Bangl@news |
|
Anno XI N° 451 12/1/11 |
|
Clima e Aiuti: i risultati di Cancùn
di Iacopo Viciani
Repubblica
- 22 dicembre 2010
Cosa
c’è di nuovo nell’Accordo di Cancùn per i Paesi in via sviluppo?
In
realtà si riconfermano le promesse di Copenaghen: mettere a disposizione entro
il 2020, 100 miliardi di dollari addizionali per sostenere gli sforzi di
mitigazione e adattamento dei Paesi in via di sviluppo, indirizzandoli
soprattutto verso i Paesi più vulnerabili.
Per
alcuni, i finanziamenti (100 miliardi) per adattamento e mitigazione sono sì
contabilizzabili come “aiuto pubblico allo sviluppo” ma non dovrebbero
essere utilizzati per raggiungere lo 0,7% che era un impegno pregresso
all’emergenza climatica. Altri invece contestano che le risorse per interventi
di adattamento e mitigazione nei Paesi in via di sviluppo possano essere
considerate aiuto allo sviluppo poiché sarebbero in realtà forme
d’indennizzo.
La
vera novità del questo Vertice sul Clima 2010 è costituita da un’idea di
massima della struttura di gestione per le ingenti risorse finanziarie previste,
per adesso, in gran parte virtuali. E’ stata decisa la creazione di un
“Fondo per il Clima” dove i Paesi più vulnerabili e maggiormente esposti
agli effetti dei cambiamenti climatici avranno un peso preponderante nel
disegnarne la struttura. Il nuovo fondo dovrà essere definito nei prossimi
dodici mesi, ma si è comunque scongiurata definitivamente la possibilità che
la Banca Mondiale potesse essere chiamata in qualche modo a gestire i 100
miliardi di dollari.
La
questione delle risorse finanziarie promesse e riconfermate dai Paesi
industrializzati anche in periodo di crisi economica è un segnale importante.
Ma come garantire che nuove promesse vengano mantenute?
A
Cancun il panel di Alto livello delle Nazioni Unite per il Cambiamento
Climatico, nominato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, doveva indicare
una proposta chiara su come reperire in modo certo e stabile i 100 miliardi di
dollari aggiuntivi entro il 2020. Il panel ha presentato alcune proposte,
soprattutto concentrate sull’istituzione di imposte globali che
assicurerebbero addizionalità e certezza alle risorse, ma non si è espresso in
maniera netta a favore di nessuna.
La
questione del reperimento delle risorse resta aperta, con molti timori che i 100
miliardi non siano addizionali ma frettolosamente dirottati da altre iniziative
di cooperazione allo sviluppo, inizialmente con altri obiettivi.
L’addizionalità
è stata una delle richieste più forti dei Paesi in via di sviluppo, ma ancora
non c’è accordo su come definirla. Prima di Cancùn l’Unione Europea ha
dovuto rinunciare a raggiungere un accordo a 27 proprio sulla definizione di
addizionalità.
L’altro
tema relativo alla risorse finanziarie riguarda il fatto se debbano essere a
dono o a prestito e in che misura debbano finanziare interventi di adattamento e
mitigazione. Anche in questo caso i Paesi in via di sviluppo unanimemente hanno
chiesto che le risorse siano “a dono” come forma d’indennizzo per i
danni che le emissioni dei Paesi industrializzati hanno generato al clima.
Inoltre l’Accordo di Copenaghen chiede che la ripartizione tra finanziamenti
di mitigazione e adattamento sia bilanciata.
Per
il momento siamo molto lontani da questo scenario. Sono i prestiti per
interventi di mitigazione la modalità di finanziamento più utilizzata. Insomma
per i Paesi in via di sviluppo da Cancùn parte un percorso che in un anno a
Durban dovrà portare a risolvere la questione su come reperire e spendere i
soldi promessi.
Sulla
base di uno documento del Consiglio dell’Unione europea, nel 2010 l’Italia
ha stanziato in interventi di cooperazione allo sviluppo dedicati a mitigazione
e adattamento circa 21 milioni di euro per un anno, che rappresentano il 2,8%
della quota europea – la metà di Belgio e Danimarca.
Tuttavia
a differenza degli altri Paesi donatori, le iniziative di adattamento e
mitigazione sono equamente finanziate dalla cooperazione italiana, con il 75%
dei contributi italiani che sono “a dono”. Il 50% dello stanziamento
italiano è sicuramente non-addizionale poiché si tratta di risorse provenienti
da precedenti cancellazioni del debito.
Non
c’è praticamente alcun investimento italiano su questi temi in Africa
sub-sahariana, soprattutto nei Paesi più poveri, e meno dell’1% è rivolto
verso le piccole isole del Pacifico, le più vulnerabili ai cambiamenti
climatici. L’attenzione italiana è rivolta all’area mediorientale,
soprattutto in Libano, e all’America andina, essenzialmente Bolivia ed
Ecuador, con qualche investimento in Cina.
Vivere
il pluralismo: un cambiamento culturale di Gerolamo Fazzini
MissiOnLine
- 16 dicembre 2010
Se
si vuole essere credibili nella battaglia per la libertà religiosa "via
alla pace" non si deve farne una questione confessionale
Gli
ahmadi sono i membri di un movimento musulmano, nato in ambito sunnita. Benché
sia diffuso in molti Paesi e vi risultino affiliate decine di milioni di membri,
alcuni governi lo considerano alla stregua di un gruppo eretico. Ebbene, secondo
uno studio di Tempi, gli ahmadi risultano essere la categoria religiosa più
perseguitata in Pakistan dalla famigerata Blasphemy Law, la stessa sulla base
della quale la cristiana Asia Bibi di recente è finita nel mirino, suscitando
vibrate reazioni da parte della comunità internazionale. Partiamo da questa
considerazione, a commento del tema scelto da Benedetto XVI per la Giornata
mondiale della pace 2011 (al momento di andare in stampa il testo del Messaggio
non è ancora stato diffuso). Per ribadire, ancora una volta, che se si vuol
essere credibili nella battaglia per la libertà religiosa "via alla
pace", non si deve farne una questione confessionale, bensì sostenere il
diritto di tutti a professare la propria fede.
Fatta
questa premessa, ci interessa sottolineare qui che la libertà religiosa, perché
sia affermata, richiede un cambio di prospettiva culturale e, di riflesso,
un'attuazione che chiama in causa la politica. Detto in altro modo: la tutela
della libertà religiosa sarà tanto più efficace quanto più ogni religione
imparerà a pensarsi in un contesto di pluralismo. Per la Chiesa cattolica
questa è un'acquisizione relativamente "pacifica" e, - tutto sommato
- recente, legata com'è al Concilio Vaticano II. Altre tradizioni religiose
faticano a pensarsi in quest'ottica. Nei Paesi dove l'islam è maggioranza le
altre presenze religiose sono, nel migliore dei casi, tollerate. In Arabia
Saudita - è noto - la libertà religiosa per i non musulmani non esiste (e, di
recente, la Norvegia ha giustamente negato la costruzione di una moschea
saudita, di stampo wahabita, proprio in risposta a tale diritto negato). Ancor,.
in India una corrente di pensiero, numericamente minoritaria ma politicamente
rilevante, insiste nell'equazione indiano uguale indù. E potremmo
continuare...Ma a noi interessa qui soprattutto far conoscere ciò che si muove
sotto l'ufficialità, dietro le notizie quotidiane che ci arrivano dal Medio
Oriente, dal Pakistan, dall'India, come dalla Nigeria e via dicendo... Ci
interessa presentare storie e volti di persone che si stanno impegnando, a
partire dalle rispettive tradizioni religiose di appartenenza, per la libertà
di credere.
Un
caso per tutti, che raccontiamo nei dettagli nel Servizio Speciale: Asma T.
Uddin, cittadina americana di religione musulmana, brillante avvocatessa, che
lavora con le armi della legge proprio su questo tema. Sorprendente quanto
afferma: "Molti osservatori e governi hanno paura che l'autorizzazione a
professare la propria fede possa portare all'anarchia, essa in realtà favorisce
un maggior ordine pubblico: le società infatti prosperano quando ai cittadini
è permesso di esprimere liberamente e pacificamente le proprie convinzioni
profonde".Un invito del genere viene anche dal libro-intervista a Benedetto
XVI, Luce del mondo, laddove il Papa dichiara: "I cristiani sono tolleranti
e permettono anche agli altri la loro peculiare comprensione di sé. Ci
rallegriamo del fatto che nei Paesi del Golfo Arabico (Qatar, Abu Dhabi, Dubai,
Kuwait) ci siano chiese nelle quali i cristiani possono celebrare la Messa e
speriamo che così accada ovunque. Per questo è naturale che anche da noi
possano riunirsi in preghiera nelle moschee". Vale a dire: pregare per la
sorte dei cristiani iracheni e chiedere ai politici di difenderli va di pari
passo col garantire ai musulmani in Occidente la possibilità di realizzare
luoghi di preghiera degni di tale nome. Sapranno i politici di casa nostra
raccogliere la sfida?
Il
mondo dice «no» per la terza volta alla pena di morte di Daniele Zappalà
Avvenire
- 23 dicembre 2010
Avanza
all’Onu il fronte favorevole alla moratoria: 109 Paesi approvano, 41 i
contrari e 35 gli astenuti
Si
avvicina ancor più il sogno di una moratoria universale
della pena di morte. Il fronte internazionale che vuole
sradicare le condanne capitali su scala planetaria ha appena
registrato un nuovo successo presso l’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite: il terzo in 3 anni, dopo la prima
storica risoluzione del 2007 voluta con forza dall’Italia. Il voto della nuova risoluzione, giunto a New York martedì sera, quando in Europa era già notte, non si è limitato a mettere ancora una volta in netta minoranza i Paesi favorevoli alla pena capitale. C’è stata anche una sensibile avanzata per la moratoria, sostenuta ormai da 109 Stati, contro i 41 opposti al provvedimento e 35 astensioni. Solo 7, invece, i seggi vuoti durante il voto. Nel 2008, i Paesi contrari erano stati 46, dunque una mezza decina in più rispetto a quelli usciti allo scoperto martedì sera. E
il fronte dei favorevoli si era fermato a quota 106. Tornando indietro al 2007,
i rapporti di forza attuali acquistano ancor più risalto. Se la prima
risoluzione fu sostenuta da 104 Paesi, allora il fronte contrario aveva ancora
raccolto ben 54 voti. Il nuovo avallo dell’Assemblea Onu rappresenta «un risultato straordinario e conferma un trend generale verso la fine della pena capitale», ha commentato ieri la Comunità di Sant’Egidio, fin dall’inizio in prima linea nella campagna internazionale. E anche per la Ong “Nessuno tocchi Caino” è ormai chiara «un’evoluzione positiva in atto da oltre 10 anni». |
Rispetto al 2008,
hanno deciso di voltare pagina, sostenendo la moratoria, tre Paesi prima
refrattari: Kiribati, Maldive e Mongolia. Lo stesso è avvenuto per altri tre
Stati usciti invece dal limbo dell’astensione: Bhutan, Guatemala e Togo.
Nell’ultimo
biennio, è positivo anche il travaso dalla cerchia dei contrari a quella
dell’astensione, con quattro casi (Comore, Nigeria, Isole Salomone e
Thailandia). Ed è cresciuto pure il totale dei cosiddetti “cosponsor” della
risoluzione, giunti ormai a quota 90, con l’arrivo inedito di Cambogia,
Madagascar e Russia.
