennio (approvati da quasi tutti i paesi del mondo in sede Onu nel 2000, da attuare entro il 2015). Barcellona, insomma, come occasione di coordinamento delle politiche europee in materia di aiuti ai paesi poveri e di cooperazione allo sviluppo: tema tanto più impegnativo, anche dal punto di vista etico, se considerato in relazione al fatto che, nel 2010, stiamo vivendo l'Anno europeo di lotta alla povertà e all'esclusione sociale.
Scandalo,
non interesse
L'esordio delle "Raccomandazioni" Caritas ai leader politici convocati a Barcellona è all'altezza, per eloquenza e drammaticità, delle sfide che il momento pone: "Per la Caritas - asserisce il documento - la povertà è uno scandalo, in tutte le sue forme e in ogni continente; essa è la negazione della più basilare dignità umana". All'annullamento di questo scandalo, per Caritas, conduce anche un calcolo di razionalità politica ed economica: alimentare o tollerare la povertà "non costituisce un interesse, né per i singoli né per le nazioni. Essa è costosa e pone una grave minaccia alla stabilità economica e alla sicurezza globale. La lotta alla povertà non è solo un gesto di carità, è una lotta per i diritti di base. È l'espressione della solidarietà tra la gente, al di là dei continenti, delle generazioni, delle culture.
È
alla base della nostra umanità".
Imperativi
etici intrecciati a interessi globali: Caritas Europa, "in quanto rete
cattolica", afferma di essere "molto sensibile al fatto che gli
Obiettivi di sviluppo del Millennio (Osm) sono molto vicini all'insegnamento
sociale della Chiesa, che sottolinea quanto siano fondamentali i principi di
solidarietà e reciprocità, in un mondo tanto interconnesso". A ogni
livello, da quello internazionale a quelli nazionali, la rete Caritas ha dunque
"sostenuto costantemente e attivamente gli Osm. Le organizzazioni Caritas,
tramite molti partenariati internazionali sul campo, hanno realizzato migliaia
di programmi sociali, umanitari e di sviluppo, in tutti i cinque
continenti".
Introducendosi
sul terreno dell'analisi, Caritas ricorda ai leader europei che "nel 2010
sono già trascorsi due terzi del tempo stabilito, e molto resta da fare"
per centrare gli Osm. "Sono stati fatti progressi, ma con molte differenze
tra il raggiungimento di un Obiettivo e dell'altro, tra gli interventi nei
differenti paesi, e persino tra diverse regioni dello stesso paese".
L’analisi non trascura il fatto che oggi, a differenza di quando gli Obiettivi
furono fissati, “il mondo, Europa inclusa, soffre delle conseguenze di una
grave crisi economica globale”.
Ma
l’Europa non può sottrarsi alle responsabilità che le derivano dal fatto di
essere un partner privilegiato, a diversi livelli, dei paesi poveri: “La Ue
(…) provvede il 60%” del complesso degli aiuti allo sviluppo che si
stanziano a livello planetario, e costituisce “un partner commerciale
importante dei paesi in via di sviluppo”. Dunque, scrive Caritas Europa,
"ci preoccupa che il contesto della nuova crisi possa influire sugli
impegni presi dalla Ue riguardo agli Osm, e sui preventivi" di aiuto
all'estero. Il 2010, Anno europeo della lotta alla povertà e all'esclusione
sociale, "è anche l'anno in cui la Ue adotterà la sua nuova strategia
economica decennale Europa 2020": proprio per questo, è il "momento
ideale" perché l'Unione e gli stati membri intraprendano "azioni
decisive per gli Osm".
Urgenza
e responsabilità
La
rete Caritas intende dunque fare pressione sulla Ue, e su altri partecipanti
influenti al Summit Onu, perché "agiscano con senso di urgenza e più che
mai con un senso di responsabilità", accelerando "gli sforzi per
realizzare gli Osm" e insistendo sulla "integralità del quadro degli
Osm. Data la forte interconnessione tra i diversi Obiettivi, si può arrivare al
successo soltanto se tutti essi, non uno o due soli, possono essere
raggiunti".
Per
arrivare a tanto, Caritas Europa non ha dubbi: si deve "fare molto di più"
di quanto fatto, dedicando tra l'altro "più sforzi a raggiungere i più
poveri e marginalizzati, in particolare donne, bambini e migranti, con approcci
partecipatori". Sul piano del metodo, infatti, "la partecipazione
sociale è veramente il modo migliore per combattere e prevenire la povertà".
Inoltre Caritas Europa "sottolinea specialmente la necessità di
investimenti a lungo termine, che proteggano e rafforzino la famiglia, come
pilastro essenziale per il benessere sociale e la solidarietà".
Secondo Caritas, all'incontro Onu di settembre occorre adottare un "Piano di azione che definisca obiettivi chiari e tempi che facciano seguito agli impegni", e mettere a punto meccanismo di verifica trasparente" Per poter ottenere tanto, la Ue deve adottare, a Barcellona,“una strategia omnicomprensiva riguardo agli Osm, orientata verso l’azione e con previsioni di spesa pienamente fissate(…). La strategia Ue deve avere l’ambizione di motivare i leader mondiali a impegnarsi fermamente verso un adeguato piano di azione pro-poveri”. Da ultimo, prima di avanzare alla Ue “raccomandazio-ni specifiche” molto articolate per ciascuno degli otto Obiettivi, un ragionamento sugli aiuti e la loro destinazio-ne: secondo Caritas, “la cooperazione e gli aiuti Ue dovrebbero essere destinati molto meglio”, raggiungendo prioritariamente “i gruppi più poveri e vulnerabili e le regioni in cui essi risiedono”. In questa prospettiva, è “necessario un maggior numero di progetti di cooperazione, a finanziamento Ue, a sostegno delle popolazioni rurali e dei piccoli agricoltori”, ed è urgente che istituzioni e stati europei “accrescano la loro capacità di gestire un dialogo sostenuto tra i molti attori, e anche di formare la capacità, negli altri attori, di essere efficaci in tale dialogo.
I
taleban: non negozieremo, stiamo vincendo noi di Marina Forti
Il
Manifesto - 2 luglio 2010
Il
generale Petraeus alla Nato: proteggerò i nostri soldati
Il
generale David Petraeus, appena confermato dal Senato degli Stati Uniti come
nuovo comandante delle forze Usa e di quelle occidentali in Afghanistan, ieri ha
ricevuto gli auspici delle due sponde opposte: quelli della Nato e quelli dei
Taleban. Da un lato il «pieno sostegno» dei 28 paesi membri della Nato -
ovvio, anche se c'è qualche malumore tra gli alleati atlantici di Washington
per non essere stati neppure consultati sull'avvicendamento al comando.
Dall'altro un messaggio di sfida, espresso in un'intervista ieri alla Bbc: i
Taleban si sentono forti sul terreno e non negozieranno.
In
visita al comando generale della Nato a Bruxelles, Petraeus ha illustrato le
linee generali della sua strategia, come il giorno prima al Senato di Washington
durante l'audizione di conferma del suo incarico. Ha ribadito l'obiettivo di
fondo - combattere la ribellione, eliminare al Qaeda, garantire che le forze di
sicurezza afghane siano capaci di prendere la responsabilità del proprio paese.
Né cambia la strategia della «controinsorgenza» inaugurata dal suo
predecessore Stanley McChrystal - anche perché l'autore di quella strategia è
proprio lui, David Petraeus, accreditato di averla applicata con un certo
successo in Iraq.
Gran
parte del discorso di Petraeus a Bruxelles ha riguardato piuttosto le regole di
ingaggio: se e come rivedere le restrizioni all'uso della forza aerea a
copertura delle truppe sul terreno. Queste restrizioni sono state emanate per
limitare le vittime civili - i numerosi casi di raid aerei che hanno fatto
stragi di afghani. Ma quelle restrizioni hanno «messo in pericolo le vite degli
americani», rinfacciano i critici (era questa una delle critiche attribuite
all'entourage di McChrystal nel famoso articolo del magazine Rolling Stones che
gli è costato la posizione). Che la guerra sia diventata più sanguinosa per le
forze Nato è indubbio: oltre 320 soldati morti quest'anno di cui 102 nel mese
di giugno, il più letale in 9 anni di guerra afghana.
Al
senato americano Petraeus aveva dunque detto che quelle restrizioni saranno «riesaminate».
A Bruxelles ha precisato: le regole di ingaggio non cambiano, ma il modo di
applicarle sarà riconsiderato, «ci sono preoccupazioni nei ranghi delle nostre
truppe sul terreno che alcuni dei processi stanno diventando un po' troppo
burocratici», ha detto. «Ho l'imperativo morale, come comandante, ... di usare
tutte le forze disponibili» per salvaguardare le nostre truppe «e gli alleati
afghani». Ma «ridurre al minimo le morti tra i civili» resta «un imperativo
di controinsorgenza».
Per
il resto, lo stesso Petraeus ha dichiarato che non bisogna aspettarsi svolte
positive a breve termine. I fatti sono evidenti: l'offensiva a Kandahar da tempo
annunciata, che doveva dare una svolta decisiva alla guerra a favore della Nato,
è continuamente rinviata - forse sospesa. E' cominciata invece una nuova
offensiva nei distretti di Marjah, in Helmand, che due mesi fa erano stati dati
per riconquistati - ma dove invece resta forte la presenza dei ribelli.
Sono
segnali di difficoltà che i Taleban sottolineano nella propria propaganda. O
nell'intervista alla Bbc - intervista indiretta, perché si tratta delle
risposte di Zabiullah Mujahid, il portavoce riconosciuto della leadership
Taleban, fatte avere all'emittente britannica tramite un intermediario. «Non
vogliamo parlare con nessuno, né non Karzai, né con gli stranieri, finché le
forze straniere se ne andranno dall'afghanistan», dice. «Noi siamo certi che
stiamo vincendo. Perché dovremmo parlare, se abbiamo la meglio e le truppe
straniere stanno pensando come ritirarsi, e ci sono divergenze nei ranghi dei
nostri nemici?». Le parole del portavoce non vanno prese alla lettera - altri
segnali nell'ultimo anno alludevano invece alla volontà di negoziare. Ma il
segnale al nuovo comandante è chiaro.
Rinascere
dalla debolezza di p. Silvano Zaccarato
Missionari del Pime - luglio/agosto 2010
La
Chiesa vive un momento di debolezza. Ci sentiamo tutti coinvolti e ne
portiamo il peso. Padre Silvano, dalla sua missione in Algeria, riflette
sul bene che ne può nascere. La
parola si fa più sommessa, la forza della verità più discreta, il
silenzio… medicina. Nel cuore cresce il lamento, la preghiera. Ma
l’animo si fa più forte, la voglia di migliorare c’è ancora.
L’appartenenza è più convinta, diventa fierezza anche se meno
visibile. Christian Chessel, giovane Padre Bianco ucciso a Tizi Ouzu assieme a tre confratelli, aveva scritto: «La debolezza non è in sé una virtù, ma l’espressione di una realtà fondamentale del nostro essere che deve essere ripresa, rimessa al suo posto, animata dalla fede, dalla speranza e dalla carità per lasciarci conformare alla debolezza di Cristo. Questa
debolezza ben compresa diventa il linguaggio migliore per esprimere
l’amore discreto di Dio agli uomini, amore pieno di discernimento,
discreto come quello di chi ha voluto condividere la nostra situazione
umana. Diventa un invito a creare delle relazioni di non-potenza con gli
altri. Accettata la mia debolezza, capisco quella degli altri e a
condividerla come ha fatto Gesù». |
Il
Papa nel suo messaggio pasquale ha detto: «L’umanità sta vivendo una crisi
profonda. Anche ai nostri giorni l’umanità ha bisogno della salvezza del
Vangelo - afferma - per uscire da una crisi che è profonda e come tale richiede
cambiamenti profondi, a partire dalle coscienze». C’è bisogno, ha spiegato,
«di un esodo, non di aggiustamenti superficiali, ma di una conversione
spirituale e morale».
È
la Chiesa che sta vivendo la sua crescita e lo sviluppo delle sue note: una,
santa, cattolica, apostolica. Bisogno di purezza, di santità, di cattolicità
aperta. Sta rinascendo e sarà nuova, più bella. Anche in Algeria.
Vorrei
ridire il pensiero del vescovo emerito di Algeri, monsignor Tessier, che ha
vissuto la sua vita credendo nella venuta del Regno di Dio e nel lavoro dello
Spirito Santo anche in Algeria. Scrive: «Quando comunichiamo insieme negli
stessi valori, noi prepariamo l’avvenire della Chiesa. L’avvenire della
Chiesa sarà un dono di Dio. Tale avvenire non è il frutto di tattiche per
cercare protettori per la Chiesa. Ciò può permettere di attraversare qualche
difficoltà, ma non costruisce l’avvenire. Questo nasce quando i nostri amici
ci riconoscono interessati insieme con loro su dei valori che fanno crescere
l’uomo e la comunità umana. Per i credenti questi valori sono accolti come
dono di Dio. Un’amica algerina della Chiesa a Orano dice: “La presenza dei
cristiani, il loro sacrificio, il dono di sé, la loro opera sono un conforto
per chi a volte è scoraggiato. Con questo esempio vivente di Dio, noi
riprendiamo fiducia. La Chiesa in Algeria ci dà l’occasione di imparare a
lottare perché l’umanità cresca nella giustizia, nella verità, nella libertà,
nella solidarietà e nella fraternità”». E il vescovo continua: «Così si
forma una Chiesa nuova non di soli cristiani ma anche di non cristiani che
vivono con i cristiani la propria fedeltà a Dio e alla coscienza. Noi crediamo
alla nostra responsabilità nella nascita di un avvenire per la Chiesa».
"Modello"
di convivenza per i Paesi musulmani moderni
AsiaNews - Baku - 2 luglio 2010
Dopo
la visita ufficiale di mons. Ravasi a Baku, un membro della delegazione vaticana
racconta la situazione della Chiesa nell'ex Stato sovietico: dopo la
persecuzione delle religioni, ora il clima è di sostegno e rispetto. Piccola,
ma attiva la comunità cattolica. L'esempio delle suore di Madre Teresa.
Un
Paese a maggioranza musulmana, ma "attento a mantenersi laico e rispettoso
delle minoranze", e dove la piccola comunità cattolica riesce a dare il
suo contributo alla società. "Un esempio di come potrebbe essere una
nazione islamica moderna". Così p. Theodore Mascarenhas - responsabile per
l'Asia, l'Africa e l'Oceania presso il Pontificio consiglio per la cultura -
descrive l'Azerbaijan. Qui il sacerdote si è recato in visita ufficiale (dal 14
al 18 giugno), al seguito del presidente del consiglio vaticano, mons.
Gianfranco Ravasi, invitato dallo stesso ministro della Cultura e del Turismo,
Abulfas Garayev.
Parlando
ad AsiaNews, p. Mascarenhas racconta della situazione della Chiesa cattolica
nell'ex Stato satellite sovietico. A Baku i fedeli sono appena 450 e nel 2000 il
Vaticano vi ha istituito una missio sui iuris. "L'originale chiesa
dell'Immacolata Concezione, nella capitale, era stata distrutta per ordine del
governo sovietico nel 1931 - spiega il sacerdote - quella nuova è nata su un
appezzamento di terreno concesso dal governo locale e consacrata nel 2006 dal
nunzio mons. Claudio Guggerotti". Una storia di persecuzione che, in queste
terre, accomuna cristiani e musulmani. Durante la visita della delegazione
vaticana, un rappresentante dell'Ufficio dei musulmani caucasici ha guidato gli
ospiti cattolici alla moschea Bibi Heybat, contente le tombe di alcuni dei
discendenti di Maometto, e anche questa costretta alla chiusura sotto l'Unione
Sovietica.
Nonostante
ancora stia risolvendo con lo Stato la questione della sua registrazione (la
nuova legge sulle religione, approvata nel 2009, impone una nuova registrazione
per tutte le comunità, ma i requisiti richiesti contraddicono la legge
canonica; per questo Vaticano e governo stanno trattando per trovare una
soluzione alternativa, ndr) la Chiesa cattolica gode del sostegno delle autorità,
"impegnate non semplicemente a tollerare, ma a sostenere le minoranze
etniche (circa 70) e religiose", spiega p. Mascarenhas. "Anche se i
cattolici sono una minuscola minoranza - continua il sacerdote - provano in
tutti i modi a contribuire allo sviluppo del loro Paese". Un esempio in
questo senso arriva dalle suore di Madre Teresa, "simbolo dell'apertura del
governo al lavoro della Chiesa e anche dell'impatto che l'amore cristiano può
avere su una società musulmana". A Baku sono cinque le suore di Madre
Teresa, di cui quattro indiane e una filippina. La loro casa ospita al massimo
14 persone e la maggior parte di queste, di solito, è musulmana.
Alla
fine della visita, secondo la testimonianza di p. Mascarenhas, quello che emerge
è "un Paese impegnato a realizzare un modello di società multiculturale e
di armonia interreligiosa, un vero ponte tra Oriente e Occidente, un esempio a
cui potrebbero guardare anche altre nazioni musulmane per dirsi veramente
moderne". (NC)
Schegge di Bengala - 60 (seconda parte) di p. Franco Cagnasso
Dhaka - 7 luglio 2010
Infermiere
Come ogni anno in luglio, le infermiere cattoliche del Bangladesh si sono riunite per tre giorni nel seminario – vuoto a causa delle vacanze – per la loro assemblea. Quest’anno erano più di sessanta, in rappresentanza di un numero molto più alto di donne di ogni età che si dedicano a questa professione. In una società che ancora offre poche prospettive a quelle che non si sposano giovanissime o non si fanno religiose, fra le ragazze cristiane la professione di infermiera è popolare. Sono percentualmente molto più numerose delle musulmane e sono molto stimate. Nelle cliniche private le cercano, nelle pubbliche trovano posto, ma in queste ultime la loro condizione di minoranza si fa sentire: salvo pochissime eccezioni, niente posti di prestigio o di responsabilità.
Elettricità
Traballanti, brutti, lenti, si stanno rapidamente diffondendo in alcune zone rurali i taxi-triciclo elettrici, fabbricati in Cina o in India. Sono silenziosi e non fumano...
Lutto
“La coppa del mondo in Bangladesh è finita”. Così titola un giornale il giorno dopo la sconfitta dell’Argentina, che ha fatto uscire fiumi di parole e versare fiumi di lacrime. Considerando il numero di abitanti del Bangladesh, e quelli dell’Argentina, credo proprio che la loro nazionale abbia più sostenitori qui che in patria. Brucia un po’ sapere che un giornalista, comunicando ad un gruppo di Argentini la curiosità di un tifo appassionato in un paese lontano, abbia chiesto loro: “Sapete dove si trova il Bangladesh?”. Nessuno lo sapeva.- D’altra parte, anche fra i Bengalesi nessuno sa dove sia l’Argentina.- Un caso interessante per una ricerca sulla psicologia di massa...
Premio di solidarietà a padre Adolfo
Mola di Formia - 23 luglio 2010
L'associazione musicale-culturale "Mola" di Formia, nell'ambito delle attività "Mola in Festa" ha assegnato, il 23 luglio 2010, il premio di solidarietà 2010 a p. Adolfo l'Imperio per la sua attività in Bangladesh, in particolare nel campo dell'educazione dei bambini. I 1000 euro attribuiti sono il risultato di un torneo di Burraco svolto il giorno precedente. |
A ricevere il premio erano tre amici di p. Adolfo: Bruno, Tommaso e Salvatore che hanno anche spiegato le varie attività di p. Adolfo in questi 40 anni di vita bengalese.
