Bangl@news

Newsletter settimanale sul Bangladesh, pace, mondialità e diritti umani  

Anno XI

N°  451

12/1/11

Questo numero è inviato a 6.272 lettori e a 489 lettori nella versione inglese

                                

      Sommario

             

Mondialità

»»  Clima e Aiuti: i risultati di Cancùn di Iacopo Viciani

»»  Vivere il pluralismo: un cambiamento culturale di Gerolamo Fazzini

»»  Il mondo dice «no» per la terza volta alla pena di morte di Daniele Zappalà

»»  Papa: A Natale la terra si è macchiata ancora di sangue

Africa

»»  Più poveri, ma si può cambiare: intervista al presidente dell'Ifad

»»  Petrolio e futuro: la Misna parla con l'Eni

Asia

»»  La pace di Natale e la libertà religiosa di Bernardo Cervellera

»»  Papa: nella riscoperta "del vero e del buono" si gioca il futuro del mondo

Europa

»»  UE: una nuova direttiva contro il traffico di esseri umani

Afghanistan

»»  Via libera al gasdotto transafgano di Enrico Piovesana

Argentina

»»  1976 -1983: L'ora della giustizia di Elvira Corona

Bangladesh

»»  Padre Luca: un volto amico per i lavoratori di Savar di Bruno Guizzi

»»  Squadroni della morte 'made in England' di Enrico Piovesana

Brasile

»»  Messaggio e notizie da S.Paolo di Pe. Giovanni Murazzo

Cambogia

»»  Cacciati di casa migliaia di poveri, per favorire progetti edilizi e latifondi

Cina

»»  Lettera agli amici di p.Farnando Cagnin

»»  La Cina frena sul mattone di Gabriele Battaglia

»»  La Cina "preoccupata" è pronta a sostenere la crisi del debito Ue

»»  La legge del figlio unico schiavizza il corpo delle donne

Colombia

»»  Farc: 5 prigionieri presto liberi in onore di Piedad Cordoba di Stella Spinelli

Costa d'Avorio

»»  Crisi politica: preoccupazione per situazione umanitaria e nuove sanzioni

»»  La posta in gioco per l'Africa ... e per le grandi potenze

India

»»  Contratto di 35 miliardi tra Russia e India per costruire 300 aerei da caccia

Indonesia

»»  Vescovi indonesiani: gli islamici radicali stanno colonizzando il Paese di Mathias Hariyadi

Iran

»»  Il fronte interno di Christian Elia

Iraq

»»  In aumento i cristiani iracheni in fuga

»»  Iraq, a caccia di eroi di Christian Elia

Italia

»»  Nuovo identikit dell’aiuto italiano di Iacopo Viciani

»»  Bankitalia: "Il 45% della ricchezza in mano al 10% delle famiglie"

»»  Quanto costa il rifiuto

»»  F35: la scomunica dei vescovi, Finmeccanica se la ride di Luciano Bertozzi

»»  Gelmini, 5 milioni per tradurre il Talmud di Enrico Piovesana

Kenia

»»  Padre Kizito è innocente

Mauritania

»»  Si lotta contro la schiavitù di Emanuela Stella

Medio Oriente

»»  Gaza, la guerra non si ferma di Vittorio Arrigoni

»»  Benedetto XVI guarda al Sinodo per il Medio Oriente di Samir Khalil Samir

»»  Natale a Betlemme : bandita la croce dai souvenir

»»  Anche la Bolivia riconosce la Palestina come Stato indipendente. Panico in Israele di Joshua Lapide

Nigeria

»»  L’Eni paga 30 milioni

»»  La Shell nel delta del Niger: petrolio e diritti rubati

Pakistan

»»  L'imam: "Chi semina l'odio tra di noi è un terrorista" di Claudio Monici

Perù

»»  Assolto padre Mario Bartolini

Sri Lanka

»»  Violazione diritti umani, governo autorizza missione esperti Onu

»»  L'esercito si prepara al Natale insieme a cristiani e buddisti di Melani Manel Perera

Stati Uniti

»»  La corruzione non è un problema di Nicola Sessa

»»  Via libera del Senato americano al trattato sul disarmo nucleare di Alberto Simoni

Turchia

»»  Bartolomeo I: continueremo a dialogare con il Papa e con l'Islam di NAT da Polis

Vietnam

»»  La Chiesa celebra il Natale coi più poveri di J.B. Vu

Altri articoli edizione inglese

World: Cancun climate talks: a sense of disappointment by Sirajul Islam * Christmas ... and God's Grandeur by Syed Badrul Ahsan * The marriage of ideas  Bangladesh: UK trained dreaded military outfit: Wikileaks by Avinash Paliwal * On the Road to Freedom by Ahmede Hussain * An Honour to our anonymous heroes by Aantaki Raisa * Report on human rights violations at India-Bangladesh border * Community-based approach to eradicate acute under-five malnutrition * Wage wars by Mubin S Khan * Militancy has no place in Islam * Politicians behind pvt sector graft: TIB * World AIDS Day and Bangladesh by Barrister Harun ur Rashid * Constitution Reprint - Religion-based politics to go * US Pushes Phulbari Mine Reopening * Corporal punishment totally unnecessary * A friendly face in the satanic mills * Grameen Bank: why people are critical, what it tells about us by Afsan Chowdhury * Illuminating the Hills of Chittagong by Tamanna Khan * Is Bangladesh an LDC? By Mamun Rashid * Population growth and effects of age-structure by Mohammed Abul Kalam * Textbook trouble raises some unpleasant questions  Congo DR: Rogue Leaders, Rebels Forcibly Recruit Youth  India: Regulation vs deregulation in Indian schools by Andrew Coulson  Middle East: Israel/West Bank: Separate and Unequal

    

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MONDIALITA'

Clima e Aiuti: i risultati di Cancùn di Iacopo Viciani

Repubblica - 22 dicembre 2010

              

Cosa c’è di nuovo nell’Accordo di Cancùn per i Paesi in via sviluppo?

In realtà si riconfermano le promesse di Copenaghen: mettere a disposizione entro il 2020, 100 miliardi di dollari addizionali per sostenere gli sforzi di mitigazione e adattamento dei Paesi in via di sviluppo, indirizzandoli soprattutto verso i Paesi più vulnerabili.

Per alcuni, i finanziamenti (100 miliardi) per adattamento e mitigazione sono sì contabilizzabili come “aiuto pubblico allo sviluppo” ma non dovrebbero essere utilizzati per raggiungere lo 0,7% che era un impegno pregresso all’emergenza climatica. Altri invece contestano che le risorse per interventi di adattamento e mitigazione nei Paesi in via di sviluppo possano essere considerate aiuto allo sviluppo poiché sarebbero in realtà forme d’indennizzo.

La vera novità del questo Vertice sul Clima 2010 è costituita da un’idea di massima della struttura di gestione per le ingenti risorse finanziarie previste, per adesso, in gran parte virtuali. E’ stata decisa la creazione di un “Fondo per il Clima” dove i Paesi più vulnerabili e maggiormente esposti agli effetti dei cambiamenti climatici avranno un peso preponderante nel disegnarne la struttura. Il nuovo fondo dovrà essere definito nei prossimi dodici mesi, ma si è comunque scongiurata definitivamente la possibilità che la Banca Mondiale potesse essere chiamata in qualche modo a gestire i 100 miliardi di dollari.

La questione delle risorse finanziarie promesse e riconfermate dai Paesi industrializzati anche in periodo di crisi economica è un segnale importante. Ma come garantire che nuove promesse vengano mantenute?

A Cancun il panel di Alto livello delle Nazioni Unite per il Cambiamento Climatico, nominato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, doveva indicare una proposta chiara su come reperire in modo certo e stabile i 100 miliardi di dollari aggiuntivi entro il 2020. Il panel ha presentato alcune proposte, soprattutto concentrate sull’istituzione di imposte globali che assicurerebbero addizionalità e certezza alle risorse, ma non si è espresso in maniera netta a favore di nessuna.

La questione del reperimento delle risorse resta aperta, con molti timori che i 100 miliardi non siano addizionali ma frettolosamente dirottati da altre iniziative di cooperazione allo sviluppo, inizialmente con altri obiettivi.

L’addizionalità è stata una delle richieste più forti dei Paesi in via di sviluppo, ma ancora non c’è accordo su come definirla. Prima di Cancùn l’Unione Europea ha dovuto rinunciare a raggiungere un accordo a 27 proprio sulla definizione di addizionalità.

L’altro tema relativo alla risorse finanziarie riguarda il fatto se debbano essere a dono o a prestito e in che misura debbano finanziare interventi di adattamento e mitigazione. Anche in questo caso i Paesi in via di sviluppo unanimemente hanno chiesto che le risorse siano “a dono” come forma  d’indennizzo per i danni che le emissioni dei Paesi industrializzati hanno generato al clima. Inoltre l’Accordo di Copenaghen chiede che la ripartizione tra finanziamenti di mitigazione e adattamento sia bilanciata.

Per il momento siamo molto lontani da questo scenario. Sono i prestiti per interventi di mitigazione la modalità di finanziamento più utilizzata. Insomma per i Paesi in via di sviluppo da Cancùn parte un percorso che in un anno a Durban dovrà portare a risolvere la questione su come reperire e spendere i soldi promessi.

Sulla base di uno documento del Consiglio dell’Unione europea, nel 2010 l’Italia ha stanziato in interventi di cooperazione allo sviluppo dedicati a mitigazione e adattamento circa 21 milioni di euro per un anno, che rappresentano il 2,8% della quota europea – la metà di Belgio e Danimarca.

Tuttavia a differenza degli altri Paesi donatori, le iniziative di adattamento e mitigazione sono equamente finanziate dalla cooperazione italiana, con il 75% dei contributi italiani che sono “a dono”. Il 50% dello stanziamento italiano è sicuramente non-addizionale poiché si tratta di risorse provenienti da precedenti cancellazioni del debito.

Non c’è praticamente alcun investimento italiano su questi temi in Africa  sub-sahariana, soprattutto nei Paesi più poveri, e meno dell’1% è rivolto verso le piccole isole del Pacifico, le più vulnerabili ai cambiamenti climatici. L’attenzione italiana è rivolta all’area mediorientale, soprattutto in Libano, e all’America andina, essenzialmente Bolivia ed Ecuador, con qualche investimento in Cina.

   

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Vivere il pluralismo: un cambiamento culturale di Gerolamo Fazzini

MissiOnLine - 16 dicembre 2010  

Se si vuole essere credibili nella battaglia per la libertà religiosa "via alla pace" non si deve farne una questione confessionale

      

Gli ahmadi sono i membri di un movimento musulmano, nato in ambito sunnita. Benché sia diffuso in molti Paesi e vi risultino affiliate decine di milioni di membri, alcuni governi lo considerano alla stregua di un gruppo eretico. Ebbene, secondo uno studio di Tempi, gli ahmadi risultano essere la categoria religiosa più perseguitata in Pakistan dalla famigerata Blasphemy Law, la stessa sulla base della quale la cristiana Asia Bibi di recente è finita nel mirino, suscitando vibrate reazioni da parte della comunità internazionale. Partiamo da questa considerazione, a commento del tema scelto da Benedetto XVI per la Giornata mondiale della pace 2011 (al momento di andare in stampa il testo del Messaggio non è ancora stato diffuso). Per ribadire, ancora una volta, che se si vuol essere credibili nella battaglia per la libertà religiosa "via alla pace", non si deve farne una questione confessionale, bensì sostenere il diritto di tutti a professare la propria fede.

Fatta questa premessa, ci interessa sottolineare qui che la libertà religiosa, perché sia affermata, richiede un cambio di prospettiva culturale e, di riflesso, un'attuazione che chiama in causa la politica. Detto in altro modo: la tutela della libertà religiosa sarà tanto più efficace quanto più ogni religione imparerà a pensarsi in un contesto di pluralismo. Per la Chiesa cattolica questa è un'acquisizione relativamente "pacifica" e, - tutto sommato - recente, legata com'è al Concilio Vaticano II. Altre tradizioni religiose faticano a pensarsi in quest'ottica. Nei Paesi dove l'islam è maggioranza le altre presenze religiose sono, nel migliore dei casi, tollerate. In Arabia Saudita - è noto - la libertà religiosa per i non musulmani non esiste (e, di recente, la Norvegia ha giustamente negato la costruzione di una moschea saudita, di stampo wahabita, proprio in risposta a tale diritto negato). Ancor,. in India una corrente di pensiero, numericamente minoritaria ma politicamente rilevante, insiste nell'equazione indiano uguale indù. E potremmo continuare...Ma a noi interessa qui soprattutto far conoscere ciò che si muove sotto l'ufficialità, dietro le notizie quotidiane che ci arrivano dal Medio Oriente, dal Pakistan, dall'India, come dalla Nigeria e via dicendo... Ci interessa presentare storie e volti di persone che si stanno impegnando, a partire dalle rispettive tradizioni religiose di appartenenza, per la libertà di credere.

Un caso per tutti, che raccontiamo nei dettagli nel Servizio Speciale: Asma T. Uddin, cittadina americana di religione musulmana, brillante avvocatessa, che lavora con le armi della legge proprio su questo tema. Sorprendente quanto afferma: "Molti osservatori e governi hanno paura che l'autorizzazione a professare la propria fede possa portare all'anarchia, essa in realtà favorisce un maggior ordine pubblico: le società infatti prosperano quando ai cittadini è permesso di esprimere liberamente e pacificamente le proprie convinzioni profonde".Un invito del genere viene anche dal libro-intervista a Benedetto XVI, Luce del mondo, laddove il Papa dichiara: "I cristiani sono tolleranti e permettono anche agli altri la loro peculiare comprensione di sé. Ci rallegriamo del fatto che nei Paesi del Golfo Arabico (Qatar, Abu Dhabi, Dubai, Kuwait) ci siano chiese nelle quali i cristiani possono celebrare la Messa e speriamo che così accada ovunque. Per questo è naturale che anche da noi possano riunirsi in preghiera nelle moschee". Vale a dire: pregare per la sorte dei cristiani iracheni e chiedere ai politici di difenderli va di pari passo col garantire ai musulmani in Occidente la possibilità di realizzare luoghi di preghiera degni di tale nome. Sapranno i politici di casa nostra raccogliere la sfida?   

 

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Il mondo dice «no» per la terza volta alla pena di morte di Daniele Zappalà

Avvenire - 23 dicembre 2010

Avanza all’Onu il fronte favorevole alla moratoria: 109 Paesi approvano, 41 i contrari e 35 gli astenuti

  

Si avvicina ancor più il sogno di una moratoria universale della pena di morte. Il fronte internazionale che vuole sradicare le condanne capitali su scala planetaria ha appena registrato un nuovo successo presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: il terzo in 3 anni, dopo la prima storica risoluzione del 2007 voluta con forza dall’Italia.

Il voto della nuova risoluzione, giunto a New York martedì sera, quando in Europa era già notte, non si è limitato a mettere ancora una volta in netta minoranza i Paesi favorevoli alla pena capitale. C’è stata anche una sensibile avanzata per la moratoria, sostenuta ormai da 109 Stati, contro i 41 opposti al provvedimento e 35 astensioni. Solo 7, invece, i seggi vuoti durante il voto. Nel 2008, i Paesi contrari erano stati 46, dunque una mezza decina in più rispetto a quelli usciti allo scoperto martedì sera.

E il fronte dei favorevoli si era fermato a quota 106. Tornando indietro al 2007, i rapporti di forza attuali acquistano ancor più risalto. Se la prima risoluzione fu sostenuta da 104 Paesi, allora il fronte contrario aveva ancora raccolto ben 54 voti.

Il nuovo avallo dell’Assemblea Onu rappresenta «un risultato straordinario e conferma un trend generale verso la fine della pena capitale», ha commentato ieri la Comunità di Sant’Egidio, fin dall’inizio in prima linea nella campagna internazionale. E anche per la Ong “Nessuno tocchi Caino” è ormai chiara «un’evoluzione positiva in atto da oltre 10 anni».

   

Rispetto al 2008, hanno deciso di voltare pagina, sostenendo la moratoria, tre Paesi prima refrattari: Kiribati, Maldive e Mongolia. Lo stesso è avvenuto per altri tre Stati usciti invece dal limbo dell’astensione: Bhutan, Guatemala e Togo.

Nell’ultimo biennio, è positivo anche il travaso dalla cerchia dei contrari a quella dell’astensione, con quattro casi (Comore, Nigeria, Isole Salomone e Thailandia). Ed è cresciuto pure il totale dei cosiddetti “cosponsor” della risoluzione, giunti ormai a quota 90, con l’arrivo inedito di Cambogia, Madagascar e Russia.

Fra l’altro, il confronto fra i diversi voti è pienamente legittimo, dato che non ci sono state variazioni sostanziali fra le risoluzioni. Si tratta dunque di progressi reali e non del frutto di nuovi negoziati sui contenuti della versione del 2007. Nell’ultimo testo, anzi, si esplicita meglio la richiesta agli Stati di una diffusione concreta delle informazioni sulle esecuzioni. Con un comunicato firmato dal portavoce Mario Marazziti, la Comunità di Sant’Egidio ha fatto il punto sul senso profondo dei progressi appena compiuti: «È riaffermato in maniera solenne il dovere di tutti i sistemi giudiziari di rispettare sempre la vita umana. Viene confermato il superamento della pena capitale tra gli obiettivi della comunità internazionale e si fissa una soglia di rispetto dei diritti umani non più compatibile con l’uso della pena di morte». Suscita in particolare molta speranza la tendenza che emerge in Asia, continente da sempre primo per numero di esecuzioni. Sempre più esposta allo sguardo della comunità internazionale, la Cina avverte pressioni senza precedenti, mentre nel vicino colosso indiano restano ormai meno di 200 condannati in attesa nel braccio della morte. In pochi anni, la fiducia verso la moratoria è cresciuta rapidamente in Africa, mentre anche gli Stati Uniti dell’Amministrazione Obama devono ormai temere un isolamento sempre più pronunciato su questo fronte. Si spera dunque che possa confermarsi la riduzione tendenziale del numero di esecuzioni americane: 80 nel 2000, contro 46 l’anno scorso. L’Italia, in ogni caso, non intende più offrire nessun tipo di “contributo” indiretto, dopo l’accordo di massima raggiunto fra la Farnesina e l’azienda Hospira di Liscate, volto a impedire l’uso per le esecuzioni capitali di dosi di Pentothal di fabbricazione nazionale. Su quest’ultimo punto, esprimendo soddisfazione per la scelta italiana, Marazziti ha sottolineato pure che «stanno crescendo le difficoltà all’approvvigionamento dei farmaci necessari all’iniezione letale».

    

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Papa: A Natale la terra si è macchiata ancora di sangue

AsiaNews - Città del Vaticano - 26 dicembre 2010

All'Angelus Benedetto XVI esprime il suo dolore per le uccisioni nelle Filippine, in Nigeria, in Pakistan. Appello a tutti per la preghiera e la riconciliazione. Un ricordo per le famiglie vittime della guerra, profughi come la Sacra Famiglia, di fronte alla furia omicida di Erode. La Sacra Famiglia è modello per tutte le famiglie, che fanno sentire ai figli "la tenerezza e la bellezza di essere amati".  

       

Anche a Natale "la terra si è macchiata ancora di sangue", soprattutto nelle Filippine, in Nigeria e in Pakistan: lo ha detto oggi il papa alla fine della preghiera dell'Angelus insieme ai pellegrini raccolti nella piazza san Pietro.

"In questo tempo del Santo Natale - ha detto il pontefice - il desiderio e l'invocazione del dono della pace si sono fatti ancora più intensi. Ma il nostro mondo continua ad essere segnato dalla violenza, specialmente contro i discepoli di Cristo. Ho appreso con grande tristezza l'attentato in una chiesa cattolica nelle Filippine, mentre si celebravano i riti del giorno di Natale, come pure l'attacco a chiese cristiane in Nigeria". Iri mattina nella messa di Natale della polizia a Jolo (Mindanao), una bomba è scoppiata vicino all'altare ferendo il sacerdote e altre cinque persone. A Jos (Nigeria), dove vi sono da tempo tensioni interreligiose e sociali, sette bombe sono esplose nel centro della città, provocando 32 morti e 74 feriti. Una bomba che doveva scoppiare in una chiesa durante la messa di mezzanotte, è stata disinnescata dalla polizia.

"La terra - ha continuato Benedetto XVI - si è macchiata ancora di sangue in altre parti del mondo come in Pakistan. Desidero esprimere il mio sentito cordoglio per le vittime di queste assurde violenze, e ripeto ancora una volta l'appello ad abbandonare la via dell'odio per trovare soluzioni pacifiche dei conflitti e donare alle care popolazioni sicurezza e serenità".

Facendo poi riferimento alla celebrazione di oggi, la Sacra Famiglia, "che visse la drammatica esperienza di dover fuggire in Egitto per la furia omicida di Erode, ricordiamo - ha aggiunto - anche tutti coloro - in particolare le famiglie - che sono costretti ad abbandonare le proprie case a causa della guerra, della violenza e dell'intolleranza. Vi invito, quindi, ad unirvi a me nella preghiera per chiedere con forza al Signore che tocchi il cuore degli uomini e porti speranza, riconciliazione e pace".

Proprio alla Sacra Famiglia era dedicata la prima parte della sua riflessione prima dell'Angelus. In essa, ha spiegato Benedetto XVI, " il piccolo Gesù appare al centro dell'affetto e delle premure dei suoi genitori. Nella povera grotta di Betlemme - scrivono i Padri della Chiesa - rifulge una luce vivissima, riflesso del profondo mistero che avvolge quel Bambino, e che Maria e Giuseppe custodiscono nei loro cuori e lasciano trasparire nei loro sguardi, nei gesti, soprattutto nei loro silenzi".

"Eppure - ha continuato il pontefice -  la nascita di ogni bambino porta con sé qualcosa di questo mistero! Lo sanno bene i genitori che lo ricevono come un dono e che, spesso, così ne parlano. A tutti noi è capitato di sentir dire a un papà e a una mamma: "Questo bambino è un dono, un miracolo!". In effetti, gli esseri umani vivono la procreazione non come mero atto riproduttivo, ma ne percepiscono la ricchezza, intuiscono che ogni creatura umana che si affaccia sulla terra è il "segno" per eccellenza del Creatore e Padre che è nei cieli. Quant'è importante, allora, che ogni bambino, venendo al mondo, sia accolto dal calore di una famiglia! Non importano le comodità esteriori: Gesù è nato in una stalla e come prima culla ha avuto una mangiatoia, ma l'amore di Maria e di Giuseppe gli ha fatto sentire la tenerezza e la bellezza di essere amati. Di questo hanno bisogno i bambini: dell'amore del padre e della madre. E' questo che dà loro sicurezza e che, nella crescita, permette la scoperta del senso della vita".

"La santa Famiglia di Nazareth ha attraversato molte prove, come quella - ricordata nel Vangelo secondo Matteo - della "strage degli innocenti", che costrinse Giuseppe e Maria ed emigrare in Egitto (cfr 2,13-23). Ma, confidando nella divina Provvidenza, essi trovarono la loro stabilità e assicurarono a Gesù un'infanzia serena e una solida educazione".

"Cari amici - ha concluso - la santa Famiglia è certamente singolare e irripetibile, ma al tempo stesso è "modello di vita" per ogni famiglia, perché Gesù, vero uomo, ha voluto nascere in una famiglia umana, e così facendo l'ha benedetta e consacrata. Affidiamo pertanto alla Madonna e a san Giuseppe tutte le famiglie, affinché non si scoraggino di fronte alle prove e alle difficoltà, ma coltivino sempre l'amore coniugale e si dedichino con fiducia al servizio della vita e dell'educazione".  

 

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AFRICA

Più poveri, ma si può cambiare: intervista al presidente dell'Ifad

Misna - 20 dicembre 2010 

     

La carenza di investimenti nelle infrastrutture e il rischio costante di oligopoli nel settore agroalimentare condizionano la lotta contro la povertà rurale nell'area sub-sahariana: lo sottolinea in un'intervista alla MISNA Kanayo Nwanze, presidente del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad). Secondo il rapporto 2011 dell'Ifad, presentato a Roma venerdì, la regione sub-sahariana è l'unica al mondo dove la "povertà estrema" continua ad aumentare. Nello studio si sostiene che in 10 anni i contadini africani con un reddito inferiore a un dollaro e 25 centesimi al giorno sono passati da 268 a 306 milioni. "La situazione è rovesciata rispetto a 40 anni fa, quando nessun paese africano era un importatore netto di derrate alimentari" sostiene Nwanze. Avviare dinamiche nuove, però, non è impossibile. Lo dimostrano alcuni paesi un tempo considerati "senza speranza" e ora tra i più dinamici del pianeta. "In Cina, India, Vietnam e Brasile - sottolinea il presidente dell'Ifad - la povertà rurale è stata ridotta grazie a politiche di sviluppo infrastrutturale di lungo periodo". In Africa la carenza di investimenti in strade, ferrovie e porti continua a lasciare fuori dal mercato milioni di contadini, potenzialmente piccoli imprenditori interessati a produrre di più e meglio. "Lo sviluppo delle reti stradali - sottolinea Nwanze - porterebbe redditi più alti, scuole e ospedali". Un contributo può arrivare anche dal settore privato e dalle multinazionali dell'agroindustria, che alimentando la domanda di prodotti sarebbero in grado di determinare aumenti dei prezzi benefici per i contadini. Ma se questi scenari a volte si sono realizzati - Nwanze cita il caso delle produzioni di olio da palma in Uganda - c'è il timore di accordi tra governi e multinazionali che risultino in regimi di oligopolio. Nella conversazione con il presidente dell'Ifad tornano i temi sviluppati in un recente studio dal relatore speciale dell'Onu per il diritto all'alimentazione, Olivier de Schutter. Nella ricerca si fa riferimento anche al caso della Costa d'Avorio, il maggior produttore mondiale di cacao. Il mercato nazionale è dominato da tre società, le americane Adm e Cargill e la svizzera Barry Callebaut. Nel tentativo di ridurre i costi, evidenzia De Schutter, i produttori hanno tagliato i salari dei braccianti e sono ricorsi in modo diffuso all'impiego di manodopera minorile.[VG]  

   

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Petrolio e futuro: la Misna parla con l'Eni

Misna - 22 dicembre 2010    

 

L'Africa sarà sempre più il continente del petrolio, una risorsa che non è "di per sé una maledizione" ma invece un volano per la crescita economica e sociale dei popoli sub-sahariani: in un'intervista alla MISNA parla così Claudio Descalzi, direttore generale della divisione "esplorazione e produzione" del gruppo italiano Eni.