Fra
l’altro, il confronto fra i diversi voti è pienamente legittimo, dato che non
ci sono state variazioni sostanziali fra le risoluzioni. Si tratta dunque di
progressi reali e non del frutto di nuovi negoziati sui contenuti della versione
del 2007. Nell’ultimo testo, anzi, si esplicita meglio la richiesta agli Stati
di una diffusione concreta delle informazioni sulle esecuzioni. Con un
comunicato firmato dal portavoce Mario Marazziti, la Comunità di Sant’Egidio
ha fatto il punto sul senso profondo dei progressi appena compiuti: «È
riaffermato in maniera solenne il dovere di tutti i sistemi giudiziari di
rispettare sempre la vita umana. Viene confermato il superamento della pena
capitale tra gli obiettivi della comunità internazionale e si fissa una soglia
di rispetto dei diritti umani non più compatibile con l’uso della pena di
morte». Suscita in particolare molta speranza la tendenza che emerge in Asia,
continente da sempre primo per numero di esecuzioni. Sempre più esposta allo
sguardo della comunità internazionale, la Cina avverte pressioni senza
precedenti, mentre nel vicino colosso indiano restano ormai meno di 200
condannati in attesa nel braccio della morte. In pochi anni, la fiducia verso la
moratoria è cresciuta rapidamente in Africa, mentre anche gli Stati Uniti
dell’Amministrazione Obama devono ormai temere un isolamento sempre più
pronunciato su questo fronte. Si spera dunque che possa confermarsi la riduzione
tendenziale del numero di esecuzioni americane: 80 nel 2000, contro 46 l’anno
scorso. L’Italia, in ogni caso, non intende più offrire nessun tipo di
“contributo” indiretto, dopo l’accordo di massima raggiunto fra la
Farnesina e l’azienda Hospira di Liscate, volto a impedire l’uso per le
esecuzioni capitali di dosi di Pentothal di fabbricazione nazionale. Su
quest’ultimo punto, esprimendo soddisfazione per la scelta italiana, Marazziti
ha sottolineato pure che «stanno crescendo le difficoltà
all’approvvigionamento dei farmaci necessari all’iniezione letale».
Papa:
A Natale la terra si è macchiata ancora di sangue
AsiaNews - Città del Vaticano - 26 dicembre 2010
All'Angelus
Benedetto XVI esprime il suo dolore per le uccisioni nelle Filippine, in
Nigeria, in Pakistan. Appello a tutti per la preghiera e la riconciliazione. Un
ricordo per le famiglie vittime della guerra, profughi come la Sacra Famiglia,
di fronte alla furia omicida di Erode. La Sacra Famiglia è modello per tutte le
famiglie, che fanno sentire ai figli "la tenerezza e la bellezza di essere
amati".
Anche
a Natale "la terra si è macchiata ancora di sangue", soprattutto
nelle Filippine, in Nigeria e in Pakistan: lo ha detto oggi il papa alla fine
della preghiera dell'Angelus insieme ai pellegrini raccolti nella piazza san
Pietro.
"In
questo tempo del Santo Natale - ha detto il pontefice - il desiderio e
l'invocazione del dono della pace si sono fatti ancora più intensi. Ma il
nostro mondo continua ad essere segnato dalla violenza, specialmente contro i
discepoli di Cristo. Ho appreso con grande tristezza l'attentato in una chiesa
cattolica nelle Filippine, mentre si celebravano i riti del giorno di Natale,
come pure l'attacco a chiese cristiane in Nigeria". Iri mattina nella messa
di Natale della polizia a Jolo (Mindanao), una bomba è scoppiata vicino
all'altare ferendo il sacerdote e altre cinque persone. A Jos (Nigeria), dove vi
sono da tempo tensioni interreligiose e sociali, sette bombe sono esplose nel
centro della città, provocando 32 morti e 74 feriti. Una bomba che doveva
scoppiare in una chiesa durante la messa di mezzanotte, è stata disinnescata
dalla polizia.
"La
terra - ha continuato Benedetto XVI - si è macchiata ancora di sangue in altre
parti del mondo come in Pakistan. Desidero esprimere il mio sentito cordoglio
per le vittime di queste assurde violenze, e ripeto ancora una volta l'appello
ad abbandonare la via dell'odio per trovare soluzioni pacifiche dei conflitti e
donare alle care popolazioni sicurezza e serenità".
Facendo
poi riferimento alla celebrazione di oggi, la Sacra Famiglia, "che visse la
drammatica esperienza di dover fuggire in Egitto per la furia omicida di Erode,
ricordiamo - ha aggiunto - anche tutti coloro - in particolare le famiglie - che
sono costretti ad abbandonare le proprie case a causa della guerra, della
violenza e dell'intolleranza. Vi invito, quindi, ad unirvi a me nella preghiera
per chiedere con forza al Signore che tocchi il cuore degli uomini e porti
speranza, riconciliazione e pace".
Proprio
alla Sacra Famiglia era dedicata la prima parte della sua riflessione prima
dell'Angelus. In essa, ha spiegato Benedetto XVI, " il piccolo Gesù appare
al centro dell'affetto e delle premure dei suoi genitori. Nella povera grotta di
Betlemme - scrivono i Padri della Chiesa - rifulge una luce vivissima, riflesso
del profondo mistero che avvolge quel Bambino, e che Maria e Giuseppe
custodiscono nei loro cuori e lasciano trasparire nei loro sguardi, nei gesti,
soprattutto nei loro silenzi".
"Eppure
- ha continuato il pontefice - la nascita di ogni bambino porta con sé
qualcosa di questo mistero! Lo sanno bene i genitori che lo ricevono come un
dono e che, spesso, così ne parlano. A tutti noi è capitato di sentir dire a
un papà e a una mamma: "Questo bambino è un dono, un miracolo!". In
effetti, gli esseri umani vivono la procreazione non come mero atto
riproduttivo, ma ne percepiscono la ricchezza, intuiscono che ogni creatura
umana che si affaccia sulla terra è il "segno" per eccellenza del
Creatore e Padre che è nei cieli. Quant'è importante, allora, che ogni
bambino, venendo al mondo, sia accolto dal calore di una famiglia! Non importano
le comodità esteriori: Gesù è nato in una stalla e come prima culla ha avuto
una mangiatoia, ma l'amore di Maria e di Giuseppe gli ha fatto sentire la
tenerezza e la bellezza di essere amati. Di questo hanno bisogno i bambini:
dell'amore del padre e della madre. E' questo che dà loro sicurezza e che,
nella crescita, permette la scoperta del senso della vita".
"La
santa Famiglia di Nazareth ha attraversato molte prove, come quella - ricordata
nel Vangelo secondo Matteo - della "strage degli innocenti", che
costrinse Giuseppe e Maria ed emigrare in Egitto (cfr 2,13-23). Ma, confidando
nella divina Provvidenza, essi trovarono la loro stabilità e assicurarono a Gesù
un'infanzia serena e una solida educazione".
"Cari
amici - ha concluso - la santa Famiglia è certamente singolare e irripetibile,
ma al tempo stesso è "modello di vita" per ogni famiglia, perché Gesù,
vero uomo, ha voluto nascere in una famiglia umana, e così facendo l'ha
benedetta e consacrata. Affidiamo pertanto alla Madonna e a san Giuseppe tutte
le famiglie, affinché non si scoraggino di fronte alle prove e alle difficoltà,
ma coltivino sempre l'amore coniugale e si dedichino con fiducia al servizio
della vita e dell'educazione".
Più poveri, ma si può cambiare: intervista al presidente dell'Ifad
Misna - 20 dicembre 2010
La
carenza di investimenti nelle infrastrutture e il rischio costante di oligopoli
nel settore agroalimentare condizionano la lotta contro la povertà rurale
nell'area sub-sahariana: lo sottolinea in un'intervista alla MISNA Kanayo
Nwanze, presidente del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad).
Secondo il rapporto 2011 dell'Ifad, presentato a Roma venerdì, la regione
sub-sahariana è l'unica al mondo dove la "povertà estrema" continua
ad aumentare. Nello studio si sostiene che in 10 anni i contadini africani con
un reddito inferiore a un dollaro e 25 centesimi al giorno sono passati da 268 a
306 milioni. "La situazione è rovesciata rispetto a 40 anni fa, quando
nessun paese africano era un importatore netto di derrate alimentari"
sostiene Nwanze. Avviare dinamiche nuove, però, non è impossibile. Lo
dimostrano alcuni paesi un tempo considerati "senza speranza" e ora
tra i più dinamici del pianeta. "In Cina, India, Vietnam e Brasile -
sottolinea il presidente dell'Ifad - la povertà rurale è stata ridotta grazie
a politiche di sviluppo infrastrutturale di lungo periodo". In Africa la
carenza di investimenti in strade, ferrovie e porti continua a lasciare fuori
dal mercato milioni di contadini, potenzialmente piccoli imprenditori
interessati a produrre di più e meglio. "Lo sviluppo delle reti stradali -
sottolinea Nwanze - porterebbe redditi più alti, scuole e ospedali". Un
contributo può arrivare anche dal settore privato e dalle multinazionali
dell'agroindustria, che alimentando la domanda di prodotti sarebbero in grado di
determinare aumenti dei prezzi benefici per i contadini. Ma se questi scenari a
volte si sono realizzati - Nwanze cita il caso delle produzioni di olio da palma
in Uganda - c'è il timore di accordi tra governi e multinazionali che risultino
in regimi di oligopolio. Nella conversazione con il presidente dell'Ifad tornano
i temi sviluppati in un recente studio dal relatore speciale dell'Onu per il
diritto all'alimentazione, Olivier de Schutter. Nella ricerca si fa riferimento
anche al caso della Costa d'Avorio, il maggior produttore mondiale di cacao. Il
mercato nazionale è dominato da tre società, le americane Adm e Cargill e la
svizzera Barry Callebaut. Nel tentativo di ridurre i costi, evidenzia De
Schutter, i produttori hanno tagliato i salari dei braccianti e sono ricorsi in
modo diffuso all'impiego di manodopera minorile.[VG]
Petrolio
e futuro: la Misna parla con l'Eni
Misna
- 22 dicembre 2010
L'Africa
sarà sempre più il continente del petrolio, una risorsa che non è "di
per sé una maledizione" ma invece un volano per la crescita economica e
sociale dei popoli sub-sahariani: in un'intervista alla MISNA parla così
Claudio Descalzi, direttore generale della divisione "esplorazione e
produzione" del gruppo italiano Eni.
-Di
recente, Eni ha annunciato nuove scoperte in Angola e firmato accordi per
l'avvio di prospezioni in Togo. L'Africa è il centro dell'industria petrolifera
del XXI secolo?
"L'Africa
è già una regione d'interesse primario per Eni. Lo è storicamente, dato che
le nostre attività all'estero sono iniziate proprio in Africa e da qui ogni
giorno proviene circa un milione di barili di petrolio equivalente della
produzione del gruppo, oltre il 50% del totale. E lo sarà ancora più nel
futuro, tenuto conto dei nostri progetti esplorativi e di sviluppo. Eni è
adesso il primo gruppo internazionale per produzione di idrocarburi in Africa e
la nostra presenza nell'area è in costante crescita anche grazie a nuove
scoperte in Angola e all'ingresso in paesi come Ghana, Gabon, Mozambico e, più
di recente, Repubblica democratica del Congo e Togo. L'Africa è ancora
ampiamente inesplorata: a oggi, il numero di pozzi esplorativi 'wild cat'
perforati nel continente dall'inizio dell'industria petrolifera rappresenta solo
il 2% del totale mondiale".
-Nel
2010 ben 17 paesi dell'Africa hanno celebrato i 50 anni dell'indipendenza
politica. L'industria del petrolio può avvicinare l'indipendenza economica del
continente?
"Petrolio
e gas significano ricchezza. Sono un fattore importantissimo in un continente
ancora poco sviluppato ma con forti potenzialità come l'Africa. E non si tratta
solo di ricchezza in termini di introiti derivanti dall'esportazione degli
idrocarburi. L'energia è anche un fattore essenziale per lo sviluppo
industriale e civile delle società. Lo sfruttamento delle risorse naturali, però,
deve essere accompagnato da una diversificazione dell'economia. Questa è la
grande sfida per l'indipendenza".