Dhanjuri, 13 Luglio 2010 |
Mi perdonerete innanzitutto che non sarò tra voi dal 17 al 24 Luglio alla pinetina Ginillat di Mola di Formia. E' uno dei luoghi dove da giovane sognavo campetti da gioco per i ragazzi e giovani di Mola di Formia, che ne erano sprovvisti. Non conosco il gioco del Burraco e non potrei partecipare al torneo (e fare una figuraccia ???) ** Vi propongo di dare il premio ai bambine/i delle scuole italiane che con i loro piccoli risparmi esprimono la loro solidarietà verso i bambini/e del Bangladesh. |
In Italia vi sono circa 74.000 Bangladeshi (stima Caritas) per lavoro nella speranza di un futuro migliore, e tanti sono quelli che sognano di poter andare fuori del proprio paese verso paesi ......di sogno.
** Inoltre il premio andrebbe agli educatori di ambi i paesi che sono impegnati a aprire le menti giovani verso orizzonti di impegno di vita e di speranza per vincere dove troppe volte si predica la vita facile, la violenza, il ricatto, la discriminazione.
All'Amico Bruno chiedo di farsi carico dell'impegno per la mia non presenza e dirvi:
1. Grazie perché con questo gesto date importanza all'impegno che occorre avere per sostenere l'istruzione delle nuove generazioni. Non e' solo istruzione scolastica ma "educare" a scoprire le proprie doti e proprie qualità da mettere al servizio della società del domani. Mi insegnate che "educere" dal latino ha il significato di "far nascere dall'interno" o "tirar fuori". E' quello che intendiamo portare avanti a Dhanjuri, o a Kudbir, e come è stato fatto prima a Dinajpur o Dhaka.
2. Grazie perché date importanza a due aspetti necessari nella vita dei giovani : la musica ed il gioco, aspetti presenti in tutte le culture che vanno valorizzate e sviluppate verso nuovi orizzonti. In Bangladesh la musica ha una grande importanza nella vita di ogni giorno. Basta pensare che il gruppo Santal ha circa quattromila canti legati ai vari momenti della vita sociale. P.Sozzi (In Bangladesh dal 1927 al 1977) anni fa' mi diceva che lui andava, con il mandolino nei villaggi o mercati, a "cantare" il Vangelo usando la musica Santal.
3. Grazie per il ricordo che avete suscitato in me di luoghi e persone che hanno influito nel superare con altri giovani
(come Franco, Fabio, Luigi, Tonino, Rosaria, Marina, Salvatore, Tommaso, Gino, Romano, Benedetto, Isabella, Vincenzo, Gianni, Angela, Bruno, Luisa, Vittorio, Erasmo, Stella, Liberato, Rosario, don Mario, don Ettore, don Carmine don Gianni e tanti
altri) le mentalità campanalistiche dei nostri tempi e formarci ad una amicizia vera per la vita.
Tutto questo è stato un grande premio.
Il vostro essermi vicino e' una spinta a continuare. Vi accompagna in questi giorni della festa di Mola il mio pensiero e la preghiera a Gesù Crocifisso che si trova nella cappella del Santuario della Montagna Spaccata
" Signore Gesù, che hai versato il tuo Sangue prezioso per tutti gli uomini, fa che non manchino mai operai nella vigna del Padre. (
amici impegnati a costruire una società globale solidale)
Veglia sull'anima dei giovani e sul cuore del bambini. Aiutaci a superare le grandi minacce morali e sociali che colpiscono la vita e l'amore sulla
terra.(operando per una società dove ogni persona sia accolta, rispettata ed amata )
Rendici disponibili alla salvezza dei nostri fratelli e sorelle, e facci comprendere che tutti possiamo offrire qualcosa : un pane, un sorriso, una preghiera, perché si compia nel mondo il disegno di Dio e la salvezza della persona. Amen (disegno fondato sul Suo Amore Eterno e salvezza che si concretizza nella scoperta giornaliera del "prossimo" evangelico)
Di nuovo Grazie di cuore.
Fr.Adolfo L'Imperio
Morire
d'arsenico di Stefano Vecchia
Avvenire
- 4 luglio 2010
Un
decesso su cinque è determinato dal veleno nei pozzi
Un
quinto delle morti in Bangladesh sarebbero collegate alla contaminazione da
arsenico delle acque, mentre circa la metà dei circa 150 milioni di bangladeshi
sono esposti abitualmente alla minaccia di questa sostanza e altri in modo
occasionale. L'articolo ( Arsenic exposure from drinking water, and all-cause
and chronic-disease mortalities in Bangladesh, HEALS: a prospective cohort
study) pubblicato il 19 giugno dalla versione online della rivista
internazionale di medicina 'The Lancet', ha aperto uno scenario da incubo, non
unico ma forse il peggiore al mondo per quanto riguarda le conseguenze dell'uso
indiscriminato di una sostanza come l'arsenico e le difficoltà di attuare
politiche di contenimento di pericoli conclamati o potenziali davanti alle
necessità della popolazione. I ricercatori hanno seguito per dieci anni un
campione di quasi 12mila persone e monitorato per lo stesso periodo 6.000 pozzi
comunemente usati dalla popolazione. I risultati hanno confermato le previsioni
dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che un decennio fa aveva
previsto "un grave aumento nel numero delle patologie collegate
all'arsenico se la popolazione continuerà ad utilizzare acqua contaminata
".
Un
allarme lanciato da tempo, quindi. La stessa rivista aveva pubblicato nel 2001 i
dati di un altro rapporto a cura dell'Università delle Nazioni Unite ( Arsenic
crisis today, strategy for tomorrow, i cui dati erano poco meno drammatici, ma
mancavano del sostegno di un monitorag- gio costante sulla popolazione). Un
problema che, seppure coinvolge drammaticamente il Bangladesh, non esclude altri
paesi, una settantina con in testa Thailandia, Cina e Stati Uniti.
Complessivamente almeno 140 milioni di esseri umani a rischio o già condannati:
una situazione che, secondo Joseph Graziano della Columbia University, che ha
guidato la ricerca i cui risultati sono stati pubblicati su 'The Lancet' insieme
a Habibul Ahsan ricercatore dell'Università di Chicago e docente alla stessa
Columbia, "richiede chiaramente una risposta globale, perché la situazione
va ben oltre i confini del Bangladesh ". Le coordinate di quello che l'Oms
considera "il più grande avvelenamento di massa nella storia di una
popolazione" sono tracciate chiaramente nel servizio di 'The Lancet'. La
popolazione del Bangladesh è da decenni esposta a dosi pari a 10 microgrammi
per litro, sufficienti a provocare direttamente il 21% delle morti e
indirettamente il 24% di quelle attribuite a malattie croniche, come quelle
cardiovascolari. I tumori più frequenti associati al consumo di arsenico
colpiscono fegato, cistifellea e pelle. Come si sia arrivati a questa situazione
è evidenziato chiaramente nello studio.
Paradossalmente,
questa situazione gravissima è anche risultato dello sforzo del governo e delle
agenzie per il sostegno allo sviluppo a partire dagli anni '70. Nel tentativo di
ridurre le malattie collegate all'acqua non potabile, come colera e dissenteria,
si sono costruiti almeno 10 milioni di pozzi. Questi - come sottolinea ancora il
professor Graziano - se hanno ridotto la capacità di azione dei microbi che
provocano patologie anche mortali, hanno però consentito la concentrazione
nell'acqua dell'arsenico, un materiale metallico che si trova in natura nel
sottosuolo del paese.
Un
rimedio è costruire pozzi più profondi, oltre i 10 metri nel sottosuolo, una
pratica avviata negli anni recenti ma che finora beneficiano, secondo gli
esperti della Columbia University, soltanto 100mila persone.
In
un drammatico tentativo di conciliare le necessità primarie della popolazione e
l'impossibilità di utilizzare risorse adeguate in un paese che resta al fondo
dello sviluppo asiatico, con una popolazione al 36 per cento sotto la soglia di
povertà, ancora due anni fa il governo di Dhaka aveva proclamato il suo
obiettivo di liberare l'acqua potabile dall'arsenico entro il 2013.
"Un'acqua sicura da bere è uno dei problemi maggiori del Bangladesh -
aveva dichiarato allora durante una conferenza scientifica il ministro delle
Finanze Abul Maal Abdul Muhit. - Dobbiamo usare più prodotti chimici per
maggiori produzioni agricole al fine di nutrire una popolazione crescente. I
prodotti chimici contaminano le falde idriche, come pure l'arsenico. A questo
fine - aveva concluso Muhit - in anni recenti il nostro governo ha promosso una
ricerca scientifica mirata a risolvere il problema e ha reso disponibili
maggiori risorse finanziarie ". Oggi, a maggior ragione mentre il paese è
nella morsa della crisi economica che sta soprattutto devastando le sue
esportazioni tessili, la maggior parte della sua popolazione - si stima il 70
per cento - continua a bere acqua all'arsenico.
I
dati Oms
20
milioni di abitanti attingono a fonti fortemente inquinate
Per
un trentennio simbolo evidente di un qualche miglioramento della vita della
popolazione, soprattutto rurale, almeno il 20 per cento dei cinque milioni di
pozzi testati dal 2000 (la metà di quelli censiti nel paese) sono risultati
contaminati oltre la soglia di tolleranza. Una beffa, se si tiene conto che
furono scavati e dotati di pompe a mano per garantire acqua potabile. Un dramma,
anche secondo gli standard di un paese che ha posto un limite cinque volte
superiore a quello approvato dall’Oms alla presenza di arsenico nell’acqua:
0,05 microgrammi per litro contro 0,01; ovvero 50 parti su un miliardo contro 10
parti.
Si
stima che oggi sono almeno 20 milioni gli abitanti che si riforniscono d’acqua
da fonti che superano anche la soglia legale.
Uno
studio del British Geological Survey indicava nel 2001 che erano 28-35 milioni
gli abitanti esposti a contaminazione superiore alla norma stabilita localmente
e 46-57 milioni in 60 dei 64 distretti del paese quelli che utilizzavano
comunemente acqua inquinata oltre lo standard internazionale. (S.V.)
La
ricerca
Araihazar,
dopo anni di monitoraggio una dura sentenza
Al
centro degli studi, il cui risultato è stato pubblicato su 'The Lancet', sono
le ricerche condotte sul campo da diversi studiosi statunitensi e bangladeshi
nel villaggio di Araihazar, situato in un’area rurale non lontano dalla
capitale Dhaka. Qui, tra case con muri di fango e di cemento con tetti in
lamiera o paglia, in un’area non particolarmente povera per gli standard del
paese ma soggetta a periodiche inondazioni e alluvioni che inevitabilmente
finiscono per inquinare le falde superficiali, sono stati condotti studi
importanti per determinare le tipologie di intossicazione e compararle con le
cause dei decessi della popolazione.
Con
un continuo monitoraggio dei 51 pozzi da cui gli abitanti attingono l’acqua
d’uso quotidiano. 11.746 abitanti tra 18 e 75 anni d’età sono stati
registrati tra il 2001 e il 2002 e a verificarne le condizioni di salute, con
controlli a cadenza biennale, medici all’oscuro delle condizioni di
inquinamento da arsenico. I dati raccolti sono stati elaborati nel 2009.
Risultato: all’esposizione all’arsenico attraverso l’acqua prelevata dai
pozzi inquinati ha corrisposto un accresciuto tasso di mortalità, come
dimostrerebbero i 407 decessi registrati nel periodo delle rilevazioni. Nei 400
bambini presi in esame, tutti in età scolare, il livello di apprendimento è
risultato inferiore ai parametri internazionali adattati alle condizioni locali.
(S.V.)
Il
bilancio
Decine
di migliaia di morti per tumore
La
contaminazione da arsenico per cause naturali fu individuata in Bangladesh nel
1993 e attribuita perlopiù ai materiali depositati nel tempo lungo le rive e
alla foce dall’ampio sistema fluviale. Un risultato diretto
dell’avvelenamento da arsenico in Bangladesh, suggerito anche nello studio di
'The Lancet', sono decine di migliaia di morti per tumore.
Secondo
l’Oms, una prolungata ingestione di arsenico, seppure diluito nell’acqua, ha
come risultato gravi problemi cutanei, cancro della pelle, cancro della
cistifellea, del fegato e dei polmoni; patologia vascolari nelle gambe e nei
piedi. Altri problemi possono essere diabete, alta pressione sanguigna e
problemi riproduttivi.
Da
tempo i centri sanitari governativi a livello di sotto-distretto sono incaricati
di distribuire capsule di antiossidanti e vitamine in cicli di 30 giorni a chi
presenta sintomi di intossicazione e prodotti dermatologici a chi ha mostra
ulcere.
«Cause
note e naturali. L’errore? Abusare delle falde»
Souparno
Banerjee è il coordinatore delle attività di formazione del Centro per la
scienza e l’ambiente (Cse) di Delhi, istituzione che in India promuove
coscienza ecologica associata alle necessità dello sviluppo.
Quali
sono le ragioni della grave situazione del Bangladesh?
Gli
studiosi che si occupano dell’inquinamento da arsenico in Bangladesh e nelle
aree confinanti dell’India orientale, concordano sulle cause naturali.
L’arsenico è arrivato con i depositi alluvionali dei grandi fiumi che
attraversano la regione e le concentrazioni maggiori si registrano dove le
correnti sono più lente, nelle aree deltizie congiunte del Gange e del
Brahmaputra, che sono anche le più popolate. Una questione diversa è capire
come questo arsenico arrivi alle falde nel sottosuolo. Una teoria sostiene che,
come nel caso del fluoro, è la sempre maggiore e sempre più profonda
estrazione di acqua dal sottosuolo a spiegare la presenza di questa sostanza.
Come
un problema di tali proporzioni è potuto restare nascosto per anni?
Non
è stato nascosto! I media nazionali e regionali, la popolazione e le
pubbliche autorità lo conoscono da tempo e sono stati anche intrapresi sforzi
per comprendere la natura e le ragioni della contaminazione, per contrastarla.
Si sono anche iniziate ad applicare metodologie di intervento. Nuovi sono i
dati scientifici che definiscono meglio una situazione sotto gli occhi di
tutti.
Quello
del Bangladesh è un caso eccezionale oppure tipico di tanti paesi in via di
sviluppo?
Non
si può dire che sia un caso eccezionale. L’India, ad esempio, ha vaste aree
inquinate da arsenico. Lo Stato del Bangala occidentale, che confina con il
Bangladesh, è il caso più noto, ma i nostri ricercatori hanno trovato
contaminazione di questa sostanza persino in aree impensate e distanti, come il
distretto di Balia nello Stato di Uttar Pradesh. Certamente è un problema che
riguarda l’uso, o l’abuso, delle risorse idriche. Oggi noi beviamo acqua
contaminata da arsenico perché abbiamo inquinato tutti i nostri corsi d’acqua
a un punto tale che la popolazione è costretta a dipendere eccessivamente dalle
falde sotterranee. Un controllo efficace e migliori sistemi di filtrazione,
associati all’introduzione di tecnologie di disinquinamento disponibili in
loco, possono essere la soluzione immediata. Più a lungo termine si
dovrebbero esplorare fonti alternative e metodi come bacini di raccolta
delle acque piovane.
Possiamo
dire che quello che conosciamo del caso del Bangladesh dovrebbe essere un
campanello d’allarme per altri paesi?
Posso
citare il caso del mio paese, l’India, che ha visto e vede diverse forme di
inquinamento idrico. Molte delle sue fonti superficiali (fiumi, laghi e bacini
di varie dimensioni) sono grandemente inquinate degli scarichi domestici e
industriali. I due casi più eclatanti sono quelli dei fiumi Gange e Yamuna. Tra
il 2003 e il 2006, i ricercatori del Cse hanno aperto gli occhi del paese sulla
contaminazione dai residui di pesticidi. Abbiamo trovato miscele di pesticidi
letali in bevande analcoliche vendute in aree diverse e sempre in aree diverse
è stata riscontrata la contaminazione dell’acqua da arsenico, fluoro e
metalli pesanti. Investire nei sistemi di acque superficiali, ricaricare i
sistemi sotterranei, ricostruire le reti di distribuzione gestite dalle comunità
e, soprattutto, creare leggi che proteggano e conservino una risorsa tanto
preziosa... Stiamo parlando di una necessità primaria per il paese, non di
un’opzione.
200
arresti durante un corteo di protesta contro il governo di William
Gomes
AsiaNews - Dhaka - 28 giugno 2010
La
manifestazione è avvenuta ieri in occasione dello sciopero di 24 ore indetto
dal Bnp contro il malgoverno del primo ministro Sheikh Hasina. Si tratta del
primo sciopero dal 2007. Tra i fermati anche l'ex ministro degli esteri.
La
polizia ha arrestato ieri circa 200 persone durante una manifestazione a Dhaka
"per avere violato il divieto di organizzare cortei in strade molto
trafficate". Tra i fermati, ha rivelato il capo della polizia Tapan Kumar
Ghosh, ci sono numerosi membri del Bangladesh national party (Bnp) come Shamsher
Mobin Chowdhury, ex ministro degli esteri. Il corteo è stato organizzato in
occasione dello sciopero nazionale di 24 ore indetto dal Bnp per protestare
contro la cattiva amministrazione del Paese da parte della Awami league (Al),
dal 2009 al governo. Quello di ieri è stato il primo sciopero dal 2007 e ha
provocato la chiusura di negozi, scuole, mercati oltre ad un parziale blocco dei
mezzi pubblici.
Soddisfatto
della partecipazione popolare, il segretario generale del Bnp Khandaker Delwar
Hossain ha dichiarato ad AsiaNews che lo sciopero è stato organizzato per fare
pressione sul governo contro "la persecuzione dei leader dell'opposizione e
dei lavoratori, contro l'interferenza del governo nel sistema giudiziario e
contro la politicizzazione dell'amministrazione".
Il
primo ministro Sheikh Hasina, leader dell'Al ha condannato l'iniziativa,
dichiarando che "il Bnp cerca di ostacolare la democrazia e di incitare
all'anarchia".
Leader
islamici accusati di blasfemia: proteste e più di 100 arresti di
Wlliam Gomes
AsiaNews - Dhaka - 1 luglio 2010
Le
manifestazioni scatenate dall'arresto dei tre capi del partito Jamaat-e-Islami,
accusati di offese a Maometto. Secondo il vicesegretario generale è "una
cospirazione politica contro l'islam e i musulmani". Islam abusato per
scopi politici.
Più
di cento attivisti di Jamaat-e-Islami (Jel) sono stati arrestati ieri durante
manifestazioni avvenute in tutto il Paese, in seguito ad accuse di blasfemia
rivolte ai leader del loro partito.
Il
Jel è un partito integralista islamico all'opposizione che mira a conformare
"ogni attività umana" agli insegnamenti rivelati da Allah a Maometto.
Eppure, tre loro leader - Matiur Rahman Nizami (nella foto), Ali Ahsan Mohammad
Mojaheed e Nayebe Ameer Delwar Hossain Sayeede - sono stati accusati di
blasfemia e arrestati il 29 giugno scorso.
Le
accuse risalgono al 17 marzo quando in un incontro pubblico Matiur Rahman Nizami
ha paragonato le sue sofferenze politiche a quelle del profeta Maometto. Il
leader di Jel sostiene di essere perseguitato dall'Awami league, partito al
governo dal 2009. L'accusa di blasfemia nei suoi confronti è arrivata da
Mohammed Syed Rezaul Haque Chandpuri, segretario generale del Bangladesh Tariqat
Federation, che fa parte dell'alleanza di governo. Osservatori fanno notare che
gli schieramenti agitano il vessillo dell'islam, ma le loro intenzioni sembrano
essere più politiche che religiose.
Matiur
Rahman Nizami, insieme agli altri due massimi esponenti di Jel, si sono
ripetutamente rifiutati di presentarsi davanti alla Dhaka metropolitan court e
per questo sono stati arrestati. Mohammed Qamaruzzaman, vicesegretario generale
del partito, ha parlato di "cospirazione contro l'islam e i
musulmani": "Si tratta di un gioco politico, un caso falso costruito
ad arte per eliminare l'islam dal Paese".
I
tre leader arrestati resteranno in prigione per 16 giorni per rispondere alle
domande degli investigatori.