      

-Di recente, Eni ha annunciato nuove scoperte in Angola e firmato accordi per l'avvio di prospezioni in Togo. L'Africa è il centro dell'industria petrolifera del XXI secolo?

"L'Africa è già una regione d'interesse primario per Eni. Lo è storicamente, dato che le nostre attività all'estero sono iniziate proprio in Africa e da qui ogni giorno proviene circa un milione di barili di petrolio equivalente della produzione del gruppo, oltre il 50% del totale. E lo sarà ancora più nel futuro, tenuto conto dei nostri progetti esplorativi e di sviluppo. Eni è adesso il primo gruppo internazionale per produzione di idrocarburi in Africa e la nostra presenza nell'area è in costante crescita anche grazie a nuove scoperte in Angola e all'ingresso in paesi come Ghana, Gabon, Mozambico e, più di recente, Repubblica democratica del Congo e Togo. L'Africa è ancora ampiamente inesplorata: a oggi, il numero di pozzi esplorativi 'wild cat' perforati nel continente dall'inizio dell'industria petrolifera rappresenta solo il 2% del totale mondiale".

  

-Nel 2010 ben 17 paesi dell'Africa hanno celebrato i 50 anni dell'indipendenza politica. L'industria del petrolio può avvicinare l'indipendenza economica del continente?

"Petrolio e gas significano ricchezza. Sono un fattore importantissimo in un continente ancora poco sviluppato ma con forti potenzialità come l'Africa. E non si tratta solo di ricchezza in termini di introiti derivanti dall'esportazione degli idrocarburi. L'energia è anche un fattore essenziale per lo sviluppo industriale e civile delle società. Lo sfruttamento delle risorse naturali, però, deve essere accompagnato da una diversificazione dell'economia. Questa è la grande sfida per l'indipendenza".

  

-Dal Delta del Niger alla Cabinda, l'abbondanza di risorse naturali spesso non è stata sinonimo di progresso sociale. ll petrolio è anche "una maledizione" per i popoli d'Africa?

"Il petrolio non è di per sé una maledizione. Lo può diventare, come lo possono diventare tutte le risorse naturali nel momento in cui rappresentano l'unico pilastro su cui si basa lo sviluppo di un paese. In questo caso, le altre attività sono soffocate e il risultato è un'economia monosettoriale, con tutti i rischi che questo comporta. I paesi produttori hanno da tempo capito che lo sfruttamento delle risorse petrolifere non deve essere una rendita, ma un investimento funzionale allo sviluppo di altri settori produttivi. Le multinazionali devono investire a livello locale e diventare veri partner nel promuovere la crescita e la diversificazione dell'economia verso una minore dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi. Eni ha promosso lo sviluppo di centrali per la generazione elettrica attraverso l'utilizzo del gas associato alla produzione di petrolio in diversi paesi africani. L'elettricità è un potente volano per lo sviluppo locale, non solo perché permette la crescita di diversi settori produttivi, ma anche perché contribuisce al miglioramento della qualità della vita delle popolazioni interessate. Nel caso del Congo, ad esempio, le nostre centrali sono in grado di coprire oltre il 40% del fabbisogno elettrico nazionale".

  

-L'Africa può essere il continente delle energie alternative?

"Le fonti rinnovabili possono rappresentare per l'Africa una grande opportunità. Sebbene oggi non risultino pienamente sfruttate, le caratteristiche geografiche e ambientali del continente le rendono promettenti. Un esempio può essere l'applicazione delle tecnologie sul solare. Eni è impegnata in un 'case study' per un sito tunisino, relativo alla realizzazione di una centrale elettrica ibrida fossile-solare da 140 megawatt. Si tratterebbe di un ciclo combinato a gas naturale associato a un campo di collettori a concentrazione capaci di trasformare l'energia solare in energia termica a elevata temperatura da convertire in elettricità all'interno dello stesso ciclo. Anche lo sviluppo delle biomasse può essere un'occasione per migliorare la qualità della vita degli africani. I progetti 'Food plus Biodiesel' in Congo e Angola hanno come obiettivo la promozione del settore agricolo e il recupero di aree incolte attraverso lo sviluppo di colture estensive di piante oleaginose come la palma. L'olio prodotto sarà destinato innanzitutto al consumo alimentare e l'eventuale surplus sarà valorizzato a 'green diesel'. Questi progetti sono un'opportunità di diversificazione e sviluppo per economie fortemente dipendenti dal petrolio".[VG]

   

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ASIA

La pace di Natale e la libertà religiosa di Bernardo Cervellera

AsiaNews - Roma - 24 dicembre 2010

La nascita del Salvatore è il suggerimento al mondo di mettere al primo posto Dio e l’uomo, non la politica o gli affari o l’ideologia. Dove questo non avviene, brillano segnali di violenze e guerre. La proposta del papa per una nuova cultura della convivenza e per il rispetto della libertà religiosa.

    
“Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama”: il grido di esultanza degli angeli nella notte di Natale quest’anno stride con le notizie di cronaca e i segnali che registriamo qua e là nel pianeta.

Il canto di pace nella notte in cui nasce il Dio bambino sembra sommerso dalle provocazioni e dai venti di guerra e violenza che insanguinano il continente asiatico: l’instabilità e gli atti terroristi in Iraq (con il massacro di tanti cristiani) dicono che la pace e la sicurezza per quella terra, dopo anni dalla cacciata di Saddam Hussein, tardano ancora a venire. La tensione diffusa in Afghanistan e che incendia in parte anche il Pakistan non si spegne, pur con tutte le armi, gli aiuti, i dialoghi, le elezioni. Anche il dialogo di pace fra Israele e palestinesi, tanto caro a noi cristiani e voluto con tutto il cuore da Barack Obama, si sta lentamente trasformando nel suo contrario, con la diffusione sempre più violenta degli insediamenti israeliani nei territori occupati.

Ancora più ad est, per il possesso di un pugno di isolotti semideserti – forse pieni di petrolio nel fondo marino – la Cina si scontra con il Vietnam e con le Filippine, e più in là col Giappone.

Nel Mar Giallo la nuova leadership dittatoriale della Corea del Nord annuncia la sua presenza bombardando basi militari e civili innocenti in una prova di forza che ha fatto rischiare un conflitto mondiale.

Se guardiamo poi anche all’occidente, emerge una guerra per la sopravvivenza di Stati in bancarotta; una guerra delle valute fra Stati Uniti e Cina che impoverisce entrambi e condanna le due popolazioni a una difficile esistenza economica, col rischio di rivolte all’interno dei propri Paesi.

Il mondo rischia di corrompersi e distruggersi perché non ascolta i suggerimenti contenuti in quel canto di Natale. Esso dice: “pace in terra agli uomini che Egli ama”, quegli uomini che Dio ha tanto amato da gettare per noi sulla terra il suo bene più prezioso, suo Figlio. E invece le guerre sono sempre all’orizzonte perché invece del “primato dell’uomo”, si mette avanti “il primato della politica”, quello “dell’economia”, quello “dell’ideologia”: infine, quello “del potere” dove l’uomo si pretende Dio e arraffa, accumula, deruba, sottomette, incatena, uccide gli altri uomini.

Nella sua enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI ha mostrato con ampiezza che il mondo ha bisogno di una revisione dei pilastri su cui poggia la convivenza dei popoli, l’economia, l’ecologia, il lavoro, la cultura, facendo della verità e della dignità della persona umana le basi di un nuovo e più completo sviluppo, materiale e spirituale.

In particolare egli ha sottolineato che la soglia di questo nuovo inizio è il rispetto della libertà religiosa (n. 29). A questo diritto, punto di verifica di tutte le altre libertà, è dedicato il prossimo Messaggio per la Giornata della Pace 2011: “Libertà religiosa, via per la pace”. Non per nulla, proprio i Paesi elencati all’inizio, dove baluginano segnali di guerre e tensioni, sono anche luoghi dove l’uomo religioso è umiliato e dove la libertà di coscienza e di espressione è limitata con durezza.

Ma non si salva nemmeno l’occidente: qui, dove Dio viene preso in giro e si preferisce un materialismo soddisfatto e vuoto, emergono le tante nevrosi e frustrazioni, che rendono difficile la vita civile. “Una società del benessere – ha detto il papa nell’enciclica - materialmente sviluppata, ma opprimente per l'anima, non è di per sé orientata all'autentico sviluppo” (n. 76).

Lavorare per la libertà religiosa, ridando spazio nella società alla verità dell’uomo e a Dio, è la via della pace. Buon Natale.

   

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Papa: nella riscoperta "del vero e del buono" si gioca il futuro del mondo

AsiaNews - Città del Vaticano - 20 dicembre 2010

Nel discorso alla Curia romana, Benedetto XVI parla delle "grandi angustie" e delle responsabilità" per gli abusi dei preti e del Medio Oriente dove i cristiani "sono la minoranza più oppressa e tormentata". Il relativismo negando l'esistenza di una realtà invisibile e di una verità oggettiva ha eliminato il riferimento al male e anche i valori condivisi su cui si fonda la società.  

    

C'è "un'esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento" nel dramma degli abusi commessi dai sacerdoti, così come nel tentativo di teorizzare la "giustificazione" della pedofilia, fatto in anni recenti, e in genere nella mercificazione dell'uomo, ma c'è anche nel ricorso alla violenza in Medio Oriente, nella quale "i cristiani sono la minoranza più oppressa e tormentata". Lo dice Benedetto XVI nel discorso fatto oggi alla Curia romana per lo scambio degli auguri natalizi, tradizionale occasione nella quale il papa fa un bilancio della vita della Chiesa nell'anno che sta finendo.

Ripercorrendo questo 2010, quando il Papa parla degli abusi dei preti o del Medio Oriente li vede come frutti di un "accecamento della ragione per ciò che è essenziale", di una cultura del relativismo per la quale è "reale" solo ciò che si può toccare e che, in tal modo, vede nella coscienza l'ambito privato di ognuno, invece che la ricerca della verità oggettiva. E' la strada che porta a dire che non esistono il male o il bene in sé, alla eliminazione dei valori condivisi e, quindi, della morale dalla società. Ridare all'uomo il vero significato della "coscienza", come "capacità di vedere l'essenziale, di vedere Dio e l'uomo, ciò che è buono e ciò che è vero" è "responsabiltà" della Chiesa, che deve "rendere nuovamente udibili e comprensibili tra gli uomini questi criteri come vie della vera umanità". "E' in gioco il futuro del mondo".

Il lungo discorso di Benedetto XVI parte proprio "dall'impressione che il consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano" e ricorda prima di tutto le "grandi angustie" provocate dagli abusi dei preti "in una dimensione per noi inimmaginabile", "che stravolgono il Sacramento nel suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita".

Una vicenda per la quale il Papa ha ricordato la visione di sant'Ildegarda di Bingen che nel 1170 descrisse la Chiesa come una donna bellissima, ma con l'abito strappato e il volto insudiciato "colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere sacerdotale".

"Così come lei l'ha visto ed espresso, l'abbiamo vissuto in quest'anno. Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un'esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento. Solo la verità salva. Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l'ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell'intero nostro modo di configurare l'essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere".

Ma il pensiero sugli abusi è anche occasione "per ringraziare di cuore tutti coloro che si impegnano per aiutare le vittime e per ridare loro la fiducia nella Chiesa, la capacità di credere al suo messaggio. Nei miei incontri con le vittime di questo peccato, ho sempre trovato anche persone che, con grande dedizione, stanno a fianco di chi soffre e ha subito danno. È questa l'occasione per ringraziare anche i tanti buoni sacerdoti che trasmettono in umiltà e fedeltà la bontà del Signore e, in mezzo alle devastazioni, sono testimoni della bellezza non perduta del sacerdozio".

"Siamo consapevoli - sottolinea il Papa - della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità. Ma non possiamo neppure tacere circa il contesto del nostro tempo in cui è dato vedere questi avvenimenti. Esiste un mercato della pornografia concernente i bambini, che in qualche modo sembra essere considerato sempre più dalla società come una cosa normale. La devastazione psicologica di bambini, in cui persone umane sono ridotte ad articolo di mercato, è uno spaventoso segno dei tempi. Da Vescovi di Paesi del Terzo Mondo sento sempre di nuovo come il turismo sessuale minacci un'intera generazione e la danneggi nella sua libertà e nella sua dignità umana". In questo contesto, Benedetto XVI vede anche il problema della droga, "che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all'intero globo terrestre - espressione eloquente della dittatura di mammona che perverte l'uomo. Ogni piacere diventa insufficiente e l'eccesso nell'inganno dell'ebbrezza diventa una violenza che dilania intere regioni, e questo in nome di un fatale fraintendimento della libertà, in cui proprio la libertà dell'uomo viene minata e alla fine annullata del tutto".

"Per opporci a queste forze dobbiamo gettare uno sguardo sui loro fondamenti ideologici. Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all'uomo e anche al bambino. Questo, però, faceva parte di una perversione di fondo del concetto di ethos. Si asseriva - persino nell'ambito della teologia cattolica - che non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé. Esisterebbe soltanto un "meglio di" e un "peggio di". Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male. La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere. Gli effetti di tali teorie sono oggi evidenti. Contro di esse Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Veritatis splendor del 1993, indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell'ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell'agire morale".

Un fondamento che Benedetto XVI ha indicato nel ricordare il viaggio in Gran Bretagna e, in tale ambito, la beatificazione del cardinale John Henry Newman. Del grande pensatore il Papa ha sottolineato "la prima conversione: quella alla fede nel Dio vivente. Fino a quel momento, Newman pensava come la media degli uomini del suo tempo e come la media degli uomini anche di oggi, che non escludono semplicemente l'esistenza di Dio, ma la considerano comunque come qualcosa di insicuro, che non ha alcun ruolo essenziale nella propria vita. Veramente reale appariva a lui, come agli uomini del suo e del nostro tempo, l'empirico, ciò che è materialmente afferrabile. È questa la "realtà" secondo cui ci si orienta. Il "reale" è ciò che è afferrabile, sono le cose che si possono calcolare e prendere in mano. Nella sua conversione Newman riconosce che le cose stanno proprio al contrario: che Dio e l'anima, l'essere se stesso dell'uomo a livello spirituale, costituiscono ciò che è veramente reale, ciò che conta. Sono molto più reali degli oggetti afferrabili. Questa conversione significa una svolta copernicana. Ciò che fino ad allora era apparso irreale e secondario si rivela come la cosa veramente decisiva. Dove avviene una tale conversione, non cambia semplicemente una teoria, cambia la forma fondamentale della vita. Di tale conversione noi tutti abbiamo sempre di nuovo bisogno: allora siamo sulla via retta".

"La forza motrice che spingeva sul cammino della conversione era in Newman la coscienza. Ma che cosa si intende con ciò? Nel pensiero moderno, la parola "coscienza" significa che in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l'individuo, costituisce l'ultima istanza della decisione. Il mondo viene diviso negli ambiti dell'oggettivo e del soggettivo. All'oggettivo appartengono le cose che si possono calcolare e verificare mediante l'esperimento. La religione e la morale sono sottratte a questi metodi e perciò sono considerate come ambito del soggettivo. Qui non esisterebbero, in ultima analisi, dei criteri oggettivi. L'ultima istanza che qui può decidere sarebbe pertanto solo il soggetto, e con la parola "coscienza" si esprime, appunto, questo: in questo ambito può decidere solo il singolo, l'individuo con le sue intuizioni ed esperienze. La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui "coscienza" significa la capacità di verità dell'uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza - religione e morale - una verità, la verità. La coscienza, la capacità dell'uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all'uomo che cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della coscienza - un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al contrario, dell'obbedienza verso la verità che passo passo si apriva a lui".

Nel ripercorrere l'anno che sta finendo, il Papa ha poi sottolineato l'importanza del Sinodo per il Medio Oriente, che ebbe inizio con il viaggio a Cipro. del quale "rimane indimenticabile l'ospitalità della Chiesa ortodossa che abbiamo potuto sperimentare con grande gratitudine. Anche se la piena comunione non ci è ancora donata, abbiamo tuttavia constatato con gioia che la forma basilare della Chiesa antica ci unisce profondamente gli uni con gli altri: il ministero sacramentale dei Vescovi come portatore della tradizione apostolica, la lettura della Scrittura secondo l'ermeneutica della Regula fidei, la comprensione della Scrittura nell'unità multiforme incentrata su Cristo sviluppatasi grazie all'ispirazione di Dio e, infine, la fede nella centralità dell'Eucaristia nella vita della Chiesa".

Ma, a Cipro, "abbiamo visto anche il problema del Paese diviso. Si rendevano visibili colpe del passato e profonde ferite, ma anche il desiderio di pace e di comunione quali erano esistite prima. Tutti sono consapevoli del fatto che la violenza non porta alcun progresso - essa, infatti, ha creato la situazione attuale. Solo nel compromesso e nella comprensione vicendevole può essere ristabilita un'unità. Preparare la gente per questo atteggiamento di pace è un compito essenziale della pastorale. Nel Sinodo lo sguardo si è poi allargato sull'intero Medio Oriente, dove convivono fedeli appartenenti a religioni diverse ed anche a molteplici tradizioni e riti distinti".

"Negli sconvolgimenti degli ultimi anni è stata scossa la storia di condivisione, le tensioni e le divisioni sono cresciute, così che sempre di nuovo con spavento siamo testimoni di atti di violenza nei quali non si rispetta più ciò che per l'altro è sacro, nei quali anzi crollano le regole più elementari dell'umanità. Nella situazione attuale, i cristiani sono la minoranza più oppressa e tormentata. Per secoli sono vissuti pacificamente insieme con i loro vicini ebrei e musulmani. Nel Sinodo abbiamo ascoltato parole sagge del Consigliere del Mufti della Repubblica del Libano contro gli atti di violenza nei confronti dei cristiani. Egli diceva: con il ferimento dei cristiani veniamo feriti noi stessi. Purtroppo, però, questa e analoghe voci della ragione, per le quali siamo profondamente grati, sono troppo deboli. Anche qui l'ostacolo è il collegamento tra avidità di lucro ed accecamento ideologico. Sulla base dello spirito della fede e della sua ragionevolezza, il Sinodo ha sviluppato un grande concetto del dialogo, del perdono e dell'accoglienza vicendevole, un concetto che ora vogliamo gridare al mondo. L'essere umano è uno solo e l'umanità è una sola. Ciò che in qualsiasi luogo viene fatto contro l'uomo alla fine ferisce tutti. Così le parole e i pensieri del Sinodo devono essere un forte grido rivolto a tutte le persone con responsabilità politica o religiosa perché fermino la cristianofobia; perché si alzino a difendere i profughi e i sofferenti e a rivitalizzare lo spirito della riconciliazione. In ultima analisi, il risanamento può venire soltanto da una fede profonda nell'amore riconciliatore di Dio. Dare forza a questa fede, nutrirla e farla risplendere è il compito principale della Chiesa in quest'ora".

   

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EUROPA

UE: una nuova direttiva contro il traffico di esseri umani

Unimondo - 23 dicembre 2010

         

Il 14 dicembre il Parlamento Europeo ha votato una nuova direttiva che impegna tutti gli stati membri nella lotta contro il traffico di esseri umani, un dramma che colpisce principalmente donne e bambini, sfruttati soprattutto per la prostituzione nel 43% dei casi e per i lavori forzati per un altro 32%. Oltre alla prostituzione e i lavori forzati, ci sono però molte altre cause dietro lo sfruttamento di esseri umani: persone obbligate a chiedere l'elemosina, adozioni illegali, sfruttamento della manodopera, traffico di organi... Tutti casi coperti dalla nuova legge europea. 

Si tratta di un business lucroso: il secondo per entrate dopo quello delle armi, più redditizio della droga e con un rischio per i trafficanti piuttosto limitato. Per questo, secondo i legislatori, per avere un effetto la legge in questo campo deve dare un colpo di grazia ai criminali con pene più severe e una sinergia di azioni utili alla prevenzione di qualsiasi traffico di esseri umani.

“La nostra organizzazione ha sempre denunciato l'ampiezza del fenomeno e la sua continua crescita, in Europa come nel resto del mondo - ha dichiarato durante la gestazione della direttiva Raffaele Salinai di Terre des Hommes - e nella lotta a questa moderna forma di schiavitù è necessario arrivare ad un'armonizzazione delle leggi nazionali contro la tratta, ad una migliore assistenza alle vittime e a pene più dure per i responsabili di crimini”.

Il testo, approvato con 643 voti a favore, 10 contrari e 14 astensioni, è il frutto di un compromesso con i Governi dell’Unione europea e il risultato dell’accordo "è molto meglio di quello che credevo avremmo potuto ottenere", ha commentato soddisfatta Anna Hedh, socialdemocratica svedese e relatrice delle commissioni Libertà civili e Diritti delle Donne. "Abbiamo rafforzato la protezione delle vittime, che sarà centrata sui diritti, rafforzata per i bambini e con una chiara prospettiva di genere", ha commentato la Hedth spiegando i miglioramenti apportati al testo originale.

“Le nuove regole faranno un pochino più male”, ha ironizzato la Hedht: sono previste, infatti, pene fino a 10 anni, e - elemento fondamentale quanto inedito - la confisca dei beni. Quando saranno coinvolte “persone legali”, quindi imprese, associazioni o quant’altro, le sanzioni includeranno anche “l'esclusione dalle gare pubbliche”, il “divieto” temporaneo o permanente “di esercitare l'attività commerciale" e la chiusura o la “supervisione giudiziaria” degli stabilimenti.

"La cosa più importante è che ci occupiamo della questione - ha spiegato Edit Bauer, co-relatrice della commissione Diritti delle Donne e popolare slovacca - che la gente non chiuda gli occhi davanti a questa clamorosa violazione dei diritti umani, che ci sia certezza della pena per i criminali e protezione per le vittime”. Fondamentale nel testo della legge le assicurazioni per le vittime che “devono poter godere di assistenza e supporto [non solo legale, ma anche medico e psicologico] prima, durante e dopo la procedura giudiziaria" e questo "non deve essere condizionale alla volontà da parte delle vittime di collaborare alle indagini e al processo", ha specificato la Bauer.

Il testo della direttiva stabilisce, inoltre, in maniera esplicita che le vittime non possono essere oggetto di cause giudiziarie o sanzioni pecuniarie, limiti che fino ad oggi frenavano buona parte della volontà di denuncia degli sfruttati. “Gli Stati membri sono, infine, incoraggiati a investire i proventi della confisca sull'assistenza e la compensazione alle vittime, ma anche sull'attività di contrasto transfrontaliera all'interno dell'UE”, altro importante argine al traffico di vite.

Ma non esiste solo la vigilanza transfrontaliera per prevenire il traffico e la mercificazione delle persone, e soprattutto in materia di prostituzione, l'elemento chiave è scoraggiare e punire i clienti. Se però la risoluta socialdemocratica svedese Anna Hedh è riuscita a convincere i colleghi in Parlamento, non altrettanto vale per i governi, che in materia hanno mantenuto qualche resistenza.

Anche per questo il testo approvato martedì prevede soltanto un "incoraggiamento" a considerare l'utilizzo dei servizi prestati da persone sfruttate un reato, invitando "i governi” a considerare in un prossimo futuro la possibile introduzione di uno specifico crimine per i clienti. In Italia la legge prevede già questa misura, e molti comuni l'hanno applicata nella lotta alla prostituzione con risultati diversi e non poche perplessità come quella di Pia Covre rappresentante e co fondatrice del Comitato per i diritti civili delle prostitute (CDCP).

"Evidentemente non sono state prese in considerazione le molte informazioni che abbiamo inviato ai Parlamentari europei e che dimostrano come criminalizzare i clienti sia controproducente e aumenti la vulnerabilità delle sex workers - ha commentato la Covre - [perché] spesso sono proprio i clienti ad aiutare le donne che si trovano in strada, ma in futuro se rischiano di essere denunciati non lo faranno più".

Un pericolo possibile e comprensibile, ma davanti alla sostituzione dell’inefficace legge sul traffico di esseri umani del 2002 il testo che ha passato il vaglio del parlamento di Strasburgo questa settimana sembra non lasciare dubbi sul miglioramento di una legge che, a questo punto, darà ai paesi Ue due anni per adottare la nuova direttiva per arginare e prevenire situazioni “che vanno inscritte - conclude Terre des Hommes - nella coerenza delle politiche di lotta alla povertà e del rispetto dei Diritti umani fondamentali. [A.G.]

   

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AFGHANISTAN

Via libera al gasdotto transafgano di Enrico Piovesana

PeaceReporter - 14 dicembre 2010

Firmato l'accordo definitivo per la realizzazione della pipeline che porterà il gas turkmeno a India e Pakistan attraverso l'Afghanistan

   

Tre mesi dopo la firma dell'accordo quadro, avvenuta lo scorso 20 settembre, i presidenti di Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan e il ministro del Petrolio indiano si sono nuovamente ritrovati nella capitale turkmena, Ashgabat, per dare il via libera al progetto del gasdotto 'Tapi'.