-Dal
Delta del Niger alla Cabinda, l'abbondanza di risorse naturali spesso non è
stata sinonimo di progresso sociale. ll petrolio è anche "una
maledizione" per i popoli d'Africa?
"Il
petrolio non è di per sé una maledizione. Lo può diventare, come lo possono
diventare tutte le risorse naturali nel momento in cui rappresentano l'unico
pilastro su cui si basa lo sviluppo di un paese. In questo caso, le altre
attività sono soffocate e il risultato è un'economia monosettoriale, con tutti
i rischi che questo comporta. I paesi produttori hanno da tempo capito che lo
sfruttamento delle risorse petrolifere non deve essere una rendita, ma un
investimento funzionale allo sviluppo di altri settori produttivi. Le
multinazionali devono investire a livello locale e diventare veri partner nel
promuovere la crescita e la diversificazione dell'economia verso una minore
dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi. Eni ha promosso lo sviluppo di
centrali per la generazione elettrica attraverso l'utilizzo del gas associato
alla produzione di petrolio in diversi paesi africani. L'elettricità è un
potente volano per lo sviluppo locale, non solo perché permette la crescita di
diversi settori produttivi, ma anche perché contribuisce al miglioramento della
qualità della vita delle popolazioni interessate. Nel caso del Congo, ad
esempio, le nostre centrali sono in grado di coprire oltre il 40% del fabbisogno
elettrico nazionale".
-L'Africa
può essere il continente delle energie alternative?
"Le
fonti rinnovabili possono rappresentare per l'Africa una grande opportunità.
Sebbene oggi non risultino pienamente sfruttate, le caratteristiche geografiche
e ambientali del continente le rendono promettenti. Un esempio può essere
l'applicazione delle tecnologie sul solare. Eni è impegnata in un 'case study'
per un sito tunisino, relativo alla realizzazione di una centrale elettrica
ibrida fossile-solare da 140 megawatt. Si tratterebbe di un ciclo combinato a
gas naturale associato a un campo di collettori a concentrazione capaci di
trasformare l'energia solare in energia termica a elevata temperatura da
convertire in elettricità all'interno dello stesso ciclo. Anche lo sviluppo
delle biomasse può essere un'occasione per migliorare la qualità della vita
degli africani. I progetti 'Food plus Biodiesel' in Congo e Angola hanno come
obiettivo la promozione del settore agricolo e il recupero di aree incolte
attraverso lo sviluppo di colture estensive di piante oleaginose come la palma.
L'olio prodotto sarà destinato innanzitutto al consumo alimentare e l'eventuale
surplus sarà valorizzato a 'green diesel'. Questi progetti sono un'opportunità
di diversificazione e sviluppo per economie fortemente dipendenti dal
petrolio".[VG]
La pace di Natale e la libertà religiosa
di Bernardo Cervellera
AsiaNews - Roma - 24 dicembre 2010
La nascita del Salvatore è il suggerimento al mondo di mettere al primo posto Dio e l’uomo, non la politica o gli affari o l’ideologia. Dove questo non avviene, brillano segnali di violenze e guerre. La proposta del papa per una nuova cultura della convivenza e per il rispetto della libertà religiosa.
“Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che
Egli ama”: il grido di esultanza degli angeli nella notte di Natale
quest’anno stride con le notizie di cronaca e i segnali che registriamo qua e
là nel pianeta.
Il
canto di pace nella notte in cui nasce il Dio bambino sembra sommerso dalle
provocazioni e dai venti di guerra e violenza che insanguinano il continente
asiatico: l’instabilità e gli atti terroristi in Iraq (con il massacro di
tanti cristiani) dicono che la pace e la sicurezza per quella terra, dopo anni
dalla cacciata di Saddam Hussein, tardano ancora a venire. La tensione diffusa
in Afghanistan e che incendia in parte anche il Pakistan non si spegne, pur con
tutte le armi, gli aiuti, i dialoghi, le elezioni. Anche il dialogo di pace fra
Israele e palestinesi, tanto caro a noi cristiani e voluto con tutto il cuore da
Barack Obama, si sta lentamente trasformando nel suo contrario, con la
diffusione sempre più violenta degli insediamenti israeliani nei territori
occupati.
Ancora
più ad est, per il possesso di un pugno di isolotti semideserti – forse
pieni di petrolio nel fondo marino – la Cina si scontra con il Vietnam e con
le Filippine, e più in là col Giappone.
Nel
Mar Giallo la nuova leadership dittatoriale della Corea del Nord annuncia la sua
presenza bombardando basi militari e civili innocenti in una prova di forza che
ha fatto rischiare un conflitto mondiale.
Se
guardiamo poi anche all’occidente, emerge una guerra per la sopravvivenza di
Stati in bancarotta; una guerra delle valute fra Stati Uniti e Cina che
impoverisce entrambi e condanna le due popolazioni a una difficile esistenza
economica, col rischio di rivolte all’interno dei propri Paesi.
Il
mondo rischia di corrompersi e distruggersi perché non ascolta i suggerimenti
contenuti in quel canto di Natale. Esso dice: “pace in terra agli uomini che
Egli ama”, quegli uomini che Dio ha tanto amato da gettare per noi sulla terra
il suo bene più prezioso, suo Figlio. E invece le guerre sono sempre
all’orizzonte perché invece del “primato dell’uomo”, si mette avanti
“il primato della politica”, quello “dell’economia”, quello
“dell’ideologia”: infine, quello “del potere” dove l’uomo si
pretende Dio e arraffa, accumula, deruba, sottomette, incatena, uccide gli altri
uomini.
Nella
sua enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI ha mostrato con ampiezza che il
mondo ha bisogno di una revisione dei pilastri su cui poggia la convivenza dei
popoli, l’economia, l’ecologia, il lavoro, la cultura, facendo della verità
e della dignità della persona umana le basi di un nuovo e più completo
sviluppo, materiale e spirituale.
In
particolare egli ha sottolineato che la soglia di questo nuovo inizio è il
rispetto della libertà religiosa (n. 29). A questo diritto, punto di verifica
di tutte le altre libertà, è dedicato il prossimo Messaggio per la Giornata
della Pace 2011: “Libertà religiosa, via per la pace”. Non per nulla,
proprio i Paesi elencati all’inizio, dove baluginano segnali di guerre e
tensioni, sono anche luoghi dove l’uomo religioso è umiliato e dove la libertà
di coscienza e di espressione è limitata con durezza.
Ma
non si salva nemmeno l’occidente: qui, dove Dio viene preso in giro e si
preferisce un materialismo soddisfatto e vuoto, emergono le tante nevrosi e
frustrazioni, che rendono difficile la vita civile. “Una società del
benessere – ha detto il papa nell’enciclica - materialmente sviluppata, ma
opprimente per l'anima, non è di per sé orientata all'autentico sviluppo”
(n. 76).
Lavorare
per la libertà religiosa, ridando spazio nella società alla verità
dell’uomo e a Dio, è la via della pace. Buon Natale.
Papa:
nella riscoperta "del vero e del buono" si gioca il futuro del mondo
AsiaNews - Città del Vaticano - 20 dicembre 2010
Nel
discorso alla Curia romana, Benedetto XVI parla delle "grandi
angustie" e delle responsabilità" per gli abusi dei preti e del Medio
Oriente dove i cristiani "sono la minoranza più oppressa e
tormentata". Il relativismo negando l'esistenza di una realtà invisibile e
di una verità oggettiva ha eliminato il riferimento al male e anche i valori
condivisi su cui si fonda la società.
C'è
"un'esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento" nel
dramma degli abusi commessi dai sacerdoti, così come nel tentativo di
teorizzare la "giustificazione" della pedofilia, fatto in anni
recenti, e in genere nella mercificazione dell'uomo, ma c'è anche nel ricorso
alla violenza in Medio Oriente, nella quale "i cristiani sono la minoranza
più oppressa e tormentata". Lo dice Benedetto XVI nel discorso fatto oggi
alla Curia romana per lo scambio degli auguri natalizi, tradizionale occasione
nella quale il papa fa un bilancio della vita della Chiesa nell'anno che sta
finendo.
Ripercorrendo
questo 2010, quando il Papa parla degli abusi dei preti o del Medio Oriente li
vede come frutti di un "accecamento della ragione per ciò che è
essenziale", di una cultura del relativismo per la quale è
"reale" solo ciò che si può toccare e che, in tal modo, vede nella
coscienza l'ambito privato di ognuno, invece che la ricerca della verità
oggettiva. E' la strada che porta a dire che non esistono il male o il bene in sé,
alla eliminazione dei valori condivisi e, quindi, della morale dalla società.
Ridare all'uomo il vero significato della "coscienza", come
"capacità di vedere l'essenziale, di vedere Dio e l'uomo, ciò che è
buono e ciò che è vero" è "responsabiltà" della Chiesa, che
deve "rendere nuovamente udibili e comprensibili tra gli uomini questi
criteri come vie della vera umanità". "E' in gioco il futuro del
mondo".
Il
lungo discorso di Benedetto XVI parte proprio "dall'impressione che il
consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture
giuridiche e politiche non funzionano" e ricorda prima di tutto le
"grandi angustie" provocate dagli abusi dei preti "in una
dimensione per noi inimmaginabile", "che stravolgono il Sacramento nel
suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana
nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita".
Una
vicenda per la quale il Papa ha ricordato la visione di sant'Ildegarda di Bingen
che nel 1170 descrisse la Chiesa come una donna bellissima, ma con l'abito
strappato e il volto insudiciato "colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la
mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere
sacerdotale".
"Così
come lei l'ha visto ed espresso, l'abbiamo vissuto in quest'anno. Dobbiamo
accogliere questa umiliazione come un'esortazione alla verità e una chiamata al
rinnovamento. Solo la verità salva. Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo
fare per riparare il più possibile l'ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci
che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell'intero nostro modo di
configurare l'essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere.
Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere
capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella
preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più
succedere".
Ma
il pensiero sugli abusi è anche occasione "per ringraziare di cuore tutti
coloro che si impegnano per aiutare le vittime e per ridare loro la fiducia
nella Chiesa, la capacità di credere al suo messaggio. Nei miei incontri con le
vittime di questo peccato, ho sempre trovato anche persone che, con grande
dedizione, stanno a fianco di chi soffre e ha subito danno. È questa
l'occasione per ringraziare anche i tanti buoni sacerdoti che trasmettono in
umiltà e fedeltà la bontà del Signore e, in mezzo alle devastazioni, sono
testimoni della bellezza non perduta del sacerdozio".
"Siamo
consapevoli - sottolinea il Papa - della particolare gravità di questo peccato
commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità. Ma non
possiamo neppure tacere circa il contesto del nostro tempo in cui è dato vedere
questi avvenimenti. Esiste un mercato della pornografia concernente i bambini,
che in qualche modo sembra essere considerato sempre più dalla società come
una cosa normale. La devastazione psicologica di bambini, in cui persone umane
sono ridotte ad articolo di mercato, è uno spaventoso segno dei tempi. Da
Vescovi di Paesi del Terzo Mondo sento sempre di nuovo come il turismo sessuale
minacci un'intera generazione e la danneggi nella sua libertà e nella sua
dignità umana". In questo contesto, Benedetto XVI vede anche il problema
della droga, "che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo
intorno all'intero globo terrestre - espressione eloquente della dittatura di
mammona che perverte l'uomo. Ogni piacere diventa insufficiente e l'eccesso
nell'inganno dell'ebbrezza diventa una violenza che dilania intere regioni, e
questo in nome di un fatale fraintendimento della libertà, in cui proprio la
libertà dell'uomo viene minata e alla fine annullata del tutto".