Missione
in... ufficio di Isabella Mastroleo
Missionari del Pime - giugno/luglio/agosto 2010
Gestire
una missione in un Paese straniero significa anche sbrigare pratiche
burocratiche, compilare documenti, rinnovare passaporti... Un lavoro
"nascosto", ma di non poca importanza per chi si trova in prima linea.
Nota. Da tempo volevo scrivere qualcosa sull'amico padre Carlo. Da vari anni è infatti il primo amico che vedo, quando arrivo a Dhaka dopo mezza giornata di aereo e, un mese e mezzo, dopo, l'ultimo amico "bengalese" prima di ripartire. Isabella mi ha preceduto, ma colgo l'occasione per ringraziare Carlo anche a nome di tutti coloro che visitano il Bangladesh per tutti i problemi, piccoli e grandi (da un visto sul passaporto ad un biglietto aereo, dall'organizzazione di un pulmino all' acquisto di qualcosa che non saremmo da soli in grado di trovare etc etc..), di cui si fa quotidianamente carico per tutti noi! Ancora grazie, Carlo.
Bruno
"Intervistare
me? Perché? Non faccio niente d'interessante, solo lavoro
d'ufficio...". Così padre Carlo Dotti, 64 anni, si schermisce alla richiesta di rilasciare un'intervista per Missionari del Pime. In Bangladesh da 36 anni, padre Dotti è attualmente rettore e procuratore della casa del Pime di Dhaka, capitale del Bangladesh, città che conta oggi circa 15 milioni di abitanti. Il "lavoro d'ufficio" di cui parla consiste nello sbrigare varie pratiche con le banche o altri uffici, per il rilascio di visti, l'acquisto di biglietti aerei o altri grattacapi burocratici che i missionari del Pime che operano in Bangladesh si trovano a dover affrontare. Si
tratta forse di un lavoro nascosto, non in "prima linea", ma
certamente non di poca importanza, perché la missione è fatta anche di
carte da controllare, documenti da compilare, passaporti da rinnovare,
visti da richiedere e così via. "Nella casa del Pime di Dhaka, che
si trova abbastanza vicina al centro della città - racconta padre Carlo
-, come residenti "fissi" siamo solamente in tre: io,
Alessando, che è un fratello in formazione, e un altro laico. Ma
praticamente non siamo mai soli, perché la casa è un viavai di altri
missionari e sacerdoti diocesani di passaggio". |
In
realtà, è facile intuire che restare lontano dall'effettivo annuncio "ad
gentes" pesa un po' a padre Carlo, considerato il fatto che la carica di
rettore dura tre anni e che questo, per lui, è già il terzo triennio!
"D'altra parte, non tutti sono adatti a questo tipo di lavoro - ci spiega -
né sarebbero disposti a venire ad abitare nella capitale". Dhaka, infatti,
è una città estremamente caotica, piena di gente sempre in movimento, con un
traffico reso convulso da ogni tipo di mezzo di trasporto. Inoltre, gli impianti
per la produzione di energia elettrica non sono sufficienti a rispondere alle
richieste dell'intera città, per cui da gennaio a marzo spesso abbiamo avuto la
corrente elettrica un'ora sì e un'ora no (eccetto, ovviamente, qualche
quartiere privilegiato come il palazzo del primo ministro...)".
Dal
1990, la casa del Pime di Dhaka sorge in una zona strategica, non è lontana dal
centro ed è abbastanza vicina alla stazione delle corriere che raggiungono
tutte le località del Paese. Quindi, effettivamente, è una zona di passaggio
quasi obbligato per i vari missionari del Pime che si spostano da una parte
all'altra del Bangladesh o che devono sbrigare commissioni di vario genere nella
capitale.
E
a tutto questo pensa padre Carlo, con la sua presenza discreta e solerte. Lui,
il Bangladesh, lo conosce bene, perché prima dell'attuale incarico nella
capitale ha lavorato per molti anni in varie missioni del Paese, tutte -
curiosamente - che iniziano per "B": Boldipukur, Borni, Bonpara,
Benedwar, Bogra.
Oltre
all'incarico di rettore e procuratore, padre Carlo celebra regolarmente la Messa
in quattro conventi. E non solo. Negli ultimi anni si è delineato in maniera più
precisa un suo dono particolare, che è quello della direzione spirituale dei
giovani che si preparano a diventare sacerdoti. Chi l'ha detto che l'avere a che
fare giorno dopo giorno con pratiche burocratiche, soldi, banche, uffici vari
inaridisce le persone? Nel caso di padre Dotti non è certamente così, visto
che riesce a conciliare serenamente le sue funzioni di procuratore e di
direttore spirituale.
"A
me sembra che la cosa funzioni - commenta modestamente -, tanto che alcuni dei
giovani che ho seguito e che sono ormai diventati preti, tornano ancora adesso a
chiedermi di avere un colloquio. Così, di solito dal sabato pomeriggio alla
domenica mattina sono in seminario a completa disposizione dei giovani".
Infine,
facendo un bilancio complessivo, com'è cambiata la società bengalese negli
oltre trent'anni che padre Carlo Dotti ha trascorso in missione? "Il
prodotto interno lordo del Paese è aumentato e la società si è secolarizzata,
ma come spesso succede anche in altri luoghi, con l'aumentare della
secolarizzazione diminuisce l'attaccamento alla fede, ai valori etici... È un
discorso generale, che riguarda sia il mondo islamico sia quello cristiano.
Ricordiamo, tuttavia, che l'islam è la religione maggioritaria in Bangladesh e
che proprio nell'ambito di questa religione è nata una spiccata reazione alla
secolarizzazione, spesso identificata con l'Occidente. Questa evoluzione ha in
parte influenzato anche il Bangladesh, anche se l'islam bengalese è moderato,
perché in questo Paese la diffusione della fede è stata opera dei sufi, che
sono mistici e assolutamente contrari alla violenza".
Il
Pime nella Chiesa del Bangladesh di p. Piero Gheddo
zenit.org - Roma - 14 giugno 2010
Il
Bangladesh è il secondo paese islamico dopo l'Indonesia: 150 milioni di
abitanti su un territorio esteso meno di metà dell'Italia, senza risorse
naturali e tormentato da inondazioni, cicloni, terremoti. Un paese islamico
tollerante, senza nessun segno di persecuzione anti-cristiana, anzi l'unico che
ammette i missionari stranieri, anche perché si dedicano all'evangelizzazione
dei tribali animisti (il 3% del totale).
La
giovane Chiesa del Bangladesh, molto viva, è stata iniziata nel 1500 dai
portoghesi, ma fondata nel 1855 dai missionari del Pime e dai missionari
americani della Santa Croce, come racconto in modo documentato con fonti
d'Archivio.
Un
secolo e mezzo di storia, con molti esempi di morti premature (molti morivano a
26-30 anni!), grandi fatiche, rinunzie e sofferenze per il Vangelo. "Non
siamo eroi, ma ci manca poco" diceva un missionario nel 1930 ad una
commissione del governo inglese che visitava le campagne del Bengala e definiva
i missionari "tutti eroi".
La
loro storia avventurosa inizia nel Bengala, definito dei colonizzatori inglesi
"La tomba dell'uomo bianco". I primi quattro missionari scrivono:
"Noi siamo come pigmei che debbono trasportare delle montagne".
Indù
e musulmani erano insensibili all'annunzio del Vangelo, la missione va agli
aborigeni, i primitivi delle foreste (santal, oraon, munda, pahari), portandovi
la scuola, l'assistenza sanitaria, l'agricoltura moderna, alfabetizza lingue non
scritte, compie ricerche etnologiche.
Soprattutto
porta la pace fra le varie etnie e tribù. Fra questi popoli considerati
"selvaggi" nasce la Chiesa. E' la prima fase storica della missione:
occupare tutto il territorio e fondare le comunità cristiane unendole in
parrocchie e diocesi.
Quando
l'India diventa indipendente (1947) nascono due stati, uno indù (India) e uno
musulmano (Pakistan e poi Bangladesh). Si sviluppa la seconda fase della
missione: dare alla Chiesa locale solide strutture e proprio personale
dirigente.
Nel
primo secolo di missione, dal lavoro del Pime sono nate sei diocesi, tre in
India (Krishnagar, Jalpaigury e Dumka-Malda) e tre in Bangladesh (Dinajpur,
Khulna e Rajshahi), oggi con vescovi locali.
Negli
ultimi trent'anni il Bangladesh sta rapidamente cambiando: nasce l'industria
tessile con gli investimenti stranieri, una rivoluzione economica e sociale che
ha causato l'immigrazione giovanile di massa verso le città e in particolare la
capitale Dacca, passata da un milione di abitanti nel 1980 ai 12 milioni di
oggi! Incomincia la terza fase della missione, quella attuale: dalle campagne e
foreste alle città, per impedire che i giovani cristiani perdano i contatti con
le comunità di battezzati.
Ma
la Chiesa locale, pur con un buon numero di preti e suore, non ha ancora né il
personale, né i mezzi e nemmeno lo spirito missionario per iniziare la missione
fra i non cristiani nei difficili ambienti cittadini. I vescovi chiedono aiuto
ai missionari.
In
Bangladesh sta rapidamente cambiando la cultura popolare, che tende ad imitare
le mode dell'Occidente. La Chiesa rischia di perdere molte famiglie cristiane
anche perché nella capitale, 25 anni fa, c'erano solo tre parrocchie.
Dal
1985 ad oggi, il Pime ha fondato a Dacca tre parrocchie (Mohammadpur, Mirpur e
Kewachola) e ne sta fondando altre due (Utholi e EPZ), con costi anche economici
esorbitanti per l'acquisto dei terreni. Ma la Provvidenza aiuta sempre. Oggi a
Dacca ci sono dieci parrocchie con altre in costruzione, 80.000cattolici e 12
milioni di abitanti.
A
Dacca i missionari del Pime lavorano anche fra i ragazzi di strada nelle
baraccopoli e hanno iniziato gli incontri ecumenici con i protestanti e il
dialogo inter-religioso con musulmani, indù e buddhisti.
In
Bangladesh i cattolici sono solo 400.000 su 150 milioni di abitanti, i cristiani
un milione. Il Pime è presente in quattro diocesi: Dinajpur, Rajshahi, Dacca e
Chittagong. Sono poco meno di quaranta, aiutati da cinque sacerdoti "Fidei
Donum" di due diocesi colombiane (Sonsòn-Rio Negro e Santa Fé de
Antioquia), da alcuni volontari laici dell'ALP (Associazione Laici Pime) e dalla
congregazione "Missionarie dell'Immacolata", nata dal Pime nel 1936 a
Milano.
India
e Cina, lotta per l'energia
AsiaNews - Hong Kong - 30 giugno 2010
Da
anni la diplomazia di Pechino tratta con i Paesi esteri in materia di energia,
aprendo la strada alle ditte statali cinesi. Ma ora anche New Delhi affronta il
problema in termini politici.
L'India,
terza maggior economia in via di sviluppo, ha una nuova strategia in campo
energetico per fronteggiare l'agguerrita concorrenza cinese, che nel 2009 le ha
sottratto contratti per almeno 12,5 miliardi di dollari. Il ministro per il
Petrolio Murli Deora negli ultimi mesi è stato in Paesi ricchi di greggio come
Nigeria, Angola, Uganda, Sudan, Arabia Saudita e Venezuela, per ottenere
contratti e soddisfare il crescente fabbisogno di energia di 1,2miliardi di
abitanti.
L'Agenzia
Internazionale per l'Energia ha stimato che nel 2030 il consumo di petrolio per
l'India raddoppierà rispetto al 2007 giungendo a 833 milioni di tonnellate,
mentre per la Cina crescerà dell'87% a 2,4 miliardi di tonnellate. Da anni
Pechino è impegnata nel mercato mondiale e può attingere dalle sue riserve
internazionali di 2.400 miliardi di dollari Usa contro i 250 dell'India per
comperare partecipazioni. I vertici della diplomazia di Pechino sostengono le
ditte petrolifere statali cinesi, che nel 2009 hanno investito la somma record
di 32 miliardi di dollari. La recente decisione cinese di consentire un
apprezzamento dello yuan si prevede rafforzerà la propensione di Pechino a
investire in giacimenti esteri. Le importazioni indiane di greggio sono
aumentate di 6 volte negli ultimi 10 anni a una media di 85,47 miliardi di
dollari l'anno.
Economisti
dicono che New Delhi finora è stata perdente perché ha impostato il discorso
in termini solo economici affidati anzitutto alle ditte petrolifere, mentre il
petrolio coinvolge interessi politici.
La
Cina domina il mercato africano, con aiuti e finanziamenti per miliardi di
dollari ai governi in cambio di forniture di energia. L'Africa produce circa un
ottavo del greggio mondiale.
La
statale China National Petroleum Corp. ha sottratto lucrosi affari all'India
arrivando dopo ma con maggiori somme disponibili: nell'agosto 2005 ha concluso
un accordo da 4,18 miliardi con la PetroKazakhstan, a settembre 2005 ha comprato
una partecipazione della EnCana Corp. in Ecuador.
L'India
sta imparando, i suoi vertici politici sostengono le richieste di energia e
offre finanziamenti: nel 2005 la statale indiana Oil & Natural Gas Corp.
(Ongc) ha finanziato strade, porti, ferrovie e centrali energetiche in Nigeria
in cambio di 600mila barili di greggio al giorno per 25 anni.
Lo
scorso febbraio il ministro Deora ha convito l'Arabia Saudita a raddoppiare le
forniture di greggio a circa 800mila barili al giorno. A marzo la Ongc e altre
ditte statali indiane sono entrate in un gruppo per la ricerca e lo sviluppo dei
giacimenti in Venezuela, durante una visita di Deora.
Gideon
Lo, analista del settore a Hong Kong, spiega all'agenzia Bloomberg che "il
sostegno del governo è un vantaggio per le grandi compagnie petrolifere cinesi,
è un segreto alla luce del sole. Il governo stabilisce rapporti di alto livello
con i Paesi produttori di petrolio. In seguito arrivano le compagnie petrolifere
e trattano".
Strategia
che Pechino vuole incrementare: Jiang Jiemin, presidente della PetroChina Co.,
ha detto a marzo che per il 2020 mira ad avere metà della sua produzione
dall'estero, mentre oggi ne arriva meno del 10%.
Secondo
Tom Deegan, esperto del settore di stanza a Hong Kong, l'altro grande vantaggio
delle ditte cinesi è la forte disponibilità finanziaria, grazie al sostegno
delle banche statali a tassi molto agevolati, "cosa che forse le ditte
indiane non hanno".
Fra
l'altro le ditte statali cinesi si possono permettere di produrre in perdita,
forti del sostegno pubblico. La cinese Sinopec nel 2009 ha acquistato la Addax
Petroleum Corp. per 7,9 miliardi, acquistando le sue licenze di sfruttamento in
Nigeria, Gabon e Camerun.
New
Delhi non appare poter competere con le ricche offerte cinesi, ma intenzionata a
impegnare la sua influenza politica.
Colonialismo
alla pechinese di Walden Bello
Il
Manifesto - 4 luglio 2010
Spoliazione
di risorse, assalto a mercati vergini, contrabbando. Per i paesi del sud-est
asiatico il «Cafta», l'accordo di libero scambio con la Repubblica popolare,
rischia di risolversi in un disastro
L'Area
di libero scambio Cina-Asean (Cafta) è ormai operante dal 1 gennaio 2010.
Pubblicizzata come l'area di libero scambio più grande del mondo, il Cafta
conta 1 miliardo e 700 milioni di consumatori, con un prodotto interno lordo
complessivo di 5.930 miliardi di dollari e un volume totale di scambi
commerciali di 1.300 miliardi di dollari.
In
base all'accordo, gli scambi commerciali tra la Cina e sei paesi dell'Asean
(Associazione degli stati del sud-est asiatico, che include Brunei, Indonesia,
Malaysia, Filippine, Singapore e Thailandia) sono diventati duty-free per più
di 7.000 prodotti. Entro il 2015 entreranno nell'accordo che elimina i dazi
doganali anche paesi Asean più recenti come Vietnam, Laos, Cambogia e Myanmar
(la Birmania).
La
macchina propagandistica, specialmente a Pechino, sostiene che l'accordo di
libero scambio darà «vantaggi reciproci» alla Cina e all'area Asean. Anche la
presidente delle Filippine, Gloria Arroyo, ha salutato l'emergere di un «formidabile
raggruppamento regionale» che farebbe concorrenza agli Stati Uniti e alla Ue.
Tuttavia la realtà è che i vantaggi andranno quasi tutti alla Cina.
A
prima vista, la relazione bilaterale potrebbe apparire positiva. Dopo tutto, la
domanda proveniente da un'economia cinese che cresce a rotta di collo è stata
un fattore chiave nella crescita del sud-est asiatico intorno al 2003, dopo il
periodo di scarsa crescita che aveva fatto seguito alla crisi finanziaria
asiatica del 1997/1998.
Durante
l'attuale recessione internazionale, i governi Asean contano sulla Cina, il cui
prodotto interno lordo nel quarto trimestre 2009 è cresciuto del 10,7% rispetto
allo stesso trimestre dell'anno precedente, per uscire dalla crisi.
Eppure
il quadro è più complesso rispetto a quello che vede la Cina come la
locomotiva che trascina con sé il resto dell'Asia orientale a grande velocità
verso il nirvana economico.
Molti
nel sud-est asiatico temono che i bassi salari abbiano incoraggiato gli
imprenditori locali e stranieri a eliminare gradualmente le loro attività dai
paesi dell'Asia sudorientale con salari relativamente alti per trasferirle in
Cina.
Questo
timore appare fondato. La svalutazione dello yuan da parte della Cina nel 1994
ebbe l'effetto di allontanare alcuni investimenti stranieri diretti dal sud-est
asiatico.
Il
trend che vede i paesi Asean perdere terreno nei confronti della Cina ha subito
un'accelerazione dopo la crisi del 1997. Nel 2000 gli investimenti stranieri
diretti nei paesi Asean sono scesi al 10% di tutti gli investimenti nei paesi
asiatici in via di sviluppo, dal 30% nella metà degli anni '90. Il declino è
proseguito nel resto del decennio. Questo trend è stato attribuito dal World
Investment Report dell'Onu, tra l'altro, alla «maggiore competitività della
Cina».
Il
commercio è un'altra area di preoccupazione, forse maggiore. Il massiccio
contrabbando di beni provenienti dalla Cina ha dissestato praticamente tutte le
economie Asean. Ad esempio, con una percentuale di circa il 70-80% dei negozi
che vendono scarpe cinesi di contrabbando, l'industria calzaturiera vietnamita
ha molto sofferto. Ora si teme che l'accordo Cafta legalizzi semplicemente il
contrabbando, peggiorando gli effetti già negativi delle importazioni cinesi
sull'industria e sull'agricoltura dei paesi Asean.
Secondo
i funzionari cinesi, i vantaggi per la Cina di un accordo di libero scambio con
i paesi Asean sono chiari. Secondo l'economista cinese Angang Hu, la strategia
mira a integrare più pienamente la Cina nell'economia globale come il «centro
dell'industria manifatturiera mondiale».
Un
aspetto centrale del piano era aprire i mercati Asean ai prodotti cinesi. Alla
luce della crescente diffusione di sentimenti protezionistici negli Usa e
nell'Ue, l'Asia sudorientale - che assorbe solo l'8% circa delle esportazioni
cinesi - presenta un potenziale enorme di maggiore assorbimento delle merci di
Pechino. La strategia commerciale della Cina è descritta da Hu come «un
modello semi-aperto», cioè «uno scambio aperto o libero per quanto riguarda
le esportazioni, e un approccio protezionista per quanto riguarda le
importazioni».
L'ora
dell'high-tech
Nonostante
le coraggiose parole di Arroyo e di altri leader Asean, è molto meno chiaro
quali saranno i vantaggi che l'Asean trarrà dalla sua relazione con la Cina.