Il presidente afgano Hamid Karzai, quello pachistano Asif Ali Zardari, il presidente turkmeno Gurbanguly Berdimuhammedov e il ministro indiano Murli Deora hanno stabilito che la pipeline, che dovrebbe essere operativa dal 2015, avrà una portata annua di 30 miliardi di metri cubi di gas naturale, che finirà per l'84 per cento nelle condutture di Pakistan e India (in parti uguali) e per il restante 16 per cento verrà captato dalla rete afgana.

A Kabul il Tapi porterà anche 400 milioni di dollari all'anno in diritti di transito e circa dodicimila posti di lavoro. La sicurezza del tratto afgano della tubatura, che passerà per le turbolente province di Herat, Farah, Helmand e Kandahar, sarà garantita da settemila soldati dell'esercito di Kabul.

''Non sarà un progetto facile da completare'', ha ammesso ad Ashgabat il giapponese Haruhiko Kuroda, presidente della Banca per lo sviluppo dell'Asia (Adb), l'istituto finanziario che sponsorizza il progetto.  

Per convincere le compagnie energetiche occidentali a investire nel Tapi, le forze armate Usa e Nato dovranno riuscire a stabilizzare nel più breve tempo possibile l'ovest e il sud dell'Afghanistan.

     

Obiettivo, questo, raggiungibile solo al costo di una possente escalation militare, oppure con un solido accordo politico, ed economico, con i talebani. Quindici anni fa, a far affari con il mullah Omar c'era l'americana Unocal. Presto potrebbe esserci, tra le altre, l'italiana Eni.

Per gli Stati Uniti, realizzare il Tapi significa non solo evitare che India e Pakistan si riforniscano di gas naturale dall'Iran (che a Islamabad e Delhi ha offerto la costruzione di un gasdotto diretto), ma soprattutto segnare un punto importante nella competizione con la Cina sull'accaparramento delle strategiche risorse energetiche dell'Asia centrale.

   

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ARGENTINA

1976 -1983: L'ora della giustizia di Elvira Corona

Unimondo -  23 dicembre 2010  

       

Sono passati più di 30 anni ma alla fine altri due tasselli sono stati aggiunti a quel grande puzzle che tenta di ricomporre la giustizia in Argentina. Il primo è arrivato qualche giorno fa con la conclusione - con 12 ergastoli, 4 condanne a 25 anni e una assoluzione - del processo contro gli aguzzini dei Centri Clandestini di Detenzione e Tortura del circuito Banco - Ateltico - Olimpo, di Buenos Aires, accusati per crimini contro 183 persone. Il Tribunal Oral Federal nuemro 2 della Capitale Federale ha così condannato 16 dei 17 accusati di omicidi, torture, e crimini contro l'umanità. Uno di loro è stato invece assolto per insufficienza di prove.

Ma forse il tassello più significativo - anche da un punto di vista simbolico - è quello della sentenza pronunciata a Cordoba lo scorso 22 dicembre. Era la più attesa, quella contro Jorge Rafael Videla, ex comandante in capo dell'esercito e autore - insieme a Emilio Eduardo Massera e Orlando Ramón Agosti - del colpo di stato del 24 marzo 1976 che portò l'Argentina agli anni bui del terrorismo di stato. A centinaia di chilometri di distanza dalla capitale, il Tribunal Oral Federal N°1 lo ha condannato all'ergastolo. Una sentenza storica per i crimini commessi negli anni della cosiddetta guerra sporca tra il 1976 e il 1983.

Videla questa volta era imputato insieme all'ex titolare del Terzo Corpo dell'Esercito Luciano Benjamín Menéndez, e altre 28 persone per l'omicidio di 31 prigionieri politici e il rapimento e la tortura di cinque ex agenti di polizia e il fratello di uno di loro. Durante la sua ultima possibilità di difesa, l'ex militare non ha mostrato nessun segno di pentimento nè di redenzione, anzi. In questi anni non ha mai cambiato argomentazioni per giustificare il “Processo di Riorganizzazione Nazionale”, e in un lungo discorso il dittatore ha parlato di uno “stato di guerra interna” facendo appello alla alla teoria dei due demoni per giustificare il terrorismo di stato. “Volevano prendere il potere politico per attuare un sistema marxista. I giovani del paese sono stati manipolati da un'abile propaganda, e i terroristi di ieri, oggi governano il nostro paese. Non hanno bisogno di violenza, perché sono al potere” ha affermato in un delirio prima della sentenza.

Videla ha ripercorso a modo suo il periodo precedente al colpo di stato affermando che “lo Stato aveva perso il suo monopolio dell'uso della forza. La giunta militare è stata istituita il 24 marzo 1976, ma la guerra è iniziata nel mese di ottobre 75”. Videla era già stato condannato all'ergastolo nel 1985 - poco dopo il ritorno del paese alla democrazia - per essere poi scarcerato qualche anno dopo, grazie alle leggi di indulto varate dal governo di Carlos Menem. Nel 2007 anche grazie all'impegno dell'allora presidente Nestor Kirchner, la Corte penale dichiarò incostituzionali le leggi di indulto, concedendogli però gli arresti domiciliari, per l'età avanzata.

L'ex capo militare, responsabile di assassini, torture, sparizioni, voli della morte, ha affermato prima di non riconoscere i magistrati che che lo giudicano quali suoi giudici naturali, e poi che “con questa sentenza si pretende di omologare una decisione politica adottata con sentimento di vendetta da coloro che ieri furono gli sconfitti” e ha continuato: “accetterò l'ingiusta condanna che mi verrà inflitta per l'armonia e la pace del nostro paese, come un ulteriore servizio che gli rendo. Non fu una guerra sporca - ha continuato Videla - ma una guerra giusta che ha salvato il paese da giovani idealisti che hanno tentato di imporre una cultura estranea al nostro stile di vita tradizionale, occidentale e cristiano”.

Per partecipare al pronunciamento della sentenza è arrivato a Cordoba anche il premio Nobel per la Pace Adolfo Perez Esquivel, vittima anche lui delle violenze della dittatura. Dopo aver ascoltato l'imputato, Pérez Esquivel ha ripudiato il dittatore e ha ricordato che “prima che il governo annullasse le leggi di impunità, si doveva ricorrere ai tribunali internazionali per chiedere giustizia”. Questa sentenza chiuderà un processo iniziato con il ritorno alla democrazia e porta Jorge Rafael Videla nel luogo che ha schivato per gli ultimi 25 anni, il carcere comune, anche se oggi a 85 anni compiuti gli rimane ben poco da scontare.

Rappresentanti delle associazioni come quella de Las Madres de Palza de Mayo, Abuelas, Hijos, Familiari e tutte quelle che in questi anni si sono impegnate per avere giustizia erano hanno assistito al processo, o hanno aspettato fuori dal tribunali, molti altri si sono riuniti davanti agli schermi giganti sistemati nei punti più importanti di Buenos Aires, e hanno potuto seguire in diretta il pronunciamento della sentenza. Argentini commossi e convinti che anche se non rivedranno mai più i loro cari, nè vivi nè morti, un pò di giustizia è stata fatta. Dopo le ultime parole del giudice si è levato un coro: “30 mil compañeros desaparecidos presentes! ahora y siempre!”.

       

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BANGLADESH

Padre Luca: un volto amico per i lavoratori di Savar di Bruno Guizzi

 

Traggo spunto da un articolo pubblicato il 22 dicembre da Ucanews, interamente riportato nella versione inglese di Banglanews, per darvene notizia anche nella versione italiana.

Ho però preferito non fare una pedissequa traduzione ma darvi qualche notizia aggiuntiva.

Si tratta di una nuova missione del Pime, sorta ad una trentina di chilometri a nord-est di Dhaka, Savar. L'area, che prima era aperta campagna, è stata man mano inglobata nella grande Dhaka e centinaia e centinaia sono le fabbriche di ogni tipo che producono beni destinati all'esportazione. Sono molte infatti le compagnie straniere che, approfittando del bassissimo costo dei salari, della mancanza di sindacati e delle facilitazioni fiscali, hanno stabilito la produzione in quest'area.

Decine di migliaia di lavoratori vengono in quest'area da tutto il paese. Alcuni vengono con tutta la famiglia, la maggior parte da soli. E soli restano in un ambiente spesso ostile sopratutto per i tribali o per le minoranze etniche e/o religiose, che non trovano alcun luogo ove stare insieme, nei pochi momenti in cui sono liberi dal lavoro.  

      

Il centro che è diretto da padre Luca Galimberti, originario di Erba e Missionario del PIME, è stato costruito dalla Novara Technical School allo scopo di creare un ambiente confortevole per i ragazzi che, una volta diplomati dalla scuola, arrivavano nell'area alla ricerca di un lavoro.

Già da qualche anno padre Gianpaolo Gualzetti e, successivamente il compianto padre Sandro Giacomelli, avevano iniziato la loro attività nella zona, spesso cercando i fedeli casa per casa.

Il ritorno di padre Luca Galimberti in Bangladesh (era stato precedentemente parroco di Boldipukur) e la presenza delle Suore missionarie dell'Immacolata ha permesso, da due anni, di dare nuova vita al centro.

Il centro è appunto un posto in cui, oltre ad assistere alle celebrazioni religiose, è possibile incontrare degli amici, passare un po’ di tempo in un ambiente accogliente, trovare assistenza nelle varie dispute spesso generate dall'ingordigia dei padroni o dalla disonestà dei proprietari delle case che vengono date in affitto.

I lavoratori sono infatti del tutto sprovveduti relativamente ai loro diritti e spesso vengono imbrogliati dai datori di lavoro o da chi procura loro un posto per dormire. Nel caso di quei lavoratori che hanno con sè una famiglia, c’è poi il problema aggiuntivo dell’istruzione e del servizio sanitario per i bambini.

Un’altra necessità è quella di insegnare ai lavoratori a pianificare le proprie spese: i tribali infatti non hanno l’abitudine di pensare al risparmio (ne sanno qualcosa i nostri missionari che hanno creato le Credit Unions), pian piano però la situazione sta cambiando.

E’ infine importante che i Cristiani mantengano, anche in un ambiente avverso, la propria identità che troppo spesso sono costretti a disconoscere. E’ importante che questi Cristiani non si sentano soli, soprattutto nelle avversità, ma che possano scambiare le proprie esperienze ed ottenere, ove necessario, qualche consiglio o qualche informazione.

Lo sappiamo bene che si tratta di una goccia d’acqua in un oceano, ma se non ci fosse centinaia di lavoratori non avrebbero trovato un volto amico.

La pastorale sociale è una delle attività in cui la Chiesa tutta deve, soprattutto in questo periodo, essere attiva.

   

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Squadroni della morte 'made in England' di Enrico Piovesana

PeaceReporter - 28 dicembre 2010
Bangladesh: nuovi 'wikileaks' rivelano che la Gran Bretagna ha addestrato le famigerate 'camicie nere' dei Battaglioni di azione rapida (Rab), accusate di centinaia di omicidi politici e torture. 

        

Tra i tanti 'wikileaks' usciti negli ultimi giorni, ce n'è uno che ha messo in forte imbarazzo il governo di Londra. Da un cablogramma del maggio 2009 inviato dall'ambasciatore americano in Bangladesh, James Moriarty, è emerso infatti che la Gran Bretagna addestra i locali 'squadroni della morte': le famigerate forze speciali dei Battaglioni di azione rapida (Rab) legate al Partito nazionalista bengalese (Bnp).
Da anni, numerose organizzazioni internazionali per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, denunciano i crimini commessi dalle 'camicie nere' bengalesi dalla loro comparsa nel 2004: almeno mille attivisti e oppositori uccisi in esecuzioni mirate spacciate per 'scontri a fuoco' o a seguito di torture. Hwr ha descritto le Rab come ''squadroni della morte in stile latinoamericano, camuffate da forza anti-crimine''.

    
Gli obiettivi prediletti dei Rab sono i militanti maoisti del Purba Banglar Communist Party (Pbcp) e quelli integralisti del Jama'atul Mujahideen Bangladesh (Jmb), del Jagrata Muslim Janata Bangladesh (Jmjb) e dell'Harkat-ul-Jihad-al Islami Bangladesh (HuJi-B). Ma a finire vittime della gestapo bengalese sono anche attivisti locali per la democrazia e i diritti umani, oppositori politici, sindacalisti e giornalisti.
Anche gli Stati Uniti non ne escono molto bene da questa vicenda. In un altro cablogramma dell'agosto 2008, l'ambasciatore Moriarty scrive che gli Usa vorrebbero tanto sostenere i Rab, ma purtroppo non possono perché la legge americana impedisce l'addestramento di forze accusate di violazioni di diritti umani.
Questa consapevolezza, come dimostra un cablo del gennaio 2009, non impedisce agli Stati Uniti di fare pressioni sulla premier bengalese Sheikh Hasina affinché ''non smantelli i Rab'', giudicati da Washington come ''la miglior forza antiterrorismo del paese'', quella ''nella miglior posizione per divenire un giorno la versione bengalese dell'Fbi''.

 

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BRASILE

Messaggio e notizie da S.Paolo di Pe. Giovanni Murazzo  

Il Mini-ponticello n° 10 - Ricevuto direttamente dall'autore

      

Amici carissimi

con il cuore in festa, attraverso questo nuovo MINI-PONTICELLO, desidero darvi un nuovo, piccolo ma autentico segno della mia presenza amica.

 

Messaggio matalizio

Qual’é il mio messaggio per il NATALE 2010 e per l’ANNO 2011?

Tra i tanti e tanti che affiorano nel mio spirito, scelgo il seguente: GESÚ-LUCE, dono di amore della Famiglia Trinitaria per ciascuno di noi, desidera nascere nel cuore di ogni persona della famiglia umana con la collaborazione di ciascuno di noi. Infatti “Nessuno che ha veramente incontrato GESÚ puó conservarlo solo per sé”.

Come “collaborare”? Con la “bacchetta magica” della spiritualitá della “Dottoressa dell’Amore”: Santa Teresina del Bambino Gesú, protettrice universale delle missioni, insieme a San Francesco Saverio.

Ecco un germoglio (la festa di Natale non é uno speciale invito a prestar attenzione ai “germogli”?) della sua spiritualitá: “Tutto ció che faccio, anche il semplice gesto di raccogliere uno spillo, lo faccio per amore...

Quando faccio fatica a camminare... cerco di dare ancora qualche passo... per solidarizzare con qualche missionario stanco per i suoi viaggi apostolici”.

Desidero vivamente e prego insistentemente  perché lo Spirito Santo ci conduca e ci introduca  “nella veritá completa”: vivere questa spiritualitá cominciando nella nostra casa... senza mai dimenticare e desiderare che tutte le persone del mondo entrino a far parte di quella famiglia destinata ad abitare “in terra nuova con cieli nuovi”.

      

La bella notizia!

Caríssimi, ho una bella notizia da comunicarvi: é successo un miracolo qui in Brasile... e, grazie a questo miracolo, il Beato Guido Maria Conforti, sará canonizzato, cioé dichiarato Santo.

Qual’é il miracolo? Tiaghigno, bambino nato con sei mesi e con il peso di settecento grammi ebbe arresto cardiaco per circa mezz’ora ed é sopravvissuto. La scienza medica non sa spiegare tale fatto.

Immagina che, il tre di agosto scorso, Tiaghigno ha compiuto sette anni. É un bambino normale, riesce bene a scuola, vivace, socievole, simpatico e affettuoso  come tutti i bambini della sua etá.

Ho conosciuto Tiaghigno tre anni fa. Ho una foto con lui nelle mie braccia. Immaginate se non mi sentivo felice portando questo “dolce peso!”

Non mi sembra vero di aver avuto nelle mie braccia un segno del “potere e della bontá miracolosa” della Santissima Trinitá a favore della Famiglia Saveriana e di tutte le persone amiche che in qualche modo sono in relazione con i Missionari Saveriani sparsi in diciotto paesi.

Per me non solo é interessante, ma é interessantíssimo, che questo miracolo che é determinante per la canonizazione del Beato Conforti e che poteva avvenire in uno dei diciotti paesi dove c’é presenza saveriana (il miracolo per la beatificazione é avvenuto in Burundi) sia avvenuto qui in Brasile.

Due mesi fa, rispondendo alla lettera del Padre Generale, gli dicevo: “Per noi, Saveriani del Brasile, questo miracolo é una grande benedizione e, allo stesso tempo, una grande sfida".

Nel mese  scorso, insieme ai quattro confratelli della Direzione Regionale, abbiamo nominato una commissione per valorizzare la BENEDIZIONE e per rispondere alla SFIDA.

Non sappiamo ancora la data della CANONIZZAZIONE... ma l’importante adesso é la preparazione di questo grande evento.

AUGURISSIMI per un Felice e Santo Natale e per un Anno Nuovo ancora piú Santo e piú Felice.  Una preghiera reciproca.  In Gesú-amico il mio abbraccio amico.

Pe. Giovanni Murazzo       

     

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CAMBOGIA

Cacciati di casa migliaia di poveri, per favorire progetti edilizi e latifondi

AsiaNews - Phnom Penh - 21 dicembre 2010

Nella Cambogia comunista le autorità favoriscono ambiziosi progetti urbanistici e grandi coltivatori di zucchero e gomma. Danno i terreni alle grandi ditte, togliendoli a poveri e piccoli agricoltori. Oltre 27mila persone cacciate nel 2009. Ora inizia a diffondersi la protesta pubblica.  

          

I residenti sul Lago Kak sono costretti a lasciare le loro case di legno, ora che le acque del lago sono salite e hanno coperto tutto con un mare di fango. Questa era una amena località turistica, ora è un mare di fango insalubre.

Il Lago Kak è uno dei pochi spazi aperti rimasti vicino a Phnom Penh. Ci abitavano circa 4mila famiglie, in povere case di legno. Il governo ha ignorato i diritti di chi ci abita e ha ceduto il terreno in affitto per 99 anni alla ditta Shukaku Inc., costruttore privato ritenuto vicino a politici del partito di governo. Sui circa 130ettari, la ditta realizzerà edifici e centri commerciali e ha offerto ai residenti un indennizzo da 1.500 a 8.500 dollari. Ma è basso e i residenti lo hanno rifiutato. Allora le acque del lago hanno iniziato a salire.

Molti, come Rolando Modina direttore regionale della ong internazionale Centro per i Diritti Abitativi e le Evizioni, accusano la ditta di avere "cacciato con la forza i residenti", gettando nel lago grandi quantità di sabbia, così da farne salire il livello.

David Pred, direttore esecutivo di Bridges Across Borders Cambodia, ong che difende i diritti umani e civili, dice che "il messaggio per chi ancora abita sul lago è di accettare l'indennizzo offerto, o saranno seppelliti dal fango".

Ora stanno andando tutti via, ma molti non sanno dove, perché il denaro è insufficiente per trovare una nuova casa. Sul lago abitano ancora oltre 1.000 famiglie, le più povere che non sanno dove andare.

Le dispute per i terreni sono un grande problema sociale e causano di proteste di massa in Cambogia, in modo simile a quanto avviene nella vicina Cina. Secondo dati ufficiali delle Nazioni Unite, ritenuti molto sottostimati, nel 2009 ci sono stati almeno 26 casi di espropri di massa e circa 27mila persone cacciate.

In passato, i Khmer Rossi avevano abolito la proprietà privata dei terreni, durante il loro governo negli anni 1975-1979. Inoltre durante la guerra e gli anni successivi sono andati persi molti documenti di proprietà degli immobili. Ora i terreni liberi intorno alla maggiori città sono sempre più rari e interessano molto i costruttori, per realizzare nuovi quartieri residenziali e moderni centri commerciali.

Il risultato, denuncia Pred, è un devastante aumento degli espropri forzati "per i rapidi investimenti speculativi nel mercato immobiliare, favorito dall'endemica corruzione e dall'assenza di uno Stato di diritto". "I poveri sono stati cacciati dalle loro case a Phnom Penh, che sta diventando residenza esclusiva dei ricchi".

I progetti di sviluppo della capitale si sono fermati durante la crisi finanziaria globale del 2008, ma ora hanno ripreso. Nel 2009 il governo ha approvato una legge per assegnare proprietà private per progetti di sviluppo pubblico.

Ma anche nelle campagne sono frequenti gli espropri di piccoli appezzamenti di terreno, per creare latifondi assegnati a grandi aziende per coltivare zucchero e caucciù.

Per la legge cambogiana, chi vive per almeno 5 anni in un luogo acquista il diritto a starci. La gran parte dei residenti sul Lago Kak ci abitano dagli anni '80, hanno organizzato numerose dimostrazioni di protesta, ma sono state sciolte dalla polizia perchè il loro problema non interessa il governo.

Sok Sambath, governatore del distretto di Daunh Penh della capitale, dove ricade il Lago, dice soltanto che il progetto della Shukaku è "una buona cosa" per la zona e che gli abitanti devono accettare l'indennizzo.

Intanto il Lago, nota attrazione turistica, ora è pieno di dune di sabbia, ha perso la sua bellezza, i turisti non vengono più, gli alberghi che li ospitavano stanno chiudendo. L'intera economia della zona è stata sconvolta, per consentire il progetto edilizio.

   

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CINA

Lettera agli amici di p. Farnando Cagnin

Cina, Natale del Signore 2010

        
Carissimi amici 
quando mi son messo a scrivere questa lettera, ho cominciato a percepire la gioia che viene dal sentire la vostra vicinanza e quella delle festività natalizie. Mi è venuto spontaeo canticchiare una melodia di Natale e questa ha subito incuriosito i miei vicini! Alcuni hanno cominciato a guardarmi con occhi pieni di meraviglia... Mi rendo conto di un fatto, magari ovvio, ma che merita un po' di riflessione e che condivido con voi.
Sì, le persone che nascono qui si sentono cinesi, quelle che nascono in Italia si sentono italiane e dovunque nascano si sentono del loro Paese. Comuque sia, nessuno nasce cristiano! Cristiani non si nasce, ma si diventa. Possiamo dire che si diventa a motivo di un dono che ci viene communicato attraverso la "trasmissione della fede", talvolta dai genitori ai figli, altre volte con l'entusiasmo o l'eroicità di qualche santa persona; forse passa anche con una melodia canticchiata da un missionario, ma sempre avviene (anche senza saperlo) per un dono "dato" da Dio... Ma chi ha cominciato questa "trasmissione" dell'esperienza di "Dio con noi"? Tutti lo sanno: Dio stesso ha voluto entrare nella nostra storia con l'esperienza del Natale, un umile evento capace di portare serenità e speranza da un confine all'altro della terra.
Siamo in festa per fare memoria, per vivere e per trasmettere l'esperienza di "Dio con noi". Noi stessi diventiamo "cristo-fori e cristiani" cioè segnati dentro dal Suo amore e trasmettitori di una percezione della fede che ci riempie di sentimenti di pace, di fiducia e che ci stimola a un cambiamento di vita più buona.
Anch'io quindi vivo questa esperienza e la condivido come missionario in Cina. Qui, come sapete, vivo tra molte persone diversamente abili, che fanno difficoltà a trovare un posto in una società piena di gente esigente e ipsista, preoccupata dell'apparenza delle strutture sociali o del profitto personale, più che del sostegno delle persone svantaggiate, le quali preferirebbero vedere più giustizia e pari opportunità per tutti.
Ai nostri giorni, qui in Cina, ci sono pure moltissimi cinesi e occidentali alla ricerca di valori. Tante persone che si rendono disponibili con le loro risorse a portare aiuti e solidarietà nella carità fraterna. E' bello vedere che giovani universitari vengono a fare i volontari e, assieme alle persone più deboli che vivono con noi, si mettono a condividere le loro abilità facendo quadri e ceramiche che, proprio in questi giorni, possono far sfoggio della loro bellezza in uno dei più famosi musei della città di Canton. E' pure bello vedere i commercianti (che sembrano sempre occupati e preoccupati) venire a rilassarsi nella nostra fattoria; e poi, in semplicità, si mettono a cantare serenamente stando insieme ai diversamente abili... c'è anche chi stando insieme a loro va scoprendo le loro abilità e le loro genuine espressioni di serenità interiore e di spontanea simpatia. 
L'insieme di tante esperienze positive ha anche portato il famoso attore Jet Lee e la sua fondazione a riconoscerci come una delle migliori organizzazioni non governative, vincendo pure un premio prestigioso... tutto questo è frutto anche del vostro continuo sostegno e della perseverante testimonianza di carità, di fratellanza, di preghiera e di annuncio di pace che avviene solo se si "trasmette" portando tutti a partecipare i doni di questa terra e quelli dello Spirito che, la grazia di Dio, dona e suscita in ciascuno di noi. 
Il cristianesimo non è un insegnamento che ci mette in competizione con gli altri, ma è una semplice esperienza di giustizia e di carità, vivacizzata dalla percezione della presenza di "Dio con noi" e che ha un punto di partenza nell'avvenimento del Natale. Continuiamo a celebralo in serenità di cuore, magari canticchiando qualche bella melodia natalizia che contagi e trasmetta pace intorno a noi!
Tanti auguri 

p. Fernando (Xu Guo Xian) 

       

Per aiuti: Conto corrente postale: 39208202 

Fondazione PIME Onlus Via Mosè Bianchi 94,  20149 MILANO

Causale: p. Fernando Cagnin

        

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La Cina frena sul mattone di Gabriele Battaglia

PeaceReporter - 17 dicembre 2010

Stop dei prestiti immobiliari a Shanghai. Una misura limitata per un'economia che corre troppo  

         

La Cina mette un freno al surriscaldamento dell'economia prendendo di mira gli investimenti nel settore immobiliare. In base a una decisione presa dalle autorità locali, le banche che operano a Shanghai dovranno infatti interrompere con effetto immediato l'elargizione di crediti immobiliari da qui a fine anno.