"Per
opporci a queste forze dobbiamo gettare uno sguardo sui loro fondamenti
ideologici. Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del
tutto conforme all'uomo e anche al bambino. Questo, però, faceva parte di una
perversione di fondo del concetto di ethos. Si asseriva - persino nell'ambito
della teologia cattolica - che non esisterebbero né il male in sé, né il bene
in sé. Esisterebbe soltanto un "meglio di" e un "peggio
di". Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle
circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto
potrebbe essere bene o anche male. La morale viene sostituita da un calcolo
delle conseguenze e con ciò cessa di esistere. Gli effetti di tali teorie sono
oggi evidenti. Contro di esse Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica
Veritatis splendor del 1993, indicò con forza profetica nella grande tradizione
razionale dell'ethos cristiano le basi essenziali e permanenti dell'agire
morale".
Un
fondamento che Benedetto XVI ha indicato nel ricordare il viaggio in Gran
Bretagna e, in tale ambito, la beatificazione del cardinale John Henry Newman.
Del grande pensatore il Papa ha sottolineato "la prima conversione: quella
alla fede nel Dio vivente. Fino a quel momento, Newman pensava come la media
degli uomini del suo tempo e come la media degli uomini anche di oggi, che non
escludono semplicemente l'esistenza di Dio, ma la considerano comunque come
qualcosa di insicuro, che non ha alcun ruolo essenziale nella propria vita.
Veramente reale appariva a lui, come agli uomini del suo e del nostro tempo,
l'empirico, ciò che è materialmente afferrabile. È questa la "realtà"
secondo cui ci si orienta. Il "reale" è ciò che è afferrabile, sono
le cose che si possono calcolare e prendere in mano. Nella sua conversione
Newman riconosce che le cose stanno proprio al contrario: che Dio e l'anima,
l'essere se stesso dell'uomo a livello spirituale, costituiscono ciò che è
veramente reale, ciò che conta. Sono molto più reali degli oggetti
afferrabili. Questa conversione significa una svolta copernicana. Ciò che fino
ad allora era apparso irreale e secondario si rivela come la cosa veramente
decisiva. Dove avviene una tale conversione, non cambia semplicemente una
teoria, cambia la forma fondamentale della vita. Di tale conversione noi tutti
abbiamo sempre di nuovo bisogno: allora siamo sulla via retta".
"La
forza motrice che spingeva sul cammino della conversione era in Newman la
coscienza. Ma che cosa si intende con ciò? Nel pensiero moderno, la parola
"coscienza" significa che in materia di morale e di religione, la
dimensione soggettiva, l'individuo, costituisce l'ultima istanza della
decisione. Il mondo viene diviso negli ambiti dell'oggettivo e del soggettivo.
All'oggettivo appartengono le cose che si possono calcolare e verificare
mediante l'esperimento. La religione e la morale sono sottratte a questi metodi
e perciò sono considerate come ambito del soggettivo. Qui non esisterebbero, in
ultima analisi, dei criteri oggettivi. L'ultima istanza che qui può decidere
sarebbe pertanto solo il soggetto, e con la parola "coscienza" si
esprime, appunto, questo: in questo ambito può decidere solo il singolo,
l'individuo con le sue intuizioni ed esperienze. La concezione che Newman ha
della coscienza è diametralmente opposta. Per lui "coscienza"
significa la capacità di verità dell'uomo: la capacità di riconoscere proprio
negli ambiti decisivi della sua esistenza - religione e morale - una verità, la
verità. La coscienza, la capacità dell'uomo di riconoscere la verità, gli
impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di
cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità
di verità e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all'uomo che
cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino
della coscienza - un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio
al contrario, dell'obbedienza verso la verità che passo passo si apriva a
lui".
Nel
ripercorrere l'anno che sta finendo, il Papa ha poi sottolineato l'importanza
del Sinodo per il Medio Oriente, che ebbe inizio con il viaggio a Cipro. del
quale "rimane indimenticabile l'ospitalità della Chiesa ortodossa che
abbiamo potuto sperimentare con grande gratitudine. Anche se la piena comunione
non ci è ancora donata, abbiamo tuttavia constatato con gioia che la forma
basilare della Chiesa antica ci unisce profondamente gli uni con gli altri: il
ministero sacramentale dei Vescovi come portatore della tradizione apostolica,
la lettura della Scrittura secondo l'ermeneutica della Regula fidei, la
comprensione della Scrittura nell'unità multiforme incentrata su Cristo
sviluppatasi grazie all'ispirazione di Dio e, infine, la fede nella centralità
dell'Eucaristia nella vita della Chiesa".
Ma,
a Cipro, "abbiamo visto anche il problema del Paese diviso. Si rendevano
visibili colpe del passato e profonde ferite, ma anche il desiderio di pace e di
comunione quali erano esistite prima. Tutti sono consapevoli del fatto che la
violenza non porta alcun progresso - essa, infatti, ha creato la situazione
attuale. Solo nel compromesso e nella comprensione vicendevole può essere
ristabilita un'unità. Preparare la gente per questo atteggiamento di pace è un
compito essenziale della pastorale. Nel Sinodo lo sguardo si è poi allargato
sull'intero Medio Oriente, dove convivono fedeli appartenenti a religioni
diverse ed anche a molteplici tradizioni e riti distinti".
"Negli
sconvolgimenti degli ultimi anni è stata scossa la storia di condivisione, le
tensioni e le divisioni sono cresciute, così che sempre di nuovo con spavento
siamo testimoni di atti di violenza nei quali non si rispetta più ciò che per
l'altro è sacro, nei quali anzi crollano le regole più elementari dell'umanità.
Nella situazione attuale, i cristiani sono la minoranza più oppressa e
tormentata. Per secoli sono vissuti pacificamente insieme con i loro vicini
ebrei e musulmani. Nel Sinodo abbiamo ascoltato parole sagge del Consigliere del
Mufti della Repubblica del Libano contro gli atti di violenza nei confronti dei
cristiani. Egli diceva: con il ferimento dei cristiani veniamo feriti noi
stessi. Purtroppo, però, questa e analoghe voci della ragione, per le quali
siamo profondamente grati, sono troppo deboli. Anche qui l'ostacolo è il
collegamento tra avidità di lucro ed accecamento ideologico. Sulla base dello
spirito della fede e della sua ragionevolezza, il Sinodo ha sviluppato un grande
concetto del dialogo, del perdono e dell'accoglienza vicendevole, un concetto
che ora vogliamo gridare al mondo. L'essere umano è uno solo e l'umanità è
una sola. Ciò che in qualsiasi luogo viene fatto contro l'uomo alla fine
ferisce tutti. Così le parole e i pensieri del Sinodo devono essere un forte
grido rivolto a tutte le persone con responsabilità politica o religiosa perché
fermino la cristianofobia; perché si alzino a difendere i profughi e i
sofferenti e a rivitalizzare lo spirito della riconciliazione. In ultima
analisi, il risanamento può venire soltanto da una fede profonda nell'amore
riconciliatore di Dio. Dare forza a questa fede, nutrirla e farla risplendere è
il compito principale della Chiesa in quest'ora".
UE: una nuova direttiva contro il traffico di esseri umani
Unimondo - 23 dicembre 2010
Il 14 dicembre il Parlamento Europeo ha votato una nuova direttiva che impegna tutti gli stati membri nella lotta contro il traffico di esseri umani, un dramma che colpisce principalmente donne e bambini, sfruttati soprattutto per la prostituzione nel 43% dei casi e per i lavori forzati per un altro 32%. Oltre alla prostituzione e i lavori forzati, ci sono però molte altre cause dietro lo sfruttamento di esseri umani: persone obbligate a chiedere l'elemosina, adozioni illegali, sfruttamento della manodopera, traffico di organi... Tutti casi coperti dalla nuova legge europea.
Si
tratta di un business lucroso: il secondo per entrate dopo quello delle armi, più
redditizio della droga e con un rischio per i trafficanti piuttosto limitato.
Per questo, secondo i legislatori, per avere un effetto la legge in questo campo
deve dare un colpo di grazia ai criminali con pene più severe e una sinergia di
azioni utili alla prevenzione di qualsiasi traffico di esseri umani.
“La
nostra organizzazione ha sempre denunciato l'ampiezza del fenomeno e la sua
continua crescita, in Europa come nel resto del mondo - ha dichiarato durante la
gestazione della direttiva Raffaele Salinai di Terre des Hommes - e nella lotta
a questa moderna forma di schiavitù è necessario arrivare ad un'armonizzazione
delle leggi nazionali contro la tratta, ad una migliore assistenza alle vittime
e a pene più dure per i responsabili di crimini”.
Il
testo, approvato con 643 voti a favore, 10 contrari e 14 astensioni, è il
frutto di un compromesso con i Governi dell’Unione europea e il risultato
dell’accordo "è molto meglio di quello che credevo avremmo potuto
ottenere", ha commentato soddisfatta Anna Hedh, socialdemocratica svedese e
relatrice delle commissioni Libertà civili e Diritti delle Donne. "Abbiamo
rafforzato la protezione delle vittime, che sarà centrata sui diritti,
rafforzata per i bambini e con una chiara prospettiva di genere", ha
commentato la Hedth spiegando i miglioramenti apportati al testo originale.
“Le
nuove regole faranno un pochino più male”, ha ironizzato la Hedht: sono
previste, infatti, pene fino a 10 anni, e - elemento fondamentale quanto inedito
- la confisca dei beni. Quando saranno coinvolte “persone legali”, quindi
imprese, associazioni o quant’altro, le sanzioni includeranno anche
“l'esclusione dalle gare pubbliche”, il “divieto” temporaneo o
permanente “di esercitare l'attività commerciale" e la chiusura o la
“supervisione giudiziaria” degli stabilimenti.
"La
cosa più importante è che ci occupiamo della questione - ha spiegato Edit
Bauer, co-relatrice della commissione Diritti delle Donne e popolare slovacca -
che la gente non chiuda gli occhi davanti a questa clamorosa violazione dei
diritti umani, che ci sia certezza della pena per i criminali e protezione per
le vittime”. Fondamentale nel testo della legge le assicurazioni per le
vittime che “devono poter godere di assistenza e supporto [non solo legale, ma
anche medico e psicologico] prima, durante e dopo la procedura giudiziaria"
e questo "non deve essere condizionale alla volontà da parte delle vittime
di collaborare alle indagini e al processo", ha specificato la Bauer.
Il
testo della direttiva stabilisce, inoltre, in maniera esplicita che le vittime
non possono essere oggetto di cause giudiziarie o sanzioni pecuniarie, limiti
che fino ad oggi frenavano buona parte della volontà di denuncia degli
sfruttati. “Gli Stati membri sono, infine, incoraggiati a investire i proventi
della confisca sull'assistenza e la compensazione alle vittime, ma anche
sull'attività di contrasto transfrontaliera all'interno dell'UE”, altro
importante argine al traffico di vite.
Ma
non esiste solo la vigilanza transfrontaliera per prevenire il traffico e la
mercificazione delle persone, e soprattutto in materia di prostituzione,
l'elemento chiave è scoraggiare e punire i clienti. Se però la risoluta
socialdemocratica svedese Anna Hedh è riuscita a convincere i colleghi in
Parlamento, non altrettanto vale per i governi, che in materia hanno mantenuto
qualche resistenza.
Anche
per questo il testo approvato martedì prevede soltanto un
"incoraggiamento" a considerare l'utilizzo dei servizi prestati da
persone sfruttate un reato, invitando "i governi” a considerare in un
prossimo futuro la possibile introduzione di uno specifico crimine per i
clienti. In Italia la legge prevede già questa misura, e molti comuni l'hanno
applicata nella lotta alla prostituzione con risultati diversi e non poche
perplessità come quella di Pia Covre rappresentante e co fondatrice del
Comitato per i diritti civili delle prostitute (CDCP).