Certamente
non ci saranno benefici nella produzione con manodopera intensiva, dove la Cina
gode di una posizione imbattibile per la costante pressione verso l'abbassamento
dei salari esercitata dai migranti: si tratta di una forza lavoro rurale
pressoché inesauribile, con un reddito medio di 285 dollari l'anno. Certamente
non ci saranno benefici nell'high-tech, visto che persino gli Usa e il Giappone
sono spaventati dalla rimarchevole capacità della Cina di spostarsi molto
rapidamente nelle industrie high-tech consolidando allo stesso tempo la sua
posizione di vantaggio nella produzione con mano d'opera intensiva.
Sarà
l'agricoltura dei paesi Asean a godere di un vantaggio netto? La Cina è
chiaramente super-concorrenziale in una vasta gamma di prodotti agricoli - dalle
colture dei climi temperati a quelle dei climi semi-tropicali - e nella
trasformazione dei prodotti agricoli.
Inoltre,
anche se con l'introduzione dell'area Cafta i paesi Asean dovessero guadagnare o
mantenere competitività in alcuni settori della produzione, dell'agricoltura e
dei servizi, molto difficilmente la Cina si allontanerà da quel modello di
commercio internazionale che Hu definisce «semi-aperto».
E
per quanto riguarda le materie prime? Naturalmente l'Indonesia e la Malesia
hanno il petrolio, di cui la Cina ha scarsa disponibilità, la Malesia ha la
gomma e lo stagno, e le Filippine hanno l'olio di palma e i metalli.
Ma
ad un secondo sguardo si pone l'interrogativo se la relazione con la Cina non
stia riproducendo la vecchia divisione coloniale del lavoro, in virtù della
quale i prodotti agricoli e le risorse naturali a basso valore aggiunto venivano
spediti al centro mentre le economie del sud-est asiatico assorbivano i prodotti
pregiati dell'Europa e degli Stati Uniti. Probabilmente, con l'accordo Cafta,
questi trend subiranno un'accelerazione. Ma con una differenza: la Cina batterà
i suoi vicini Asean raggiungendo il controllo del mercato interno.
Per
riassumere, l'accordo commerciale probabilmente sarà svantaggioso per i paesi
Asean. Anche se alcuni settori sono temporaneamente esenti da una piena
liberalizzazione commerciale, l'area Asean sarà prigioniera di un processo
unidirezionale in cui le barriere ai beni supercompetitivi della Cina,
industriali e agricoli, tenderanno a sparire.
copyright
Ips/il manifesto
traduzione
di Isa Melampo
Governo,
aziende e narcotraffico alleati contro i diritti umani di Raffaele K
Salinari
Il
Manifesto - 3 luglio 2010
Parla
Augustin Jimenez della Coalizione contro la tortura: abusi sistematici, il paese
sacrificato sullo scacchiere geopolitico
Il
salone principale della «Nuova Casona», sede del centro di attenzione
psicosociale alle vittime della tortura, è dedicato a Leonidas, un leader
sindacale ucciso dai paramilitari a Bogotà l'anno scorso. L'inaugurazione del
centro, qualche giorno fa, ha rappresentato un'occasione per fare il punto sulla
lotta contro la tortura che «in questo paese è una pratica politica quotidiana»,
come ci ricorda Augustin Jimenez, portavoce della Coalizione Colombiana contro
la tortura.
Che
significa usare la tortura come strumento politico?
Anzitutto
negare che esiste. In questi ultimi anni, a livello internazionale il governo
Uribe ha cercato di far passare l'idea che il paese fosse in uno stato di
normalità democratica, che non vi fosse alcun uso sistematico della tortura
che, in generale, le convenzioni internazionali venissero rispettate. La tortura
esiste e viene praticata sistematicamente, a tutti i livelli. Per questo il
governo ha rifiutato di ratificare la Convenzione Onu sulla tortura, che gli
avrebbe imposto di presentare un rapporto alternativo, redatto dalla nostra rete
di organizzazioni.
Possiamo
tracciare una mappa della tortura?
Se
analizziamo le torture a livello comunitario, la violenza che viene esercitata
su intere popolazioni, anche attraverso gli spostamenti forzati o i rapimenti, o
l'uccisione dei leader comunitari e sindacali, vediamo come gli interessi del
narcotraffico, dell'esecutivo, delle grandi imprese minerarie, siano
assolutamente coincidenti. Quando si vuole un territorio, sia per farne altri
campi per la coltivazione della coca, o per estrarre il coltan o l'oro, non si
esita a organizzare vere e proprie campagne di tortura, minacce, uccisioni, per
liberarlo dalle popolazioni.
Cosa
cambierà dopo l'arrivo alla presidenza di Santos?
Gli
otto anni di Uribe sono stati drammatici per l'aumento della violenza
generalizzata nel Paese. La dottrina di Uribe, la cosiddetta «sicurezza
democratica», ha massimizzato il controllo militare del territorio attraverso i
fondi del «Plan Colombia» e intessuto con il narcotraffico una rete di
relazioni a tutti i livelli. Il Paese è stato svenduto alle multinazionali
straniere, tutto quello che funzionava è stato privatizzato. Il narcotraffico
ha cambiato radicalmente la visione di molti giovani colombiani che, oggi,
preferiscono il danaro facile all'impegno quotidiano. Tutto questo difficilmente
potrà cambiare con l'elezione di Santos che era, non lo dimentichiamo, il
Ministro della difesa del Governo Uribe. Se poi aggiungiamo che ben sette basi
militari degli Usa saranno aperte in diverse zone del Paese, i margini della
nostra sovranità nazionale, per non parlare di quella popolare, si riducono
ancora di più. Questi interessi, e la situazione degli altri stati
latino-americani con i quali confiniamo, penso al Venezuela ad esempio, fanno si
che la Colombia sia troppo importante nello scenario geopolitico continentale,
perché possa nascere un Governo realmente democratico.
Dai
vescovi, messaggio alla popolazione per "un Congo più bello di prima"
Misna
- 30 giugno 2010
Un
appello alla popolazione congolese “a mobilitare le sue energie in vista della
ricostruzione della sua identità e l’instaurazione di un nuovo ordine sociale
capace di rispondere alle sue più profonde aspirazioni”. Lo rivolge la
Conferenza episcopale nazionale del Congo (Cenco) nel messaggio scritto ai
congolesi in occasione del 50° anniversario dell’indipendenza, dal titolo
“Il nostro sogno di un Congo più bello di prima”. Nella prima parte del
documento, i presuli riflettono sul “momento di grazia” rappresentato dalla
ricorrenza ricordando i sogni dei padri dell’indipendenza per una riflessione
collettiva, “perché – affermano – chi non vuole apprendere lezioni dalla
sua storia è condannato a ripeterla”. La seconda parte si sofferma sulla
situazione attuale al livello politico, economico e sociale, facendo da
introduzione alla terza e conclusiva parte, sul “sogno” dei vescovi stessi
per il futuro della nazione. I presuli si dicono “convinti che gli uomini e le
donne di questo paese sono capaci oggi di superare gli handicap della nostra
situazione per costruire un Congo più bello di prima” ponendosi come
principale obiettivo “ravvivare la speranza” e denunciando “le forme di
religiosità e spiritualità che deresponsabilizzano i congolesi” su cui
ricade invece la grande responsabilità “di partecipare attivamente alla
nascita di una società nuova e a impegnarsi per lo sviluppo del nostro
paese”. I politici di domani sono chiamati a “vivere il loro impegno
politico come un servizio per il bene comune. E’ l’uomo – sottolineano –
che deve essere messo al cuore di ogni impegno politico”. Anche l’economia
deve essere messa “al servizio dell’uomo” perché “una nazione non può
prosperare a lungo se favorisce unicamente i suoi membri già abbienti”. Per
un nuovo Congo, aggiungono i vescovi, “bisognerebbe adottare un modello di
crescita economica sostenibile e orientato verso la soluzione del problema della
povertà” basato su settori produttivi, dall’agricoltura, alle
infrastrutture, all’habitat, ai trasporti, all’energia, per cui “è
imperativo che lo stato svolga il suo ruolo di responsabile del benessere delle
popolazioni e dello sviluppo umano nel paese”. E’ necessario “investire
sulla sanità, l’alimentazione e soprattutto sull’istruzione” affermano i
vescovi. E’ allo stesso tempo necessario che i cittadini facciano la loro
parte: per questo, si legge nel documento, “chiediamo solennemente a tutto il
nostro popolo di compiere il dovere civico e costituzionale di pagare imposte e
tasse”. La Chiesa “si impegna a collaborare con il governo alla costruzione
di una cultura fiscale capace di preservare la sovranità nazionale e garantire
lo sviluppo solidale” aggiungono i vescovi annunciando una grande campagna
nazionale di lotta alla corruzione attraverso l’adempimento degli obblighi
fiscali. Un “civismo fiscale” che andrà costruito con una gestione
trasparente della spesa pubblica e a cui intende contribuire anche un manuale
pubblicato di recente dalla Chiesa dal titolo “Costruire un Congo più bello
di prima. La cultura fiscale”.
Particolare
attenzione dovrà essere posta secondo i vescovi al settore nevralgico della
gestione delle risorse naturali e al debito estero, definito il "principale
ostacolo allo sviluppo del paese" e un "problema spinoso" per cui
"l'esperienza dimostra che l'iniziativa 'Hipc' (paesi poveri altamente
indebitati) è lungi dal rappresentare la soluzione miracolosa". I vescovi
congolesi fanno loro l'appello di Benedetto XVI al G8 "per un annullamento
rapido, completo e senza condizioni del debito estero". L'istruzione
inoltre dovrà essere rimessa al centro delle priorità: Quale futuro potrà
esserci per il Congo, si interrogano i presuli, "se i giovani avvezzi alla
legge del minimo sforzo credono che i risultati si ottengono con tutti i mezzi,
anche al prezzo della loro dignità umana? Quale futuro se l'istruzione resta
sempre marginalizzata nelle previsioni di bilancio nazionali?". La Chiesa,
aggiungono, "sa che lo stato oggi ha i mezzi per remunerare come dovuto
coloro che hanno la responsabilità di donare alla nazione i suoi futuri quadri
dirigenti. Esige che i proventi dell'annullamento del debito annunciati siano
destinati in via prioritaria a questo settore vitale della nazione". Il
futuro del Congo, evidenziano ancora i vescovi, "esige un nuovo spirito e
una nuova cultura: il rispetto del bene comune e della parola data, il senso
dello sforzo, l'amore per il lavoro e il patriottismo", un cambiamento di
mentalità che "non può riuscire senza strutture sociali che lo sostengono
e lo alimentano, senza la costituzione di nuove istituzioni politiche e sociali
di gestione della vita collettiva secondo principi differenti da quelli che,
oggi, tradiscono la nazione". La Repubblica democratica del Congo "ha
bisogno di rifondare la sua esistenza sui suoi valori vitali e di aprirsi alla
linfa del Vangelo per produrre la nuova cultura dell'amore per gli altri e la
patria, la giustizia e la pace", attraverso "una conversione
spirituale e morale". Per segnare questo nuovo inizio, "la Chiesa
chiede la liberazione dei prigionieri politici e d'opinione, la costruzione di
un memoriale a Kinshasa e in ogni provincia per i nostri milioni di morti
vittime della violenza che si è abbattuta, cieca e spietata, su una vasta
frangia della popolazione". Il 50° anniversario dell'indipendenza,
concludono i vescovi, "deve essere il momento di far trionfare la speranza
sulla paura, l'unità del nostro destino sui conflitti; il momento di scegliere
di garantire alla giustizia i mezzi adeguati per applicare la legge, il momento
di non versare più il sangue degli innocenti; il momento di scegliere una
cooperazione e un'intesa rafforzata con i paesi vicini e la comunità
internazionale nel rispetto della legge internazionale e la salvaguardia della
nostra sovranità nazionale". [FB]
Dopo
scandalo 'probo Koala', un laboratorio per rifiuti tossici
Misna
- 28 giugno 2010
Un
laboratorio per testare rifiuti pericolosi entranti nei porti dell'Africa
occidentale è stato inaugurato ad Abidjan, teatro nell'Agosto 2006 di un grave
episodio di inquinamento da sostanze tossiche scaricate illegalmente. Ideato dal
Programma dell'Onu per l'ambiente (Unep), il progetto del laboratorio è
cominciato nel 2008 con il sostegno dei governi di Olanda, Svezia, Danimarca e
di un laboratorio statale svizzero. L'Unep riferisce che la struttura, ospitata
presso il centro ivoriano anti-inquinamento, è specializzata nell'analisi di
campioni di suolo e acqua alla ricerca di possibili contaminazioni. Il caso
della 'Probo Koala, la nave noleggiata dalla multinazionale 'Trafigura',
protagonista dell'inquinamento del 2006, aveva attirato l'attenzione
dell'opinione pubblica nazionale e internazionale sul mancato riciclaggio di
sostanze nocive da parte di aziende di paesi 'ricchi' che preferiscono
sbarazzarsi dei rifiuti a poco prezzo in qualche paese povero e poco sviluppato.
Almeno 16 abitanti di Abidjan morirono nei giorni immediatamente successivi allo
scarico, decine furono ricoverate e decine di migliaia hanno manifestato
disturbi e patologie legate all'inalazione di veleno. [CC]
Salute
infantile, L'Avana esempio mondiale
Misna - 30 giugno 2010
Indicatori
di mortalità infantile migliori di quelli di alcuni paesi sviluppati confermano
che Cuba è un "buon esempio" in materia di sanità pubblica.
"Quando mi metto a paragonare le statistiche di Cuba a quelle degli Stati
Uniti, i dati dell'Avana sono migliori" ha detto il dottor Chok-wan Chan,
presidente dell'Associazione mondiale di pediatria, intervenendo a un convegno
internazionale dedicato alla salute dei bambini. Anche Elizabeth Mason,
direttrice del dipartimento di salute infantile e adolescenziale
dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha elogiato gli ottimi
risultati del sistema sanitario nazionale, interamente gratuito e aperto a
tutti, del governo cubano. La signora Mason ha definito "eccellente"
il tasso di mortalità infantile sull'isola, di 4,8 per mille. Altro esperto
dell'Oms, José Carlos Martínez, ricordando che Cuba è un paese molto povero,
ha commentato: "Forse il risultato più utile dei nostri modesti sforzi
nella lotta per un mondo migliore sarà quello di riuscire a dimostrare come si
riesca a ottenere molto anche avendo poco a disposizione, se tutte le risorse
della società, umane e materiali vengono messe a servizio del popolo".[CC]
Ordinati
tre sacerdoti della diocesi di Bafatá di Mons. Zilli*, Pime
www.pime.org
Cari
amici,
vi
scrivo per condividere con voi una grande gioia. Sabato 5 giugno ho avuto la
grazia di ordinare tre sacerdoti guineani nella mia diocesi di Bafatà: Ademir
Cristiano Barreiro della parrocchia di Bambadinca, Avito José Fernandes e
Francisco Fernandes della parrocchia della Cattedrale; queste due parrocchie
erano state affidate ai missionari PIME per 50 anni.
Durante
la predica ho detto che queste tre ordinazioni sono state un vero regalo per me,
perché proprio quest’anno celebro i miei 25 anni di sacerdozio e del mio
arrivo in Guinea Bissau. Sono stato, infatti, ordinato il 5 gennaio 1985 e sono
arrivato in Guinea nel luglio dello stesso anno.
All’inizio
della celebrazione i genitori dei candidati sono venuti a consegnarmi i loro
figli, dicendo di essere felici che essi siano entrati in una nuova famiglia di
cui io sono il padre. Alla sera dello stesso giorno ho visitato le case dei
novelli sacerdoti. La gioia era grande! Grato al Signore, ho pensato nel mio
cuore: “La gente semplice capisce la bellezza e il mistero del sacerdozio”.
Come
missionario del PIME, sono stato contento nel vedere che gli sforzi dei
missionari di questo Istituto sono stati ricompensati dal buon cammino che la
Chiesa sta facendo in questo paese. Come brasiliano, ho provato una grande gioia
interiore per il fatto di rappresentare qui in Guinea la Chiesa dal Brasile e
adesso di ordinare questi sacerdoti, testimoni di Gesù tra questo popolo che
sta facendo il suo pellegrinaggio nella fede.
Siamo
un bel gruppo di missionari brasiliani in Guinea: sacerdoti, suore e laici.
Inoltre, la Chiesa brasiliana ha già inviato otto professori di filosofia e
teologia per insegnare nel nostro Seminario Maggiore di Bissau, contribuendo
alla formazione di questi tre neo sacerdoti.
In
quest’anno 2010, dodici giovani guineani saranno ordinati sacerdoti: cinque
diocesani, sei francescani e uno del PIME. Gaudêncio Francisco Pereira sarà il
primo missionario PIME guineano e ha già ricevuto la sua destinazione in Papua
Nuova Guinea in Oceania. Quindi la Chiesa in Guinea Bissau diventa a sua volta
Chiesa missionaria che si apre alla missione ad extra, al di fuori cioè del
proprio paese.
Un
saluto a tutti.
*
Vescovo di Bafatà
L'appello
dei vescovi: la situazione è ancora gravissima, servono gli aiuti del mondo
www.radiovaticana.org
- 2 luglio 2010
Sono
trascorsi quasi cinque mesi dal terremoto che ha devastato Haiti, provocando 250
mila morti ed oltre un milione e mezzo di senzatetto. Nonostante la macchina
degli aiuti si sia messa in moto rapidamente, i 10 miliardi di dollari promessi
dalla comunità internazionale alla Conferenza dei contribuenti di New York del
marzo scorso stentano ad arrivare. La denuncia arriva dallo stesso segretario
generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che qualche giorno fa si è detto preoccupato
per la situazione in cui vive la popolazione haitiana. Ma qual è la situazione
oggi? Salvatore Sabatino lo ha chiesto a padre Hans Alexandre, segretario
permanente della Conferenza episcopale haitiana:
R.
– La gente vive nelle tende. Fa caldo, e quando piove la gente sta male perché
la vita in tenda non è sana. E’, per loro, una situazione gravissima. Posso
dire anche che la vita di famiglia non esiste quasi più nelle tendopoli. Tutto
questo porta la Chiesa in Haiti a chiedere: ma quando ci sarà finalmente una
vita migliore per queste popolazioni?
D.
– La Chiesa ha sempre ricoperto un ruolo importantissimo nel tessuto sociale
haitiano, e il terremoto l’ha colpita fortemente. Qual è il suo ruolo e come
viene vista dagli haitiani?
R.
– Gli haitiani sanno che la Chiesa è sempre accanto a loro, perché la Chiesa
ha promesso di rimanere fedele a questo popolo, che ha sempre accompagnato.
Anche se le chiese sono distrutte, la loro fede rimane.
D.
– Gli appelli lanciati da Benedetto XVI in sostegno e vicinanza delle
popolazioni colpite dal terremoto sono rimasti nella memoria degli haitiani?
R.
– L’appello lanciato dal Papa è stato accolto con gioia da noi, perché –
come diciamo nel Paese – abbiamo visto che più che la terra, si è mosso il
cuore del mondo per gli haitiani. E questo ci aiuta ad andare avanti.
D.
– Padre Alexandre, si ha l’impressione che – come purtroppo spesso accade
– si siano spenti i riflettori dei media su Haiti, e con essi l’attenzione
nei confronti di questa tragedia. Vuole lanciare un appello attraverso i
microfoni della Radio Vaticana?
R.
– Non dobbiamo essere dimenticati, perché senza l’aiuto internazionale
veramente non potremo uscire da questa gravissima situazione, che è tale non
soltanto per gli haitiani, ma per l’umanità intera.
L'inferno
di Port-au-Prince a sei mesi dal sisma
www.radiovaticana.org
- 4 luglio 2010
Anche
se l’attenzione mediatica è drasticamente calata, la situazione ad Haiti - a
sei mesi dal sisma che ha provocato 250 mila vittime - è in continuo
peggioramento. Tendopoli, macerie e persistenti difficoltà nel distribuire gli
aiuti umanitari continuano a segnare lo scenario del Paese caribico. E’ quanto
denuncia da Port au Prince Valeria Lenner della Fondazione Rava - N.P.H Onlus,
intervistata da Fabio Colagrande:
R.