Sono pochi giorni, è chiaro, così pochi da fare escludere un reale effetto sull'economia. Ma la misura è comunque un segnale.

Mentre il resto del mondo annaspa ancora nel credit crunch, in Cina si è infatti già ripresentato da mesi il problema contrario. Troppa liquidità in circolazione, sovente veicolata verso il cemento, per un boom delle costruzioni a cui non corrisponde - ma qui il punto è controverso - altrettanta domanda. C'è comunque il rischio che l'inflazione acceleri.

Già da inizio 2010, le autorità hanno posto un freno al credito, forti del controllo politico dell'economia che permette alla Cina di agire just in time. Le misure sono state sostanzialmente due: decretare l'obbligo per le banche di aumentare le proprie riserve obbligatorie e deviare d'ufficio parte dei crediti a settori diversi da quello immobiliare.

Tuttavia il mondo finanziario ha abilmente aggirato l'ostacolo, aumentando ulteriormente i volumi di denaro in circolazione, rischiando cioè di far impazzire ancor più l'inflazione.

Di fatto, i nuovi prestiti concessi dalle banche di Shanghai a novembre hanno raggiunto i 36 miliardi di yuan (quasi cinque milioni di euro), per un volume complessivo in Cina che si avvicina pericolosamente a settemilacinquecento miliardi, il tetto per il 2010 che Pechino ha stabilito proprio per non surriscaldare troppo l'economia. Ed ecco che scatta la frenata imposta dall'alto.

In realtà la politica economica cinese deve tener conto di valutazioni molteplici, spesso contrastanti: non si vuole far andare la macchina fuori giri, ma al tempo stesso non si intende rallentare una crescita sostenuta, promessa di benessere per un maggior numero di persone. E se invece questo boom fosse drogato e favorisse chi è già ricco, acuendo le disparità sociali?

Così le misure restrittive diventano mirate: Shanghai - capitale finanziaria e regno del capitalismo "secondo caratteristiche cinesi" - e il settore immobiliare, sempre sul punto di partire per la tangente.

Al tempo stesso però non possono essere troppo incisive, ci sono troppi interessi e gruppi di pressione in ballo: e così si spiegano i dieci giorni da qui al 2011, giusto per non sforare il tetto prestabilito dei crediti.

   

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La Cina "preoccupata" è pronta a sostenere la crisi del debito Ue

AsiaNews - Pechino - 21 dicembre 2010

Due alti funzionari del governo cinese confermano: Pechino è "pronta ad investire nella valuta europea", anche se al momento "siamo preoccupati" per la gestione della crisi del debito. 

            

La Cina "è molto preoccupata per il modo in cui la crisi del debito europeo può essere controllata", ma è comunque "pronta a sostenere le misure dell'Unione europea e del Fondo monetario internazionale per garantire la stabilità finanziaria del Vecchio Continente". Lo hanno dichiarato fra ieri e oggi due alti funzionari del governo cinese, sottolineando comunque l'interesse del gigante asiatico per l'Europa.

Chen Deming, ministro cinese del Commercio (v. foto), ha dichiarato: "Vogliamo vedere se l'Unione europea è in grado di controllare i rischi sul debito sovrano e se il consenso si possa tradurre in azioni reali per consentire all'Europa di emergere presto e in buona salute dalla crisi finanziaria".

Anche il vicepremier cinese Wang Qishan ha invitato l'Europa a tramutare le parole in fatti: "La Cina appoggia le misure prese da Ue e Fmi per stabilizzare i mercati finanziari e ha intrapreso azioni concrete per aiutare alcuni Paesi europei a far fronte alla crisi del debito sovrano". "L'Europa - ha aggiunto - ha preso misure per affrontare la crisi, ci auguriamo che esse possano assicurare presto dei risultati". Le dichiarazioni sono avvenuti all'apertura di una serie di incontri bilaterali fra Cina e Ue.

Gli incontri, che si svolgono nel quadro del dialogo sino-europeo su questioni economiche e commerciali, vedono coinvolti tra gli altri il Commissario Ue alla concorrenza Joaquin Almunia, il Commissario Ue al commercio Karel de Gucht e il Commissario agli affari economici e monetari Olli Rehn. "È nell'interesse fondamentale della Cina e dell'Unione europea rafforzare la cooperazione", ha dichiarato il vice primo ministro cinese.

L'interesse di Pechino non è casuale: negli ultimi due anni, infatti, il governo cinese ha investito una "parte considerevole" delle proprie riserve di valuta straniera nella moneta unica europea. Il valore totale degli investimenti stranieri tocca i 265o miliardi di dollari, e la Cina è interessata a mantenere alto il valore delle proprie obbligazioni straniere.

        

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La legge del figlio unico schiavizza il corpo delle donne

AsiaNews - Pechino - 22 dicembre 2010

Un rapporto di Chrd denuncia l'assoluto controllo sulla vita delle donne a causa della legge del figlio unico: visite ginecologiche forzate; aborti fino al nono mese; sterilizzazioni; impianti contraccettivi. L'arbitrio dei capi locali che usano le multe per arricchirsi. La legge del figlio unico "ancora per 5 anni" almeno.  

          

Le donne cinesi non hanno alcun potere di scelta sul loro corpo e sono sottoposte a continue umiliazioni e sofferenze a causa della legge sul figlio unico. Almeno tre volte all'anno devono presentarsi obbligatoriamente a una visita ginecologica (per verificare che non siano incinte); dopo il primo figlio, sono forzate a usare la spirale intrauterina; sono costrette alla sterilizzazione e all'aborto forzato (anche fino a nove mesi del feto).

È il quadro agghiacciante che emerge da un rapporto pubblicato ieri dal Chrd (China Human Rights Defenders), dal titolo "Non ho alcuna scelta sul mio proprio corpo", che elenca le violazioni ai diritti umani subiti da uomini e donne - ma soprattutto dalle donne - a causa della legge sul figlio unico, varata 30 anni fa per il controllo drastico della popolazione.

La pubblicazione verifica la sua incidenza negli ultimi cinque anni. Sebbene da molte parti si parla di una sua edulcorazione, e vi sono voci su una sua possibile cancellazione, il rapporto mostra invece che il controllo sulla popolazione e la legge sul figlio unico sono tuttora attuati con violenza.

Il rapporto è pieno di testimonianze che mostrano:

   

a) la pressione che si esercita sulle donne maritate e già con un figlio, perché inseriscano la spirale o si facciano sterilizzare, privandole di ogni scelta sulla scelta dei metodi di controllo delle nascite;

b) una lunga serie di aborti forzati per tutte le donne incinte fuori delle quote previste dagli uffici per il controllo della popolazione. Molte ragazze adolescenti, coinvolte in rapporti prematrimoniali sono costrette ad abortire anche al sesto o nono mese di gravidanza. Il rapporto cita l'esempio di Liu Dan, una ragazza di Liuyang (Hunan), incinta prima dell'età del matrimonio. Il suo bambino avrebbe dovuto nascere il 5 marzo 2009. Una settimana prima di quella data, Liu è stata presa dagli impiegati del family planning e forzata ad abortire. Liu e suo figlio sono morti sul lettino della sala operatoria.

c) Uomini e donne che hanno violato la legge del figlio unico sono stati puniti con detenzioni arbitrarie, battiture, multe, esproprio di beni; altri sono stati licenziati; ai loro bambini nati fuori dalla "quota" viene negata la registrazione anagrafica (e l'esclusione dalle cure sanitarie, dalla scuola, ecc..). Spesso le punizioni vengono operate anche su tutti i familiari. Tutto ciò mostra che - contrariamente a quanto la Cina giura nelle assemblee internazionali - la politica del figlio unico e il controllo sulla popolazione avviene ancora attraverso mezzi coercitivi.  

         

Nel rapporto, si mostra che la legge non è applicata ovunque allo stesso modo, e la sua interpretazione è lasciata al volere o al sentimento dei capi locali. Ma ovunque i burocrati del family planning ricevono premi e incentivi se riescono a raggiungere le quote stabilite in sterilizzazioni, aborti, spirali, ecc...: un vero mercato sulla pelle delle persone.

Anche le multe che vengono comminate differiscono da luogo a luogo, ma rimangono una fonte importante di introiti per i governi locali, soprattutto nelle zone rurali. L'arbitrio con cui vengono maneggiate le multe apre un ampio spazio alla corruzione.

Chrd conclude il suo rapporto domandando al governo cinese di perseguire i burocrati che hanno violato i diritti dei cittadini con la scusa di attuare la legge del figlio unico, e di abolire il programma di controllo sulla popolazione.

Tale programma ha di fatto distorto la demografia della Cina, creando un grave sbilanciamento nell'equilibrio fra maschi e femmine e un rapido invecchiamento della popolazione.

Proprio alcuni giorni fa, il 20 dicembre, il capo del family planning a Pechino, Li Bin, ha ribadito che la politica del figlio unico resterà immutata almeno "per i prossimi cinque anni".  

 

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COLOMBIA

Farc: 5 prigionieri presto liberi in onore di Piedad Cordoba di Stella Spinelli

PeaceReporter - 17 ducembre 2010

  

Saranno liberazioni unilaterali per dare un segnale forte dell'intenzione della guerriglia di procedere sulla via della pace e per sottolineare l'ingiustizia che ha portato all'allontanamento della ex senatrice dalle cariche pubbliche

Le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc) hanno annunciato la liberazione unilaterale di cinque prigionieri di guerra da anni nelle loro mani, quale gesto di solidarietà nei confronti della ex senatrice Piedad Córdoba, estromessa dalla vita pubblica nel settembre scorso per decisione del procuratore generale Alejandro Ordoñez.

Il motivo, l'aver "collaborato e promosso le Farc durante il periodo compreso fra il 15 agosto e il 20 novembre 2007 e di aver continuato anche nei mesi dopo, fino al 2010".

Un'accusa pesante e non corroborata da nessuna prova, e che suona quale persecuzione politica per il ruolo centrale ricoperto dalla politica liberale, molto vicina al venezuelano Hugo Chavez, nei processi di liberazione che proprio da quel novembre 2007 si sono susseguiti con grande successo.

  

In una lettera indirizzata proprio alla Cordoba, le Farc, nel ringraziarla per l'impegno dimostrato, le annunciano la decisione quale segno di riconoscenza.

"Spinti dal più giustificato degli imperativi etici, ci rivolgiamo a lei per esprimerle, in questo momento cruciale della sua vita politica, tutta la nostra solidarietà incondizionata per il brutale sopruso subito dalla Procura Generale della Nazione contro il suo sforzo umanitario per la pace in Colombia - scrive il Segretariato delle Farc -. La decisione del Procuratore è una vera buffonata giuridica e politica, scaturita dalla pressione malata, dall'odio e dalla rappresaglia dell'ex presidente Uribe, capo indiscutibile, finora impunito, del paramilitarismo e della para-politica colombiana".

La lettera continua annunciando le liberazioni, precisando che avverranno in base alle garanzie che il governo Santos saprà fornire, e imponendo quale imprescindibile condizione che sia la ex senatrice a ricevere i prigionieri, in barba alla decisione di Ordoñez. Il quale, secondo le Farc, "è più prevaricatore che procuratore. Inabilitando per diciotto anni la senatrice, pretendendo la sua morte poltitica, non solo esagera usurpando funzioni proprie del Consiglio di Stato, ma lo fa in relazione a presunti dati contenuti in un computer (quello di Raul Reyes, numero due delle Farc ucciso nel marzo 2008 ndr) che quindi non possono costituire prova giuridica perché prima manipolati dalla piolizia". Quindi ancora: "In questo caso non c'è diritto alla difesa, né al dovuto processo. Nessuno ha giudicato Piedad Córdoba. Paradossalmente, i funzionari delinquenti che la spiavano per incriminarla adesso fuggono all'estero cercando di farsi gioco della giustizia".

Eppure le Farc insistono ricordando come la Córdoba abbia agito con l'avallo dell'Esecutivo e rispettando i dettami della Costituzione. "Non esiste nessuna Farc-politica - come avevano definito il modus operandi della ex senatrice durante la mediazione - si tratta di un termine ingannevole ideato dal capo paramilitare che ha occupato la presidenza della Repubblica per otto anni (Alvaro Uribe ndr.) per sviare l'attenzione sulle sue responsabilità penali nel caso della para-politica". Si tratta di uno scandalo che da anni infanga la politica colombiana. Paramilitari armati e senza scrupoli sono stati usati per compravendita di voti e propaganda armata in favore di alcuni partiti politici tutti legati a Uribe. "Il capo paracos, Salvatore Mancuso, si è spesso vantato del fatto che il trenta percento dei parlamentari erano stati eletti grazie al suo intervento e che grazie a pressioni, frodi elettorali e finanziamenti in dollari, il paramilitarismo aveva contribuito a eleggere per ben due volte il presidente della Repubblica". Per questo, secondo l'organizzazione guerrigliera più longeva al mondo, non può esistere un'equivalente Farc-politica, visto che "mai la guerriglia ha cercato di orientare la gente a votare per Piedad Córdoba. Non abbiamo mai partecipato a dibattiti elettorali da quando l'intransigenza dell'oligarchia ha massacrato l' Unión Patriótica (il partito politico che incarnava i principi della guerriglia e che è stato sterminato in pochi anni nel sangue ndr.)".

Nella lettera l'organizzazione guerrigliera si rivolge anche al paese, invitandolo a lavorare per la costruzione di un'alternativa politica alla guerra, iniziando a ribellarsi al tentativo di "convertire in delitto la lotta per la pace". Quindi le Farc ribadiscono la volontà di arrivare a una pace, precisando che il tavolo di dialogo dovrà essere corroborato da un'Assemblea nazionale costituente che dia concretezza alla pace.

E quindi via con la lista di coloro che torneranno liberi: il maggiore di polizia, Guillermo Solórzano; il capo dell'esercito Salín Sanmiguel, il soldato di marina Henry López Martínez, e i presidenti del consiglio municipale di San José del Guaviare, Marcos Vaquero, e di Garzón, Huila Armando Acuña. Scambi unilaterali, che però non significano il venir meno della ricerca dello scambio umanitario. "Continuiamo nel proposito di cercare che venga liberato Simón Trinidad - esempio del decoro e della fermezza del rivoluzionario delle Farc, e il ritorno dei nostri dalle carceri statali". Quindi concludono: "Senatrice, condividiamo con lei e con l'immensa maggioranza dei nostri compatrioti che la guerra non può essere il futuro della Colombia".

Una lettera a cui Córdoba ha già risposto, dicendo come questo annuncio alimenti la speranza in una soluzione politica del conflitto sociale e armato interno, e precisando che il governo l'ha già autorizzata a lavorare per concretizzare le suddette liberazioni. E infatti, la ex senatrice ha già incontrato i familiari degli ostaggi indicati dalle Farc, supervisionata dal portavoce del governo, Eduardo Pizarro Leongómez. Nel tranquillizzarli sulle concrete speranze di buona riuscita di questo processo di liberazione, ha precisato che comunque non avverrà prima di un mese.

   

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COSTA D'AVORIO

Crisi politica: preoccupazione per situazione umanitaria e nuove sanzioni

Misna - 22 dicembre 2010    

          

E' in corso a Ginevra una sessione speciale del Consiglio dei diritti umani dell'Onu sulla preoccupante situazione umanitaria creatasi in Costa d'Avorio, precipitata in una crisi post-elettorale dall'esito incerto. L'incontro alla sede del Consiglio è stato richiesto dal gruppo dei paesi africani, guidato dalla Nigeria, e dagli Stati Uniti. In un scenario definito dalle Nazioni Unite come "delicato e pericoloso", le popolazioni civili già stremate da otto anni di conflitto politico-militare sono le prime vittime del braccio di ferro tra i due contendenti della poltrona presidenziale, Laurent Gbagbo e Alassane Ouattara. "Oltre alle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate ai danni dei civili c'è un rischio immediato in termini di sicurezza, che si sta continuamente deteriorando" secondo la Federazione internazionale dei diritti umani (Fidh). Una situazione umanitaria difficile denunciata da un gruppo di donne scese in strada a Port-Bouet, quartiere popolare della capitale Abidjan: al suono di pentole e latte hanno protestato contro i rapimenti notturni e le incursioni nelle case degli abitanti attribuiti a uomini armati fedeli a Gbagbo. Già Domenica la stessa Onu aveva confermato massicce violazioni dei diritti umani in atto nel paese dell'Africa occidentale che hanno provocato finora una cinquantina di vittime. La paura diffusa per l'evolversi dello scenario ha già portato almeno 11.000 ivoriani, per lo più donne e bambini, a fuggire in Liberia, Guinea e Ghana, secondo la commissione per gli aiuti umanitari dell'Unione Europea (UE) che ha appena sbloccato cinque milioni di euro per sostenere sul terreno gli operatori umanitari. Nelle ultime ore proteste pacifiche si sono svolte anche nella città di Bouaké (centro), feudo dell'ex-ribellione delle 'Forze Nuove' che sostiene Ouattara, per chiedere il "mantenimento della locale missione Onu (Onuci)" e "la partenza di Gbagbo" grazie ad un intervento esterno. A sollecitare apertamente un intervento "con la forza" è stato l'ex-capo ribelle Guillaume Soro, ex-primo ministro di Gbagbo e ora a capo dell'esecutivo di Ouattara. In dichiarazioni diffuse da un'emittente francese Soro ha chiesto "al Consiglio di sicurezza dell'Onu, all'Unione Europea, all'Unione Africana e alla Comunità economica dei paesi dell'Africa occidentale (Ecowas/ Cedeao) di pensare al ricorso alla forza dopo pressioni e sanzioni che non hanno ancora portato ad una soluzione". Alla luce della crescente instabilità in Costa d'Avorio, Francia, Germania e Svezia hanno raccomandato ai propri concittadini di non recarsi in viaggio nel paese o a lasciarlo almeno "provvisoriamente". Stessa misura è stata decisa da Abuja che ha fatto rimpatriare suo personale diplomatico ad Abidjan dopo l'attacco perpetrato ieri ai danni dell'ambasciata della Nigeria nella capitale ivoriana. Nel frattempo sul fronte diplomatico si aggiungono altre sanzioni nei confronti della Costa d'Avorio dopo quelle già formalizzate da Unione Africana e Stati Uniti. Dopo sanzioni di principio decise lunedì, oggi i 27 paesi membri della UE hanno confermato per iscritto misure restrittive nei confronti del presidente autoproclamato Gbagbo e di 18 personalità a lui vicine. Il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick, ha invece annunciato che l'istituzione finanziaria ha deciso di bloccare i suoi finanziamenti destinati alla Costa d'Avorio fin quando la situazione politico-istituzionale non si chiarirà. [VV]

   

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La posta in gioco per l'Africa ... e per le grandi potenze

Misna - 24 dicembre 2010    

          

C'è grande attesa tra gli ivoriani e la comunità internazionale per i provvedimenti che la Comunità economica dei paesi d'Africa occidentale (Ecowas/Cedeao) potrebbe adottare durante il vertice straordinario previsto oggi ad Abuja (Nigeria): un incontro urgente teso a risolvere la crisi politico-istituzionale creatasi in Costa d'Avorio dopo il controverso risultato delle presidenziali del 28 novembre. Ormai da giorni si accentuano le pressioni esercitate da potenze occidentali, come Francia e Stati Uniti, così come da Onu, Unione Africana (UA) e Unione Europea (UE) sull'autoproclamato presidente Laurent Gbagbo con sanzioni e pressanti richieste di lasciare il potere, mentre il suo contendente, Alassane Ouattara, gode di sostegno e riconoscimento. Nelle ultime ore si sono moltiplicate le consultazioni anche con la dirigenza della Cedeao, organismo regionale di cui Abidjan è membro, e oggi tutti hanno lo sguardo puntato su Abuja in attesa di "una presa di responsabilità" riferisce il sito d'informazione 'Abidjan.net', cioè di una decisione in grado di risolvere il braccio di ferro politico che minaccia di sfociare in conflitto armato. Di fatto è già stata ventilata la possibilità di un intervento militare africano in Costa d'Avorio, "una responsabilità che è dei capi di Stato africani" ha detto Henri de Raincourt, ministro della cooperazione dell'ex-potenza coloniale francese, in prima fila, come è solita, nelle iniziative diplomatiche in corso. L'atteggiamento di Parigi, Washington e New York non manca di suscitare sospetti e critiche da parte di associazioni di difesa dei diritti umani e osservatori, africani e non, che vedono dietro l'eccessivo interventismo soliti giochi di potere e interessi economici da tutelare. A monte dell'esplosiva situazione odierna "c'è una grande responsabilità delle potenze occidentali e dell'Onu: sapevano bene che le condizioni di un voto trasparente, soprattutto nel Nord, non potevano essere garantite in assenza di riunificazione del territorio" affermano i responsabili dell'associazione francese 'Survie'. In un comunicato dal titolo molto esplicito, "La Francia piromane non deve giocare al vigile del fuoco", viene anche ricordato il coinvolgimento e le responsabilità di Parigi nella crisi che da otto anni destabilizza la sua ex-colonia. "Era illusorio credere che le elezioni avrebbero portato il paese africano fuori dalla crisi - sottolinea 'Survie' - a questo punto urge imboccare la strada della pacificazione e della distensione tra gli attori della crisi". Secondo l'associazione francese, "per evitare di far precipitare la Costa d'Avorio nella violenza" una comunità internazionale responsabile dovrebbe "smetterla di riconoscere la vittoria di uno dei candidati", ma soprattutto allontanare "l'idea o l'illusione che una soluzione di forza possa essere imposta ad un paese ancora diviso". In questa chiave 'Survie' suggerisce il ritiro delle truppe francesi della missione 'Licorne' per privilegiare se necessario il potenziamento della locale missione Onu, nota come 'Onuci'. Intanto sul terreno, oltre alle popolazioni ivoriane, prime vittime, a patire le conseguenze umane ed economiche della crisi post-elettorale ivoriana sono tutti i paesi dell'Africa occidentale. Il blocco prolungato delle attività economiche e commerciali ivoriane sta 'impoverendo' la stessa Cedeao, il cui Prodotto interno lordo (Pil) viene realizzato al 40% dalla sola Costa d'Avorio grazie alle sue produzioni di cacao, caffè, banane e le sue ricche risorse minerarie (oro, ferro, petrolio, manganese). Con la chiusura delle frontiere e le misure restrittive, come il coprifuoco, viene paralizzata l'attività dei porti ivoriani (Abidjan, Port-Bouet) ma anche il trasporto e la commercializzazione delle merci verso i vicini Mali, Burkina Faso e Niger con ingenti perdite economiche per l'intera regione. (A cura di Veronique Viriglio)[VV]  

 

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INDIA

Contratto di 35 miliardi tra Russia e India per costruire 300 aerei da caccia

AsiaNews - New Delhi - 22 dicembre 2010

Mosca e Delhi progetteranno e costruiranno insieme aerei da caccia della 5° generazione. Il presidente russo Medvedev, in visita in India, rinsalda i vecchi legami e dichiara di sostenerla per un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza Onu. Previsto di raddoppiare i commerci in 5 anni.  

    

La Russia fornirà all'India aerei jet caccia e missili e costruirà altri reattori nucleari. Inoltre ieri, durante la visita in India del presidente russo Dmitry Medvedev, i due Paesi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che "la Federazione russa sostiene l'India come un degno e forte candidato per un seggio permanente in un allargato Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite".

La dichiarazione si unisce a quelle favorevoli di Stati Uniti e Francia, mentre anche la Gran Bretagna non appare contraria. Solo la Cina non ha chiarito la propria posizione: i due Paesi sono tradizionali rivali, anche se i loro rapporti sono molto migliorati di recente, e Pechino vede con sfavore che anche il Giappone abbia identica ambizione. Il premier cinese Wen Jiabao, durante la visita in India una settimana fa, si è limitato a dire che "comprende e sostiene l'aspirazione dell'India a giocare  un maggior ruolo nelle Nazioni Unite, compreso il Consiglio di sicurezza".

La Russia è uno stretto partner politico ed economico dell'India dai tempi dell'Unione Sovietica e per decenni ne è stata il principale fornitore di armi. Di recente New Delhi ha voluto rivolgersi anche ad altre fonti e ha allacciato forti rapporti con gli Stati Uniti. Gli scambi commerciali con Mosca sono di circa 10 miliardi di dollari nel 2010, ma i due Paesi prevedono portarli a 20 miliardi entro il 2015.

La dichiarazione ufficiale parla di un lavoro comune per la progettazione e la costruzione di 250-300 aerei caccia della 5° generazione, in 10 anni, per un valore di circa 35 miliardi di dollari. A gennaio la Russia ha sperimentato un prototipo per la 5° generazione, il PAK FA (nella foto). Il Paese ha vinto l'agguerrita concorrenza di Stati Uniti ed Europa per la fornitura.

Mosca costruirà pure altri reattori nucleari per l'impianto per fini energetici nel Tamil Nadu. L'India, per colmare la sua fame d'energia, progetta di espandere di 15 volte la sua produzione attuale di energia nucleare e di arrivare per il 2032 a 63mila megawatt.

Medvedev, accompagnato da un'ampia delegazione di imprenditori, ieri ha anche incontrato il premier indiano Manmohan Singh e il presidente del Partito del Congresso Sonia Gandhi. Oggi è a Mumbai, capitale finanziaria del Paese e visiterà l'emergente centro cinematografico di Bollywood.

   

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INDONESIA

Vescovi indonesiani: gli islamici radicali stanno colonizzando il Paese di Mathias Hariyadi

AsiaNews -Jakarta - 24 dicembre 2010

Il vescovo di Padang mette in guardia contro la diffusione dell'ideologia islamica radicale, in modo sistematico e organizzato. Sotto accusa le autorità politiche, incapaci di frenare le violenze. Intanto la polizia dovrà vigilare per timore di violenze anticristiane per il Natale.  