"Evidentemente
non sono state prese in considerazione le molte informazioni che abbiamo inviato
ai Parlamentari europei e che dimostrano come criminalizzare i clienti sia
controproducente e aumenti la vulnerabilità delle sex workers - ha commentato
la Covre - [perché] spesso sono proprio i clienti ad aiutare le donne che si
trovano in strada, ma in futuro se rischiano di essere denunciati non lo faranno
più".
Un
pericolo possibile e comprensibile, ma davanti alla sostituzione
dell’inefficace legge sul traffico di esseri umani del 2002 il testo che ha
passato il vaglio del parlamento di Strasburgo questa settimana sembra non
lasciare dubbi sul miglioramento di una legge che, a questo punto, darà ai
paesi Ue due anni per adottare la nuova direttiva per arginare e prevenire
situazioni “che vanno inscritte - conclude Terre des Hommes - nella coerenza
delle politiche di lotta alla povertà e del rispetto dei Diritti umani
fondamentali. [A.G.]
Via libera al gasdotto transafgano
di Enrico Piovesana
PeaceReporter
- 14 dicembre 2010
Firmato l'accordo definitivo per la realizzazione della pipeline che porterà il gas turkmeno a India e Pakistan attraverso l'Afghanistan
Tre
mesi dopo la firma dell'accordo quadro, avvenuta lo scorso
20 settembre, i presidenti di Turkmenistan, Afghanistan e
Pakistan e il ministro del Petrolio indiano si sono
nuovamente ritrovati nella capitale turkmena, Ashgabat, per
dare il via libera al progetto del gasdotto 'Tapi'. Il presidente afgano Hamid Karzai, quello pachistano Asif Ali Zardari, il presidente turkmeno Gurbanguly Berdimuhammedov e il ministro indiano Murli Deora hanno stabilito che la pipeline, che dovrebbe essere operativa dal 2015, avrà una portata annua di 30 miliardi di metri cubi di gas naturale, che finirà per l'84 per cento nelle condutture di Pakistan e India (in parti uguali) e per il restante 16 per cento verrà captato dalla rete afgana. A
Kabul il Tapi porterà anche 400 milioni di dollari all'anno in diritti di
transito e circa dodicimila posti di lavoro. La sicurezza del tratto afgano
della tubatura, che passerà per le turbolente province di Herat, Farah, Helmand
e Kandahar, sarà garantita da settemila soldati dell'esercito di Kabul. ''Non
sarà un progetto facile da completare'', ha ammesso ad Ashgabat il giapponese
Haruhiko Kuroda, presidente della Banca per lo sviluppo dell'Asia (Adb),
l'istituto finanziario che sponsorizza il progetto. Per convincere le compagnie energetiche occidentali a investire nel Tapi, le forze armate Usa e Nato dovranno riuscire a stabilizzare nel più breve tempo possibile l'ovest e il sud dell'Afghanistan. |
Obiettivo, questo, raggiungibile
solo al costo di una possente escalation militare, oppure con un solido accordo
politico, ed economico, con i talebani. Quindici anni fa, a far affari con il
mullah Omar c'era l'americana Unocal. Presto potrebbe esserci, tra le altre,
l'italiana Eni.
Per
gli Stati Uniti, realizzare il Tapi significa non solo evitare che India e
Pakistan si riforniscano di gas naturale dall'Iran (che a Islamabad e Delhi ha
offerto la costruzione di un gasdotto diretto), ma soprattutto segnare un punto
importante nella competizione con la Cina sull'accaparramento delle strategiche
risorse energetiche dell'Asia centrale.
1976 -1983: L'ora della giustizia
di Elvira Corona
Unimondo
- 23 dicembre 2010
Sono
passati più di 30 anni ma alla fine altri due tasselli sono stati aggiunti a
quel grande puzzle che tenta di ricomporre la giustizia in Argentina. Il primo
è arrivato qualche giorno fa con la conclusione - con 12 ergastoli, 4 condanne
a 25 anni e una assoluzione - del processo contro gli aguzzini dei Centri
Clandestini di Detenzione e Tortura del circuito Banco - Ateltico - Olimpo, di
Buenos Aires, accusati per crimini contro 183 persone. Il Tribunal Oral Federal
nuemro 2 della Capitale Federale ha così condannato 16 dei 17 accusati di
omicidi, torture, e crimini contro l'umanità. Uno di loro è stato invece
assolto per insufficienza di prove.
Ma
forse il tassello più significativo - anche da un punto di vista simbolico - è
quello della sentenza pronunciata a Cordoba lo scorso 22 dicembre. Era la più
attesa, quella contro Jorge Rafael Videla, ex comandante in capo dell'esercito e
autore - insieme a Emilio Eduardo Massera e Orlando Ramón Agosti - del colpo di
stato del 24 marzo 1976 che portò l'Argentina agli anni bui del terrorismo di
stato. A centinaia di chilometri di distanza dalla capitale, il Tribunal Oral
Federal N°1 lo ha condannato all'ergastolo. Una sentenza storica per i crimini
commessi negli anni della cosiddetta guerra sporca tra il 1976 e il 1983.
Videla
questa volta era imputato insieme all'ex titolare del Terzo Corpo dell'Esercito
Luciano Benjamín Menéndez, e altre 28 persone per l'omicidio di 31 prigionieri
politici e il rapimento e la tortura di cinque ex agenti di polizia e il
fratello di uno di loro. Durante la sua ultima possibilità di difesa, l'ex
militare non ha mostrato nessun segno di pentimento nè di redenzione, anzi. In
questi anni non ha mai cambiato argomentazioni per giustificare il “Processo
di Riorganizzazione Nazionale”, e in un lungo discorso il dittatore ha parlato
di uno “stato di guerra interna” facendo appello alla alla teoria dei due
demoni per giustificare il terrorismo di stato. “Volevano prendere il potere
politico per attuare un sistema marxista. I giovani del paese sono stati
manipolati da un'abile propaganda, e i terroristi di ieri, oggi governano il
nostro paese. Non hanno bisogno di violenza, perché sono al potere” ha
affermato in un delirio prima della sentenza.
Videla
ha ripercorso a modo suo il periodo precedente al colpo di stato affermando che
“lo Stato aveva perso il suo monopolio dell'uso della forza. La giunta
militare è stata istituita il 24 marzo 1976, ma la guerra è iniziata nel mese
di ottobre 75”. Videla era già stato condannato all'ergastolo nel 1985 - poco
dopo il ritorno del paese alla democrazia - per essere poi scarcerato qualche
anno dopo, grazie alle leggi di indulto varate dal governo di Carlos Menem. Nel
2007 anche grazie all'impegno dell'allora presidente Nestor Kirchner, la Corte
penale dichiarò incostituzionali le leggi di indulto, concedendogli però gli
arresti domiciliari, per l'età avanzata.
L'ex
capo militare, responsabile di assassini, torture, sparizioni, voli della morte,
ha affermato prima di non riconoscere i magistrati che che lo giudicano quali
suoi giudici naturali, e poi che “con questa sentenza si pretende di omologare
una decisione politica adottata con sentimento di vendetta da coloro che ieri
furono gli sconfitti” e ha continuato: “accetterò l'ingiusta condanna che
mi verrà inflitta per l'armonia e la pace del nostro paese, come un ulteriore
servizio che gli rendo. Non fu una guerra sporca - ha continuato Videla - ma una
guerra giusta che ha salvato il paese da giovani idealisti che hanno tentato di
imporre una cultura estranea al nostro stile di vita tradizionale, occidentale e
cristiano”.
Per
partecipare al pronunciamento della sentenza è arrivato a Cordoba anche il
premio Nobel per la Pace Adolfo Perez Esquivel, vittima anche lui delle violenze
della dittatura. Dopo aver ascoltato l'imputato, Pérez Esquivel ha ripudiato il
dittatore e ha ricordato che “prima che il governo annullasse le leggi di
impunità, si doveva ricorrere ai tribunali internazionali per chiedere
giustizia”. Questa sentenza chiuderà un processo iniziato con il ritorno alla
democrazia e porta Jorge Rafael Videla nel luogo che ha schivato per gli ultimi
25 anni, il carcere comune, anche se oggi a 85 anni compiuti gli rimane ben poco
da scontare.
Rappresentanti
delle associazioni come quella de Las Madres de Palza de Mayo, Abuelas, Hijos,
Familiari e tutte quelle che in questi anni si sono impegnate per avere
giustizia erano hanno assistito al processo, o hanno aspettato fuori dal
tribunali, molti altri si sono riuniti davanti agli schermi giganti sistemati
nei punti più importanti di Buenos Aires, e hanno potuto seguire in diretta il
pronunciamento della sentenza. Argentini commossi e convinti che anche se non
rivedranno mai più i loro cari, nè vivi nè morti, un pò di giustizia è
stata fatta. Dopo le ultime parole del giudice si è levato un coro: “30 mil
compañeros desaparecidos presentes! ahora y siempre!”.
Padre Luca: un volto amico per i lavoratori di Savar di Bruno Guizzi
Traggo
spunto da un articolo pubblicato il 22 dicembre da Ucanews,
interamente riportato nella versione inglese di Banglanews,
per darvene notizia anche nella versione italiana. Ho
però preferito non fare una pedissequa traduzione ma darvi
qualche notizia aggiuntiva. Si tratta di una nuova missione del Pime, sorta ad una trentina di chilometri a nord-est di Dhaka, Savar. L'area, che prima era aperta campagna, è stata man mano inglobata nella grande Dhaka e centinaia e centinaia sono le fabbriche di ogni tipo che producono beni destinati all'esportazione. Sono molte infatti le compagnie straniere che, approfittando del bassissimo costo dei salari, della mancanza di sindacati e delle facilitazioni fiscali, hanno stabilito la produzione in quest'area. Decine
di migliaia di lavoratori vengono in quest'area da tutto il paese. Alcuni
vengono con tutta la famiglia, la maggior parte da soli. E soli restano in un
ambiente spesso ostile sopratutto per i tribali o per le minoranze etniche e/o
religiose, che non trovano alcun luogo ove stare insieme, nei pochi momenti in
cui sono liberi dal lavoro. |
Il
centro che è diretto da padre Luca Galimberti, originario di Erba e Missionario
del PIME, è stato costruito dalla Novara Technical School allo scopo di creare
un ambiente confortevole per i ragazzi che, una volta diplomati dalla scuola,
arrivavano nell'area alla ricerca di un lavoro.
Già
da qualche anno padre Gianpaolo Gualzetti e, successivamente il compianto padre
Sandro Giacomelli, avevano iniziato la loro attività nella zona, spesso cercando
i fedeli casa per casa.
Il
ritorno di padre Luca Galimberti in Bangladesh (era stato precedentemente
parroco di Boldipukur) e la presenza delle Suore missionarie dell'Immacolata ha
permesso, da due anni, di dare nuova vita al centro.
Il
centro è appunto un posto in cui, oltre ad assistere alle celebrazioni
religiose, è possibile incontrare degli amici, passare un po’ di tempo in un
ambiente accogliente, trovare assistenza nelle varie dispute spesso generate
dall'ingordigia dei padroni o dalla disonestà dei proprietari delle case che
vengono date in affitto.
I
lavoratori sono infatti del tutto sprovveduti relativamente ai loro diritti e
spesso vengono imbrogliati dai datori di lavoro o da chi procura loro un posto
per dormire. Nel caso di quei lavoratori che hanno con sè una famiglia, c’è
poi il problema aggiuntivo dell’istruzione e del servizio sanitario per i
bambini.