– Adesso, la situazione sta ancora peggiorando. Infatti, Port-au-Prince è
tutta una tendopoli, le persone continuano a vivere in questa situazione
precaria tra le macerie. Il problema è che scarseggiano proprio gli aiuti
umanitari e le condizioni igienico-sanitarie stanno peggiorando e purtroppo se
ne parla sempre meno. Però, loro sono sempre qui e continuano ad aumentare gli
abusi, i rapimenti, gli omicidi. Quindi, la situazione è veramente tragica.
D.
– Questo nonostante l’enorme flusso di aiuti internazionali, la grande
solidarietà da parte di tutto il mondo…
R.
- Infatti, nonostante tutti gli aiuti, le persone vivono per la maggior parte
all’interno di queste baraccopoli che si sono create dopo il terremoto e che,
comunque, sono delle situazioni provvisorie che però a sei mesi dal terremoto
continuano a rimanere e anzi ad aumentare.
D.
– In questo momento, quale stato d’animo vedete tra la gente in questa
condizione così tragica che continua a persistere?
R.
– Sono una popolazione stupenda perché comunque sorridono, sono persone
solari. Però, sono sicuramente provate, perché vivere all’interno delle
baraccopoli ovviamente crea forti disagi. Infatti, immagino che ci saranno anche
delle manifestazioni in breve.
D.
– Cioè, dei movimenti popolari di protesta?
R.
– Diciamo che adesso la situazione sembra un po’ meno tesa per lo
svolgimento dei Mondiali di calcio, un fenomeno che, comunque, contribuisce a
placare gli animi. Ma ormai gli aiuti umanitari iniziano anche a scarseggiare. E
noi, insomma, noi siamo sempre qua.
D.
– Riuscite a continuare anche il vostro lavoro, siete anche voi in difficoltà?
R.
– Noi continuiamo, non ci siamo mai fermati. L’ospedale, da ospedale
pediatrico si è aperto a tutti. Non abbiamo mai spesso la produzione di pane e
adesso stiamo lavorando per avviare il pastificio che produrrà circa 2.500
pacchetti di pasta. Non é facile ad Haiti fare le cose, perché manca tutto. Lo
sforzo dei volontari e lo sforzo delle persone che ci stanno vicine è davvero
tanto.
Delitto
d'onore e dote continuano a mietere vittime in India di Nirmala Carvalho
AsiaNews - New Delhi - 28 giugno 2010
Un
uomo e una donna di caste diverse si suicidano perché il loro matrimonio "è
impossibile". Ragazza di 24 anni si getta dal 28esimo piano di un palazzo
dopo le torture subite dal marito e dai suoceri che pretendono il pagamento
della dote.
Una
giovane coppia si è suicidata ieri a Samalkha, a 50 km da Delhi, buttandosi
sotto un treno. Secondo la polizia, si tratta dell'ennesimo caso di
"delitto d'onore". Deepak e Teena, rispettivamente di 25 e 18 anni,
erano dello stesso villaggio e volevano sposarsi, ma appartenevano a caste
diverse.
Il
giovane faceva parte della comunità Saini mentre la ragazza apparteneva alla
casta Luhar. I genitori hanno dichiarato alla polizia che più volte avevano
cercato di convincere i ragazzi a non frequentarsi perché la loro relazione
"era impossibile".
È
solo l'ultimo dei numerosi delitti d'onore che continuano a consumarsi in India.
Il 20 giugno Mandeep Nagar, 23 anni, e Ankit Chaudhury, 22, aiutati da un terzo
uomo, hanno ucciso le proprie sorelle perché si erano unite a uomini di casta
differente, esponendoli in questo modo "agli insulti di tutto il villaggio.
Non potevamo sopportare l'umiliazione".
Il
"delitto d'onore" in India consiste tradizionalmente nell'uccisione di
un membro della famiglia da parte dei parenti quando questo li umilia, ad
esempio sposandosi con una persona di casta diversa. Secondo lo United nations
population fund avvegono 5mila delitti d'onore all'anno nel mondo, la maggior
parte dei quali in India.
Un'altra
piaga culturale che affligge il Paese è il sistema della dote. Nishi Jethwani,
24 anni, si è gettata ieri dal 28esimo piano di un palazzo di Mumbai dopo avere
subito torture fisiche e mentali da parte del marito e dei suoceri, che volevano
ottenere il pagamento della dote.
Nonostante
sia stata abolita per legge nel 1961, la dote ha causato 8172 morti solo nel
2008, secondo l'Indian National crime records bureau. Il pagamento della dote
ammonta a milioni di rupie (decine di migliaia di euro) e spesso molte famiglie,
non potendo permettersela, uccidono le figlie prima ancora che nascano per
evitare il rischio di un matrimonio che non potrebbero permettersi.
Islamisti
pronti alla guerra ai cristiani
MissiOnLine
- 30 giugno 2010
Il
Bekasi Islam Presidium chiama tutte le moschee del Paese alla lotta contro la
cristianizzazione del paese
Si
sono radunati appositamente domenica per discutere del cosiddetto
"problema-cristianizzazione". E le conclusioni non sono incoraggianti.
Il
Bekasi Islamic Presidium (BIK), una nuova organizzazione islamica nata
nell'omonima città in Indonesia, ha deciso di lanciare una campagna di
comunicazione rivolta a tutte le moschee del Paese islamico più popoloso al
mondo.
Obiettivo,
preparare i fedeli ad una "possibile guerra" contro il fenomeno della
cristianizzazione, cioè di un presunto aumento di battesimi nella regione.
L'allarme
su questo possibile nuovo fronte di scontri lo ha lanciato il più importante
quotidiano di lingua inglese dello Stato asiatico, il "Jakarta Post",
che ha dato conto con dovizia di particolari di questo importante summit, cui
hanno preso parte rappresentanti di 9 associazioni islamiche che ora hanno
formato il BIK.
"Tutti
i musulmani devono unirsi e stare in guardia perché i cristiani si stanno
preparando a fare qualcosa" ha dichiarato Murhali Barda, uno dei
responsabili dell'Islam Presidium. Che ha poi continuato: "Apparentemente,
i cristiani vogliono mettere alla prova la nostra pazienza. Stiamo prevedendo di
organizzare un dialogo con loro ma se questo dovesse fallire, questo potrebbe
significare la guerra".
L'accusa
indiretta di Barda, segnala il "Jakarta Post", riguarda una non meglio
identificata associazione cristiana che avrebbe battezzato alcune persone nella
città di Bekasi, già in passato - segnala il quotidiano - sede di alcuni
scontri interreligiosi.
In
particolare, la denuncia verteva su alcuni battesimi realizzati la scorsa
settimana e di cui sarebbero stati protagonisti alcuni giovani.
Ma
la polizia locale ha smentito che vi siano state celebrazioni cristiane di
battesimi di massa. "Quei giovani erano là solo per andare in
piscina" ha minimizzato il capo della polizia locale Imam Sugianto.
Secondo
gli organizzatori, al convegno islamico di domenica hanno partecipato 2 mila
persone.
Sulla
situazione dei cristiani in Indonesia, come approfondimento, è utile consultare
il nuovo libro dell'onorevole Mario Mauro, delegato Ocse per la libertà
religiosa.
Leggi
qui la scheda
del volume.
Baghdad
chiede di non accettare richieste di asilo
AsiaNews - Baghdad - 1 luglio 2010
Ad
accrescere il dramma dei fedeli, vi è la divisione fra le comunità cristiane.
Chiesti programmi per facilitare il rientro dei profughi. Il ministro
dell'Immigrazione domanda a Ue, Usa, Australia di rifiutare richieste di asilo
da parte dei cristiani.
I
leader cristiani in Iraq, preoccupati dell'emorragia di fedeli che lasciano il
Paese, chiedono al governo maggiore protezione per le minoranze; intanto Baghdad
si appella ai Paesi occidentali perché non accettino le richieste di asilo da
parte dei profughi delle stesse minoranze. L'idea è quella di scoraggiare le
partenze, ma la soluzione reale del problema risiede nella garanzia di sicurezza
e servizi base alla popolazione, ancora fortemente carenti.
Lo
scorso 26 giugno, 76 esponenti delle diverse denominazioni cristiane in Iraq si
sono riuniti a Qaraqosh - nel nord del Paese, vicino Mosul - per fare il punto
sulla difficile situazione della comunità afflitta da persecuzione ed
emigrazione. I leader religiosi e politici hanno lanciato un appello alle
autorità, chiedendo maggiore protezione per le minoranze, il rispetto dei
diritti e un numero maggiore di rappresentanti cristiani nelle istituzioni
nazionali e locali. Tra le richieste, emendamenti costituzionali per rafforzare
i diritti della minoranza cristiana, il finanziamento di programmi che
facilitino il rientro dei rifugiati, l'istituzione di una Commissione nazionale
per gli Affari delle minoranze che promuova il dialogo pacifico tra gruppi
etnici e religiosi e maggiori investimenti per infrastrutture nelle aree più
arretrate e popolate dalle minoranze.
Tra
i partecipanti anche l'arcivescovo caldeo di Kirkuk, mons. Louis Sako. Il
presule ha ribadito l'importanza che "i cristiani non lascino l'Iraq, ma
testimonino la loro fede al loro Paese". Allo stesso tempo, però, ha messo
in luce alcune sfide che spetta agli stessi leader cristiani affrontare con
urgenza, senza aspettare l'intervento della politica. Prima tra tutte, la
divisione interna alla stessa comunità: "Siamo piccole Chiese che devono
unificare le loro voci. Finora non c'è stata una posizione comune
sull'emigrazione. Questo è una vergogna e un ostacolo. Rimarremo divisi finché
guardiamo solo ai nostri interessi personali: soldi e potere. Rimarremo
vulnerabili finché le nostre differenze rappresenteranno solo conflitti. Manca
un'azione collettiva", ha detto mons. Sako.
Durante
l'incontro Athil Al-Najifi, governatore della provincia di Ninive - dove si
concentra la maggior parte dei cristiani - ha annunciato l'impegno a evitare
strumentalizzazioni delle minoranze e a stabilire un meccanismo di inclusione di
tutti gli elementi della società civile.
Anche
il governo centrale è preoccupato per il forte flusso di emigrazione. Per ora,
però, non è riuscito a mettere a punto alcuna politica che incoraggi realmente
i rimpatri e aumenti il livello di sicurezza. L'ultima iniziativa a riguardo è
stata annunciata il 23 giugno dal ministro iracheno dell'Immigrazione, Abdel
Sultan: Baghdad ha chiesto a Unione Europea, Usa e Australia di rifiutare le
richieste di asilo che arrivano da cristiani iracheni appartenenti alle
minoranze. L'idea è quella di scoraggiare le partenze, al fine di
"preservare la diversità etnica e religiosa del Paese". Immediata la
protesta dell'Organizzazione irachena per i diritti umani: "Si tratta di
una violazione della Costituzione irachena, che garantisce il diritto
dell'individuo a vivere ovunque scelga, e dei diritti umani universali", ha
detto il presidente Hasan Shabaan. (LYR)
G8,
le promesse di Berlusconi...
Famiglia
Cristiana - 24 giugno 2010
Un
anno fa, il nostro Presidente del Consiglio assicurava che l'Italia avrebbe
versato quanto dovuto al Fondo Globale contro Aids, Tbc e malaria. I soldi non
sono ancora arrivati.
Un
anno fa, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, davanti a una platea di
giornalisti, prometteva che l'Italia avrebbe al più presto versato la quota per
il 2009 al Fondo Globale contro Aids, tubercolosi e malaria: 130 milioni di euro
più 30 milioni di dollari aggiuntivi chiesti l'anno scorso dal direttore
esecutivo del Fondo, Michel Kazatchkine. L'Italia è l'unico Paese donatore del
Fondo Globale che non ha ancora versato la quota 2009, denuncia l'Osservatorio
italiano sull'azione globale contro l'Aids, alla vigilia di un nuovo summit del
G8, questa volta convocato Oltreoceano, in Canada
Nel
2010 scade il termine che i Paesi del G8 avevano fissato per realizzare
l'accesso universale alle cure, alla prevenzione e al trattamento per
l'Hiv/Aids. L'obiettivo è ancora lontano ed è necessario che al vertice di
Muskoka, in Canada, appunto, previsto il 25 e 26 giugno, gli otto leader
stabiliscano un piano che indichi le risorse da erogare e i tempi in cui
intendono farlo.
Nato
nel 2002, il Fondo Globale è diventato in pochi anni il principale meccanismo
di finanziamento della lotta contro le tre pandemie, con oltre 600 programmi in
144 Paesi. Finora sono state salvate 4,5 milioni di vite umane rendendo
possibile l'accesso alle cure per l'Aids a 2,3 milioni di persone. Sono stati
altresì assistiti 3,7 milioni di bambini resi orfani dall'Aidsi e 445mila donne
incinte sieropositive sono state sottoposte al trattamento di prevenzione della
trasmissione madre-figlio del virus Hiv . Attraverso le Oorganizzazioni non
governative che lo compongono, tutte impegnate nella lotta contro la sindrome da
immunodeficienza acquisita nei Paesi in via di sviluppo, l'Osservatorio italiano
sull'azione globale contro l'Aids ha l'opportunità di toccare con mano e
monitorare tali risultati direttamente sul campo.
Migranti:
missionari su diritti negati e "fabbrica della paura"
Misna
- 30 giugno 2010
"Stiamo
dalla parte degli immigrati, la nostra è una scelta di campo, la scelta degli
ultimi": è uno dei passaggi centrali di un documento diffuso oggi dalla
Conferenza degli istituti missionari italiani (Cimi), un testo ampio, nel quale
si denunciano negazioni dei diritti umani e responsabilità politiche diffuse.
Il documento, redatto dalla Commissione Giustizia, pace e integrità del Creato
dell'organismo missionario, comincia con una citazione di monsignor Raffaele
Nogaro, vescovo emerito di Caserta, terra che più di altre vive i drammi di
un'integrazione negata. "Oggi - ha scritto il religioso - la forma di
povertà più vistosa e drammatica in Italia è quella degli immigrati e dei
rom. In nome di una fantomatica 'sicurezza sociale' si sta costruendo,
soprattutto nel nostro paese, la fabbrica della paura verso tutto ciò che può
ledere la tranquillità del cittadino. Per questa prospettiva inquietante
l'incriminato di dovere è l'immigrato ed è il rom, considerati quasi
naturalmente soggetti di reato". Il documento della Cimi colloca la
situazione italiana in un contesto mondiale. "Oltre 214 milioni di migranti
internazionali - sottolineano i missionari - vi sono circa 740 milioni di
sfollati, in parte sfollati interni. Ciò significa che una persona su sette nel
mondo è un migrante". Centrale è la denuncia di "un accanimento
senza precedenti" contro lo straniero in Italia e in Europa, un accanimento
solo in apparenza in contrasto con il bisogno di braccia delle economie ricche.
"C'è chi si azzarda ad affermare che il rafforzamento delle frontiere non
serve solo e in primo luogo a fermare i movimenti migratori - sostiene la Cimi -
ma a definire come irregolari i migranti che le attraversano, dando loro
un'identità che li pone in una posizione di inferiorità e di mancanza di
diritti: un esercito di invisibili ricattabile e sfruttabile". Tanti i
riferimenti alla legislazione italiana che, scrivono i missionari, "da
quasi 20 anni" alimenta "un crescente razzismo e una forte
xenofobia". Rivelatore il caso del "pacchetto sicurezza", le
norme sull'immigrazione che nell'Agosto scorso hanno introdotto il reato di
"immigrazione clandestina". Nel documento della Cimi sono passate in
rassegna le regole più contestate, dall'estensione da due a sei mesi del
periodo massimo di detenzione nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie)
alla tassa sui permessi di soggiorno o alle nuove restrizioni sui
ricongiungimenti familiari. Lo sguardo si allarga poi al Mediterraneo, divenuto
un mare che divide anche a causa della nuova politica dei respingimenti.
"Questa spinta migratoria, proveniente dall'Africa, che tenta di
attraversare il Mediterraneo - sottolineano i missionari - è dovuta alla
tormentata situazione del continente nero, in particolare dell'Africa orientale
e centrale. La situazione di miseria, i regimi oppressivi, le guerre in atto
dell'Eritrea, Etiopia, Somalia, Sudan, Repubblica democratica del Congo e Ciad
sospingono migliaia di persone a fuggire attraverso il deserto per arrivare in
Tunisia e in Libia, dove sono sfruttati come schiavi".[VG]
Il
paese può insegnare la democrazia anche alla Cina
AsiaNews - Hong Kong - 3 luglio 2010
Dopo
il referendum per la democrazia, Rosa Otunbayeva ha prestato oggi giuramento
come presidente del Kirghizistan diventando il primo capo di stato donna di una
repubblica centroasiatica. Bao Tong, ex dirigente cinese del Pcc, parla della
volontà di democrazia del popolo kirghiso, più forte di decenni di poca libertà
e delle drammatiche violenze etniche delle ultime settimane. Un esempio che deve
far meditare i leader di ogni Paese.
Quest'oggi,
Rosa Otunbayeva ha prestato giuramento come presidente del Kirghizistan,
diventando il primo capo di stato donna di una repubblica centroasiatica. La
Otunbayeva ha assunto la guida ad interim del paese in aprile, dopo le rivolte
che hanno costretto alla fuga l'ex presidente Kurmanbek Bakiyev. Lo scorso 27
giugno la popolazione ha votato un referendum per la revisione costituzionale,
tenuto nonostante le perduranti violenze nel sud. Oltre il 90% dei votanti ha
approvato maggiori poteri al parlamento riducendo quelli del presidente,
portando il Paese verso la svolta democratica. Lo statista Bao Tong fa emergere
alcuni insegnamenti per la Cina.
"Il
desiderio di democrazia del Kirghizistan, è più forte delle drammatiche
violenze etniche nel meridione del Paese": lo afferma Bao Tong, ex
segretario del premier del Partito Comunista cinese Zhao Ziyang, in un articolo
apparso su Radio Free Asia in occasione dell'89° anniversario dalla fondazione
del Pcc il 1° luglio 1921. Il dissidente vede nei fatti accaduti in
Kirghizistan un esempio e un monito per il futuro della Cina.
"Il
Kirghizistan ha deciso con il referendum di diventare una democrazia, portando
speranza di una stabilità duratura. La popolazione del Kirghizistan ha prodotto
una nuova legge elettorale, con alcune certezze, sulla base del
referendum".
Lo
scorso aprile la popolazione era scesa in piazza costringendo il presidente
Kurmanbek Bakiyev a fuggire all'estero. Il governo di Bakiyev era criticato per
la concentrazione del potere nelle sue mani e per la diffusa corruzione.
"Un
popolo che non ha paura di [tenere un] referendum universale, non avrà nulla da
temere da elezioni universali, dirette. Con la loro mancanza di paura, essi
hanno trovato la via per una pace e una stabilità durature", scrive Bao
Tong dalla sua casa di Pechino dove è agli arresti domiciliari, dopo avere
scontato 7 anni di carcere per le proteste pro-democrazia di piazza Tiananmen.
Zhao e i suoi sostenitori caddero in disgrazia per non avere voluto stroncare le
proteste con la violenza, come ha poi fatto la leadership che l'ha sostituito.
I
media statali cinesi hanno parlato in modo positivo del referendum del
Kirghizistan e riferito il deciso sostegno dato dalle Nazioni Unite a questi
cambiamenti, che possono portare a elezioni parlamentari entro il 2010.
L'agenzia ufficiale Xinhua ha riportato il commento del Segretario Onu Ban
Ki-Moon che "l'adozione di una nuova costituzione è un passo importante
verso la promozione di uno Stato di diritto e l'instaurazione di governo eletto
democratico e legittimo".