      

Mons. Mathinus D Situmorang, presidente della Conferenza dei Vescovi indonesiani, ha messo in guardia i leader politici contro il grave pericolo per la convivenza sociale causato dalle crescenti azioni violente dei gruppi fondamentalisti islamici. Il vescovo di Padang (Sumatra occidentale), in occasione di una riunione dell'Associazione Studenti Cattolici Universitari Indonesiani, ha criticato "uno Stato senza potere" che non sa fermare le decine di incursioni attuate dai gruppi estremisti contro chiese e cristiani.

"Nel passato - ha detto il vescovo - l'Indonesia è stata occupata e colonizzata da poteri stranieri. La situazione di oggi non è molto differente, poiché siamo dominati da questi cittadini indonesiani".

Di recente decine di seguaci dell'Islamic Defender Front (Fpi) hanno assalito, occupato e sbarrato 2 locali di culto a Rancaekek, Reggenza di Bandung, provincia di Java occidentale. Il vescovo ha spiegato come l'intolleranza religiosa si stia propagando e cresca anche tra la gente comune. Ha detto che questi fondamentalisti non avevano pretesti legali per la loro azione, a parte la circostanza che questi luoghi di culto non avevano il permesso edilizio.

La situazione peggiora perché le forze di sicurezza non intervengono contro gli islamici, per ragioni che non si spiegano. "Lo spirito dell'intolleranza - ha proseguito - trova terreno fertile per interessi politici".

A Parung, Reggenza di Bogor, le autorità locali hanno emanato un divieto ufficiale alla chiesa parrocchiale San Giovanni Battista di svolgere le celebrazioni per il Natale. "Se alcune comunità cristiane in Indonesia tengono le celebrazioni rituali sulla strada o all'aperto, questo deve avvenire solo per motivi di emergenza. Altro è che un'autorizzazione per costruire una chiesa non possa essere ottenuto da anni". "Se il governo e le autorità locali sono bloccati da ogni gruppo islamico estremista, la situazione peggiorerà e la sovranità dello Stato sarà con probabilità 'ceduta' a gruppi illegali che compiranno azioni contrarie alla legge".

Alla fine, i circa 3mila cattolici della parrocchia S. Giovanni Battista potranno celebrare il Natale presso le suore locali.

Il ministro della Difesa Purnomo Yusgiantoro, cattolico, ha negato le accuse e ha affermato che ogni attività violenta sarà punita.

Ma mons. Situmorang ha insistito nella critica contro "uno Stato senza potere" e incapace ad affrontare il problema. "Noi - ha affermato - siamo orgogliosi di appartenere a una società multiculturale, dove lo spirito di intolleranza tra seguaci di fedi diverse sia ridotto".

Oggi, già ore prima dei riti natalizi, nel Paese sono in corso misure di sicurezza, con migliaia di poliziotti dislocati vicino alle chiese. Nella sola Jakarta sono stati schierati almeno 8mila poliziotti, a Bali la polizia presidia ogni zona strategica comprese le chiese.

Uno studio dell'Istituto Setara per la Democrazia e la Pace avverte che, sebbene le azioni violente siano state compiute soprattutto dal famigerato Fpi, molta gente è preoccupata per le azioni meno clamorose realizzate da altri gruppi islamici radicali. In specie questi gruppi ricevono sempre più sostegno da cittadini e iniziano ad attirare gruppi liberali e clerici moderati.

Si parla persino di esponenti radicali "infiltrati" nel Consiglio degli Ulema Indonesiano (Mui), principale associazione dei chierici islamici del Paese, cui è riconosciuta una grande influenza morale e anche politica.

Secondo Setara, tra i gruppi violenti ci sono, oltre al Fpi, anche l'Islamic Reform Movement (Garis) e l'Islamic People's Forum (Fui). Il rapporto dice che "nel 2005, il capo Fui Al Khaththath... è entrato nel gruppo dirigente del MUI". Durante il comitato direttivo del 2005, Al Khaththath è stato tra quelli che "ha chiesto con forza che il Mui emanasse un editto per proibire la pratica dell'Islam liberale".  

 

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IRAN

Il fronte interno di Christian Elia

PeaceReporter - 15 dicembre 2010

Attentato contro gli sciiti nella regione sunnita del Paese  

         

Il Sistan Balucistan è molto lontano dal suo stesso nome, ricco di spezie, che sussurra di orientalismi e mille e una notte. La realtà è dura, fa male. Terra di arabi, tessera impazzita di un mosaico persiano. Terra di sunniti, pennellata in un quadro sciita. Terra di baluci, divisi da un confine, tra Iran e Pakistan.

Sono almeno trentotto le vittime di un attentato avvenuto questa mattina a Chabahar, nell'Iran sudorientale, provincia di Sistan-Balucistan, al confine con il Pakistan. Secondo la prima ricostruzione dei media, sarebbe stato un attentato suicida: un uomo si è fatto esplodere davanti alla moschea sciita dell'Imam Hussein, dove fervono i preparativi per la festa dell'Ashura, la commemorazione dello stesso imam, ucciso in battaglia a Kerbala, nel 680 D.C.

Una lotta di potere allora, tra i pretendenti al 'trono' del Profeta, che morendo aveva scatenato la 'fitna' - lotta interna all'Islam - per la sucessione. Oggi, a certe latitudini, è ancora così. La popolazione della regione soffre il centralismo persiano-sciita di Teheran. Loro, arabi e sunniti, si sentono discriminati. Un gruppo di loro, chiamato Jundallah, ha dichiarato guerra a Teheran. La magistratura di Teheran ha già puntato i riflettori sul gruppo che, il 24 febbraio 2010, ha subito un colpo durissimo: la cattura di Abdul Malek Rigi, comandante di Jundallah. Un attentato, proprio alla vigilia della festa sciita più importante, sarebbe un colpo mediatico importante.

In realtà, da anni, il regime degli ayatollah accusa Jundallah di usare la motivazione religiosa per nascondere i veri fini: quelli politici degli Usa, finanziatori del movimento. Le motivazioni sono varie, prima tra tutte la volontà di destabilizzare il regime. Un oleodotto, poi, che passerebbe proprio in Balucistan. Rigi, prima di essere intercettato dai corpi speciali iraniani, era stato a un incontro segreto con Richard Holbrooke - morto ieri, 14 dicembre 2010 - inviato speciale del Dipartimento di Stato Usa per l'area Afghanistan-Pakistan. Gli Usa finanziano Jundallah, che si finanzia anche con il traffico di droga e di esseri umani. La lotta, quindi, si arricchisce di tanti temi spinosi, ma quello religioso non è secondario, almeno nella percezione della popolazione locale.

L'ultimo affronto di Teheran ai sunniti iraniani, circa il nove percento della popolazione, ma privi di qualsiasi riconoscimento ufficiale, è stato l'arresto dei due figli del più importante imam sunnita, Maulana Abdulhamid Esmail-Zehi. Una punizione, dicono i siti vicini all'opposizione iraniana, per le denunce di Maulana, che ha accusato Teheran di aver vietato, il venerdì, la preghiera ai sunniti nelle moschee. Sciite, perché quelle sunnite sono bandite sia nella capitale che altrove nel Paese. L'unica regione dove sono 'tollerate' è proprio il Sistan-Balucistan. Ora che la situazione diventa sempre più tesa tra l'Iran e l'Arabia Saudita - come ha confermato una serie di file pubblicati da WikiLeaks, i sunniti sono visti dal regime come quinta colonna da sgominare. Una minoranza, però, che pare in grado di reagire.  

 

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IRAQ

In aumento i cristiani iracheni in fuga

Repubblica - 20 dicembre 2010

L'UNHCR: "Non rimandateli indietro".  L'Alto commissariato delle Nazioni unte per i Rifugiati ribadisce l'appello di astenersi dall'allontanare gli iracheni originari delle aree più pericolose del paese. C'è un preoccupante incremento del numero di persone in fuga dalla capitale, da Mosul verso il Governo Regionale del Kurdistan (GRK) e gli altipiani di Ninewa. Interessati anche gli uffici Onu in Siria, Giordania e Libano

        

La Svezia ha di nuovo rimpatriato forzatamente un gruppo di circa 20 iracheni a Baghdad. Questo gruppo, rimpatriato alla vigilia della Ashura, comprendeva anche cinque cristiani originari di Baghdad. Lo staff dell'UNHCR a Baghdad ha intervistato tre dei cristiani e tre dei musulmani iracheni che facevano parte del gruppo e tutti hanno confermato di essere originari della capitale irachena. Uno dei cristiani ha affermato di essere fuggito dall'Iraq nel 2007, dopo che i miliziani lo avevano esplicitamente minacciato di morte. Temendo per la propria vita, l'uomo ha raccontato di aver viaggiato attraverso diversi paesi in Medio Oriente e in Europa prima di arrivare in Svezia, dove aveva inoltrato la sua richiesta di asilo.

La sua richiesta è stata rifiutata per tre volte nel 2008 perché l'uomo non è stato riconosciuto come bersaglio di minacce. Gli altri con cui l'UNHCR è entrato in contatto hanno affermato che le loro richieste d'asilo sono state rigettate in seguito al miglioramento delle condizioni di sicurezza in Iraq.  

           

No ai reimpatri in zone pericolose. 

L'UNHCR ribadisce con forza la sua richiesta a tutti i paesi di astenersi dall'allontanare gli iracheni originari delle aree più pericolose del paese. Questi rimpatri forzati avvengono proprio in un periodo in cui i cinque uffici dell'UNHCR in Iraq stanno notando un preoccupante incremento del numero di cristiani in fuga da Baghdad e Mosul, che si dirigono verso il Governo Regionale del Kurdistan (GRK) e gli altipiani di Ninewa. Dall'assalto alla chiesa di Baghdad del 31 ottobre e dai successivi attacchi mirati, le comunità cristiane di Baghdad e Mosul hanno iniziato un lento ma costante esodo. Dall'inizio di novembre sono arrivate circa 1.000 famiglie. L'UNHCR ha sentito molti racconti di persone in fuga dalle proprie abitazioni dopo essere state minacciate. Alcune di loro sono state in grado di prendere con sé solo pochi oggetti personali. Gli uffici dell'UNHCR hanno fornito i primi aiuti d'emergenza e sono in contatto con le autorità locali per assicurarsi che i cristiani recentemente sfollati ricevano supporto e assistenza.

  

Quell'attacco alla chiesa in ottobre. 

Inoltre, gli uffici dell'UNHCR in Siria, Giordania e Libano riferiscono di un incremento nel numero di cristiani iracheni in arrivo che richiedono all'UNHCR di essere registrati e aiutati. Le chiese e le ONG hanno già previsto un ulteriore aumento di persone in fuga nelle prossime settimane. Molti dei nuovi arrivati hanno spiegato di essere fuggiti per i timori suscitati dall'attacco alla chiesa del 31 ottobre scorso. Da novembre, in Siria circa 133 famiglie (300 persone) sono state registrate dall'UNHCR. La maggior parte di loro è fuggita dall'Iraq dopo l'attacco alla chiesa di Baghdad di ottobre. In Giordania, il numero di registrazioni di cristiani nei mesi di ottobre e novembre è raddoppiato rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. A settembre sono stati registrati 57 cristiani, mentre nei mesi di ottobre e novembre il loro numero è aumentato rispettivamente fino a 98 e 109.

 

Le aree più rischiose. 

L'UNHCR ribadisce la sua posizione riguardo i richiedenti asilo originari dei governatorati iracheni di Baghdad, Diyala, Ninewa e Salah-al-Din, come anche della provincia di Kirkuk, che non dovrebbero subire rimpatri forzati e dovrebbero invece beneficiare della protezione internazionale, con il riconoscimento per loro dello status di rifugiati secondo la Convenzione per i Rifugiati del 1951 o con una forma di protezione complementare. Inoltre, ovviamente, tutte le richieste inoltrate anche da altri iracheni dovrebbero essere esaminate con grande attenzione, soprattutto per le persone appartenenti a minoranze religiose. La posizione dell'UNHCR è dettata dalla precaria situazione dello stato di sicurezza, dall'elevato livello di violenza, dagli incidenti legati alla mancanza di sicurezza e dalle violazioni dei diritti umani che ancora si registrano in alcune zone dell'Iraq. Secondo l'UNHCR le gravi ed indiscriminate minacce alla vita, i rischi per l'integrità fisica e per la libertà legati alla violenza o ad eventi gravemente turbatori dell'ordine pubblico sono ragioni valide per l'assegnazione di protezione internazionale.

   

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Iraq, a caccia di eroi di Christian Elia

PeaceReporter - 17 dicembre 2010

La morte di un poliziotto sunnita, sacrificatosi per salvare migliaia di sciiti, diventa un'icona di stato

       

Fin dalla nascita degli stati nazione si è reso necessario un mito fondante, un elenco di martiri e di eroi, materializzata in una galleria di icone e monumenti. Disseminati sui territori, come i grani di un rosario, per tenere vivo il rito pagano della retorica patriottica.

Quasi nessun Paese ne è immune, a ciascuno il suo Pietro Micca. Ma dietro nomi (e monumenti) ci sono storie e persone. E' il caso di Bilal Alì Mohammed, 31 anni, poliziotto iracheno. Sunnita, di Balad Ruz, con il suo stipendio manteneva la madre vedova, le tre sorelle e il fratello, cui pagava gli studi. Una paga da fame, per il mestiere più rischioso del mondo. Dal 2003, anno dell'invasione dell'Iraq da parte di una coalizione internazionale guidata dagli Usa, sono migliaia gli agenti di polizia uccisi. Spesso prima ancora di diventarlo, magari in fila davanti a un centro di reclutamento. Per i miliziani che hanno combattuto gli stranieri prima e il governo iracheno adesso sono i peggiori, i collaborazionisti di un potere senza alcuna legittimità. Sempre al centro di polemiche, accusati di corruzione e negligenza, male armati. Hanno ereditato - dopo l'inizio della nuova strategia Usa in Iraq - il lavoro sporco dai marines. Questi ultimi chiusi nelle mastodontiche basi militari, loro in pattugliamento per strada, di guardia ai check-point.

Oppure, come nel caso di Mohammed, di guardia ai luoghi di culto. Nel 2003, infatti, è crollato il vecchio 'mito' fondante dell'Iraq. Il regime di Saddam, con la forza, aveva impostato una retorica nazionale tutta basata sull'unità e la fratellanza, dove le comunità che compongono il mosaico della Mesopotamia (sunniti, sciiti, curdi, ebrei, cristiani e altri) vivevano assieme, senza distinzioni etniche e religiose. Non è andata così, nel senso che Saddam guidava il Paese anche in nome della minoranza sunnita della quale era lui stesso esponente. Il 2003 ha segnato, nel giro di pochi anni, l'inizio di una sanguinosa guerra civile tra sunniti e sciiti. Centinaia di migliaia di vittime, squadroni della morte dell'una e dell'altra confessione, spesso all'interno delle stesse forze armate e di polizia. Il governo iracheno attuale, da mesi, tenta di ricostruire un'identità condivisa nel Paese. Aiutato, per altro, da società di comunicazione Usa profumatamente ricompensate.

Ecco che Mohammed, suo malgrado, deve vestirsi da eroe. Lunedì 13 dicembre, primo pomeriggio. A Mohammed è toccato un turno duro: vigilare all'ingresso di una moschea sciita di Baquba, nell'Iraq. L'occasione è di quelle che, dal 2003, comporta sangue e violenze. Si celebra l'Ashura, una delle feste più sacre per gli sciiti, in onore dell'imam Hussein, morto nella battaglia di Kerbala nel 680 D.C. I miliziani sunniti hanno sempre realizzato attacchi feroci contro i pellegrini sciiti, che arrivano nei luoghi di culto da tutto il Paese e dall'estero. I colleghi hanno raccontato alla stampa locale che Mohammed nota un uomo sospetto, che stringe una borsa in modo strano. Lui lo affronta, vede i fili che spuntano dalla sacca. Urla a tutti di scappare e di allontanarsi, mentre lui si butta sull'attentantore. L'ordigno esplode. Mohammed muore sul colpo, assieme al kamikaze e a una donna con la sua nipotina, troppo vicine alla detonazione. Secondo i colleghi Mohammed ha salvato centinaia di persone che affollavano la moschea.

Il governo ne ha voluto subito fare un simbolo della nuova era di riconciliazione che - ne sono sicuri - aspetta il nuovo Iraq, costruito su un milione di morti. Giornali, telegiornali, radio, televisioni. La foto di Mohammed è ovunque, spesso tenuta dalla madre e dalle sorelle. Le immagini del giorno del suo funerale - trasmesso in diretta - hanno raccontato di centinaia di persone che son andate a Balad Ruz a rendere omaggio all'eroe dell'epoca nuova. Al nuovo - vecchio - iracheno. Il governo, in poche ore, ha deliberato di erigere una statua al coraggioso poliziotto a Baghdad e nel suo villaggio natale. Quando qualcuno, in futuro, vedrà la statua di Mohammed senza capire di chi si tratta, forse, l'Iraq sarà tornato alla normalità. Quella che non ha bisogno di eroi, ma solo di persone come mille altre che fanno il loro lavoro con coscienza.

   

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ITALIA

Nuovo identikit dell’aiuto italiano di Iacopo Viciani

Repubblica - 19 dicembre 2010

     

L’OCSE/DAC ha pubblicato i nuovi dati dettagliati sull’aiuto pubblico allo sviluppo del’Italia. A ben guardare sono quelli per il 2009, non si tratta di un errore, le informazioni complete sugli aiuti vengono prodotte almeno con un anno di distanza. Garantire un’informazione più tempestiva e più dettagliata è sicuramente un modo per consentire aggiustamenti in corso degli interventi e migliorare l’efficacia.

I dati sono comunque utili perché forniscono un rapito identikit dell’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) dell’Italia e delle sue tendenze. Inoltre, gli ammontari danno un’indicazione di che cosa potrebbe accadere all’aiuto italiano nel 2011, che come il 2009 è un anno di tagli finanziari significativi per la cooperazione bilaterale gestita dal Ministero Affari Esteri.

     

Quanto

Nel 2009, l’anno della Presidenza italiana del G8, il rapporto APS/PIL dell’Italia si contrae del 27% rispetto al 2008, la maggiore contrazione in Europa, ultimo donatore OCSE dopo la Corea del Sud. Al netto del debito il rapporto APS/PIL passa dallo 0,18% allo 0,15% contro una media EU dello 0,43%, allo stesso livello del 2008. Sempre secondo l’OCSE, nel periodo 2008-2009  contrassegnato da una forte contrazione dell’assistenza pubblica,  gli aiuti italiani inviati dai cittadini e privati crescono del 56%. La quota multilaterale passa del 62 al 73% contro una media europea del 38%.

       

Dove

Nel 2009, i Paesi di maggior investimento della cooperazione bilaterale italiana sono stati Afghanistan (68 milioni di dollari), Etiopia ( 54 milioni di dollari), Palestina (39 milioni), Libano (28 milioni), Mozambico ( 25 milioni), Sudan (20 milioni), Senegal (19 milioni) India ( 15 milioni) Iraq ( 13 milioni), Uruguay (13 milioni) e Brasile (2 milioni). Nonostante l’investimento, Brasile, Uruguay e India non sarebbero Paesi prioritari, almeno stando a quanto indicano le linee strategiche della cooperazione italiana per il triennio 2009-2011.

L’Africa ha ricevuto il 34% degli aiuti bilaterali contro il 30% dell’anno precedente, il Medio Oriente il 16% dal 25%, i Paesi meno avanzati il 19% dall’11%. Possiamo dire che l’Italia ha aumentato la sua attenzione verso l’Africa sub-sahariana e i Paesi più poveri, ma è ancora lontana dall’obiettivo che si era data nel 2009 di destinare il 50% dell’aiuto alla regione. Rispetto ai Paesi meno avanzati la percentuale bilaterale media EU è del 64%.

Per effetto dei tagli che nel 2009 colpiscono la cooperazione italiana, le risorse finanziarie complessivamente destinate all’Africa sub sahariana si contraggono del 13% e quelle verso i Paesi meno avanzati del 26%. In Vietnam, paese prioritario per la cooperazione del nostro Paese l’impegno italiano si contrae dell’80%. La contrazione riguarda molti altri Paesi prioritari e riduce la presenza del nostro Paese: Iraq (-75%), Libano (-55%), Palestina (-43%), Sudan (-42%), Afghanistan (-41%) e Etiopia (-16%). La presenza italiana di contrarrà ulteriormente a partire dal 2011. Nonostante i tagli, raddoppia l’impegno in alcuni Paesi, come Senegal, Sierra Leone, Pakistan e Nicaragua. Quest’ultimo non è un paese prioritario per la cooperazione italiana.

   

Come

Nel 2009 l’Italia esborsa verso i PVS solo il 76% di quanto promesso contro il  79% dell’anno precedente: solo un 1 milione di dollari al Vietnam contro i 50 milioni promessi; 3 milioni contro gli 8 in Kenya. Altri deficit negativi rispetto alle promesse si riscontrano anche in Mozambico (-13 milioni) o Guatemala (- 5 milioni). Al contrario, Palestina, Etiopia e Albania ricevono più assistenza di quanta inizialmente promessa.

  

Per cosa

Nel 2009 il settore più finanziato dall’aiuto bilaterale italiano è l’agricoltura (10% dell’aiuto) con un incremento di 121 milioni di dollari rispetto all’anno precedente. Nel 2008 era stata la potabilizzazione, il settore più finanziato. Dopo l’agricoltura seguono le cancellazioni del debito (9% dell’aiuto bilaterale), e la sanità (al 5,7% dal 3,7% del 2008). I costi amministrativi sono in crescita di 12 milioni di dollari  e diventano quinto settore più finanziato dalla operazione italiana. Seguono l’educazione al 3,6% dal 1,6% con più 7 milioni di dollari.  Il sostegno alla potabilizzazione e igiene è il settimo settore più finanziato e rappresenta il 3% con una riduzione di oltre cento milioni di dollari sul 2008. L’aiuto alimentare subisce una riduzione di 50 milioni di dollari e una taglio del 55% delle sue disponibilità ma resta l’ottavo settore più finanziato dalla cooperazione italiana. Il sostegno al finanziamento dei servizi essenziali di base (educazione e sanità di base, salute riproduttiva e potabilizzazione) conserva la quota del 7% sul bilaterale, ma con una riduzione del 41% dello stanziamento assoluto complessivo.

Peggiora fortemente la percentuale di aiuto condizionato all’acquisto di beni e servizi italiani (aiuto legato),  che al netto del debito costituisce il 54% del bilaterale dal 38% dello scorso anno – il peggior valore in Europa dopo il Portogallo.  Sono soprattutto i prestiti concessionali a determinare questo risultato deludente poiché il 96% risultano “legati”.

     

In sintesi, nel 2009 la cooperazione italiano evidenzia queste tendenze:

Quantità dell’aiuto =peggioramento

Prevedibilità dell’aiuto = costante

Attenzione all’Africa Sub – sahariana = miglioramento

Attenzione ai Paesi meno avanzati = miglioramento

Aiuto legato = peggioramento  

 

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Bankitalia: "Il 45% della ricchezza in mano al 10% delle famiglie"

Repubblica -20 dicembre 2010

Il rapporto di Bankitalia: gli italiani sono fra i più ricchi al mondo (il 60% sta economicamente meglio del 90% del resto del mondo), ma il "benessere" è concentrato in poche mani e la povertà è in aumento

  

Il 45% della ricchezza complessiva delle famiglie italiane alla fine del 2008 è in mano al 10% delle famiglie. E' uno dei dati contenuti nel rapporto su "La Ricchezza delle famiglie italiane" elaborato dalla Banca d'Italia. La metà delle famiglie italiane, quelle a basso reddito, detiene solo il 10% della ricchezza complessiva. Intanto, nel primo semestre del 2010, sempre secondo la Banca centrale, la ricchezza netta delle famiglie è diminuita dello 0,3 per cento in termini nominali, tornando ai livelli del 2005. Il calo è dovuto "a una diminuzione delle attività finanziarie e a un aumento delle passività, che hanno più che compensato la crescita delle attività reali".

Nel confronto internazionale le famiglie italiane risultano poco indebitate; alla fine del 2008 l'ammontare dei debiti era stato pari al 78% del reddito disponibile lordo: in Germania e in Francia esso risultava pari a circa del 100%, negli Stati Uniti e in Giappone al 130%.

Il 41% dei debiti delle famiglie italiane è rappresentato dai mutui per l'acquisto della casa. I numeri confermano anche che la povertà è in lenta e graduale crescita e che tra il 2007 e il 2008 la ricchezza è calata del 3,5% a prezzi correnti, e del 6,5% a prezzi costanti.

Il fatto che la ricchezza sia concentrata in poche mani ("Molte famiglie detengono livelli modesti o nulli di ricchezza mentre all'opposto poche dispongono di una ricchezza elevata", dice il rapporto) condiziona il resto dei dati. Nel 2009, ad esempio, anno di crisi nera, la ricchezza delle famiglie risulta cresciuta di circa l'1,1% grazie ai risultati positivi delle attività finanziarie (+2,4%). In termini reali, l'aumento della ricchezza complessiva rispetto alla fine del 2008 è stato dell'1,3% (più di 100 miliardi di euro del 2009). La ricchezza lorda in numeri assoluti è stimabile in circa 9.448 miliardi, quella netta a 8.600 miliardi, corrispondenti a circa 350mila euro in media per famiglia.

Dal raffronto internazionale emerge comunque che le famiglie italiane sono in media tra le più ricche al mondo. A fine 2008, la ricchezza netta delle famiglie era pari a 7,8 volte il reddito disponibile lordo, in linea con quello della Francia (7,5) e del Regno Unito (7,7), lievemente superiore a quello del Giappone (7), e significativamente superiore a quello del Canada (5,4) e degli Stati Uniti (4,8).