Un’altra
necessità è quella di insegnare ai lavoratori a pianificare le proprie spese:
i tribali infatti non hanno l’abitudine di pensare al risparmio (ne sanno
qualcosa i nostri missionari che hanno creato le Credit Unions), pian piano però
la situazione sta cambiando.
E’
infine importante che i Cristiani mantengano, anche in un ambiente avverso, la
propria identità che troppo spesso sono costretti a disconoscere. E’
importante che questi Cristiani non si sentano soli, soprattutto nelle avversità,
ma che possano scambiare le proprie esperienze ed ottenere, ove necessario,
qualche consiglio o qualche informazione.
Lo
sappiamo bene che si tratta di una goccia d’acqua in un oceano, ma se non ci
fosse centinaia di lavoratori non avrebbero trovato un volto amico.
La
pastorale sociale è una delle attività in cui la Chiesa tutta deve,
soprattutto in questo periodo, essere attiva.
Squadroni della morte 'made in England' di Enrico Piovesana
PeaceReporter
- 28 dicembre 2010
Bangladesh: nuovi 'wikileaks' rivelano che la Gran Bretagna ha addestrato le famigerate 'camicie nere' dei Battaglioni di azione rapida (Rab), accusate di centinaia di omicidi politici e torture.
Tra i tanti 'wikileaks' usciti negli ultimi giorni, ce n'è uno che ha messo in forte imbarazzo il governo di Londra. Da un cablogramma del maggio 2009 inviato dall'ambasciatore americano in Bangladesh, James Moriarty, è emerso infatti che la Gran Bretagna addestra i locali 'squadroni della morte': le famigerate forze speciali dei Battaglioni di azione rapida (Rab) legate al Partito nazionalista bengalese (Bnp). |
Gli obiettivi prediletti dei Rab sono i militanti maoisti del Purba Banglar Communist Party (Pbcp) e quelli integralisti del Jama'atul Mujahideen Bangladesh (Jmb), del Jagrata Muslim Janata Bangladesh (Jmjb) e dell'Harkat-ul-Jihad-al Islami Bangladesh (HuJi-B). Ma a finire vittime della gestapo bengalese sono anche attivisti locali per la democrazia e i diritti umani, oppositori politici, sindacalisti e giornalisti.
Anche gli Stati Uniti non ne escono molto bene da questa vicenda. In un altro cablogramma dell'agosto 2008, l'ambasciatore Moriarty scrive che gli Usa vorrebbero tanto sostenere i Rab, ma purtroppo non possono perché la legge americana impedisce l'addestramento di forze accusate di violazioni di diritti umani.
Questa consapevolezza, come dimostra un cablo del gennaio 2009, non impedisce agli Stati Uniti di fare pressioni sulla premier bengalese Sheikh Hasina affinché ''non smantelli i Rab'', giudicati da Washington come ''la miglior forza antiterrorismo del paese'', quella ''nella miglior posizione per divenire un giorno la versione bengalese dell'Fbi''.
Messaggio e notizie da S.Paolo di Pe. Giovanni Murazzo
Il Mini-ponticello n° 10 - Ricevuto direttamente dall'autore
Amici carissimi
con
il cuore in festa, attraverso questo nuovo MINI-PONTICELLO, desidero darvi un
nuovo, piccolo ma autentico segno della mia presenza amica.
Messaggio
matalizio
Qual’é
il mio messaggio per il NATALE 2010 e per l’ANNO 2011?
Tra
i tanti e tanti che affiorano nel mio spirito, scelgo il seguente: GESÚ-LUCE,
dono di amore della Famiglia Trinitaria per ciascuno di noi, desidera nascere
nel cuore di ogni persona della famiglia umana con la collaborazione di ciascuno
di noi. Infatti “Nessuno che ha veramente incontrato GESÚ puó conservarlo
solo per sé”.
Come
“collaborare”? Con la “bacchetta magica” della spiritualitá della
“Dottoressa dell’Amore”: Santa Teresina del Bambino Gesú, protettrice
universale delle missioni, insieme a San Francesco Saverio.
Ecco
un germoglio (la festa di Natale non é uno speciale invito a prestar attenzione
ai “germogli”?) della sua spiritualitá: “Tutto ció che faccio, anche il
semplice gesto di raccogliere uno spillo, lo faccio per amore...
Quando
faccio fatica a camminare... cerco di dare ancora qualche passo... per
solidarizzare con qualche missionario stanco per i suoi viaggi apostolici”.
Desidero vivamente e prego insistentemente perché lo Spirito Santo ci conduca e ci introduca “nella veritá completa”: vivere questa spiritualitá cominciando nella nostra casa... senza mai dimenticare e desiderare che tutte le persone del mondo entrino a far parte di quella famiglia destinata ad abitare “in terra nuova con cieli nuovi”.
La
bella notizia!
Caríssimi,
ho una bella notizia da comunicarvi: é successo un miracolo qui in Brasile...
e, grazie a questo miracolo, il Beato Guido Maria Conforti, sará canonizzato,
cioé dichiarato Santo.
Qual’é
il miracolo? Tiaghigno, bambino nato con sei mesi e con il peso di settecento
grammi ebbe arresto cardiaco per circa mezz’ora ed é sopravvissuto. La
scienza medica non sa spiegare tale fatto.
Immagina
che, il tre di agosto scorso, Tiaghigno ha compiuto sette anni. É un bambino
normale, riesce bene a scuola, vivace, socievole, simpatico e affettuoso
come tutti i bambini della sua etá.
Ho
conosciuto Tiaghigno tre anni fa. Ho una foto con lui nelle mie braccia.
Immaginate se non mi sentivo felice portando questo “dolce peso!”
Non
mi sembra vero di aver avuto nelle mie braccia un segno del “potere e della
bontá miracolosa” della Santissima Trinitá a favore della Famiglia Saveriana
e di tutte le persone amiche che in qualche modo sono in relazione con i
Missionari Saveriani sparsi in diciotto paesi.
Per
me non solo é interessante, ma é interessantíssimo, che questo miracolo che
é determinante per la canonizazione del Beato Conforti e che poteva avvenire in
uno dei diciotti paesi dove c’é presenza saveriana (il miracolo per la
beatificazione é avvenuto in Burundi) sia avvenuto qui in Brasile.
Due
mesi fa, rispondendo alla lettera del Padre Generale, gli dicevo: “Per noi,
Saveriani del Brasile, questo miracolo é una grande benedizione e, allo stesso
tempo, una grande sfida".
Nel
mese scorso, insieme ai quattro confratelli della Direzione Regionale,
abbiamo nominato una commissione per valorizzare la BENEDIZIONE e per rispondere
alla SFIDA.
Non
sappiamo ancora la data della CANONIZZAZIONE... ma l’importante adesso é la
preparazione di questo grande evento.
AUGURISSIMI
per un Felice e Santo Natale e per un Anno Nuovo ancora piú Santo e piú
Felice. Una preghiera reciproca. In Gesú-amico il mio abbraccio
amico.
Pe. Giovanni Murazzo
Cacciati di casa migliaia di poveri, per favorire progetti edilizi e latifondi
AsiaNews
- Phnom
Penh - 21 dicembre 2010
Nella
Cambogia comunista le autorità favoriscono ambiziosi progetti urbanistici e
grandi coltivatori di zucchero e gomma. Danno i terreni alle grandi ditte,
togliendoli a poveri e piccoli agricoltori. Oltre 27mila persone cacciate nel
2009. Ora inizia a diffondersi la protesta pubblica.
I
residenti sul Lago Kak sono costretti a lasciare le loro case di legno, ora che
le acque del lago sono salite e hanno coperto tutto con un mare di fango. Questa
era una amena località turistica, ora è un mare di fango insalubre.
Il
Lago Kak è uno dei pochi spazi aperti rimasti vicino a Phnom Penh. Ci abitavano
circa 4mila famiglie, in povere case di legno. Il governo ha ignorato i diritti
di chi ci abita e ha ceduto il terreno in affitto per 99 anni alla ditta Shukaku
Inc., costruttore privato ritenuto vicino a politici del partito di governo. Sui
circa 130ettari, la ditta realizzerà edifici e centri commerciali e ha offerto
ai residenti un indennizzo da 1.500 a 8.500 dollari. Ma è basso e i residenti
lo hanno rifiutato. Allora le acque del lago hanno iniziato a salire.
Molti,
come Rolando Modina direttore regionale della ong internazionale Centro per i
Diritti Abitativi e le Evizioni, accusano la ditta di avere "cacciato con
la forza i residenti", gettando nel lago grandi quantità di sabbia, così
da farne salire il livello.
David
Pred, direttore esecutivo di Bridges Across Borders Cambodia, ong che difende i
diritti umani e civili, dice che "il messaggio per chi ancora abita sul
lago è di accettare l'indennizzo offerto, o saranno seppelliti dal fango".
Ora
stanno andando tutti via, ma molti non sanno dove, perché il denaro è
insufficiente per trovare una nuova casa. Sul lago abitano ancora oltre 1.000
famiglie, le più povere che non sanno dove andare.
Le
dispute per i terreni sono un grande problema sociale e causano di proteste di
massa in Cambogia, in modo simile a quanto avviene nella vicina Cina. Secondo
dati ufficiali delle Nazioni Unite, ritenuti molto sottostimati, nel 2009 ci
sono stati almeno 26 casi di espropri di massa e circa 27mila persone cacciate.
In
passato, i Khmer Rossi avevano abolito la proprietà privata dei terreni,
durante il loro governo negli anni 1975-1979. Inoltre durante la guerra e gli
anni successivi sono andati persi molti documenti di proprietà degli immobili.
Ora i terreni liberi intorno alla maggiori città sono sempre più rari e
interessano molto i costruttori, per realizzare nuovi quartieri residenziali e
moderni centri commerciali.
Il
risultato, denuncia Pred, è un devastante aumento degli espropri forzati
"per i rapidi investimenti speculativi nel mercato immobiliare, favorito
dall'endemica corruzione e dall'assenza di uno Stato di diritto". "I
poveri sono stati cacciati dalle loro case a Phnom Penh, che sta diventando
residenza esclusiva dei ricchi".
I
progetti di sviluppo della capitale si sono fermati durante la crisi finanziaria
globale del 2008, ma ora hanno ripreso. Nel 2009 il governo ha approvato una
legge per assegnare proprietà private per progetti di sviluppo pubblico.
Ma
anche nelle campagne sono frequenti gli espropri di piccoli appezzamenti di
terreno, per creare latifondi assegnati a grandi aziende per coltivare zucchero
e caucciù.
Per
la legge cambogiana, chi vive per almeno 5 anni in un luogo acquista il diritto
a starci. La gran parte dei residenti sul Lago Kak ci abitano dagli anni '80,
hanno organizzato numerose dimostrazioni di protesta, ma sono state sciolte
dalla polizia perchè il loro problema non interessa il governo.
Sok
Sambath, governatore del distretto di Daunh Penh della capitale, dove ricade il
Lago, dice soltanto che il progetto della Shukaku è "una buona cosa"
per la zona e che gli abitanti devono accettare l'indennizzo.
Intanto
il Lago, nota attrazione turistica, ora è pieno di dune di sabbia, ha perso la
sua bellezza, i turisti non vengono più, gli alberghi che li ospitavano stanno
chiudendo. L'intera economia della zona è stata sconvolta, per consentire il
progetto edilizio.
Lettera agli amici di p. Farnando Cagnin
Cina, Natale del Signore 2010
Carissimi amici
quando mi son messo a scrivere questa lettera, ho cominciato a percepire la gioia che viene dal sentire la vostra vicinanza e quella delle festività natalizie. Mi è venuto spontaeo canticchiare una melodia di Natale e questa ha subito incuriosito i miei vicini! Alcuni hanno cominciato a guardarmi con occhi pieni di meraviglia... Mi rendo conto di un fatto, magari ovvio, ma che merita un po' di riflessione e che condivido con voi.