Xinhua
ha anche riportato il commento della premier del governo provvisorio Roza
Otunbayeva che ha salutato il risultato come l'inizio di "un'autentica
democrazia popolare" e la fine di una sistema "autoritario e
nepotista". Nelle settimane subito prima del referendum ci sono stati gravi
scontri tra gli etnici kirghisi e uzbeki, che hanno causato centinaia di morti e
oltre 400mila profughi etnici uzbeki.
Bao,
sulla base della vicenda kirghisa, parla dei metodi usati nella storia cinese
per trasferire il potere da una generazione a quella successiva. Egli scarta il
metodo di "designare i successori" come sembra stia per fare il leader
nordcoreano Kim Jong Il e come non riuscì a fare l'ex leader supremo cinese Mao
Zedong.
"E'
troppo rischioso e allo stesso tempo troppo instabile affidare il potere supremo
di governo di un popolo a un tipo di decisione con un
sistema-senza-sistema", dice Bao, che precisa che la Rivoluzione del 1911
guidata da Sun Yat-sen aveva "aperto una nuova finestra" al popolo
cinese.
"In
un Paese che voleva chiamarsi una repubblica - scrive Bao - la popolazione era
l'artefice ultimo". "E così l'idea di elezioni piene e dirette si
affermò in modo profondo nella mente della gente... Era un principio
nuovo".
Ma
con la fondazione della Repubblica popolare di Cina nel 1949, la via verso
elezioni democratiche fu abbandonata in favore delle elezioni del
candidato-unico, nelle quali il solo candidato è predeterminato dai leader del
Pcc.
"Ognuno
- scrive ancora Bao - può vedere subito l'indescrivibile genialità
dell'elezione con il candidato-unico". "E' abbastanza semplice quello
che è l'essenza della storia del nostro Paese - è stato abbandonato il sistema
ceh favoriva la tradizione della famiglia reale, [per varare] il
sistema-senza-sistema nel quale chi detiene il potere decide chi gli succederà".
All'inizio
di questa settimana il presidente Hu Jintao ha richiamato i membri del Pcc a
"svolgere un ruolo di esempio", in risposta alla continua protesta
pubblica contro la diffusa corruzione tra i funzionari comunisti, alla crescente
richiesta di riforme politiche e per cambiamenti sociali. Da tempo analisti
osservano che la corruzione è conseguenza proprio della mancanza di democrazia
e di libertà di critiche verso chi ha potere.
Eritrei
deportati, appelli al rispetto del diritto internazionale
Misna
- 2 luglio 2010
"Per
salvare la vita ai circa 300 eritrei che si trovano ora rinchiusi nel centro di
detenzione di Sebha in Libia il Governo italiano deve muoversi immediatamente
usando tutti i mezzi diplomatici e tutte le pressioni politiche del caso":
è l'appello rivolto da Jean Leonard Touadi, parlamentare italiano, sulla
vicenda dei circa 300 migranti irregolari eritrei protagonisti tra il 29 e 30
Giugno di una rivolta nel centro di detenzione libico di Misratah, dopo che le
autorità libiche avevano fatto firmare un foglio di rimpatrio forzato. A
distanza di due giorni, sottolinea il parlamentare, il governo di Roma continua
a tenere "un silenzio imbarazzante" pur di fronte ad una palese
violazione del diritto internazionale che, aggiunge, "deve far riflettere
sull'opportunità degli accordi per i respingimenti presi con il governo
libico". Dal canto suo, Mario Lana, presidente dell'Unione forense per la
tutela dei diritti dell'uomo, non esita a parlare di possibile "disastro
umanitario", poiché i migranti sono per lo più persone "che se
tornassero nel loro paese sarebbero sottoposte a violenze di ogni genere".
Le organizzazioni umanitarie denunciano che in seguito alla rivolta, i circa 300
eritrei, tra cui numerose donne e bambini, sono stati caricati su container
chiusi, senza cibo e acqua, e deportati nel centro di Sebha, affrontando un
viaggio di oltre mille chilometri e da lì saranno probabilmente rimandati in
Eritrea.[AdL]
Radio
Don Bosco compie 14 anni. E presto arriverà una tv
www.radiovaticana.org
È
nata il 27 giugno 1996 e dunque ha appena festeggiato 14 anni di vita Radio Don
Bosco, una delle prime emittenti a trasmettere da Antananarivo, capitale del
Madagascar. Il direttore, don Luca Treglia, ripercorre con l’agenzia Fides i
primi tempi: “Abbiamo cominciato con una redazione di 20 persone – ricorda
– ora ne lavorano in radio una trentina, molti dei quali sono giovani formati
direttamente da noi, secondo la vocazione specifica dei Salesiani, ispirata
all’insegnamento di don Bosco. Molti altri, comunque, circa la metà dei
nostri allievi, hanno trovato spazio nel campo dei media”. Oggi, Radio Don
Bosco trasmette in tutta l’isola, grazie all’ausilio di quattro ripetitori e
i suoi programmi – il giornale radio, le interviste, gli approfondimenti e le
dirette in occasione di eventi speciali come l’insediamento di un vescovo –
vengono trasmessi anche dalle radio cattoliche aderenti a un circuito, che ne
riunisce circa una ventina, creato dalla Conferenza episcopale locale.
L’emittente è considerata una fonte affidabile di notizie ed è ascoltata
giornalmente da 400 mila persone. Ma c’è anche un progetto per il futuro:
fondare un canale televisivo. “Abbiamo ottenuto dal governo i permessi –
annuncia don Treglia – siamo fiduciosi che con l’aiuto di Dio un giorno verrà
alla luce”. (R.B.)
Obama
e re Abdullah: due popoli, due Stati, per la pace in Medio oriente
AsiaNews - Washington - 30 giugno 2010
Il
re saudita e il presidente americano affermano che è la sola soluzione che potrà
portare la pace, garantendo allo stesso tempo una patria per i palestinesi e un
rafforzamento e la sicurezza di Israele.
La
soluzione "due Stati, due Popoli" è la sola che potrà portare la
pace in Medio oriente, garantendo allo stesso tempo una patria per i palestinesi
e un rafforzamento e la sicurezza di Israele. È quanto hanno affermato ieri il
presidente Usa Barack Obama e il re saudita Abdullah, in visita ufficiale - la
prima dal cambio di amministrazione negli Usa - a Washington. I due leader hanno
discusso anche di Iran, Pakistan e Afghanistan, sottolineando a più riprese il
rapporto di "amicizia" fra i due Paesi.
Le
nazioni arabe sono contrariate per gli scarsi risultati ottenuti da Obama con il
governo di Tel Aviv, che ha proseguito nella politica degli insediamenti nei
territori e ha innalzato la tensione internazionale con l'attacco alle nave
carica di aiuti umanitari diretta a Gaza. Il prossimo 6 luglio è in programma
un vertice alla Casa Bianca fra il presidente Usa e il premier israeliano
Benjamin Netanyahu.
Obama
e re Abdullah hanno discusso di diverse questioni definite
"strategiche", fra cui Iran, Pakistan e Afghanistan, e dei prigionieri
sauditi detenuti a Guantanamo. Tuttavia, il centro dei colloqui ha riguardato il
conflitto Israelo-palestinese e i passi da compiere per "assicurare una
patria ai palestinesi, perché possano vivere fianco a fianco con un prospero
Stato di Israele". Sempre ieri, in mattinata, sulla questione è
intervenuto anche il Ministro israeliano degli esteri Avigdor Lieberman, il
quale ha puntualizzato che gli stalli nei colloqui e le divisioni fra
palestinesi impediscono la nascita dello Stato palestinese "prima del
2012".
Tuttavia,
Barack Obama e re Abdullah auspicano una ripresa nei "colloqui
diretti" e la convivenza pacifica fra le due realtà. Il monarca saudita ha
rilasciato una breve dichiarazione al termine dei colloqui in cui ringrazia il
presidente Usa per l'ospitalità e "apprezza l'amicizia" che lega
Stati Uniti e Arabia Saudita. Una frase sottolineata a più riprese dal
Washington Post, secondo cui il re saudita ha voluto rimarcare con particolare
attenzione "l'amicizia fra il popolo americano e il popolo saudita, le
popolazioni arabe e il mondo musulmano".
L'incontro
fra i leader statunitense e saudita ha segnato anche un significativo
cambiamento. Il quotidiano Arab News riferisce che l'ambasciata saudita a
Washington ha usato il popolare social network Twitter per lanciare
aggiornamenti sulla visita del monarca. Oltre a brevi messaggi, ha caricato
video su You Tube, al link www.youtube.com/saudiembassyusa.
Il
premier Netanyahu: «Per Shalit libereremo 1.000 prigionieri» di
Geraldina Colotti
Il
Manifesto - 2 luglio 2010
Dall'Europa
presto altre sei navi pacifiste acquistate con la raccolta di fondi solidali
salperanno di nuovo verso Gaza
Dopo
il sanguinoso attacco alla nave pacifista turca della Freedom flotilla,
abbordata il 31 maggio, Israele allenta la presa su Gaza? Alcune notizie,
enfatizzate dai media, suggerivano ieri questa interpretazione. In primo luogo
il discorso di Benjamin Netanyahu, trasmesso in diretta dalla tv al-Jazeera, in
cui il primo ministro israeliano ha detto di aver accolto la proposta del
mediatore tedesco Gerhard Konrad: lo scambio di 1.000 prigionieri con Hamas
nell'ottica di liberare il caporale Gilad Shalit, nelle mani dei militanti
palestinesi dal 25 giugno 2006. Lo stesso schema, però, a ben vedere, era stato
avanzato dal premier già un anno fa, e considerato inaccettabile dalla
controparte palestinese: perché prevedeva l'espulsione di un gruppo di detenuti
o il loro ritorno a Gaza. «Siamo disposti a pagare un prezzo alto, ma non
qualunque prezzo», ha dichiarato infatti Netanyahu, ribadendo negli stessi
termini la proposta di allora. «La sola questione umanitaria a Gaza è quella
di Ghilad Shalit», gli ha fatto eco il viceministro degli esteri Danny Ayalon,
mentre il generale Eitan Dangof riceveva gli ambasciatori stranieri inviati a
constatare sul terreno l'annunciato alleggerimento del blocco della striscia di
Gaza. Secondo il generale, una lista delle merci vietate «per motivi di
sicurezza» sarà presto completata da Israele.
«Non
è vero che Israele ha allentato la morsa su Gaza», ha affermato invece
AbdelHadi Abu Khousa, direttore del Palestinian Medical Reliefe Society di Gaza,
in una conferenza stampa che si è tenuta ieri a Roma nella redazione di Carta.
Dopo oltre tre settimane di aggressione armata da parte di Israele, nel gennaio
2009, per il milione e mezzo di persone confinate nella «prigione a cielo
aperto» di Gaza, le conseguenze sono disastrose sotto ogni punto di vista: la
disoccupazione colpisce il 65% della popolazione che, «al 70% vive sotto la
soglia di povertà: 17.000 case sono state distrutte insieme a tutte le
industrie, ma Israele non permette che entri il cemento. Mancano le attrezzature
mediche necessarie agli ospedali. Le carrozzine per i disabili portate dalla
Freedom flotilla sono state consegnate, ma senza le batterie». Invitato in
Italia dall'associazione Ya Basta, il medico ha elencato malattie e
malformazioni riscontrate per l'impiego di armi chimiche. Ha raccontato che le
famiglie dei malati vengono ricattate: «o fai il confidente, oppure non ti
diamo il permesso di passare».
La
solidarietà, però, non si arresta. Giovanni Franzoni, della Comunità
cristiana di base di San Paolo, ha illustrato la spedizione di un impianto
fotovoltaico all'ospedale di Gaza. Il videoreporter Manolo Luppichini, uno dei
partecipanti alla Freedom flotilla, la determinazione di chi viaggiava sulla «8.000»,
dedicata al numero di prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane.
E «6 nuove navi, acquistate con la raccolta fondi partiranno a breve»
(www.savegaza.eu; www.flotillaitalia.net)
Al di là delle armi di Mel Frykberg
ipsnotizie.it - Ramallah - 30 giugno 2010
La
maggior parte dei media continua a utilizzare l’immagine di una
kamikaze come simbolo della resistenza delle donne palestinesi. Ma al di
là di questi casi estremi, queste donne stanno portando avanti una
lunga battaglia contro l’occupazione israeliana. Ciò
che Israele chiama terrorismo, per le donne palestinesi è una lotta
legittima che riguarda da vicino anche loro, non solo gli uomini. “Le
donne palestinesi hanno imbracciato le armi, hanno seguito un
addestramento militare, e hanno sempre teso la mano alle donne
israeliane nei negoziati di pace, come parte della loro battaglia per la
liberazione”, ha detto in un’intervista a Terraviva il ministro per
le politiche femminili dell’Autorità Palestinese (AP) Rabiha Diab. |
La
lotta ha reso le donne molto determinate. “L’aspetto politico della
resistenza ha visto le donne palestinesi protagoniste indiscusse”, osserva
Diab. “Mentre erano rinchiuse nelle carceri israeliane, le donne palestinesi
si sono fortemente politicizzate e sono cresciute nella loro capacità di
leadership, tanto che alcune di esse oggi sono leader nell’AP”.
Il
ruolo politico delle donne palestinesi si è poi sviluppato nelle università,
dove hanno guidato le organizzazioni studentesche nell’organizzazione di
scioperi e altre attività di resistenza giovanile.
Le
donne forniscono un sostegno in tanti modi diversi, anche con i sistemi
considerati più tradizionali: hanno formato ad esempio cooperative che
forniscono cibo, coltivano ortaggi in casa loro e crescono conigli e pollame per
le uova e la carne.
Associazioni
di medici, ambulanze e ambulatori richiedono la presenza di donne al loro
interno. Quando Israele ha chiuso scuole e università, compromettendo
seriamente l’istruzione palestinese, le donne hanno organizzato corsi
alternativi in casa per ragazzi e studenti universitari.
È
stato durante la seconda Intifada, cominciata nel 2000, che sono aumentate le
militanti palestinesi. Ahlam Tamimi, una giovane donna single di Ramallah, sta
scontando una pena di 16 ergastoli per aver trasportato un kamikaze che nel 2001
si è fatto saltare in aria in una pizzeria di Gerusalemme uccidendo 16
israeliani.
Rawda
Habibi, abitante di Gaza ed ex membro della Jihad islamica, è stata liberata lo
scorso anno per uno scambio di prigionieri dopo aver trascorso 2 anni in una
prigione israeliana. Habibi, madre di quattro figli, era accusata di aver
tentato di entrare in Cisgiordania per trasportare un kamikaze.
“Nonostante
l’isolamento e l’interrogatorio brutale che ho subito, non ho rimpianti,
credo che sia un dovere per le donne combattere per la liberazione sullo stesso
piano degli uomini” ha detto Habibi all’ IPS.
Ma
la pace rimane una priorità. “Siamo costantemente in contatto con donne
israeliane appartenenti a diversi gruppi pacifisti per cercare di costruire un
consenso in quanto madri e donne”, ha spiegato Diab. “Ma la pace si potrà
raggiungere solo quando ai palestinesi verranno riconosciuti i loro diritti
legittimi”.
Il
difficile ruolo dei cristiani in Medio Oriente
www.acs-italia.glauco.it - 30 giugno 2010
L’impatto
dell’estremismo nei confronti dei Cristiani in medio Oriente è stato
messo a nudo da uno dei maggiori esperti vaticani di Islam, che ha
lanciato un appello per una azione di salvaguardia della presenza della
Chiesa in una regione in cui la sua sopravvivenza è minacciata. Parlando
ad Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), padre Samir Khalil Samir ha
spiegato il problema dell’estremismo, sia in Medio Oriente che in
Occidente. Analizzando in particolare la situazione in Medio Oriente, il padre gesuita di origini egiziane e vissuto in Libano, ha classificato i Paesi della regione secondo una scala variabile di oppressione anti-cristiana, che vede l’Arabia Saudita come quello in cui vi è la situazione peggiore. Padre
Samir, che sta coordinando i preparativi per il Sinodo dei Vescovi del
Medio Oriente che si terrà il prossimo autunno a Roma, riferisce: «I
cristiani in Arabia Saudita non possono riunirsi a pregare nemmeno nelle
proprie case. Questa è la situazione peggiore, i diritti umani sono
praticamente sconosciuti». |
Sottolineando
come in molte zone del Medio Oriente i Cristiani sono ridotti ad una piccola
minoranza, ha proseguito: «Per molti, l’unica soluzione è l’emigrazione;
il proselitismo, l’annuncio di Cristo a tutti è proibito. Non vi è
uguaglianza».
Padre
Samir ha descritto come a partire dalla fine degli anni ’60 alcuni Paesi
mediorientali, in particolare l’Arabia Saudita, hanno tratto vantaggio dalle
risorse petrolifere per finanziare la setta militante dell’Islam Wahabi che,
ha detto, si è diffusa in lungo e in largo, anche in occidente.
«Hanno
costruito moschee, principalmente finanziate dall’Arabia Saudita ma anche da
Teheran, inviando predicatori ed imam ed hanno dato questa visione molto
ristretta dell’Islam».
Sottolineando
un passaggio drammatico nell’oppressione dei Cristiani risalente agli anni
’70, padre Samir ha continuato a sottolineare la necessità del dialogo con
l’Islam, puntualizzando che i fedeli in Medio Oriente svolgono un ruolo
fondamentale in questa area.
Ha
detto: «La domanda è: chi è in grado di dialogare con l’Islam? Di fatto,
nonostante la situazione sia difficile per i cristiani arabi, i principali
interlocutori con i musulmani, in grado di portare un cambiamento sono proprio i
cristiani arabi. Noi siamo coinvolti nel dialogo ogni giorno. Lavoriamo insieme,
andiamo a scuola insieme».
Padre
Samir, che ha istituito 20 scuole ed è autore di almeno 40 libri, ha
sottolineato la necessità di progetti comuni con i musulmani, al fine di
abbattere l'ignoranza e la sfiducia e promuovere la formazione.
Affermando
che l’Islam «è in crisi» nella crescente insicurezza tra i musulmani a
proposito del rapporto tra fede e modernità, egli ha tuttavia precisato che le
discussioni teologiche sono rese estremamente difficili a causa della diversa
visione su Gesù Cristo e la Bibbia da un lato, e dall’altro il Profeta
Maometto ed il Corano.
Padre
Samir, professore universitario nella capitale libanese di Beirut, a Parigi e
presso l’Università Gregoriana di Roma, ha detto: «Abbiamo bisogno del
vostro aiuto, in particolare di quello spirituale. Le vostre preghiere
sostengono il popolo in una regione in cui vi è oppressione. Abbiamo bisogno
del vostro aiuto per progetti che promuovano l’educazione e la pace».