Le attività reali detenute alla fine del 2008 dalle famiglie italiane erano pari a 5,4 volte il reddito disponibile, un valore di poco inferiore a quello della Francia (5,7), in linea con quello del Regno Unito (5,2), ma superiore a quello di Usa (2,2), Canada (3,3) e Giappone (3,4). L'Italia conferma la maggiore propensione all'investimento immobiliare, che riflette tra l'altro una struttura del sistema produttivo che vede la preponderanza delle microimprese familiari, per le quali gli immobili sono anche capitale d'impresa. Decisamente minore, anche in rapporto agli altri paesi, l'investimento in attività finanziarie.

Secondo studi recenti, la ricchezza netta mondiale delle famiglie ammonterebbe a circa 160.000 miliardi di euro e la quota "italiana" sarebbe di circa il 5,7%. L'Italia si colloca nelle prime dieci posizioni tra gli oltre 200 paesi considerati nello studio, in termini di ricchezza netta pro-capite. Il 60% delle famiglie italiane ha una ricchezza netta superiore a quella del 90% delle famiglie di tutto il mondo; la totalità delle famiglie italiane, invece, ha una ricchezza netta superiore a quella del 60% delle famiglie dell'intero pianeta.

          

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Quanto costa il rifiuto

Unimondo - 20 Dicembre 2010

 

In virtù della crisi si invocano tagli alla spesa pubblica e la manovra Finanziaria pare risparmiare su tutto. Proprio tutto? In realtà le risorse per il “contrasto dell’immigrazione illegale”, circa 178 milioni di Euro all’anno, non mancano.

“Per chi pensa che la garanzia dei diritti umani non sia un costo, ma un principio inderogabile, scriverne è a dir poco imbarazzante - spiega Grazia Naletto della campagna Sbilanciamoci - ma in tempi in cui tutto viene monetizzato è forse utile ricordare che la politica del rifiuto (i respingimenti, i trattenimenti nei Cie, le espulsioni, la cooperazione con i paesi di origine), non è una necessità, ma una scelta costosa e inefficiente se rapportata agli scopi che si propone di raggiungere”.

Certo il problema etico è importante e prioritario e vale la pena ricordare come La Caritas al pari di organizzazioni, quali il Consiglio d’Europa e l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, hanno spesso preso fermamente posizione contro la pratica dei “respingimenti” italiana, rilevando come “l´iniziativa italiana sia illegale e mini totalmente il diritto di ogni essere umano ad ottenere asilo”. 

    

Ma non solo. Se, come ricorda Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas, “occorre rendersi conto che quello dell'immigrazione è un fenomeno complesso e che un’unica tipologia di interventi, come appunto i respingimenti, alla lunga produrrà effetti fallimentari'' è necessario e doveroso chiedersi quanto costa questo fallimento.

Difficile fare una stima del costo annuo medio della “politica del rifiuto”, ma per Sbilanciamoci “mettendo insieme tutti i dati disponibili sugli stanziamenti del sistema, destinati solo alla costruzione e gestione degli ex Cpt, dal 1999 al 2011 raggiungiamo un importo complessivo di 985,4 milioni di euro (in media circa 75 milioni l’anno)”. Intensa anche la sola iniziativa dell’attuale governo che con l’ultima finanziaria ha stanziato complessivamente per la lotta all’immigrazione illegale (introduzione del reato di ingresso soggiorno illegale, Cie e esecuzione delle espulsioni) “287milioni e 618mila euro”. Gli allegati alla finanziaria 2011 evidenziano poi “uno stanziamento di 111 milioni di euro per il 2011, di 169 milioni per il 2012 e di 211 milioni di euro per il 2013”.

Alle risorse sinora considerate vanno aggiunte quelle necessarie per garantire la vigilanza nei centri, “circa 1.000 operatori a 32.875 euro l’anno per operatore”, quello sostenuto per l’esecuzione dei rimpatri (noleggio vettori e personale di polizia che esegue l’accompagnamento) e quello per il controllo straordinario di mari e frontiere.

Se questi due ultimi capi di spesa si rifanno al programma pluriennale di gestione del Fondo europeo per i rimpatri che supporta gli stati membri, entrambi non sono a costo zero per l’Italia. Sbilanciamoci ricorda che “il cofinanziamento dichiarato dallo stato italiano, per i rimpatri, è pari a 40milioni e 318mila euro”, mentre il programma pluriennale per il controllo delle frontiere conta “194 milioni e 809mila euro”.

Risorse a cui devono aggiungersi quelle gestite dall’agenzia europea Frontex (l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea attiva dal 2004) che tra il 2006 e il 2009 ha visto l’impegno di “219 milioni e 828mila euro, con una crescita esponenziale che ha portato i 19,1 milioni del 2006 agli 88,2 del 2009”.

Non male, per una necessità che per Melting Pot Europa, promotore di una campagna contro i respingimenti attraverso un esposto penale .pdf, “rischia quotidianamente di violare le norme costituzionali, le norme comunitarie e quelle internazionali” e che ha spinto più volte dal 2004 ad oggi Amnesty International, ICS-Consorzio italiano di solidarietà e Medici Senza Frontiere a chiedere “al ministro dell'Interno di chiarire urgentemente alcuni aspetti delle procedure adottate”.

La Libia oggi è uno dei fronti più caldi di questa battaglia per i diritti umani, ma ad accompagnare le atrocità di “Come un uomo sulla terra”, non possiamo non pensare che “considerando solo le risorse ricordate - conclude Sbilanciamoci - la cattiveria del nostro ministero degli Interni oltre a ledere diritti umani fondamentali ci costa molto, in media almeno 178 milioni l’anno. Libia esclusa”. Esclusi, quindi, anche i 5 miliardi che Mu'ammar Gheddafi richiede periodicamente.

A bene vedere, secondo Caritas, gli italiani residenti all'estero sono 4.028.370 e rappresentano il 6,7% della popolazione italiana. Un numero quasi pari agli immigrati residenti in Italia. È quanto emerge dalla V edizione del ''Rapporto Italiani nel Mondo 2010'' della Fondazione Migrantes. Si deduce che gli immigrati che sono entrati in Italia hanno, sino ad oggi, rimpiazzato gli italiani emigrati dall’Italia, esenti, peraltro, da politiche cattive e costose. È grazie a chi è riuscito ad “entrare comunque e nonostante” che l’Italia gode, oggi, di un saldo attivo. Una timida crescita che fa ben sperare. [A.G.]

   

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F35: la scomunica dei vescovi, Finmeccanica se la ride di Luciano Bertozzi

Nigrizia - 22 dicembre 2010

         

In Piemonte, dove si assemblano gli aerei più costosi della storia, i vescovi hanno espresso tutta la loro contrarietà all'operazione. Ma i bilanci del gruppo armiero italiano, che non soffre la crisi, s'ingrassano con quelle entrate. Continuano le vendite di armi a paesi belligeranti.

In terra novarese è un nervo scoperto che lacera anche il tessuto della comunità diocesana. Stiamo parlando dell'assemblaggio dell' F35, l'aereo più costoso della storia. L'Italia si è impegnata a comprarne 131 esemplari, per un importo di 15 miliardi di euro. Il loro assemblaggio avviene a Cameri, in provincia di Novara.

Un argomento che spacca il mondo cattolico. Il vescovo di Novara, mons. mons. Renato Corti, ha ribadito la sua contrarietà. Tra l'altro già espressa, in precedenza, anche da mons. Fernando Charrier vescovo di Alessandria. La Commissione diocesana "Giustizia e pace" di Novara il 1° gennaio del 2007 - come ci ricorda in una lettera, ricevuta da Nigrizia, don Mario Bandera della locale Commissione "Giustizia e pace" - aveva stilato una nota in cui, partendo dalle affermazioni del magistero, esprimeva la propria contrarietà al progetto della costruzione degli F35, che prevede un enorme sperpero di soldi pubblici, sottratti alle spese sociali, alla sanità e all'istruzione, settori certamente più bisognosi di finanziamenti. Successivamente, a livello regionale, la Commissione per la pastorale del lavoro, presieduta da mons. Charrier, e che ingloba le varie commissioni "Giustizia e pace" del Piemonte, ha diramato un comunicato, firmato anche da mons. Tommaso Valentinetti, presidente nazionale di Pax Christi, che ribadiva il "no" all'intera faccenda.

Mons. Corti, riprendendo quel comunicato, l'ha integralmente citato, affermando come pastore della comunità novarese, "la necessità di opporsi alla produzione e alla commercializzazione degli strumenti concepiti per la guerra". Ha poi proseguito: "Abbiamo la speranza che si arrivi a un ripensamento, che permetta una riflessione più allargata e approfondita, capace di incidere nella mentalità delle persone e delle istituzioni".

        

Ma difficile pensare a un cambio di strategia. I bilanci di Finmeccanica vivono anche di quelle entrate. Il fatturato dei primi nove mesi del 2010 del gruppo armiero italiano, sfiora i 13 miliardi di euro, con un leggera crescita, mentre l'utile netto è sceso da 364 milioni a 321. Gli ordini, pari a 13,5 miliardi sono analoghi a quelli dello stesso periodo 2009.

Fra di essi sono da evidenziare la fornitura di 12 elicotteri AW 101 all'India, la terza tranches del caccia europeo Eurofighter, l'ammodernamento di dieci elicotteri inglesi, la fornitura di trenta elicotteri ad un cliente dell'area sud del Mediterraneo, non meglio precisato, forse la Libia, una serie di sistemi elettronici per le forze armate statunitensi, l'ammodernamento degli aerei da trasporto G 222 destinati agli USA e poi trasferiti all'aviazione afgana, la fornitura di altri otto aerei da trasporto C27J agli Stati Uniti.

 

Degno di nota è anche il contratto per il controllo elettronico dei confini meridionali della Libia, per contrastare il flusso d'immigrazione clandestina verso l'Europa, che si tradurrà in maggiori sofferenze per tanti disperati in fuga dai paesi della guerra e della fame.

L'elenco dei principali clienti è particolarmente preoccupante, tutto il contrario di quanto sancisce la legge 185 del 1990 che disciplina il commercio delle armi italiane, che vieta le esportazioni ai paesi belligeranti e responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali sui diritti umani. Proprio per evitare questi divieti il governo sta procedendo in parlamento al suo stravolgimento.

Anche l'analisi della distribuzione del personale del gruppo sottolinea la scelta di incrementare la presenza nei paesi in cui la spesa per le armi è maggiore, come negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia. Non a caso su un totale di 76.000 dipendenti, 12.000 sono occupati in Nord America, 10.000 in Inghilterra e 3.700 in Francia. Del resto, Finmeccanica ha comprato DRS Technologies un importante fornitore americano del Pentagono, a dimostrazione della volontà di accaparrarsi una parte significativa dell'enorme budget militare di Washington.

Un'altra criticità rilevabile dai dati di bilancio è costituita dalle spese per ricerca e sviluppo. Finmeccanica ha investito nel settore, nei primi nove mesi 2010,1,3 miliardi di euro, circa il dieci per cento del fatturato ed è una delle società italiane che più spende a tali fini. La spesa si è concentrata soprattutto sull'elettronica per la difesa (38% del totale), elicotteri (21%) ed aeronautica (18%). Come si vede con una netta prevalenza nel comparto militare.

Risorse umane particolarmente qualificate sono utilizzate per inventare nuovi ordigni o perfezionare quelli esistenti. Tutto questo lavoro si tradurrà in lutti e rovine invece di migliorare la qualità della vita. È ora che la comunità degli scienziati reagisca per imporre una sorta di riconversione della ricerca dai fini bellici a quelli civili.

In prima fila fra chi cerca di cambiare la situazione c'è l'oncologo e senatore PD Veronesi che mediante la propria fondazione ha evidenziato la necessità di ridurre le spese per la difesa per liberare le risorse necessarie ad aumentare quelle sociali, ad esempio per la lotta ai tumori.

I tempi di crisi sono i migliori per ripensare il nostro modello di sviluppo, è ora quindi di ripensare un'economia che vede opportunità dove ci sono tensioni o conflitti. Il ministero dell'economia, azionista di riferimento di Finmeccanica, deve spingere il gruppo ad attuare il principio della riconversione produttiva dal militare al civile, peraltro già sancito dalla 185

     

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Gelmini, 5 milioni per tradurre il Talmud di Enrico Piovesana

PeaceReporter - 22 dicembre 2010

 

Tra i tagli alla scuola e all'università, il ministro dell'Istruzione trova 5 milioni per finanziare, tramite il Cnr, la traduzione in italiano del testo sacro ebraico

Nel pomeriggio del 14 dicembre, il giorno della fiducia a Berlusconi, mentre Roma bruciava e gli studenti assediavano i palazzi della politica, la commissione Cultura del Senato approvava a maggioranza lo 'schema di decreto ministeriale recante ripartizione del Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca, per l'anno 2010'.

Tra gli stanziamenti previsti da questo decreto a firma del ministro Mariastella Gelmini - che all'inizio di gennaio verrà sottoposto al parere della commissione Cultura della Camera - figurano ben 5 milioni di euro ''a sostegno del progetto pluriennale 'Talmud', che vede il Cnr collaborare con l'Unione delle comunità ebraiche italiane - Collegio rabbinico italiano (Ucei-Cri) per la traduzione integrale in lingua italiana, con commento e testo originale a fronte, del Talmud, opera fondamentale e testo esclusivo della cultura ebraica''.

Mentre con una mano la Gelmini cala la pesante scure dei tagli sulla scuola pubblica e sull'università, con l'altra mano dà dieci miliardi delle vecchie lire a un'équipe di trenta traduttori specializzati che lavoreranno per cinque anni alla traduzione italiana del testo sacro ebraico. Un lavoro monumentale, visto che il Talmud consta di seimila pagine divise in quaranta volumi. L'anziano rabbino di Gerusalemme, Adin Steinsaltz, ci ha messo cinquant'anni per tradurre in ebraico moderno il testo originale in aramaico.

Un lavoro certamente importante per la comunità ebraica italiana, che evidentemente sulla Gelmini esercita un'influenza ben maggiore di quella del mondo scolastico e accademico nazionale.

    

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KENIA

Padre Kizito è innocente

Nigrizia - 21 dicembre 2010

Definitivamente archiviate dalla procura della repubblica di Nairobi le accuse di pedofilia a carico del missionario comboniano, direttore responsabile di Nigrizia. Una vicenda che si trascina dall’estate del 2009.  

 

«Non c'è luogo a procedere a carico del sospettato». Queste le parole contenute in una lettera inviata il primo dicembre 2010 da Alice Ondieki, sostituto procuratore nell'ufficio del Procuratore Generale del Kenya. «Ulteriori indagini non hanno fornito alcuna prova sostanziale a sostegno dell'accusa». L'ufficio del Procuratore Generale invita quindi ad archiviare il fascicolo che conteneva le accuse di pedofilia a carico di Padre Kizito.

Il comboniano, padre Renato Kizito Sesana, dunque, è innocente anche secondo la giustizia kenyana.

A dare la notizia è Amani onlus, che collabora strettamente con padre Kizito. In un comunicato, Amani onlus sottolinea che «a rafforzare la conferma della piena innocenza di padre Kizito, nei successivi paragrafi dello stesso documento si afferma che i testimoni chiave e le presunte vittime hanno ritrattato le loro accuse. I ragazzi coinvolti hanno anche dichiarato di essere stati pagati per accusare Kizito. Il sostituto procuratore afferma ancora che la persona raffigurata nelle immagini che sono state diffuse non è padre Kizito. Non risulta chiaro chi abbia ottenuto il cd con le immagini né chi gliel'abbia fornito, perché le dichiarazioni rilasciate da accusatori e testimoni sono contraddittorie. Infine, uno dei ragazzi ha scritto una lettera di scuse a padre Kizito».

«Le conclusioni alle quali è giunta la giustizia kenyana - continua Amani - sono molto diverse da ciò che gli accusatori di padre Kizito andavano affermando nel giugno-luglio del 2009. In deposizioni giurate, dichiarazioni alla stampa e interviste con i media essi lo avevano additato come un pedofilo che nel corso degli anni aveva abusato di centinaia di bambini. Queste accuse avevano avuto ampia copertura sui media kenyani e internazionali, con un effetto devastante per la persona di Padre Kizito. I due avevano ulteriormente accusato padre Kizito di aver illegalmente architettato la loro rimozione dall'amministrazione fiduciaria della Comunità Koinonia, in ritorsione per la loro denuncia».

«Di conseguenza, il funzionamento e il sostegno dei sei centri per ragazzi di strada gestiti dalla Comunità Koinonia, di cui padre Kizito è il fondatore, sono stati pesantemente colpiti. Il futuro degli oltre 250 bambini e ragazzi direttamente sostenuti da Koinonia - e degli oltre mille beneficiari indiretti - è stato messo concretamente a rischio».

«Fortunatamente - rimarca Amani - non è mai mancato un forte sostegno internazionale, in particolare dall'Italia. Amani Onlus, infatti, e altri amici hanno sempre difeso padre Kizito, senza mai alzare i toni. In Kenya, anche la forte eco del lavoro sociale di Koinonia si è fatta sentire. Ne è stata una prova, tra le altre, la Marcia per i diritti dei bambini tenutasi a Kibera l'11 dicembre scorso, che ha visto la partecipazione di decine di comunità e organizzazioni religiose e di quasi duemila bambini».

Conclude Amani: «Considerato che le indagini, ora concluse, non hanno trovato alcun elemento fattuale a sostegno di qualsivoglia accusa, per senso di giustizia e di responsabilità, i media kenyani e internazionali che avevano a lungo citato il nome di padre Kizito in un contesto infamante e accusatorio, dovrebbero dare lo stesso rilievo alla notizia del suo definitivo proscioglimento, considerato anche il danno subito dalle comunità locali. Ogni persona ingiustamente accusata merita che le siano restituiti il rispetto e la dignità».

   

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MAURITANIA

Si lotta contro la schiavitù di Emanuela Stella

... ma 9 leader abolizionisti finiscono in galera

Repubblica - 22 dicembre 2010

Manifestavano contro la riduzione in schiavitù di due bambine di 9 e 13 anni. La leadership islamica è accusata di volere mantenere la schiavitù, ufficialmente abolita tre volte, nel 1905, nell’81 e nel 2007, quando è stata dichiarata reato penale punibile fino a 10 anni di carcere. Tuttavia è ancora largamente praticata soprattutto nelle zone rurali. L'impegno e i rischi di SOS Schiavi

 

Nove militanti di una organizzazione che si batte contro la schiavitù in Mauritania sono stati picchiati e arrestati a Nouakchott, capitale del paese, mentre manifestavano contro la riduzione in schiavitù di due bambine di 9 e 13 anni. Il Forum des Organisations Nationales de Droits Humains (Fonadh), che raccoglie 17 Ong tutte impegnate nella tutela dei diritti umani, ne ha chiesto l’immediato rilascio; tra gli arrestati c’e’ anche il presidente della Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste en Mauritanie (IRA) e responsabile locale di SOS Schiavi 1, Biram Ould Dah Ould Abeid, in stato di fermo dal 13 dicembre.

Una delegazione del Partito Radicale, guidata da Marco Pannella, con il deputato Matteo Mecacci, relatore per i diritti umani e la democrazia all'Assemblea parlamentare dell'OSCE, e il senatore Marco Perduca, segretario della Commissione speciale per i Diritti Umani del Senato, sarà nella capitale della Mauritania questa settimana per incontrarlo.  

      

La leadership islamica.

Viene accusata da Biram Abeid di volere il persistere della schiavitù, ufficialmente abolita tre volte, nel 1905, nell’81 e nel 2007 (due anni fa questa forma di oppressione è stata dichiarata reato penale punibile fino a 10 anni di carcere) ma ancora praticata in Mauritania, soprattutto nelle zone rurali. Il mese scorso l’inviato speciale delle Nazioni Unite incaricato di elaborare una campagna di sensibilizzazione sulle forme moderne di schiavitù, Gulnara Shahinian, ha dichiarato che “esistono tuttora casi molto gravi” di schiavitù in questo paese.

  

Gli schiavi di oggi.

Sono valutati in 600mila uomini, donne e bambini, il 20 per cento della popolazione mauritana, sono i mori, o haratin, costretti a servire i bianchi bidhan, di etnia araba. Già prima dell’Islam, sottolinea Biram Abeid (lui stesso ex schiavo) in una recente intervista all’Osservatorio internazionale per i diritti, la schiavitù era radicata nelle società di queste regioni saharo-saheliane: con l’islamizzazione i gruppi dominanti delle comunità arabe e di quelle berbere e nere sono riusciti a strumentalizzare la nuova religione per legittimare un sistema sociale schiavista. In seguito, durante la penetrazione coloniale, gli arabo-berberi  firmarono coi colonizzatori francesi trattati che contenevano clausole non scritte ma vincolanti, tali da assicurare loro un’abbondante manodopera servile. E dopo l’indipendenza della Mauritania, nel 1960, le stesse élite arabo-berbere hanno ereditato lo stato post-coloniale dalla Francia, conservando la schiavitù nonostante la promulgazione di costituzioni e leggi che si dicevano egualitarie.

  

Chi libera schiavi è ricompensato.

L’articolo 2 della legge dell’81 che aboliva la schiavitù recita: “Lo Stato risarcirà gli aventi diritto”, ovvero i padroni degli schiavi, ai quali si è promessa una contropartita per l’abolizione. Dunque questa abolizione paradossalmente è stata un riconoscimento di fatto della legittimità della schiavitù in Mauritania. Così i padroni hanno continuato a tenere sequestrata una vasta popolazione servile, reclamando crediti verso lo Stato. Nel 2007 il primo presidente democraticamente eletto in Mauritania ha introdotto una legge che criminalizza la schiavitù e le pratiche schiaviste, ma non è stata avviata alcuna inchiesta o procedimento penale, e la legge è rimasta lettera morta. Occorre che la legge sia applicata in modo sistematico e rigoroso per funzionare da deterrente rispetto alle pratiche schiaviste, sottolinea Biram Abeid, e lo Stato deve farsi carico dell’emancipazione economica, sociale e culturale degli schiavi, creando per loro migliori condizioni economiche, dotando i loro villaggi e le loro bidonville di infrastrutture sanitarie ed idrauliche, aiutando coloro che lasciano i padroni ad inserirsi nella società.

  

La minoranza arabo-berbera.

In Mauritania la minoranza etnica degli arabo-berberi detiene le leve del potere politico, economico e militare a detrimento dei cittadini considerati di seconda categoria, vale a dire le etnie nere (Pulaar, Soninke, Wolof, Barbara) e quelli considerati ancora più inferiori, come gli haratin (schiavi ed ex schiavi). I neri sono stati vittime di razzismo, di sparizioni forzate, di deportazioni, di espropriazioni e di allontanamenti massicci dagli impieghi pubblici e privati durante gli anni tra l’86 e il ‘92. I numerosi schiavi ed ex schiavi, poveri ed impoveriti, continuano a subire le pratiche schiaviste ed ancestrali con tutto ciò che queste comportano, come lavoro non remunerato, analfabetismo, pene corporali, violenze sessuali, espropriazioni terriere. Quelli che vivono in campagna sono confinati in una sorta di homeland (i territori assegnati ai neri nel Sudafrica dell’apartheid), privi del minimo necessario per una vita decorosa; quelli che fuggono si ammassano nei ghetti intorno alle grandi città, in condizioni di povertà e precarietà totale.

   

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MEDIO ORIENTE

Gaza, la guerra non si ferma di Vittorio Arrigoni

PeaceReporter - 22 dicembre 2010

Nonostante il silenzio della stampa, gli attacchi israeliani continuano nella Striscia  

    

E' sorprendente constatare quanti giornalisti internazionali, anche fra i più quotati, una volta giunti a Gaza riportino come l'assedio si sia attenuato osservando i negozi strapieni di cianfrusaglia e il declino del mercato nero dei tunnel negli ultimi mesi.

Senza necessariamente entrare nella Striscia basterebbe documentarsi con i rapporti delle maggiori organizzazioni per i diritti umani per comprendere la situazione reale. Recentemente, 21 fra le maggiori Ong che operano a Gaza, fra le quali Amnesty International, Oxfam, Save the Children, Christian Aid and Medical Aid for Palestinians hanno denunciato come un milione e mezzo di abitanti della Striscia, (più della metà sono bambini) continuano a essere strangolati da un assedio illegale sotto ogni punto di vista.

Nel rapporto, nominato "Speranze svanite, la continuazione del blocco di Gaza" si fa luce sulle promesse disattese d'Israele di un allentamento dell'assedio all'indomani del massacro dello Freedm Flotilla. Secondo l'Onu, Israele ha permesso l'entrata a solo il 7 percento del materiale necessario per la ricostruzione degli ospedali e delle scuole danneggiate o distrutte durante l'offensiva Piombo Fuso, e ciò fra le altre cose quest'anno ha comportato l'impossibilità d'accesso all'istruzioni ad oltre 40 mila studenti. L'economia continua a essere al collasso per via del blocco delle importazioni e delle esportazioni, con il 93 percento delle industrie chiuse e oltre il 70 percento della forza lavoro disoccupata. L'88 percento della popolazione continua a vivere di aiuti, sotto la soglia di povertà.

L'imposizione della "buffer zone", quella porzione di terra nei pressi del confine che Israele ha di fatto sequestrato sparando a chiunque si avvicini, secondo l'Onu riguarda terreni fertili dal confine fino a un chilometro e mezzo nell'entroterra palestinese, cioè il 35 percento del totale dei terreni coltivabili a Gaza e che ora sono lasciati incolti. E' proprio avvicinandosi a queste zone di confine che si ha la misura di quanto l'assedio non si sia affatto attenuato, ma al contrario stretto attorno alle vite dei suoi abitanti, rendendo la vita impossibile ai contadini e ai molti raccoglitori di materiale edile di riciclo dai palazzi in macerie.