Sì, le persone che nascono qui si sentono cinesi, quelle che nascono in Italia si sentono italiane e dovunque nascano si sentono del loro Paese. Comuque sia, nessuno nasce cristiano! Cristiani non si nasce, ma si diventa. Possiamo dire che si diventa a motivo di un dono che ci viene communicato attraverso la "trasmissione della fede",
talvolta dai genitori ai figli, altre volte con l'entusiasmo o l'eroicità di qualche santa persona; forse passa anche con una melodia canticchiata da un missionario, ma sempre avviene (anche senza saperlo) per un dono "dato" da Dio... Ma chi ha cominciato questa "trasmissione" dell'esperienza di "Dio con noi"? Tutti lo sanno: Dio stesso ha voluto entrare nella nostra storia con l'esperienza del Natale, un umile evento capace di portare serenità e speranza da un confine all'altro della terra.
Siamo in festa per fare memoria, per vivere e per trasmettere l'esperienza di "Dio con noi". Noi stessi diventiamo "cristo-fori e cristiani" cioè segnati dentro dal Suo amore e trasmettitori di una percezione della fede che ci riempie di sentimenti di pace, di fiducia e che ci stimola a un cambiamento di vita più buona.
Anch'io quindi vivo questa esperienza e la condivido come missionario in Cina. Qui, come sapete, vivo tra molte persone diversamente abili, che fanno difficoltà a trovare un posto in una società piena di gente esigente e ipsista, preoccupata dell'apparenza delle strutture sociali o del profitto personale, più che del sostegno delle persone svantaggiate, le quali preferirebbero vedere più giustizia e pari opportunità per tutti.
Ai nostri giorni, qui in Cina, ci sono pure moltissimi cinesi e occidentali alla ricerca di valori. Tante persone che si rendono disponibili con le loro risorse a portare aiuti e solidarietà nella carità fraterna. E' bello vedere che giovani universitari vengono a fare i volontari e, assieme alle persone più deboli che vivono con noi, si mettono a condividere le loro abilità facendo quadri e ceramiche che, proprio in questi giorni, possono far sfoggio della loro bellezza in uno dei più famosi musei della città di Canton. E' pure bello vedere i commercianti (che sembrano sempre occupati e preoccupati) venire a rilassarsi nella nostra fattoria; e poi, in semplicità, si mettono a cantare serenamente stando insieme ai diversamente abili... c'è anche chi stando insieme a loro va scoprendo le loro abilità e le loro genuine espressioni di serenità interiore e di spontanea simpatia.
L'insieme di tante esperienze positive ha anche portato il famoso attore Jet Lee e la sua fondazione a riconoscerci come una delle migliori organizzazioni non governative, vincendo pure un premio prestigioso... tutto questo è frutto anche del vostro continuo sostegno e della perseverante testimonianza di carità, di fratellanza, di preghiera e di annuncio di pace che avviene solo se si "trasmette" portando tutti a partecipare i doni di questa terra e quelli dello Spirito che, la grazia di Dio, dona e suscita in ciascuno di noi.
Il cristianesimo non è un insegnamento che ci mette in competizione con gli altri, ma è una semplice esperienza di giustizia e di carità, vivacizzata dalla percezione della presenza di "Dio con noi" e che ha un punto di partenza nell'avvenimento del Natale. Continuiamo a celebralo in serenità di cuore, magari canticchiando qualche bella melodia natalizia che contagi e trasmetta pace intorno a noi!
Tanti auguri
p. Fernando (Xu Guo Xian)
Per aiuti: Conto corrente postale: 39208202
Fondazione PIME Onlus Via Mosè Bianchi 94, 20149 MILANO
Causale: p. Fernando Cagnin
La Cina frena sul mattone
di Gabriele Battaglia
PeaceReporter
- 17 dicembre 2010
Stop
dei prestiti immobiliari a Shanghai. Una misura limitata per un'economia che
corre troppo
La
Cina mette un freno al surriscaldamento dell'economia prendendo di mira gli
investimenti nel settore immobiliare. In base a una decisione presa dalle
autorità locali, le banche che operano a Shanghai dovranno infatti interrompere
con effetto immediato l'elargizione di crediti immobiliari da qui a fine anno.
Sono
pochi giorni, è chiaro, così pochi da fare escludere un reale effetto
sull'economia. Ma la misura è comunque un segnale.
Mentre
il resto del mondo annaspa ancora nel credit crunch, in Cina si è infatti già
ripresentato da mesi il problema contrario. Troppa liquidità in circolazione,
sovente veicolata verso il cemento, per un boom delle costruzioni a cui non
corrisponde - ma qui il punto è controverso - altrettanta domanda. C'è
comunque il rischio che l'inflazione acceleri.
Già
da inizio 2010, le autorità hanno posto un freno al credito, forti del
controllo politico dell'economia che permette alla Cina di agire just in time.
Le misure sono state sostanzialmente due: decretare l'obbligo per le banche di
aumentare le proprie riserve obbligatorie e deviare d'ufficio parte dei crediti
a settori diversi da quello immobiliare.
Tuttavia
il mondo finanziario ha abilmente aggirato l'ostacolo, aumentando ulteriormente
i volumi di denaro in circolazione, rischiando cioè di far impazzire ancor più
l'inflazione.
Di
fatto, i nuovi prestiti concessi dalle banche di Shanghai a novembre hanno
raggiunto i 36 miliardi di yuan (quasi cinque milioni di euro), per un volume
complessivo in Cina che si avvicina pericolosamente a settemilacinquecento
miliardi, il tetto per il 2010 che Pechino ha stabilito proprio per non
surriscaldare troppo l'economia. Ed ecco che scatta la frenata imposta
dall'alto.
In
realtà la politica economica cinese deve tener conto di valutazioni molteplici,
spesso contrastanti: non si vuole far andare la macchina fuori giri, ma al tempo
stesso non si intende rallentare una crescita sostenuta, promessa di benessere
per un maggior numero di persone. E se invece questo boom fosse drogato e
favorisse chi è già ricco, acuendo le disparità sociali?
Così
le misure restrittive diventano mirate: Shanghai - capitale finanziaria e regno
del capitalismo "secondo caratteristiche cinesi" - e il settore
immobiliare, sempre sul punto di partire per la tangente.
Al
tempo stesso però non possono essere troppo incisive, ci sono troppi interessi
e gruppi di pressione in ballo: e così si spiegano i dieci giorni da qui al
2011, giusto per non sforare il tetto prestabilito dei crediti.
La
Cina "preoccupata" è pronta a sostenere la crisi del debito Ue
AsiaNews - Pechino - 21 dicembre 2010
Due alti funzionari del governo cinese confermano: Pechino è "pronta ad investire nella valuta europea", anche se al momento "siamo preoccupati" per la gestione della crisi del debito.
La
Cina "è molto preoccupata per il modo in cui la crisi del debito europeo
può essere controllata", ma è comunque "pronta a sostenere le misure
dell'Unione europea e del Fondo monetario internazionale per garantire la
stabilità finanziaria del Vecchio Continente". Lo hanno dichiarato fra
ieri e oggi due alti funzionari del governo cinese, sottolineando comunque
l'interesse del gigante asiatico per l'Europa.
Chen
Deming, ministro cinese del Commercio (v. foto), ha dichiarato: "Vogliamo
vedere se l'Unione europea è in grado di controllare i rischi sul debito
sovrano e se il consenso si possa tradurre in azioni reali per consentire
all'Europa di emergere presto e in buona salute dalla crisi finanziaria".
Anche
il vicepremier cinese Wang Qishan ha invitato l'Europa a tramutare le parole in
fatti: "La Cina appoggia le misure prese da Ue e Fmi per stabilizzare i
mercati finanziari e ha intrapreso azioni concrete per aiutare alcuni Paesi
europei a far fronte alla crisi del debito sovrano". "L'Europa - ha
aggiunto - ha preso misure per affrontare la crisi, ci auguriamo che esse
possano assicurare presto dei risultati". Le dichiarazioni sono avvenuti
all'apertura di una serie di incontri bilaterali fra Cina e Ue.
Gli
incontri, che si svolgono nel quadro del dialogo sino-europeo su questioni
economiche e commerciali, vedono coinvolti tra gli altri il Commissario Ue alla
concorrenza Joaquin Almunia, il Commissario Ue al commercio Karel de Gucht e il
Commissario agli affari economici e monetari Olli Rehn. "È nell'interesse
fondamentale della Cina e dell'Unione europea rafforzare la cooperazione",
ha dichiarato il vice primo ministro cinese.
L'interesse
di Pechino non è casuale: negli ultimi due anni, infatti, il governo cinese ha
investito una "parte considerevole" delle proprie riserve di valuta
straniera nella moneta unica europea. Il valore totale degli investimenti
stranieri tocca i 265o miliardi di dollari, e la Cina è interessata a mantenere
alto il valore delle proprie obbligazioni straniere.
La
legge del figlio unico schiavizza il corpo delle donne
AsiaNews - Pechino - 22 dicembre 2010
Un
rapporto di Chrd denuncia l'assoluto controllo sulla vita delle donne a causa
della legge del figlio unico: visite ginecologiche forzate; aborti fino al nono
mese; sterilizzazioni; impianti contraccettivi. L'arbitrio dei capi locali che
usano le multe per arricchirsi. La legge del figlio unico "ancora per 5
anni" almeno.
Le
donne cinesi non hanno alcun potere di scelta sul loro corpo e sono sottoposte a
continue umiliazioni e sofferenze a causa della legge sul figlio unico. Almeno
tre volte all'anno devono presentarsi obbligatoriamente a una visita
ginecologica (per verificare che non siano incinte); dopo il primo figlio, sono
forzate a usare la spirale intrauterina; sono costrette alla sterilizzazione e
all'aborto forzato (anche fino a nove mesi del feto).
È
il quadro agghiacciante che emerge da un rapporto pubblicato ieri dal Chrd
(China Human Rights Defenders), dal titolo "Non ho alcuna scelta sul mio
proprio corpo", che elenca le violazioni ai diritti umani subiti da uomini
e donne - ma soprattutto dalle donne - a causa della legge sul figlio unico,
varata 30 anni fa per il controllo drastico della popolazione.
La
pubblicazione verifica la sua incidenza negli ultimi cinque anni. Sebbene da
molte parti si parla di una sua edulcorazione, e vi sono voci su una sua
possibile cancellazione, il rapporto mostra invece che il controllo sulla
popolazione e la legge sul figlio unico sono tuttora attuati con violenza.
Il
rapporto è pieno di testimonianze che mostrano:
a) la pressione che si esercita sulle donne maritate e già con un figlio, perché
inseriscano la spirale o si facciano sterilizzare, privandole di ogni scelta
sulla scelta dei metodi di controllo delle nascite;
b) una lunga serie di aborti forzati per tutte le donne incinte fuori delle quote
previste dagli uffici per il controllo della popolazione. Molte ragazze
adolescenti, coinvolte in rapporti prematrimoniali sono costrette ad abortire
anche al sesto o nono mese di gravidanza. Il rapporto cita l'esempio di Liu Dan,
una ragazza di Liuyang (Hunan), incinta prima dell'età del matrimonio. Il suo
bambino avrebbe dovuto nascere il 5 marzo 2009. Una settimana prima di quella
data, Liu è stata presa dagli impiegati del family planning e forzata ad
abortire. Liu e suo figlio sono morti sul lettino della sala operatoria.
c) Uomini e donne che hanno violato la legge del figlio unico sono stati puniti con
detenzioni arbitrarie, battiture, multe, esproprio di beni; altri sono stati
licenziati; ai loro bambini nati fuori dalla "quota" viene negata la
registrazione anagrafica (e l'esclusione dalle cure sanitarie, dalla scuola,
ecc..). Spesso le punizioni vengono operate anche su tutti i familiari. Tutto ciò
mostra che - contrariamente a quanto la Cina giura nelle assemblee
internazionali - la politica del figlio unico e il controllo sulla popolazione
avviene ancora attraverso mezzi coercitivi.