Emergenza
alimentare più grave del previsto, raddoppiati aiuti
Misna
- 2 luglio 2010
Raddoppiare
gli aiuti destinati al Niger per far fronte a un netto peggioramento della crisi
alimentare che sta colpendo soprattutto i bambini: è questa la decisione presa
dal Programma alimentare mondiale (Pam) in seguito ai risultati di una indagine
del governo secondo cui la percentuale di minori di cinque anni di età
malnutriti è salita ben oltre le previsioni passando dal 12,3% dello scorso
anno all'attuale 16,7%. L'obiettivo del Pam è adesso quello di distribuire
aiuti alimentari ad almeno 4 milioni 700 mila persone con particolare
riferimento ai bambini. Il Pam ha anche predisposto piani specifici per
assistere le donne incinte e le mamme che allattano. Secondo alcune stime la
siccità dello scorso anno ha determinato un calo del 30% della produzione di
cereali, nell'ultimo biennio quella di foraggio è calata di oltre il 60% con
gravi conseguenze per gli allevatori di bestiame. Particolarmente esposte sono
le popolazione del nord del paese, abitato in prevalenza dai tuareg. Benché
meno grave, la situazione è difficile anche nel vicino Ciad dove il Pam sta
distribuendo aiuti per circa 850 mila persone.[GB]
Dieci
milioni di bambini mancano dai banchi di scuola
Misna
- 28 giugno 2010
Sono
dieci milioni i bambini nigeriani in età scolare che non frequentano la scuola,
la maggior parte sono "bambini di strada" che vivono nel nord del
paese, un termine che indica i minori orfani, abbandonati o fuggiti da casa che
vivono per le vie delle città. I dati sono stati resi noti dal ministro
nigeriano dell'Educazione Ruqayyatu Rufa'i, aggiornando sugli sviluppi del
programma federale "Educazione di base per tutti". La signora Rufa'i
ha precisato che sono stati liberati 32 miliardi di nairas (172 milioni di euro)
dal fondo per costruire 600.000 nuove aule in tutto il paese ed altre
infrastrutture necessarie per migliorare i servizi scolastici e aumentare le
iscrizioni. Il ministro ha sollecitato i governi dei singoli stati federati di
partecipare al programma nazionale. Con una popolazione di circa 150 milioni di
abitanti, secondo il censimento del 2009, in Nigeria vivono almeno 54 milioni di
minori dai zero ai 14 anni, pari al 44% del totale degli abitanti.[BF]
I
cristiani accanto ai musulmani sufi per costruire armonia e pace
Agenzia
Fides - Lahore - 3 luglio 2010
"Come
cristiani del Pakistan continueremo a pregare e a collaborare con i musulmani
sufi per la costruzione di una società giusta, armoniosa e fraterna, contro
ogni forma di estremismo. Larghi settori della società pakistana apprezzano i
musulmani sufi. Condanniamo l'atto terroristico che li ha colpiti, esprimiamo
loro vicinanza e solidarietà": lo dice in un colloquio con l'Agenzia Fides
S. Ecc. Mons. Max John Rodrigues, Vescovo di Hyderabad, all'indomani
dell'esplosione kamikaze in un santuario musulmano sufi di Lahore, che ha fatto
42 morti e centinaia di feriti. In Pakistan si registra lo stato di
"massima all'erta" delle forze di sicurezza ma vi è ancora grande
paura, specialmente fra la gente di Lahore.
L'analisi
del Vescovo prosegue: "I musulmani sufi sono pacifici, aperti al dialogo e
alla collaborazione con tutti. Per questo danno fastidio agli estremisti, che li
consideranno eretici. Nel marzo del 2009 un santuario sufi, a Peshawar, è stato
distrutto con una bomba dai talebani. Ora quest' atto terroristico contro
innocenti: i sufi e la loro mentalità ispirata ai principi dell'amore sono un
bersaglio per l'ideologia settaria e ristretta dei gruppi radicali".
Mons.
Rodrigues conclude: "Non sappiamo chi vi sia dietro l'attentato. Siamo
addolorati. Il terrorismo è un nemico infido, che non si vede e che si
nasconde. Nel paese si parla molto della lotta al terrorismo, ma finora le
istituzioni non sono riuscite a sconfiggerlo e la popolazione ha paura".
Il
cattolico Francis Mehboob Sada, Direttore del "Christian Study Center"
a Rawalpindi - apprezzato centro ecumenico di documentazione, studio e
riflessione, attivo anche nel dialogo interreligioso - condivide l'analisi del
Vescovo e dichiara a Fides: "Il terrorismo attacca i sufi proprio perchè
sono musulmani che predicano la pace e il dialogo. Per questo suo atteggiamento,
l'islam sufi sta acquistando crescenti consensi e seguaci in Pakistan. Inoltre
quel santuario di Lahore è un luogo frequentato da molti poveri che ricevono
ogni giorno aiuto e solidarietà. Molti si recano lì a pregare. L'attentato è
stato perciò particolarmente crudele: intendeva colpire poveri innocenti e
scoraggiare i fedeli a seguire il sufismo".
Mehboob
Sada rimarca a Fides: "Il Christian Study Center ha un ottimo rapporto con
i leader musulmani sufi. Di recente abbiamo tenuto un convegno sottolineando lo
stretto rapporto fra la mistica del sufismo e la pace. Come cristiani pakistani
continueremo a collaborare con i sufi, in un dialogo sereno e costruttivo, per
il bene della nazione".
Sul
fenomeno dilagante del terrorismo, il Direttore spiega: "Il terrorismo è
forte e semina panico. I gruppi terroristi, con un islam ideologico, spesso
manovrano i giovani poveri e privi di istruzione. Alcuni eminenti leader
islamici ribadiscono che tali atti terroristici sono contrari all'islam. Ma
occorre un'opera massiccia di educazione e informazione da parte delle
istituzioni e dei mass-media. Governo ed esercito ribadiscono ogni giorno
l'impegno nella lotta al terrorismo. In realtà sembra che le istituzioni siano
impotenti. Anche al recente summit del G8 si è ribadito che urge un aiuto
esterno per combattere il terrorismo in Pakistan". (PA)
Attacco
al cuore dei musulmani di Marina Forti
Il
Manifesto - 3 luglio 2010
L'antico
santuario nella città di Lahore era in una lista di possibili obiettivi di
attacchi, ma le misure di sicurezza erano deboli. Sospettato uno dei gruppi più
nuovi e feroci della galassia dei Taleban pakistani. Ora le polemiche: il
governo fino all'ultimo ha negato i legami tra i taleban della frontiera afghana
e la militanza armata nel Punjab. Sarà costretto a perseguirli? Attentatori
suicidi in un mausoleo sufi, 42 morti. E migliaia di persone protestano contro
il governo
Un
doppio attacco suicida ha fatto strage giovedì sera a Lahore, la città
orientale del Pakistan, capitale della provincia del Punjab. Questa volta la
scena è un santuario molto popolare, noto come Data Ganj Bakhsh, mausoleo di un
santo sufi dell'11esimo secolo, una sorta di patrono della città: tanto che la
sua tomba, diventata un santuario con ampia moschea coperta di marmi bianchi, è
considerato un punto di riferimento di grande importanza culturale e religiosa,
nel cuore della parte antica di questa città di 8 milioni di abitanti, «hub»
politico e culturale di tutto il paese. E' qui che la sera del 1 luglio due
uomini si sono mercolati ai fedeli e si sono fatti esplodere, il primo nella
zona delle abluzioni vicino all'ingresso, il secondo nella principale sala di
preghiera: il bilancio è di 42 morti e 175 feriti.
La
scena è stata catturata dalle telecamere a circuito chiuso all'interno del
santuario, e quelle immagini trasmettono shock. Lo stesso shock traspare dai
commenti raccolti ieri dai cronisti pakistani e stranieri davanti a quel
santuario: «hanno fatto l'impensabile», dice una donna. Lahore non è nuova al
terrorismo: alla fine di maggio erano state prese di mira due moschee
appartenenti alla minoranza religiosa Ahmadi, che si considerano musulmani anche
se non sono riconosciuti dalla legge del pakistan: il bilancio era stato di 100
morti. E dallo scorso ottobre, tra attacchi a caserme e accademie militari,
mercati e altri luoghi pubblici, circa 300 persone sono morte.
L'attacco
al santuario sufi però ha suscitato particolare indignazione. E ieri alcune
migliaia di persone hanno protestato, con una manifestazione in cui sono stati
urlati slogans contro Shabbaz Sharif, capo del governo provinciale (e fratello
dell'ex premier Nawaz Sharif, capo dell'opposizione). «Attacchi così sono
avvenuti troppo spesso in Punjab. Invece di minacciare il pugno di ferro dopo
ogni strage, è ora che le autorità facciano qualcosa subito», commentava un
mullah, Mohammad Naeem, alla tv privata Dunya.
I
media e gli osservatori locali ieri hanno sollevato parecchie questioni
sull'ultimo attentato a Lahore. Primo, le misure di sicurezza. Un paio di mesi
fa la polizia a Lahore aveva scoperto un nascondiglio di armi ed esplosivi di
notevole entità e proprio pochi giorni fa era da fonti della polizia era
trapelata una lista di possibili obiettivi per prossimi attentati: il santuario
di Data Ganj era tra questi. In effetti all'ingresso del mausoleo c'erano un
paio di agenti e un metal detector, che si sono rivelati del tutto inefficaci.
Alcuni testimoni dicono che quella sera erano aperti anche due ingressi
supplementari, per far entrare i fedeli. La immagini della telecamera a circuito
chiuso mostrano un agente che nota un uomo sospetto e lo rincorre, ma prima di
acciuffarlo questo esplode.
Altra
questione: chi è responsabile di un attacco così odioso? La polizia ha
recuperato i corpi decapitati dei due attentatori; uno è stato identificato
come un uomo proveniente da un villaggio vicino a Lahore (la sua famiglia non lo
vedeva da mesi). Gli esecutori dunque sono «autoctoni». Nessuno ha
rivendicato, ma gli osservatori più autorevoli puntano i sospetti su uno dei
gruppi armati legato alla galazzia dei Taleban pakistani. Più precisamente,
indicano una delle sigle più nuove e feroci, la Brigata Ghazi, gruppo nato in
risposta al famoso assedio della «moschea rossa» di Islamabad nel luglio del
2007, divenuta un centro di azioni violente di ispirazione taleban - la polizia
ne prese il controllo facendo 154 morti, tra cui il leader della moschea, Abdul
Rashid Ghazi, da cui il nome del nuovo gruppo.
il
fatto è che fino a recentemente il governo pakistano - e quello del Punjab in
particolare - ha negato l'esistenza di gruppi di «Taleban del Punjab», ovvero
che gruppi estremisti radicati nella provincia siano operativamente legati alla
rete dei taleban della frontiera afghana. Solo di recente il governatore del
Punjab, Salman Taseer, ha ammesso l'esistenza di «pateban del Punjab» in una
intervsita alla Bbc-urdu. Fiorse ora l'attentato al santuario sufi costringerà
il riluttante governo a prendere le misure che ha cercato di evitare,
commentavano ieri alcuni giornalisti pakistani. Anche per ormai è visibile una
opposizione pubblica ai Taleban, che hanno perso l'aura di cui pure avevano
goduto - quella di musulmani che si battevano contro la presenza straniera, o
contro un governo asservito agli americani.
Le
divisioni all'interno dei militari rwandesi: un'analisi
Agenzia Fides - Kigali - 2 luglio 2010
"Il
recente arresto del generale Jean Bosco Kazura e l'attentato contro il gen.
Kayumba Nyamwasa in Sudafrica (dove si è rifugiato perché ricercato dalle
autorità del suo Paese) mostrano le divisioni che attraversano la gerarchia
militare" afferma una nota inviata a Fides dalla "Rete Pace per il
Congo". Il motivo ufficiale evocato per l'arresto di Kazura è che sarebbe
uscito dal paese senza autorizzazione e all'insaputa dei suoi superiori.
"Questa versione non sembra credibile" afferma la nota. "Se ha
viaggiato con un passaporto diplomatico, ha certamente dovuto ritirarlo presso
un servizio abilitato. In ogni caso, ha dovuto chiedere un visto per il
Sudafrica. Tali pratiche hanno certamente permesso alle autorità rwandesi di
essere informate del viaggio del generale". Per la giustizia spagnola
Nyamwasa è il mandante dell'uccisione del missionario catalano Joaquim Vallmajó,
nel 1994, e di tre membri dell'organizzazione "Medicos del Mundo".
Questo
ennesimo allontanamento di alti graduati dell'esercito viene a mettere ancora a
nudo le profonde divisioni esistenti in seno al gruppo di ufficiali tutsi che
dirige il Paese.
1.
Divisioni tra gli ufficiali venuti dall'Uganda e quelli venuti da altri paesi
vicini al Rwanda. Fin dalla loro conquista del paese, nel luglio 1994, è
apparso chiaro che gli ufficiali venuti dall'Uganda, come l'attuale Presidente,
Paul Kagame, si consideravano come superiori agli altri venuti dalla Repubblica
Democratica del Congo e dal Burundi. Sono convinti che l'iniziativa della
riconquista del Rwanda è stata presa dai Tutsi che provengono dall'Uganda e che
gli altri non sono venuti che in appoggio alla vittoria già assicurata.
Conseguenze:
gli anglofoni", venuti dall'Uganda e dalla Tanzania, sono saliti
rapidamente di grado nella gerarchia militare e parecchi di loro si sono
ritrovati nominati, in breve tempo, colonnelli o generali, mentre gli altri, i
francofoni, erano mandati sistematicamente in pensione. Il generale Jean Bosco
Kazura, nato ed educato in Burundi, è uno dei rari ufficiali superiori che non
è venuto dall'Uganda.
2.
Divisioni tra gli ufficiali che hanno frequentato l'università e quelli che
hanno un basso livello di studio. Il nucleo di ufficiali più vicini al
Presidente Kagame spesso adolescenti reclutati appena dopo la presa di Kampala,
sono stati tutti, dopo la presa di Kigali, promossi di grado, insieme ad altri
ufficiali che erano entrati nel Fronte Patriottico Rwandese (FPR), dopo gli
studi universitari. Se i primi non hanno grandi diplomi e devono tutto a Paul
Kagame, i secondi sono degli intellettuali che possono far prova di spirito
critico. Conseguenza: nel momento in cui i primi raggiungono il vertice della
gerarchia, i secondi, sono costretti all'esilio o sono arrestati.
3.
Divisioni tra Abanyiginya ed Abega. L'antagonismo tra questi due clan tutsi è
famoso. Paul Kagame, essendo Umwega, diffida dei suoi rivali Banyiginya.
4.
Divisioni tra i discendenti degli emigrati naturali e i rifugiati del 1959.
Molti Tutsi rwandesi si sono installati in Congo dagli anni '30 in cerca di
pascoli per i loro greggi o nel contesto dello spostamento di popolazioni deciso
dall'autorità di Tutela. In Burundi, dei funzionari coloniali tutsi erano stati
mandati in questo Paese fin dagli anni '40. In Uganda alcune ricche famiglie
tutsi vi avevano acquistato terre e pascoli, molto prima del 1959. Poi
arrivarono i rifugiati del 1959 (anno dell'indipendenza del Rwanda e della presa
di potere degli hutu). Sono i loro discendenti, degli emigrati e dei rifugiati,
che hanno intrapreso la conquista del Rwanda nell'ottobre 1990. Non c'è dunque
da meravigliarsi se nella gestione del Paese che hanno conquistato insieme,
possono apparire delle divisioni tra queste due componenti della diaspora tutsi
rwandese. (L.M.)
Editoriale
da Congo attualità n. 112
ricevuto
da info@muungano.it
Il
"nuovo Rwanda" è sempre più oggetto di critica per le severe
restrizioni imposte all'opposizione, ai giornalisti e alle ONG internazionali,
spesso in nome di una supposta lotta contro "l'ideologia genocidaria".
Numerosi dissensi sono apparsi anche in seno all'élite tutsi anglofona del FPR
che comanda il paese dal 1994. Tale dissenso si manifesta particolarmente nella
fuga in esilio di varie personalità chiave del regime, tra cui il generale
Nyamwasa, attualmente esiliato in Sud Africa. Quest’ultimo è ricercato da
Interpool in seguito ad un’inchiesta francese sull’attentato contro
l’aereo presidenziale, il 6 aprile 1994 e ad un’inchiesta spagnola
sull’assassinio di cittadini spagnoli in Rwanda e in RDCongo dal 1992 al 2002.
Nyamwasa è una spina nel tallone del regime rwandese, perché qualora fosse
estradato verso la Francia o la Spagna e cadesse nelle mani della giustizia
internazionale, egli potrebbe rivelare la verità di tanti crimini commessi dal
FPR, attualmente al potere e da Paul Kagame, l’attuale presidente. In questo
contesto, vari osservatori sono del parere che il fallito tentativo di
assassinare Nyamwasa in Sud Africa sia stato orchestrato a Kigali. Chi osa
denunciare tali intrighi, rischia di essere arrestato o , addirittura,
assassinato. Probabilmente, è il caso del giornalista Jean Léonard Rugambage,
recentemente assassinato a Kigali. Se in Rwanda la giustizia fosse libera e
indipendente, potrebbe accertare la verità su questi avvenimenti.
Nyamwsa
è un personaggio controverso. Minacciato dal regime rwandese, il Sud Africa gli
ha concesso asilo politico. Per la giustizia spagnola, è il mandante
dell’uccisione del missionario catalano Joaquim Vallmajó nel 1994 e dei tre
membri di medicos del mundo Flors Sirera, Manuel Madrazo y Luis Valtueña, tre
anni dopo e ne richiede al Sud Africa l’estradizione. Pretoria riconosce la
difficoltà di estradarlo verso la Spagna a causa della protezione
internazionale che gli ha concesso.
All'avvicinarsi
delle elezioni presidenziali del 9 agosto, il clima politico è sempre più
pesante. Le autorità organizzano una campagna elettorale bloccata e monolitica
emarginando l'opposizione e soffocando ogni voce critica. I pochi candidati che
si sono presentati finora per le prossime elezioni presidenziali di agosto sono
tutti dei rappresentanti di partiti filogovernativi che già nel 2003 avevano
appoggiato la candidatura di Paul Kagame. Queste candidature servono solo per
ingannare l’opinione nazionale e internazionale e dare alle elezioni stesse
una parvenza di democrazia.Ma i Rwandesi non hanno più paura e il 24 giugno
hanno sfidato la dittatura di Kigali, manifestando in massa e pacificamente per
richiedere la vera democrazia e la libertà per i leader dell'opposizione.
È
in questa situazione che l’Unione Europea avrebbe dovuto inviare in Rwanda una
missione di osservatori elettorali. In caso contrario, ella diventerà complice
di una dittatura.
Libri
di testo delle scuole diffamano cristiani, Chiesa e Papa di Melani Manel
Perera
AsiaNews - Colombo 30 giugno 2010
I
nuovi testi scolastici proposti dal ministero mettono sullo stesso piano cultura
occidentale e cristianità, accusate di aver tentato di distruggere le culture
singalesi. Arcivescovo di Colombo: "Questo è un tentativo per portare
disarmonia tra le comunità religiose e per inculcare un'immagine diffamante
nella mente degli studenti".
"I
programmi di storia e geografica utilizzati nelle scuole e pubblicati dal
Ministero, contengono giudizi che diffamano la Chiesa cattolica, il Santo Padre
e i cattolici". Lo ha denunciato mons. Malcom Ranjit, arcivescovo di
Colombo, che in questi giorni ha incontratoBandula Gunawerdena, ministro
dell'educazione, per mettere a tema il problema.
I
nuovi testi scolastici proposti dal ministero mettono sullo stesso piano cultura
occidentale e cristianità, accusate di aver tentato di distruggere le culture
singalesi, Secondo questi libri, il messaggio di bontà portato da Gesù non è
più vissuto all'interno della Chiesa. Nella sezione "Rinnovamento
religioso", il cristianesimo è introdotto come un ostacolo alle altre
religioni e l'educazione degli istituti cattolici viene vista come un modo per
propagare la fede cattolica.Ad attirare l'attenzione dell'arcivescovo su questa
problematica sono state le ripetute denunce di presidi e insegnanti cattolici di
storia e geografia.
"Questoè
un tentativo per portare disarmonia tra le comunità religiose e per inculcare
un concetto diffamante nella mente degli studenti", ha affermato mons.
Ranjit, durante l'incontro con il ministro. L'arcivescovo ha invitato il
ministro a rivedere l'uscita dei testi, consigliando un confronto con una
commissione interreligiosa. Egli ha anche confermato la disponibilità a
collaborare con il governo nella costruzione della società.
Per
ora Gunawerdena ha assicurato l'immediata revisione dei libri e la correzione
degli eventuali errori.
Prigionieri
politici Tamil cercano l'appoggio della Chiesa di Melani Manel Perera
AsiaNews - Colombo - 1 luglio 2010
A
oltre un anno dalla fine della guerra, nessuno dice cosa accadrà alle centinaia
di prigionieri politici detenuti per prevenire il terrorismo. Una lettera
inviata al Papa, che nessuno ha però visto.