  

Dall'inizio di novembre ad oggi, il Palestinian Center for Human Rights e l'International Solidariety Movement hanno documentato 31 attacchi compiuti dei soldati israeliani al confine direttamente contro civili palestinesi. Sei di queste vittime sono bambini.

  

15 dicembre - Circa alle 9,50, cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo alla gamba sinistra Waleed Nasser Marouf di 21 anni originario di Beit Lahia.

  

14 dicembre - Circa alle 8,00, cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo ad un piede e alla mano sinistra Mohammed Motei Shkhaidem, 23 anni di Beit Lahia.

Circa tre ore più tardi, gli stessi cecchini hanno ferito alla gamba sinistra Jom'a Abu Warda, 29 anni, originario di Jabalya.

Verso le 13, sempre nella stessa zona, i soldati israeliani hanno sparato ancora e gambizzato un altro civile:, Fadi Fareed Abu Hwaished di 18 anni.

  

12 dicembre - Circa alle 8 cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza,nei pressi di Beit Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo ad una gamba Aziz Aayesh al-Sous, 34 anni originario di Beit Lahia.

  

11 dicembre - Circa verso le 11,55 cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo ad una gamba Suhaib Sami Mrouf, di 16 anni.

  

10 dicembre - Circa alle 08,20 cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo ad una gamba Ibrahim Ghaben, 16 anni di from Beit Lahia, che si trovava a 150 metri dal confine.

Circa alle 9 soldati israeliani appostati sul confine Sud Est della Striscia di Gaza con Israele, nell'area di Khuza a est di Khan Younis, hanno sparato verso dei contadini palestinesi che lavoravano la terra a circa 800 metri. Nidal Hassan al-Najjar di soli 16 anni, e' rimasto ferito al piede destro.

  

9 dicembre - Circa alle 7,30, cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo alle gambe Sultan Sad Izmail, 29 anni e Ahmed Sad Ghaben, 20 anni.

  

4 dicembre - Circa alle 9, cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile. Due colpiti e feriti alle gambe dai proiettili israeliani: Mohammed Ata al-Hossoumi di 22 anni e Bilal Shaban al-Hossoumi di 17 anni. Bilal da 5 mesi aveva dovuto sostituire al lavoro il fratello ventiseienne, anch'esso rimasto ferito dai soldati israeliani più o meno nella stessa zona. Mohammed Ata al-Hossoumi che prima dell'inizio dell'assedio della Striscia di Gaza lavorava presso una fattoria, ora non ha trovato altro impiego che recarsi al confine a raccattare materiale edile riciclabile, pietre e ferro. Un'ora dopo i primi 2 ferimenti, nella stessa aerea soldati israeliani hanno sparato ancora e ferito un altro operaio palestinese, Marwan Mahmoud Ma'rouf, di Beit Lahia, colpito da un proiettile al piede destro. Bilal Sha'ban al-Hossoumi e Mahmoud Ma'rouf hanno subito diverse fratture alle gambe, essendo stato colpiti da proiettili "dum dum", proiettili che esplodono all'impatto, vietati dalle convenzioni internazionali.

  

2 dicembre - Circa alle 10,10 cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit Lahia, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero di materiale edile riciclabile a circa 400 metri dal confine. Schegge di proiettile hanno ferito al piede 'Alaa' Nafez Barakat, di 21 anni, originario dal campo profughi Al Shati, a Overt di Gaza City.

  

30 novembre - Circa alle 7,20 cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione poste sul confine a Nord Ovest di of Beit Lahia, a Nord della striscia di Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero da delle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo alla gamba Ismail Saed Ghaben, 31 anni, originario di Beit Lahia. Non è la prima volta che Ismail viene ferito. Nel 2004, durante una incursione israeliana, i soldati delle forze di occupazione gli spararono ad un ginocchio. Nel 2008 fu ferito ancora da un proiettile ad una mano. Questa volta gli è andata peggio delle precedenti: i chirurghi dell'ospedale Kamal Udwan hanno dovuto amputargli 3 dita del piede. Anche 2 fratelli di Ismail in passato sono stati feriti mentre lavorano nei pressi del confine.

  

Un'ora dopo il primo ferimento nella stessa zona i soldati israeliani hanno sparato e colpito alle gambe altri tre lavoratori palestinesi: Ghassan Mas'oud Abu Riala di 21, anni, e Ameen Akram Abu Shawish, di 22 anni, entrambi originari di Zaytoun, a Nord a Gaza City. E Nader Mohammed al-Anqar, di 21 anni, proveniente da Beit Lahia.

Circa due ore dopo, alle 10 e 40, cecchini israeliani ancora in azione: colpito Bayan Farouq Tanboura, di 26, contadino di Beit Lahia che si stava recando ad acquistare delle patate su di un campo posto a circa 600 metri dal confine, ignorando che una incursione israeliana era in corso.

Anche due fratelli di Bayan in passato sono stati colpiti dai proiettili israeliani: Adham e Kaled.

  

28 novembre - Circa alle 08:15 cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della Striscia di Gaza, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo ad una gamba Mukhles Jawad al-Masri di 15 anni, originario di Beit Hanoun che si trovava a circa 500 metri dal confine. Circa un'ora dopo, nella stessa zona, i soldati israeliani hanno ferito ad una gamba un altro giovane lavoratore palestinesi: Khalil al Zanin, 20, originario di Beit Hanoun, e poco più a ovest, sempre alla stessa ora, a finire gambizzato era Mamdouh 'Aayesh al-Sous, di 28 anni, di Beit Lahya.

  

27 novembre - Circa alle 9,10 cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione sul confine Nord fra la Striscia di Gaza e Israele, nei pressi di Beit Lahia, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile ferendo ad un gamba Shamekh Said al-Debes, 16 anni, originario di Jabalya . 3 ore dopo nella stessa zona, a essere colpito alle gambe è stato Ahmed Mahmoud Jarbou', di anni 26, pescatore proveniente da campo profughi di al-Shati , Ovest di Gaza City , che stava pescando vicino alla riva. Alle 14 circa, cecchini israeliani ancora all'attacco di civili palestinesi nei pressi del confine Nord della Striscia a Beit Hanoun (Erez). Colpito ad una gamba l'ennesimo operaio palestinese impegnato nel recupero di materiale edile riciclabile: si tratta di Khalid Ashraf Abu Sitta, di 21, originario di Beit Hanoun.

  

24 novembre - Circa alle 09,45, cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della Striscia di Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo al piede sinistro Rami 'Aayesh al-Shandaghli, 28 anni, originario di Jabalya town, che si trovava a circa 400 metri da confine.

  

19 novembre - Circa alle 08,20 cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione sul confine Nord fra la Striscia di Gaza e Israele, nei pressi di Beit Lahia, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile ferendo ad al piede dstro Mohammed Isma'il al-Ghandour, 34 anni, orignario di Beit Lahia town, che stava lavorando a circa 70 metri dal confine.

  

13 novembre - Circa alle 09:00 am, cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della Striscia di Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo alla gamba destra Ammar Khalil Hamdan, 22 anni originario di Beit Hanoun, che stava lavorando a circa 400 metri dal confine.

  

12 novembre - Circa alle 08:15 am, cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della Striscia di Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile ferendo alla gamba destra Bashir Sami 'Aashour, 20 anni, originario di Beit Hanoun, mentre stava lavorando a circa 50 metri dal confine.

  

10 novembre - Circa alle 7,45 cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della Striscia di Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero di materiale edile riciclabile, ferendo alla gamba Ibrahim Yousef Ghaben, 28 anni originario di Beit Lahia.

  

7 novembre  - Circa alle 06,15 cecchini israeliani appostati su una delle torri di osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della Striscia di Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile ferendo alla gamba sinistra Karam Talal al-Adham, 19 anni, originario di Beit Lahia.

  

2 novembre - Circa alle 1, soldati israeliani appostati sul confine Nord Est del centro della Striscia di Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi che stava raccogliendo materiale di riciclo come ferro, plastica e alluminio a 300 metri dal confine. Hussam 'Abdul Hafez al-Khaldi di 34 anni, è stato colpito da un proiettile alla spalla destra. 5 ore dopo, alle 16, ambulanze palestinesi sono riuscite ad avvicinarsi al confine Est di Khan Yunis, per recuperare il corpo ferito di Mahmoud Mohammed Shirrir, 34 anni originario di Abbassan village. Shirirri, un disabile mentale, si era avvicinato al confine e i soldati israeliani non hanno esistato a sparargli addosso sebbene chiaramente non rappresentasse una minaccia. Il proiettile gli ha perforato l'anca sinistra.

Nella quasi totalità dei casi esaminati, i cecchini israeliani hanno sparato contro i civili palestinesi senza alcun colpo di avvertimento. Spesso i proiettili utilizzati sono "dum dum", vietati dalle leggi internazionali. Spesso i cecchini puntano alle ginocchia dei civili, in modo da provocare invalidità permanenti.

  

Secondo il PCHR, gli attacchi ai lavoratori palestinesi nella buffe3 zone hanno raggiunto una escalation senza precedenti: 81 lavoratori feriti e 9 uccisi dall'inizio dell'anno.

Il massacro dei lavoratori palestinesi è destinato a continuare anche nel nuovo anno nell'impunità della comunità internazionale, e nel silenzio quasi totale dei media di massa.

   

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Benedetto XVI guarda al Sinodo per il Medio Oriente di Samir Khalil Samir

AsiaNews - Roma - 21 dicembre 2010

Nel suo discorso alla Curia romana, il pontefice sottolinea la comunione con gli ortodossi, la ricchezza delle tradizioni orientali e l'urgenza di un rifiuto della violenza nelle tensioni del Medio oriente. Un commento dell'islamologo p. Samir

 

Ieri il papa ha presentato gli auguri natalizi ai Cardinali e ai membri della Curia romana. Il suo discorso ha abbracciato tre punti: Nel primo, il Santo Padre commenta la formula liturgica dell'Avvento "Excita, Domine, potentiam tuam, et veni" = Sveglia la tua potenza, Signore, e vieni! Il secondo punto tratta del Sinodo delle Chiese del Medio Oriente, che ha avuto luogo dal 10 al 24 ottobre. Il terzo tratta del suo viaggio in Gran Bretagna (16-19 settembre). Io vorrei fermarmi a commentare quanto il pontefice ha detto sul secondo punto.

La riflessione del Papa è divisa in due parti: la prima è incentrata sul suo viaggio a Cipro (4-6 giugno) per consegnare l'Instrumentum laboris del Sinodo ai Patriarchi e Vescovi; la secondo sul Sinodo stesso che ha avuto luogo in Vaticano.

La riflessione di Benedetto XVI è molto concreta. Parte dall'esperienza vissuta in profondità, con i Paesi che visita, e con i popoli che incontra.

 

L'ecumenismo con gli Ortodossi

Cipro è un Paese à stragrande maggioranza ortodosso, almeno nella parte greca dell'Isola. Il papa ricorda con grande gratitudine l'indimenticabile ospitalità della Chiesa ortodossa. A questo punto fa un commento ecumenico di una grande ricchezza spirituale e teologica: "Anche se la piena comunione non ci è ancora donata, abbiamo tuttavia constatato con gioia..." ed enumera quattro caratteristiche.

Questa premessa significa due cose: la prima è che esiste già una comunione con la Chiesa ortodossa, ma non è ancora perfetta e piena. Ed è importante che il capo della Chiesa cattolica affermi con chiarezza che la comunione esiste già. La seconda è che questa premessa indica il desiderio profondo del Papa che ci sia "la piena comunione". La teologia cattolica riconosce che la comunione esistente tra le due Chiese permette già adesso la "communicatio in sacris" (il condividere in particolare l'Eucaristia) in alcune circostanze, anche se viceversa la Chiesa Ortodossa non lo consente.

 

Quanto alle quattro caratteristiche che ci uniscono, il Papa le enumera:

* "la forma basilare della Chiesa antica ci unisce profondamente gli uni con gli altri";

* "il ministero sacramentale dei Vescovi come portatore della tradizione apostolica";

* "la lettura della Scrittura secondo l'ermeneutica della Regula fidei",

* "infine, la fede nella centralità dell'Eucaristia nella vita della Chiesa".

 

Queste quattro caratteristiche uniscono profondamente le due Chiese. Averle elencate, così chiaramente e con sobrietà dovrebbe permettere di dare un fondamento solido alla ricerca ecumenica tra queste due tradizioni.

 

Ricchezza della tradizione cattolica orientale

Quando si parla dell'Oriente cristiano, si pensa spontaneamente all'Ortodossia. Questo è naturale, se paragoniamo il numero degli ortodossi con quello dei cattolici orientali. Ma nel Medio Oriente non è del tutto così. Se questa situazione è assolutamente evidente in Egitto, dove gli ortodossi sono 30 volte più numerosi che i cattolici, la situazione è diversa nel Libano e nell'Iraq per esempio, dove i cattolici sono un po' più numerosi degli ortodossi.Il Papa ha voluto ricordare che la Chiesa cattolica è anche Orientale. Anzi, la Chiesa cattolica d'Oriente ha una ricchezza liturgica (e non solo liturgica, ma anche teologica, spirituale, canonica, agiografica, ecc.) variegata, e un'antichità apostolica. "In manifestazioni imponenti, abbiamo potuto vedere la ricca cultura cristiana dell'Oriente cristiano". Aggiungerei una nota: menzionando la liturgia latina accanto a quelle maronita e melchita, il papa suggerisce che la Chiesa latina è altrettanto orientale come le altre Chiese: essa fa uso della liturgia occidentale romana, ma la stragrande maggioranza dei suoi fedeli sono orientali, anzi comprende spesso più Arabi dei fedeli delle altre Chiese d'Oriente.

 

Un Paese diviso dalla violenza

Cipro vive una tragedia che rischia di diventare definitiva: la divisione del Paese in due, tra Turchi (musulmani) e Greci (ortodossi). Una divisione molteplice: linguistica, etnica e religiosa. Il Papa ha vissuto questa divisione, avendo alloggiato proprio alla Nunziatura situata sulla linea di separazione tra le due parti dell'isola. Abbiamo vissuto, durante l'incontro col Santo Padre a Cipro, il profondo "desiderio di pace e di comunione quali erano esistite prima", e la sofferenza degli abitanti dell'isola.

Questa divisione è frutto della violenza. "Tutti sono consapevoli del fatto che la violenza non porta alcun progresso - essa, infatti, ha creato la situazione attuale -". Cipro è come un appello negativo alla non-violenza. Chi ci vive si accorge quanto la violenza non porta nessun bene, ma solo distruzione e male, che può durare indefinitamente!

Di fronte a questa situazione, nessuno può rassegnarsi, il Papa meno di chiunque! Non si può accettare questa situazione! Esorta i fedeli e tutti quanti: "Preparare la gente per questo atteggiamento di pace è un compito essenziale della pastorale". Così facendo indica una delle missione fondamentale della Chiesa, in particolare laddove c'è (o c'è stata) guerra!

Ma come realizzare la pace, come raggiungerla? Come rifare una unica nazione cipriota per il bene di tutti? Esiste un'unica metodo: "Solo nel compromesso e nella comprensione vicendevole può essere ristabilita un'unità", afferma Benedetto XVI. "Compromesso" è una parola che non piace a nessuno. Eppure è necessaria in certi casi. Ma il compromesso, se non è accettato in profondità, rischia di non resistere: deve essere accompagnato della comprensione per l'altro. Pensiamo tutti alla situazione tra Israele e Palestina, che dura da più di 60 anni: se ognuna delle parti non cerca di "capire", "comprendere" la posizione dell'altro, non ci sarà mai pace!

Il Santo Padre torna qui su un punto essenziale nel suo pensiero: la violenza, per qualunque motivo, non può essere giustificata. Essa porta solo disagio, all'individuo come alla comunità. E come aveva già detto a Regensburg (e riprenderà nella seconda parte), è in opposizione a Dio e alla Fede. E' un messaggio di pace assoluta, costi quel che costi!

 

Conclusione

Come si vede, la teologia di Benedetto XVI parte dall'esperienza concreta che fa, esperienza interiorizzata, meditata e riflettuta. E' una riflessione profonda su tutto ciò che sperimenta nei suoi viaggi. In questo, si rivela un vero intellettuale: non nel senso di chi fa dei discorsi teorici e delle considerazione astratte, ma nel senso di chi riflette sui fatti per tirarne delle conclusioni per la vita di ogni giorno!

     

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Natale a Betlemme : bandita la croce dai souvenir

AsiaNews - Betlemme - 21 dicembre 2010

Per timore del fondamentalismo islamico, laboratori tessili di Hebron e Gerusalemme producono e vendono magliette e altri oggetti raffiguranti la chiesa della Natività senza croce. Discriminazioni e crisi economica costringono i cristiani a fuggire dai territori palestinesi e da Israele. Il rischio è vedere in futuro una Terra Santa senza cristiani. Intervista a Samir Qumsieh, direttore della televisione cattolica Al-Mahed Nativity Tv Station di Betlemme.  

          

Questo Natale a Betlemme la croce è stata bandita dai souvenir destinati a turisti e pellegrini in Terra Santa. Alcuni laboratori tessili di Gerusalemme ed Hebron hanno iniziato a stampare e vendere magliette che raffigurano la chiesa della Natività di Betlemme senza croce. Per la crescita del fondamentalismo islamico nei territori palestinesi, la croce è stata eliminata anche dalle t-shirt delle squadre di calcio. Intervistato da AsiaNews, Samir Qumsieh, giornalista e direttore della televisione cattolica Al-Mahed Nativity Tv Station di Betlemme, afferma :  " Voglio lanciare una campagna per invitare la gente a non comprare questi prodotti - afferma - perchè la rimozione della croce è una intimidazione nei confronti dei cristiani è come affermare che Gesù non è mai stato crocifisso ".

Come ogni anno migliaia fra autorità, fedeli e turisti provenienti da tutto il mondo affolleranno la notte del 24 dicembre la Chiesa della Natività di Betlemme per la messa di mezzanotte. Essa sarà celebrata dal patriarca latino di Gerusalemme e vi parteciperanno la più alte cariche dell'Autorità palestinese. 

Qumsieh dice che la popolazione sta vivendo questi giorni con gioia, ma la situazione dei cristiani resta comunque drammatica. Secondo il giornalista, il dialogo di questi anni tra islamici, cristiani ed ebrei non ha cambiato la situazione.

" In Terra Santa - afferma Qumsieh - l'emigrazione dei cristiani è in continua crescita, anche se le autorità si rifiutano di dare numeri precisi. Ogni giorno vi sono persone che fuggono in altri Paesi . Noi cristiani viviamo in una costante sensazione di paura e incertezza e se tu vivi sempre con addosso una tensione e brutti pensieri non puoi pianificare nulla .

Secondo il giornalista " la popolazione scappa perchè non c'è lavoro e i controlli israeliani limitano gli spostamenti ". Altro fattore sono invece i problemi interni alla Palestina, come lo scontro tra Hamas e Fatah, che ha riflessi sulla situazione economica . Qumsieh sottolinea che dal 2002 al 2010 la popolazione cristiana di Betlemme  è scesa da oltre 18mila persone a 11mila. A Gaza, dopo la salita al potere di Hamas nel 2006, i cristiani sono scesi di circa 3200 unità, passando da oltre 5mila a meno di 1800 nel 2010. A Gerusalemme vivono invece solo 15400 cristiani (2% della popolazione), come riporta uno studio del  Jerusalem Institute for Israel Studies. Essi sono il 50% in meno rispetto ai 31mila registrati residenti nel 1948, quando i cristiani rappresentavano circa il 20% della popolazione della città.   

Il giornalista dice che se l'esodo andrà avanti non ci saranno più cattolici in Terra Santa e che un giorno la chiesa della Natività potrebbe essere trasformata in un museo. " Se non ci sono più cristiani in Terra Santa - afferma - non ci potranno più essere cristiani da nessuna parte ".

Intanto, in occasione delle celebrazioni per il Natale, l'esercito israeliano ha ordinato ai soldati dislocati nei territori palestinesi occupati di agevolare il passaggio dei pellegrini cristiani ai posti di blocco. Ai militari è stato anche distribuito un opuscolo che spiega l'importanza del Natale per i cristiani e invita i soldati a evitare inutili discussioni e ostacoli alle frontiere con la West Bank. (S.C.)

    

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Anche la Bolivia riconosce la Palestina come Stato indipendente. Panico in Israele di Joshua Lapide

AsiaNews - Gerusalemme - 23 dicembre 2010

Lo hanno già fatto Brasile, Argentina e Venezuela. L'Uruguay riconoscerà la Palestina nel 2011; in Cile se ne discute. Il riconoscimento "unilaterale" è sconsigliato dagli Stati Uniti. Dubbiosa la Ue. Israele ha chiesto a tutti i suoi ambasciatori di opporsi in tutto il mondo a simili iniziative.

             

Nella tarda serata di ieri, il presidente Evo Morales ha annunciato che la Bolivia riconosce formalmente lo Stato palestinese all'interno del confini del 1967. Morales ha detto pure che in questi giorni scriverà a Mahmoud Abbas, presidente dell'Autorità palestinese, per informarlo di questa decisione.

Nelle scorse settimane Brasile e Argentina hanno riconosciuto lo Stato palestinese; lo stesso ha fatto il Venezuela; l'Uruguay ha annunciato che lo farà entro il prossimo anno. Un gruppo di parlamentari cileni sta spingendo perché il riconoscimento avvenga anche da parte del Cile, dove vive una comunità palestinese di oltre 300 mila persone.

Secondo i presidenti di questi Stati, il riconoscimento della Palestina sarà di aiuto per ricercare una coesistenza pacifica con gli israeliani. In più, questi passi diplomatici rappresentano una scossa perché il dialogo fra le due parti, da tempo bloccato, possa riprendere fiato.

Gli Stati Uniti - che sono stati incapaci di fermare il proliferarsi di insediamenti israeliani nei territori occupati (una condizione sempre richiesta dai palestinesi per riprendere il dialogo) - hanno messo in guardia dal riconoscimento "unilaterale" di uno Stato palestinese.

L'Unione europea invece ha deciso di "aspettare il tempo opportuno" per il riconoscimento.

L'offensiva diplomatica palestinese preoccupa la diplomazia israeliana. Secondo fonti di AsiaNews, il governo d'Israele ha chiesto a tutti i suoi ambasciatori di vigilare e di frenare ogni iniziativa che porti nel futuro ad accrescere il numero di nazioni che riconoscono lo Stato palestinese.  

 

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NIGERIA

L’Eni paga 30 milioni

Nigrizia - 21 dicembre 2010

Trovato l’accordo con le autorità di Abuja per la mega tangente di 182 milioni di dollari versata a politici locali dal gruppo Tskj, di cui faceva parte anche il gigante italiano. Evitato il processo. Che continua, invece, in Italia. Quella somma si aggiunge ai 365 milioni che l’Eni deve pagare, per la stessa vicenda, negli Usa.   

         

Per mettere a tacere ogni scandalo, Snamprogetti Netherlands, che fa capo a Saipem del gruppo Eni, ha deciso di chiudere la partita giudiziaria in Nigeria, mettendo sul tavolo della procura di Abuja 30 milioni di dollari, più 2,5 milioni per il rimborso spese e per costi legali sostenuti dal governo del paese africano.

Spese che saranno rimborsate a Saipem dallo stesso cane a sei zampe, affinchè quei costi non vadano ad impattare sui bilanci della controllata.

La vicenda tacitata così lautamente ha nel suo cuore un gigantesco caso di corruzione internazionale. La compagnia di Paolo Scaroni ha fatto parte dal 1994 al 2004 di un consorzio (Tskj) guidato dall'americana Halliburton e composto da quattro multinazionali - oltre alla compagnia texana e al gruppo italiano, dalla giapponese Jgc e dalla francese Technip - il quale avrebbe versato 182 milioni di dollari in tangenti per corrompere politici e alti funzionari nigeriani con lo scopo di aggiudicarsi l'autorizzazione a costruire impianti di liquefazione di gas. I benefici dell'operazione si sarebbero aggirati intorno ai 6-7 miliardi di dollari.

In Nigeria, per questa vicenda, è finito in carcere anche il direttore di operazioni di Saipem, l'italiano Giuseppe Surace. Il 25 novembre 2010, l'EFCC, la Commissione per i crimini economici e finanziari della Nigeria, ha autorizzato la perquisizione degli edifici della Halliburton a Lagos. In questa occasione sono stati arrestati dieci impiegati e due direttori, così come il già citato amministratore delegato della Saipem, e il suo omologo francese della Technip.

Una tangente per la quale l'Eni ha dovuto aprire i cordoni della borsa anche negli Stati Uniti. L'holding di Scaroni dovrà infatti versare una multa complessiva di 365 milioni di dollari all'amministrazione americana () per porre fine all'azione penale portata avanti dal dipartimento della giustizia statunitense, visto che quel caso di corruzione ha violato anche alcune nomative previste dalla legislazione Usa.

Se in Nigeria e negli Stati Uniti, le autorità giudiziarie si sono accontentate del risarcimento milionario, non altrettanto sta accadendo in Italia. Per la medesima ipotesi di corruzione, infatti, nell'udienza preliminare del processo in corso a Milano, ieri il pm Fabio De Pasquale ha ribadito le richieste di rinvio a giudizio per cinque persone fisiche. Le quali sono indagate per corruzione internazionale, mentre Saipem è indagata per l'ipotesi di aver violato la legge 231 sulla responsabilità delle aziende.

La prossima udienza è stata fissata per il 30 dicembre, nella quale il giudice Simone Luerti scioglierà le riserve sulle eccezioni presentate dalle difese, mentre in quella successiva, il 12 gennaio, potrebbe decidere sul rinvio a giudizio.

Ma in Nigeria, l'Eni deve fronteggiare anche un'altra accusa. Questa volta l'ha presentata, in settembre, una ong internazionale, l'Environmental Earth Right Action, che ha pubblicato il rapporto di una spedizione sul campo nel quale si documenta un nuovo sversamento di petrolio dagli oleodotti dell'Agip in Nigeria. L'inquinamento ambientale e il suo risarcimento da parte delle multinazionali dell'oro nero restano uno snodo ancora irrisolto.

L'Africa, comunque, rappresenta per il gruppo Eni il 52% della sua produzione mondiale. Lo ha confermato in un'intervista a Jeune Afrique lo stesso amministratore delegato Paolo Scaroni. Il quale ha dichiarato che il continente «è la chiave della nostra crescita futura» e che la sua società investirà in Africa 14,5 miliardi nei prossimi 4 anni. Non si tratta soltanto di investimenti nel Nord Africa (Algeria, Libia ed Egitto), dove il gruppo opera da decenni, o dell'Angola, che è divenuta una ricca miniera di denaro. L'Eni ha deciso di investire anche in Togo, paese trascurato da altri gruppi.

   

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La Shell nel delta del Niger: petrolio e diritti rubati

Misna - 21 dicembre 2010    

        

A Koroama manca l'acqua da sei mesi. "Prima hanno dragato il fiume, poi hanno cominciato a bruciare il gas" racconta Kingsay Kwokwo, un capo villaggio che alla "responsabilità sociale" delle multinazionali del petrolio non crede più. In quest'angolo del Delta del Niger, nello Stato di Bayelsa sotto il tacco della Royal Dutch Shell, la MISNA è accompagnata da un piccolo gruppo di difensori dei diritti umani. "Le società straniere promettono milioni di dollari in progetti di sviluppo locale, ma spesso alle comunità non arriva nulla" dice padre Edward Obi, un missionario che dirige il Center for Social and Corporate Responsibility (Cscr). L'ultima conferma arriva dalla regione di Gbaran-Ubie, dove a giugno è stato inaugurato un impianto "integrato" per il petrolio e il gas naturale. L'opera è una delle più significative tra quelle realizzate da Shell, alla conquista del Delta dal 1936. A pieno regime l'anno prossimo sarà in grado di produrre un miliardo di metri cubi di metano al giorno, circa un quarto dell'intera produzione nigeriana. Gli idrocarburi sono raffinati sul posto prima di essere inviati a Bonny Island, un terminale noto alle cronache per le tangenti milionarie versate a politici e funzionari da società nordamericane ed europee. A Koroama, invece, resta la rabbia. Il villaggio è sventrato da due oleodotti nonostante la loro costruzione fosse vietata da uno studio di sostenibilità ambientale effettuato dal governo nigeriano nel 2005. "Quel documento - sottolinea padre Edward - prevede anche che Shell garantisca un sistema di forniture di acqua potabile per compensare almeno in parte i danni ambientali". I giovani del Center for Social and Corporate Responsibility hanno raggiunto 17 villaggi e intervistato centinaia di persone. Degli acquedotti promessi non c'è traccia, nonostante Shell sostenga che dall'inizio dei lavori le comunità locali abbiano ottenuto "benefici" e "lavoro". Nei villaggi ricordano come fosse ieri le promesse che l'odore e i veleni del gas bruciato sarebbero durati poco. "Ma da giugno le fiamme nel cielo del Delta non si sono mai spente" assicura un capo tradizionale che dal suo villaggio vede ciminiere e torri di metallo. C'è rabbia e delusione anche quando si parla di lavoro, "300 posti a tempo indeterminato" sostiene Shell. "I tecnici e gli operai li portano da fuori" risponde la gente dei villaggi. A maggio le proteste delle donne della regione di Gbaran-Ubie hanno costretto il governatore di Bayelsa a una mediazione. Per completare i "progetti sociali" previsti da un accordo firmato da Shell con le comunità locali, ora, ci sarà tempo fino al 31 dicembre. "Ma anche questa - dicono alla MISNA dal Delta - è solo un'illusione".[VG]

   

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PAKISTAN

L'imam: "Chi semina l'odio tra di noi è un terrorista" di Claudio Monici

Avvenire - 24 dicembre 2010

       

Muhammad Ibraim è a capo del Comitato di Faisalabad per il dialogo interreligioso: "Un'aula del mio luogo di culto è stata dedicata a un vescovo cattolico"

" Chi cerca di spezzare i rapporti di convivenza, fraternità reciproca e di solidarietà, che sono sempre esistiti e continuerano a esistere tra la comunità musulmana e quella cristiana del Pakistan, non ha nulla a che fare con la religione. Questi personaggi, che per fortuna sono pochi, sono solo dei terroristi. La parola di Dio non appartiene a loro". L'imam Muhammad Ibraim è a capo del Comitato provinciale per il dialogo interreligioso e per la pace nel Punjab, vive a Faisalabad, dove predica nella sua moschea.

Quando gli domandiamo come stanno i rapporti tra cristianesimo e islam in Pakistan, risponde: "Accade molto di frequente che nelle occasioni importanti ci ritroviamo insieme a celebrare le rispettive ricorrenze religiose. E dirò di più, la mia moschea fa anche da seminario religioso, e un'aula è stata dedicata a un vescovo cattolico. L'abbiamo voluta elevare alla memoria della figura di monsignor John Joseph, il vescovo di questa città, che sacrificò la vita in un gesto estremo pur di difendere un suo fedele ingiustamente accusato di blasfemia. Credo che una dedica simile non esiste in nessun'altra moschea al mondo ".

 

-Era la primavera del 1998 e fu proprio un caso di blasfemia, come oggi accade per Asia Bibi e altre vittime di una legge ritenuta iniqua. Lei cosa ne pensa?

Che è una legge sbagliata lo dissi già all'epoca della sua approvazione, trent'anni fa. E già allora prevedevo che si sarebbe ritorta contro tutti, perché male interpretata e, soprattutto, utilizzata per scopi ambigui. Ha colpito tutti: il 45 per cento degli accusati sono di religione musulmana, mentre le accuse quasi sempre sono solo vendette personali. Ma se non ci fosse una legge a regolamentare, comunque, l'offesa verso una religione, ci troveremmo di fronte alla giustizia sommaria, della strada, anche se poi anche questo accade di già.

 

-Ritiene che anche i predicatori debbano avere un senso di responsabilità nei loro sermoni quando si rivolgono ai fedeli, insegnando il rispetto e la tolleranza verso le minoranze religiose?

Senza dubbio. È molto importante che sia così. Bisogna insegnare a imparare a convivere con gli altri, senza danneggiare il credo altrui, ma rispettandolo. Però, affinché sia così, tutte le religioni del Libro devono essere rispettare. Anche l'islam. Certe azioni e certi personaggi andrebbero scoraggiati dal promuovere i falò del Corano o le vignette blasfeme. Tutto questo è sbagliato e non porta da nessuna parte. Crea soltanto il male e l'odio.

 

-C'è qualcosa che, secondo lei, andrebbe fatto di più per impedire il proliferare di un terrorismo che dice di agire nel nome di una religione?

Dobbiamo sconfiggere la povertà e far vincere l'istruzione. Nessun credo al mondo insegna la parola terrorismo. Nessuna religione al mondo spinge i propri fedeli agli attacchi suicidi, promettendo loro cose che non ci sono. Ma è proprio approfittando di quell'enorme bacino strabordante di povertà e ignoranza che i capi del terrorismo attingono a piene mani e comandano la morte.

 

-Domani ricade la ricorrenza cristiana del Natale: lei ogni anno fa visita alla comunità cristiana, a cominciare dal suo vescovo, per omaggiarli di doni. Ha già idea di quello che dirà loro?

Il mio messaggio sarà di pace, nell'insegnamento che è stato affidato da Gesù ai cristiani attraverso le parola amore, tolleranza e accettazione. Parole che ogni cristiano conosce, rispetta, e che come messaggio di speranza diffonde nel mondo.

   

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PERU'

Assolto padre Mario Bartolini

MissiOnLine - 22 dicembre 2010  

Dopo ripetuti rinvii è arrivata la sentenza che ha scagionato il missionario italiano. Ma il procuratore ha annunciato che ricorrerà in appello

    

Padre Mario Bartolini è stato assolto. Dopo ripetuti rinvii, dovuti a un prolungato sciopero dei lavoratori del Potere Giudiziario, martedì 21 dicemebre il tribunale di Yurimaguas (Perù) si è  finalmente pronuciato sul caso del missionario, accusato di "ribellione" assieme a Geovanni Acate e altri leader indigeni per aver sostenuto la maximobilitazione indigena culminata nei sanguinosi scontri di Bagua del giugno 2009. Mario Bartolini e Geovanni Acate sono stati assolti da tutte le imputazioni a loro carico. Altri cinque leader indigeni, invece, sono stati condannati a cinque anni con la condizionale. Il procuratore dello Stato ha già annunciato che ricorrerrà in appello contro la sentenza che scagiona Bartolini e Geovanni. La stessa cosa faranno gli avvocati dei cinque leader condannati.

   

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SRI LANKA

Violazione diritti umani, governo autorizza missione esperti Onu

Misna - 20 dicembre 2010 

               

Il governo di Colombo ha acconsentito all'ingresso nel paese di una delegazione di esperti dell'Onu, incaricati di indagare sui sospetti crimini di guerra commessi dall'esercito sui civili nel 2000, durante l'offensiva contro i ribelli delle Tigri Tamil. Lo riferisce la stampa locale sottolineando che la decisione di inviare una missione è stata presa dallo stesso Segretario generale Ban Ki-moon, i cui emissari incontreranno in una data ancora da stabilirsi, i colleghi di una commissione di riconciliazione nazionale già oggetto di critiche da parte di numerose ong locali per la sua "mancanza di indipendenza" nei confronti del potere centrale. Nell'annunciare la decisione, Ban Ki-moon ha espresso soddisfazione per la collaborazione mostrata dal presidente Mahinda Rajapaksa. Secondo stime delle Nazioni Unite circa 7000 civili sono rimasti uccisi nei primi quattro mesi del 2009, che hanno anticipato l'ultima cruenta offensiva sulla spiaggia di Mullaitivu, dove si ritiene fossero rimasti intrappolati tra il fuoco dell'esercito e quello dei ribelli 100.000 civili tamil. [AdL]

   

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L'esercito si prepara al Natale insieme a cristiani e buddisti  di Melani Manel Perera

AsiaNews - Colombo - 21 dicembre 2010

A Colombo e nel nord del Paese molti eventi sono organizzati per celebrare la nascita di Gesù "portatore di pace". Concerti, balli, scambi di regali: diverse le iniziative a cui hanno preso parte leader religiosi e spirituali cattolici, buddisti e musulmani. In un clima di armonia nazionale, dopo trent'anni di guerra.  

           

Nel nord dello Sri Lanka, in particolare nelle zone colpite dalla guerra, l'esercito nazionale insieme con i cattolici locali ha organizzato molte iniziative per celebrare il prossimo Natale. Buddisti, sacerdoti, monaci e suore hanno partecipato ai diversi eventi, festeggiando la nascita di Gesù "principe della pace" con canti, balli, scambi di regali, ascolto reciproco e aiuti per i più bisognosi. Funzionari dell'esercito hanno poi sottolineato che il "perdono", uno dei significati di questa festa, è un dono importante del cristianesimo. 

Nella cappella del St. Joseph College (Colombo) l'Associazione cristiana dell'esercito dello Sri Lanka ha organizzato un concerto di Natale il 19 dicembre scorso. P. Joseph Benedict, cappellano dell'esercito, ha recitato la preghiera d'apertura e ha ringraziato Dio per tutti i soldati che hanno combattuto per portare la pace. E ha fatto benedetto i militari che servono nell'esercito. P. Sylvester Ranasinghe, rettore del St. Joseph College, ha spiegato il messaggio cristiano, sottolineando l'importanza di riconoscere nella società attuale i simboli del Natale, e attuarli nella nostra vita.

La Seva Vanitha, un'associazione di aiuto per le famiglie dei caduti in guerra, ha organizzato una serata di canti natalizi per eroi di guerra nel centro di riabilitazione Ranaviru sevana, a Ragama, il 17 dicembre scorso. La signora Manjulika Jayasuriya, presidente dell'associazione, ha presieduto l'apertura, e ha poi distribuito regali a tutti i pazienti del centro.

L'Interreligious Foundation for National Harmony e la Child Foundation for Ethnic Harmony hanno preparato un altro evento sabato 11 dicembre, nella chiesa metodista di Jaffna. P. Sarath Hettiarachi, presidente dell'Interreligious Foundation for National Harmony, ha raccontato ad AsiaNews: "Molte persone hanno partecipato alla serata: circa 500 monaci buddisti, visitatori singalesi, il coro della chiesa metodista di Gampara, alcuni leader religiosi musulmani e indù. Dal nord sono arrivati militari e un folto gruppo di tamil. Questo - ha aggiunto il sacerdote - è la prima volta, dopo trent'anni di guerra, che a Jaffna si celebra il Natale con una festa del genere. E tutto in nome dell'armonia nazionale".

      

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STATI UNITI

La corruzione non è un problema di Nicola Sessa

PeaceReporter - 13 dicembre 2010

Gli Stati Uniti passano sulla corruzione e i capricci dei regimi dell'Asia centrale pure di imporre la propria influenza nell'area  

     

"La corruzione è rampante in Uzbekistan e la criminalità organizzata è in rapporti molto stretti con il governo di Tashkent. Questa è la fotografia del paese fatta dall'ambasciata statunitense in Uzbekistan e rivelata da Wikileaks nelle ultime ore. Nonostante tutto, il governo americano deve chiudere un occhio e sopportare i capricci del presidente Islam Karimov che si atteggia come un khan del diciannovesimo secolo. In gioco, per Washington, ci sono il transito per il rifornimento in Afghanistan e il lungo lavoro diplomatico per innestare una salda influenza nell'Asia centrale a discapito della Russia.

L'Uzbekistan è uno snodo fondamentale del North Distribution Network (Ndn), la rete di rifornimento che permette di mantenere in piedi la logistica degli eserciti in Afghanistan. Nel 2009, Karimov minacciò di sospendere il transito dei cargo perché Hillary Clinton aveva assegnato un premio all'attivista per i diritti umani Mutabar Tadjibayeva - appena uscita dalle galere uzbeke. L'ambasciatore americano, convocato da Karimov, trasmise al Dipartimento di Stato Usa tutta la sua preoccupazione per i "toni gelidi" usati dal presidente. In un momento così delicato, con delle questioni molto importanti sul tavolo - tra cui quella dei rifornimenti alle truppe impegnate in Afghanistan - il rappresentante diplomatico annota che "fare pressioni pubbliche su di lui (ndr su Karimov, per la questione dei diritti umani in Uzbekistan) può costarci il transito". Meglio tenere gli occhi chiusi, dunque, e occuparsi delle vere priorità per Washington.

Stessa situazione nel vicino Tagikistan: nel preparare la visita dell'allora capo del Centcom, generale David Petraeus, l'ambasciata americana di Dushambe descrive il paese soffocato dalla dittatura di Imomali Rahmon - "noto ubiracone" - e dalla inettitudine di un "Parlamento che discute appena di importanti atti legislativi come la legge di budget nazionale".

Stando alle analisi dell'ambasciata di Dushambe, pubblicate da Wikileaks, una parte degli introiti statali deriva da attività criminali poiché "il Tagikistan è il principale corridoio di transito per l'eroina" immessa sul mercato russo e quello europeo. Queste valutazioni, inequivocabilmente negative, non sono sufficienti a modificare l'atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti del khan Rahmon: Petraeus aveva il compito di corteggiarlo e "assicurarsi il suo consenso per il transito di armi e munizioni destinate alle truppe Usa in Afghanistan", in cambio il generale americano poteva "garantire l'appoggio degli Stati Uniti per contenere i combattenti (ndr, islamici) nell'est del paese".

Ma come risulta dalle comunicazione intercorse tra l'ambasciata di Dushambe e Washington, Rahmon non si accontentava e chiedeva premi materiali per l'assistenza prestata, "grandi infrastrutture - quali centrali elettriche, tunnel per il Pakistan e ponti sul nulla". Le assurde richieste del presidente tagiko vengono però valutate positivamente dall'ambasciata Usa in quanto segnavano un progressivo allontanamento del Tagikistan dalla Russia, un passaggio importante nella strategia a lungo termine degli Stati Uniti che vuole imporre - a qualsiasi prezzo - il proprio predominio strategico nell'area.   

    

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Via libera del Senato americano al trattato sul disarmo nucleare di Alberto Simoni

La Stampa - 22 dicembre 2010

Ma per Obama è una vittoria a metà 

 

Alla ratifica del nuovo trattato di disarmo nucleare "New Start" manca solo la firma del presidente americano Barack Obama. Dopo il voto procedurale di ieri, che chiudeva il dibattito e portava alla votazione finale, l'esito del voto di oggi appariva scontato, salvo sorprese dell'ultimo secondo.

Sorprese che non ci sono state: il Senato ha detto sì alla ratifica del trattato siglato lo scorso aprile a Praga da Obama e dal presidente russo Dmitry Medvedev, con 71 voti favorevoli e 26 contrari, una maggioranza ben più ampia di quella necessaria. Dopo il braccio di ferro dei giorni scorsi e la fatica dei democratici a raccogliere consensi, la strada si è spianata ieri quando dieci repubblicani si sono detti pronti a votare con la maggioranza (i democratici contavano di arrivare a 57 voti tra le proprie fila, mentre per la ratifica servono i due terzi dei voti).

Il trattato prevede che Stati Uniti e Russia riducano progressivamente i propri armamenti nucleari in modo che, entro sette anni dalla ratifica, nessuno dei due Paesi abbia più di 1.550 testate nucleari e 700 i vettori nucleari e richiede il ripristino di ispezioni sui siti, sospese lo scorso dicembre quando è scaduto il trattato originale. La ratifica rappresenta «un potente segnale al mondo», è stato il primo commento di Barack Obama. «S’è aperta una stagione di progressi per l’America. Ciò riflette il messaggio inviato dagli elettori a novembre, che seguirò anche l’anno prossimo», ha aggiunto il presidente Usa. Obama si è detto «felice» che democratici e repubblicani hanno insieme approvato «una delle priorità per la sicurezza nazionale».

     

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TURCHIA

Bartolomeo I: continueremo a dialogare con il Papa e con l'Islam di NAT da Polis

AsiaNews - Istanbul - 21 dicembre 2010

Il Patriarca ecumenico difende la scelta del dialogo con i cattolici, gli ebrei e i musulmani nonostante le critiche avanzate da alcuni settori ortodossi tradizionalisti. Ecologia: "L'ambiente, la natura, sono creazione di Dio e non appartengono solo a noi che viviamo oggi nel 2010. Appartengono a tutte le generazioni future".  

         

Alla vigilia delle festività natalizie, Bartolomeo I ha pronunciato un importante discorso di fronte a un pubblico particolarmente qualificato del mondo ortodosso, difendendo la scelta del dialogo interreligioso da parte del Patriarcato ecumenico. "Noi insisteremo nel dialogo, malgrado le critiche che subiamo" ha detto. "Esiste un certo fondamentalismo religioso, un fenomeno purtroppo tragico, che si trova sia tra ortodossi e cattolici che tra musulmani ed ebrei. Sono persone che pensano di  aver soltanto loro diritto di esistenza sulla terra, quasi come se dovessero solo loro dominare su questo nostro pianeta secondo l'Antico Testamento. E secondo loro non c'è posto per nessun altro, e sono di conseguenza contrari a qualsiasi dialogo".

Il patriarca ha continuato: "Subiamo critiche e attacchi perché  intratteniamo dei  rapporti con il Papa (perché siamo convinti sostenitori del dialogo ecumenico tra ortodossi e cattolici), con l'islam e con il mondo ebraico. Ma noi continueremo ad andare avanti per la nostra strada, secondo la via tracciata dai  nostri predecessori, ben consci del nostro operato e indipendentemente delle critiche di cui siamo oggetto. Questi settori caratterizzati da posizioni estremiste si trovano dappertutto. E' naturale dunque  che subiamo le loro critiche, secondo i loro dettami ideologici,  tutti noi che cerchiamo  di avere orizzonti aperti ed una visione teologica delle cose. Perche vogliamo la pacifica coesistenza di tutti , basata sui principi della carità e dell'amicizia".

Bartolomeo I ha aggiunto: "Questo è il credo del Patriarcato Ecumenico e vi voglio ricordare che nel 1920 il reggente della sede patriarcale, insieme al sinodo, avevano indirizzato ai cattolici ed ai protestanti un enciclica, denominata 'La comunità delle chiese', sul modello dell'appena nata 'Società delle nazioni'. Quella enciclica viene considerata oggi dal  Consiglio Mondiale delle Chiese come la 'Carta' del movimento ecumenico del nostro tempo. Tutto ciò è noto agli addetti ai lavori, ed è bene che sia diffuso e fatto conoscere a quanta più gente sia possibile".

Bartolomeo I ha sottolineato: "Per quanto riguarda il dialogo interreligioso esso è  il nostro credo e la nostra convinzione. Perché occorre conoscersi meglio, lavorare insieme rispettando il credo religioso altrui, la sua identità culturale, senza sopraffazioni. Questo è l'unico modo per poter  vivere in pace. Per questo motivo il Patriarcato, oltre ad avere un dialogo con altre Chiese e confessioni cristiane, da 25 anni ha avviato un dialogo con l'islam e l'ebraismo. Abbiamo fatto con successo diversi incontri. Con i musulmani e gli ebrei, i nostri fratelli, non si discute di questioni puramente teologiche in quanto sarebbe più difficile. Ma si discute di questioni sociali, questioni sociali a cui sono sensibili  tutte le persone, tutta l'umanità, in tutto il mondo".

L'ecologia è uno dei temi favoriti del Patriarcato ecumenico dal 1989. Il Patriarca ha detto: "Tutto quello che cerchiamo di fare lo facciamo perché riteniamo che sia nostro dovere, perché la Chiesa dovrebbe essere attivamente presente nella scena contemporanea ed essere sensibile ai problemi della gente, incoraggiarla e sensibilizzarla ad amare e proteggere la natura come la propria casa". E ha aggiunto: "L'ambiente, la natura, sono creazione di Dio e  non appartengono solo a noi che viviamo oggi nel 2010.  Appartengono a tutte le generazioni future".

Monsignor Dositheos, portavoce del Patriarcato, ha commentato per AsiaNews l'omelia del Patriarca: "Prevale una certa confusione in alcuni settori del mondo cristiano ortodosso tra i due termini, tradizione e tradizionalismo. La tradizione, a cui fanno spesso appello queste minoranze, è la continua ricerca di interpretare e capire la verità; mentre il tradizionalismo a cui in sostanza appartengono queste minoranze, rappresenta una sterilità intellettuale che spesso e volentieri si identifica nel mondo ortodosso con il nazionalismo".

   

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VIETNAM

La Chiesa celebra il Natale coi più poveri di J.B. Vu

Asianews - Hanoi - 23 dicembre 2010

Diversi eventi sono stati organizzati in tutto il Paese per portare lo spirito natalizio tra le persone in difficoltà. Sacerdoti, suore, seminaristi e volontari hanno distribuito doni ai malati di Hiv/Aids, bambini orfani, anziani soli, poveri, disabili e lebbrosi. L'arcivescovo di Hanoi ai cattolici: "con il vostro esempio risvegliate la coscienza della società".  

     

La Caritas e la Chiesa vietnamita hanno deciso di celebrare il Natale di quest'anno coi più poveri del Vietnam, organizzando in tutto il Paese eventi e feste. Nella cattedrale di Hanoi oltre mille persone - tra bambini di strada, anziani, malati di Hiv/Aids e poveri - hanno partecipato ieri alla messa per celebrare la nascita i Gesù. Dopo la funzione, alcuni gruppi hanno ricevuto regali di Natale da sacerdoti, suore, seminaristi e volontari che hanno lavorato e vissuto con loro nell'ultimo periodo.

Mons. Nguyen Van Nhon, arcivescovo di Hanoi, ha espresso parole di speranza con i volontari: "La vostra presenza ci ricorda che non bisogna perdere tempo. E che dobbiamo fare il nostro dovere e vivere secondo la nostra missione. Voi siete stati coraggiosi nell'accettare una vita dura, che ci rende persone appassionate ed entusiaste. Se talvolta vi sentite tristi, delusi perché pensate di non fare nulla, dovete invece essere fieri e pensare che con il vostro esempio avete risvegliato la nostra coscienza e quella della società".

Nel corso della settimana, con il tema "Il Natale d'amore", i fedeli della diocesi di Phan Thiet hanno fatto visita e portato doni a 230 famiglie che vivono in circostanze difficili, centinaia di orfani, anziani soli e persone disabili. Il 24 e il 25 dicembre la Caritas della diocesi porterà "Il Natale d'amore" alle persone che vivono in isole piccole e remote come le Phu Qui e le Binh Thuan.

Il centro pastorale dell'arcidiocesi di Saigon ha organizzato un Festival di Natale per 4500 disabili. L'evento è un'opportunità per lavoratori sociali, volontari, direttori di rifugi e centri d'accoglienza di portare la felicità e la pace del Natale ai rifugiati.

Rappresentanti e volontari della Caritas nazionale hanno pure visitato i lebbrosi del sanatorio Eana di Ban Me Thuot, e quelli del Dakkia e del Darring nella diocesi di Kontum. C'è stata mobilitazione anche tra le persone, che hanno donato soldi e medicine ai malati, e innalzato preghiere per lebbrosi, orfani e disabili degli altopiani.

         

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