"Anche
se la guerra è finita da oltre un anno, le autorità non hanno ancora
affrontato i loro compiti". Il quotidiano srilankese Daily Mirror del 29
giugno mostra il dramma dei prigionieri politici detenuti da mesi per l'Atto di
Prevenzione del terrorismo, e rivela che essi hanno scritto a Papa Benedetto XVI
e al vescovo dello Sri Lanka perché intercedano per un perdono presidenziale o
un rilascio su cauzione. La Chiesa nega però di avere ricevuto una simile
lettera. Su AsiaNews interviene il vescovo Harold Anthony Perera.
Secondo
fonti di stampa, sono parecchie centinaia i prigionieri ancora detenuti, tra cui
donne con bambini piccoli, giovani e anziani.
"Noi
- è scritto nella lettera - abbiamo bisogno di vivere in libertà e in pace nel
Paese, come ogni altro cittadino". I prigionieri lamentano che le loro
ripetute richieste al presidente Mahinda Rajapaksa perché sia fatta giustizia
sono rimaste inascoltate e chiedono l'intervento di Papa Benedetto.
AsiaNews
non ha potuto parlare con l'arcivescovo di Colombo mons. Malcolm Ranjith, ma il
suo segretario padre Quintus Fernando ha detto che l'arcivescovo non ha ricevuto
una simile lettera. Egli ha aggiunto che ha interpellato il cappellano del
carcere dell'arcidiocesi, ma pure questi non ha conoscenza della lettera.
Anche
mons. Perera, presidente della Commissione nazionale cattolica per Giustizia e
Pace, non ha notizie della lettera.
Rimane
per ora il mistero di questo appello, che forse vuole proprio suscitare
dibattito e interesse, ricordando centinaia di persone incarcerate e sospese
nell'incertezza.
Nella
capitale Colombo un sacerdote in missione tra i giovani
www.acs-italia.glauco.it - 6 luglio 2010
Ogni
mattina ed ogni sera lo Sri Lanka sembra vestirsi di bianco. Sia
all’orario di apertura che a quello di chiusura delle scuole, migliaia
di bambini e ragazzi riempiono le strade della città. Le ragazze
indossano gonne e camicette bianche, i ragazzi camice e pantaloni lunghi
bianchi. Solo i bambini più piccoli indossano pantaloncini blu con le
loro camice bianche. È
evidente che lo Sri Lanka, come confermano anche le statistiche, è un
Paese giovane. Su una popolazione di circa 20 milioni di persone, il 25%
ha fino a 15 anni. Per avere un’idea, basti pensare che in Gran
Bretagna appartiene a questo fascia d’età il 17% della popolazione
mentre in Germania arriva solo al 13%. Naturalmente bisogna anche
considerare che in Europa i giovani hanno migliori È evidente che lo Sri Lanka, come confermano anche le statistiche, è un Paese giovane. Su una popolazione di circa 20 milioni di persone, il 25% ha fino a 15 anni. Per
avere un’idea, basti pensare che in Gran Bretagna appartiene a questo
fascia d’età il 17% della popolazione mentre in Germania arriva solo
al 13%. Naturalmente
bisogna anche considerare che in Europa i giovani hanno migliori
possibilità formative ed opportunità di carriera rispetto ai loro
coetanei nello Sri Lanka. Infatti in questo stato insulare non è affatto facile per i diplomati acquisire una formazione o adeguate opportunità lavorative e poiché molti di essi basano sempre più le loro aspettative di vita secondo gli standard occidentali, viene a crearsi sempre di più un enorme divario tra aspettative e realtà. |
La
conseguenza, specialmente tra i giovani, è un senso di disillusione e
disorientamento, come ha detto padre Priyantha Silva, sacerdote cattolico
dell’arcidiocesi di Colombo, in una recente conversazione con rappresentanti
di Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS).
Circa
10 anni fa padre Silva subì una lesione spinale che gli causò una paralisi
temporanea. Completamente recuperato, questo energico sacerdote quasi
cinquantenne, si è dedicato da allora al lavoro pastorale tra gli adolescenti
ed i giovani adulti. Organizza brevi ritiri e seminari ed accompagna molti
giovani con buoni consigli ed avvertimenti prestando particolare attenzione alla
formazione di una solida personalità. Cerca di insegnare ai giovani come vivere
la loro fede in ogni giorno; in altre parole, come responsabilizzarsi seriamente
nella famiglia, a scuola ed al lavoro.
I
ritiri quaresimali che l’arcidiocesi di Colombo ha offerto negli ultimi dieci
anni sono stati organizzati in gran parte da padre Priyantha Silva. A queste
sessioni, che si tengono dal Venerdì alla Domenica, partecipano regolarmente più
di 2.000 tra ragazzi e ragazze che, oltre a parlare dei problemi fondamentali
della vita e della fede, si riuniscono anche per momenti di preghiera comune per
poi concludere le giornate con la celebrazione dell’Eucaristia. Durante questi
incontri circa 50 sacerdoti sono disponibili per conversazioni personali e per
amministrare il Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione.
Grazie a queste sessioni, nel tempo, molti giovani sono riusciti a superare problemi familiari o di dipendenza ad un eccessivo consumo di alcol e droghe. Una parte del programma riguarda la pastorale dei giovani che, sottolineando la giusta relazione tra sessualità, matrimonio e famiglia, ha lo scopo di aiutarli a scoprire questi valori come obiettivo di un completo processo personale di maturazione, anziché lasciarsi andare alle pressioni della promiscuità e di relazioni occasionali.
Ai
rappresentanti di ACS padre Silva ha riferito che «oltre a questi
incontri annuali, incoraggiamo anche altre iniziative a livello
parrocchiale e diocesano». Da anni ormai ACS sostiene diversi progetti
pastorali nello Sri Lanka. «Anche in questo modo i giovani imparano
come sviluppare le loro capacità e tutto si svolge in
un’atmosfera che affonda le sue radici nei valori biblici ed umani»,
ha aggiunto. I giovani rispondono bene a padre Priyantha Silva, e questo appare ovvio guardando questo sacerdote mentre svolge il suo lavoro con loro. Apprezzano
la sua apertura e la sua capacità di ascoltare le loro domande ed i
loro problemi, invece di evitarli. Si tratta di una particolare
sensibilità che è stimata allo stesso modo anche dai non cristiani e
che padre Silva ha saputo esprimere anche artisticamente. Infatti è
stato lui a disegnare il primo francobollo postale a tema natalizio per
le Poste dello Sri Lanka. |
All’epoca
aveva appena 18 anni ed era ancora un seminarista ma da allora ha utilizzato il
suo talento anche per progettare chiese e cappelle. Da molti anni la sua
comprensione ed i suoi consigli sono molto apprezzati e ricercati in tutta
l’arcidiocesi di Colombo. Non solo attraverso l’arte ma anche con la musica,
il teatro ed il cinema padre Priyantha Silva ha realizzato con successo il suo
apostolato pastorale tra i giovani.
Riforma
immigrazione: Obama, "l'America guardi alla sua storia"
Misna
- 2 luglio 2010
"È
tempo di una riforma onnicomprensiva che tenga conto delle legittime aspettative
di tutti... La questione non è neppure più una questione politica o economica.
È una questione morale". Con queste parole, pronunciate ieri alla American
University di Washington, luogo simbolo in cui ricevette l'appoggio dei Kennedy
alla sua candidatura, il presidente Barack Obama ha affrontato la "necessità
e l'urgenza" di una riforma omnicomprensiva dell'immigrazione, perché - ha
detto - "è impossibile pensare di mandare a casa 11 milioni di
persone", immigrati 'irregolari' - tra cui la vasta comunità dei 'latinos'
che contribuì in modo consistente alla sua vittoria elettorale nel 2008 - che
negli Stati Uniti vivono e lavorano da tempo sostenendo l'economia nazionale.
Rivolgendosi al Congresso, esortato ad "avere coraggio" e ad
affrontare la questione migratoria, Obama ha parlato della necessità di
"un approccio pragmatico", nonché "federale e bipartisan":
se l'America vuole trovare una soluzione, ha aggiunto, "deve trovare il
coraggio di guardare alla sua stessa storia, ricordando oggi che per milioni di
immigrati è stata nei secoli una terra di opportunità ed è grazie ai suoi
valori fondanti che è diventata quello che è". L'approccio globale, ha
osservato allo stesso tempo il presidente, non può prescindere dal
"diritto e il dovere" per ogni paese "di avere pieno controllo
dei suoi confini", e gli 'irregolari' "non devono pensare che se
varcano i confini illegalmente non subiranno per questo alcuna
conseguenza". La strada appare tutta in salita, viste anche le difficoltà
previste di raccogliere il sostegno necessario di almeno una parte dei
repubblicani a quattro mesi dalle elezioni di medio termine. Riportando oggi il
discorso di Obama, il quotidiano 'Christian Science Monitor' osserva tra l'altro
che Obama ha inteso più mettere un 'segna-posto' che "rivolgere uno
specifico appello all'azione, perché il presidente conosce la difficoltà
politiche attorno alla questione. Non c'è possibilità - aggiunge il
prestigioso giornale - che il Congresso affronti la riforma dell'immigrazione
quest'anno e le prospettive per il prossimo potrebbero essere altrettanto cupe.
I repubblicani dovrebbero ottenere vantaggi significativi in termini di seggi
alle elezioni di medio termine, conquistando al livello potenziale una o
entrambe le camere del Congresso". La soluzione all'immigrazione, ha in
ogni caso precisato Obama, non passa per leggi come quella che entrerà in
vigore il 29 Luglio in Arizona, contestata da molti paesi latinoamericani a
cominciare dal Messico, che darà alla polizia facoltà di fermare un immigrato
anche sulla base del semplice sospetto della sua 'irregolarità'. "Leggi
come questa - ha detto - hanno il potenziale di violare diritti di cittadini
americani innocenti e di residenti in regola con la legge, rendendoli passibili
di fermo sulla sola base del loro aspetto".[FB]
Obama
alla prova dell'immigrazione di Matteo Bosco Bortolaso
Il
Manifesto - 2 luglio 2010
La
Casa bianca: tutelare i lavoratori senza documenti «L'America è stata fondata
da persone venute da fuori» Il presidente democratico chiede al Congresso di
occuparsi nei prossimi mesi della questione degli stranieri senza documenti. Il
discorso è abbastanza generico, ma la sfida è grande, in un paese sempre più
attraversato da spinte xenofobe (come dimostra l'Arizona) e in un anno
elettorale in cui, a novembre, metà Congresso sarà rinnovato
Ci
sono 11 milioni di immigrati illegali negli Stati uniti. Che farne? Difficile
pensare ad una amnistia collettiva, così come è difficile programmare una
deportazione di massa. Sull'immigrazione, per Barack Obama, è un gioco di
equilibri. Ieri il presidente è intervenuto alla American University, a
Washington, e ha affrontato la questione in termini ampi e generici, auspicando
una riforma che, comunque, non potrà veder luce prima della fine del 2010, anno
elettorale per parecchi parlamentari.
Il
presidente ha iniziato il suo lungo intervento sottolineando che gli Stati
uniti sono sempre stati «una nazione di immigrati», e che «questo flusso
costante» ha portato crescita e prosperità. Obama ha ricordato immigrati
geniali come Albert Einsten, Nicola Tesla e, più di recenti, i guru che hanno
costruito il motore di ricerca Google. «E poi ci sono stati i molti che non
sono entrati nei libri di storia, ma hanno contributo in egual modo», ha
aggiunto.
Gli
Usa sono sempre stati, fin dalla loro fondazione, un luogo «dove vivere,
lavorare e pregare liberamente». E ancora oggi, ha continuato il presidente, «rimaniamo
un magnete per i migliori e più brillanti, che vengono qui da ogni parte del
mondo». Questo «ha creato una forza lavoro giovane» e una variegata
popolazione che si può chiamare americana «non per il sangue, ma per la fede»
(naturalmente nei valori americani).
«È
questo che ci rende unici e forti», ha continuato Obama nella sua alata
introduzione, dove ha ricordato che, come ha detto Thomas Jefferson, l'America
dovrebbe essere il rifugio per «l'umanità oppressa», ma spesso è patria di
discriminazioni razziali come è stato «per italiani e per polacchi, e per i
cinesi reclusi a San Francisco».
Insomma,
le politiche sull'immigrazione «sono sempre state dibattute», ed in questo
contesto si deve collocare anche la «controversa» legge dell'Arizona, la quale
è «comprensibile», ma «pensata male». Più in là il presidente non si è
spinto, ma nei palazzi di Washington gira voce che il governo potrebbe sfidare
lo stato «leghista» in una complessa battaglia legale.
Obama
ha alternato aperture e chiusure. Da una parte c'è l'idea di aprire la strada
verso la cittadinanza a «coloro che pagano le multe ed imparano l'inglese».
Dall'altra c'è l'annuncio di nuovi soldati che andranno a controllare il
confine con il Messico, dove sono già dispiegati 20 mila uomini. Ora
arriveranno un migliaio di agenti di sicurezza e 1.200 militari della Guardia
Costiera. Da un lato il presidente ha criticato la politica statunitense di dare
visti a studenti in ingegneria e biologia, ai quali però poi «non viene
consentito di rimanere a lavorare: così li offriamo alla concorrenza».
Dall'altro lato, Obama ha auspicato una serie di misure più stringenti per il
controllo di chi percepisce redditi in nero, con maggiori ispezioni per i datori
di lavoro.
La
Casa bianca, insomma, ha lanciato diverse idee, ma sarà poi il Congresso, tra
diversi mesi, ad affrontare la questione. Intanto, però, le tragedie al confine
col Messico continuano. Ieri la Cnn ha accennato alle tante persone che, «disperate
per raggiungere i loro parenti che vivono negli Stati uniti», si nascondono nei
bagagliai delle automobili e spesso muoiono soffocate.
Prima
del discorso, ad inizio settimana, Obama aveva incontrato il gruppo dei
parlamentari ispanici al Congresso, molto sensibili sul tema, naturalmente, e
aveva tentato di rassicurare anche i gruppi che vogliono proteggere gli
immigrati. Alcuni attivisti si sono riuniti lo scorso fine settimana a San
Diego, in California, e non hanno nascosto la loro delusione per un presidente
che continua ad usare uomini in divisa per governare l'immigrazione.
«A
questo punto, quasi quasi vorremmo indietro George W. Bush - scherza Louie Gilot
di Border Network for Human Rights - l'amministrazione ci aveva promesso
cambiamenti, e non solo abbiamo la stessa politica poliziesca: ne abbiamo pure
di più».
È
interessante capire i termini delle trattative tra le associazioni e la Casa
bianca. La dice lunga una delle loro richieste: servono ripetitori telefonici in
mezzo al deserto di Arizona e Messico, affinché gli immigrati possano chiamare
i loro cari che li aspettano negli Stati uniti, e per evitare una morte
nell'arsa terra di nessuno.
Guerra
o pace?
www.acs-italia.glauco.it - 18 giugno 2010
Il
vescovo emerito di Torit, nel Sud Sudan, che ha diretto la sua diocesi
durante uno dei conflitti più cruenti che l’Africa ha conosciuto, è
fiducioso che nel suo Paese non tornerà la guerra In
un’intervista concessa ad Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS),
monsignor Paride Taban, si è detto in disaccordo con coloro che sono
inquieti per l’instabilità seguita alle elezioni generali dello
scorso aprile e che credono che questo porterà ad un ritorno alla
violenza. Il vescovo, salutato da molti come un eroe per i suoi venti anni trascorsi a capo della diocesi di Torit quando infuriava la guerra civile, ha dichiarato che la popolazione è determinata a svolgere pienamente il suo ruolo nel prossimo referendum. Lo
scrutinio, previsto per il gennaio 2011, potrebbe portare alla
secessione del Sud Sudan, dando così vita al più giovane Paese del
continente africano. Monsignor Taban ha dichiarato che le sue speranze
di pace sono rafforzate dai recenti commenti di Salva Kiir, presidente
della regione semi autonoma del Sud Sudan, che si è fatto sentire per
tentare di eliminare tutte le possibilità di un ritorno della violenza. |
«E’
stato strano sentire il presidente del Sud Sudan dichiarare che [noi non
dobbiamo] mai andare in guerra», ha detto il vescovo emerito. «Il popolo del
Sud Sudan sembra essere più maturo di quanto molti non pensano», ha
aggiunto.
Riferendosi
alla fase di transizione che aveva fatto seguito al piano di pace (Accordo di
Pace Globale) del gennaio 2005 tra il nord ed il sud, monsignor Taban ritiene
che, «già durante questo breve periodo, [la popolazione] ha affrontato
molte sfide, ma una guerra diffusa non ha mai avuto luogo».
Un
diverso punto di vista
Il
suo punto di vista diverge nettamente da quelli degli altri vescovi del Sud,
come ad esempio monsignor Eduardo Hiiboro Kussala, vescovo di Tombura-Yambio
che, in un’intervista rilasciata ad ACS all’inizio di quest’anno, aveva
dichiarato: «La possibilità che la nazione intera precipiti nell’abisso
[della guerra] è uno scenario verosimile».
Monsignor
Hiiboro segnalò episodi di violenza nella sua diocesi, esprimendo una
preoccupazione diffusa riguardante casi di brogli elettorali, di intimidazioni
agli elettori ed altre irregolarità commesse durante lo scrutinio, il primo ad
essere multipartitico dopo 25 anni.
Molti
temono un ritorno alla violenza, vissuta dal Sudan tra il 1983 ed il 2005,
quando sono morte circa due milioni di persone ed almeno cinque milioni sono
stati gli sfollati, durante quello che si è rivelato essere il più lungo
conflitto ininterrotto in Africa.
Almeno
per il momento sono stati evitati scontri su larga scala grazie ai buoni
risultati di Kiir e della base degli ex ribelli del Movimento di Liberazione del
Popolo Sudanese nel sud (92%), così come per la vittoria sicura per il
presidente in carica del Paese, Omar Al Bashir nella capitale Khartoum.
Monsignor
Taban riconosce che tutto dipenderà dal presidente Al Bashir e se rispettarà o
meno il risultato del referendum con il quale il Sud Sudan voterà per la
separazione dal Nord. «Se quello che dice il presidente Bashir è vero a
proposito del suo rispetto del risultato del referendum, allora va bene; ma non
sappiamo se quel che dice è vero», dice il vescovo.
Riconoscendo
che il processo è un terreno fertile per i problemi, tuttavia monsignor Taban
rimane ottimista. «Non sarà facile, ma dobbiamo imparare a condividere le
risorse che abbiamo e queste includono le riserve petrolifere». Sostenendo
che il referendum sarà tenuto come previsto, il vescovo dice: «Lasciate
scegliere la popolazione. Non lasciate che le persone siano pressate in un senso
o in un altro. Aiutiamole ad essere felici».
Monsignor
Taban rivolge un appello anche affinché la comunità internazionale continui
nel suo impegno per aiutare il Sudan attraverso questa fase di transizione. «Le
persone del Sud Sudan sono forse persone di buona volontà, ma hanno bisogno di
molto sostegno da parte della comunità internazionale. Hanno bisogno di essere
rafforzate, altrimenti molte se ne andranno per il timore di un ritorno alla
guerra», ha aggiunto.
Il
vescovo ha anche ringraziato Aiuto alla Chiesa che Soffre per il suo sostegno
alla Chiesa del Sudan. «ACS è stata con noi fin dall’inizio, e per noi è
sempre stata un segno di speranza». L’anno passato l’Opera ha aiutato
la Chiesa del Sudan con più di 1.200.000 euro per sostenere diversi progetti
pastorali, tra i quali «Save the Saveable schools» (a Khartoum e nei
dintorni), programmi di catechesi, formazione di sacerdoti, religiosi,
seminaristi e laici, costruzione di chiese, offerte per messe, automezzi per il
clero che opera in regioni remote, e diffusione di Bibbie del Fanciullo «Dio
parla ai suoi figli»