Nel
rapporto, si mostra che la legge non è applicata ovunque allo stesso modo, e la
sua interpretazione è lasciata al volere o al sentimento dei capi locali. Ma
ovunque i burocrati del family planning ricevono premi e incentivi se riescono a
raggiungere le quote stabilite in sterilizzazioni, aborti, spirali, ecc...: un
vero mercato sulla pelle delle persone.
Anche
le multe che vengono comminate differiscono da luogo a luogo, ma rimangono una
fonte importante di introiti per i governi locali, soprattutto nelle zone
rurali. L'arbitrio con cui vengono maneggiate le multe apre un ampio spazio alla
corruzione.
Chrd
conclude il suo rapporto domandando al governo cinese di perseguire i burocrati
che hanno violato i diritti dei cittadini con la scusa di attuare la legge del
figlio unico, e di abolire il programma di controllo sulla popolazione.
Tale
programma ha di fatto distorto la demografia della Cina, creando un grave
sbilanciamento nell'equilibrio fra maschi e femmine e un rapido invecchiamento
della popolazione.
Proprio
alcuni giorni fa, il 20 dicembre, il capo del family planning a Pechino, Li Bin,
ha ribadito che la politica del figlio unico resterà immutata almeno "per
i prossimi cinque anni".
Farc: 5 prigionieri presto liberi in onore
di Piedad Cordoba di Stella
Spinelli
PeaceReporter - 17 ducembre 2010
Saranno
liberazioni unilaterali per dare un segnale forte
dell'intenzione della guerriglia di procedere sulla via
della pace e per sottolineare l'ingiustizia che ha portato
all'allontanamento della ex senatrice dalle cariche
pubbliche Le
Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc) hanno
annunciato la liberazione unilaterale di cinque prigionieri
di guerra da anni nelle loro mani, quale gesto di solidarietà
nei confronti della ex senatrice Piedad Córdoba, estromessa
dalla vita pubblica nel settembre scorso per decisione del
procuratore generale Alejandro Ordoñez. Il motivo, l'aver "collaborato e promosso le Farc durante il periodo compreso fra il 15 agosto e il 20 novembre 2007 e di aver continuato anche nei mesi dopo, fino al 2010". Un'accusa pesante e non corroborata da nessuna prova, e che suona quale persecuzione politica per il ruolo centrale ricoperto dalla politica liberale, molto vicina al venezuelano Hugo Chavez, nei processi di liberazione che proprio da quel novembre 2007 si sono susseguiti con grande successo. |
In una lettera indirizzata
proprio alla Cordoba, le Farc, nel ringraziarla per l'impegno dimostrato, le
annunciano la decisione quale segno di riconoscenza.
"Spinti
dal più giustificato degli imperativi etici, ci rivolgiamo a lei per
esprimerle, in questo momento cruciale della sua vita politica, tutta la nostra
solidarietà incondizionata per il brutale sopruso subito dalla Procura Generale
della Nazione contro il suo sforzo umanitario per la pace in Colombia - scrive
il Segretariato delle Farc -. La decisione del Procuratore è una vera buffonata
giuridica e politica, scaturita dalla pressione malata, dall'odio e dalla
rappresaglia dell'ex presidente Uribe, capo indiscutibile, finora impunito, del
paramilitarismo e della para-politica colombiana".
La
lettera continua annunciando le liberazioni, precisando che avverranno in base
alle garanzie che il governo Santos saprà fornire, e imponendo quale
imprescindibile condizione che sia la ex senatrice a ricevere i prigionieri, in
barba alla decisione di Ordoñez. Il quale, secondo le Farc, "è più
prevaricatore che procuratore. Inabilitando per diciotto anni la senatrice,
pretendendo la sua morte poltitica, non solo esagera usurpando funzioni proprie
del Consiglio di Stato, ma lo fa in relazione a presunti dati contenuti in un
computer (quello di Raul Reyes, numero due delle Farc ucciso nel marzo 2008 ndr)
che quindi non possono costituire prova giuridica perché prima manipolati dalla
piolizia". Quindi ancora: "In questo caso non c'è diritto alla
difesa, né al dovuto processo. Nessuno ha giudicato Piedad Córdoba.
Paradossalmente, i funzionari delinquenti che la spiavano per incriminarla
adesso fuggono all'estero cercando di farsi gioco della giustizia".
Eppure
le Farc insistono ricordando come la Córdoba abbia agito con l'avallo
dell'Esecutivo e rispettando i dettami della Costituzione. "Non esiste
nessuna Farc-politica - come avevano definito il modus operandi della ex
senatrice durante la mediazione - si tratta di un termine ingannevole ideato dal
capo paramilitare che ha occupato la presidenza della Repubblica per otto anni
(Alvaro Uribe ndr.) per sviare l'attenzione sulle sue responsabilità penali nel
caso della para-politica". Si tratta di uno scandalo che da anni infanga la
politica colombiana. Paramilitari armati e senza scrupoli sono stati usati per
compravendita di voti e propaganda armata in favore di alcuni partiti politici
tutti legati a Uribe. "Il capo paracos, Salvatore Mancuso, si è spesso
vantato del fatto che il trenta percento dei parlamentari erano stati eletti
grazie al suo intervento e che grazie a pressioni, frodi elettorali e
finanziamenti in dollari, il paramilitarismo aveva contribuito a eleggere per
ben due volte il presidente della Repubblica". Per questo, secondo
l'organizzazione guerrigliera più longeva al mondo, non può esistere
un'equivalente Farc-politica, visto che "mai la guerriglia ha cercato di
orientare la gente a votare per Piedad Córdoba. Non abbiamo mai partecipato a
dibattiti elettorali da quando l'intransigenza dell'oligarchia ha massacrato l'
Unión Patriótica (il partito politico che incarnava i principi della
guerriglia e che è stato sterminato in pochi anni nel sangue ndr.)".
Nella
lettera l'organizzazione guerrigliera si rivolge anche al paese, invitandolo a
lavorare per la costruzione di un'alternativa politica alla guerra, iniziando a
ribellarsi al tentativo di "convertire in delitto la lotta per la
pace". Quindi le Farc ribadiscono la volontà di arrivare a una pace,
precisando che il tavolo di dialogo dovrà essere corroborato da un'Assemblea
nazionale costituente che dia concretezza alla pace.
E
quindi via con la lista di coloro che torneranno liberi: il maggiore di polizia,
Guillermo Solórzano; il capo dell'esercito Salín Sanmiguel, il soldato di
marina Henry López Martínez, e i presidenti del consiglio municipale di San
José del Guaviare, Marcos Vaquero, e di Garzón, Huila Armando Acuña. Scambi
unilaterali, che però non significano il venir meno della ricerca dello scambio
umanitario. "Continuiamo nel proposito di cercare che venga liberato Simón
Trinidad - esempio del decoro e della fermezza del rivoluzionario delle Farc, e
il ritorno dei nostri dalle carceri statali". Quindi concludono:
"Senatrice, condividiamo con lei e con l'immensa maggioranza dei nostri
compatrioti che la guerra non può essere il futuro della Colombia".
Una
lettera a cui Córdoba ha già risposto, dicendo come questo annuncio alimenti
la speranza in una soluzione politica del conflitto sociale e armato interno, e
precisando che il governo l'ha già autorizzata a lavorare per concretizzare le
suddette liberazioni. E infatti, la ex senatrice ha già incontrato i familiari
degli ostaggi indicati dalle Farc, supervisionata dal portavoce del governo,
Eduardo Pizarro Leongómez. Nel tranquillizzarli sulle concrete speranze di
buona riuscita di questo processo di liberazione, ha precisato che comunque non
avverrà prima di un mese.
Crisi politica: preoccupazione per situazione umanitaria e nuove
sanzioni
Misna
- 22 dicembre 2010
E'
in corso a Ginevra una sessione speciale del Consiglio dei diritti umani
dell'Onu sulla preoccupante situazione umanitaria creatasi in Costa d'Avorio,
precipitata in una crisi post-elettorale dall'esito incerto. L'incontro alla
sede del Consiglio è stato richiesto dal gruppo dei paesi africani, guidato
dalla Nigeria, e dagli Stati Uniti. In un scenario definito dalle Nazioni Unite
come "delicato e pericoloso", le popolazioni civili già stremate da
otto anni di conflitto politico-militare sono le prime vittime del braccio di
ferro tra i due contendenti della poltrona presidenziale, Laurent Gbagbo e
Alassane Ouattara. "Oltre alle gravi violazioni dei diritti umani
perpetrate ai danni dei civili c'è un rischio immediato in termini di
sicurezza, che si sta continuamente deteriorando" secondo la Federazione
internazionale dei diritti umani (Fidh). Una situazione umanitaria difficile
denunciata da un gruppo di donne scese in strada a Port-Bouet, quartiere
popolare della capitale Abidjan: al suono di pentole e latte hanno protestato
contro i rapimenti notturni e le incursioni nelle case degli abitanti attribuiti
a uomini armati fedeli a Gbagbo. Già Domenica la stessa Onu aveva confermato
massicce violazioni dei diritti umani in atto nel paese dell'Africa occidentale
che hanno provocato finora una cinquantina di vittime. La paura diffusa per
l'evolversi dello scenario ha già portato almeno 11.000 ivoriani, per lo più
donne e bambini, a fuggire in Liberia, Guinea e Ghana, secondo la commissione
per gli aiuti umanitari dell'Unione Europea (UE) che ha appena sbloccato cinque
milioni di euro per sostenere sul terreno gli operatori umanitari. Nelle ultime
ore proteste pacifiche si sono svolte anche nella città di Bouaké (centro),
feudo dell'ex-ribellione delle 'Forze Nuove' che sostiene Ouattara, per chiedere
il "mantenimento della locale missione Onu (Onuci)" e "la
partenza di Gbagbo" grazie ad un intervento esterno. A sollecitare
apertamente un intervento "con la forza" è stato l'ex-capo ribelle
Guillaume Soro, ex-primo ministro di Gbagbo e ora a capo dell'esecutivo di
Ouattara. In dichiarazioni diffuse da un'emittente francese Soro ha chiesto
"al Consiglio di sicurezza dell'Onu, all'Unione Europea, all'Unione
Africana e alla Comunità economica dei paesi dell'Africa occidentale (Ecowas/
Cedeao) di pensare al ricorso alla forza dopo pressioni e sanzioni che non hanno
ancora portato ad una soluzione". Alla luce della crescente instabilità in
Costa d'Avorio, Francia, Germania e Svezia hanno raccomandato ai propri
concittadini di non recarsi in viaggio nel paese o a lasciarlo almeno
"provvisoriamente". Stessa misura è stata decisa da Abuja che ha
fatto rimpatriare suo personale diplomatico ad Abidjan dopo l'attacco perpetrato
ieri ai danni dell'ambasciata della Nigeria nella capitale ivoriana. Nel
frattempo sul fronte diplomatico si aggiungono altre sanzioni nei confronti
della Costa d'Avorio dopo quelle già formalizzate da Unione Africana e Stati
Uniti. Dopo sanzioni di principio decise lunedì, oggi i 27 paesi membri della
UE hanno confermato per iscritto misure restrittive nei confronti del presidente
autoproclamato Gbagbo e di 18 personalità a lui vicine. Il presidente della
Banca mondiale, Robert Zoellick, ha invece annunciato che l'istituzione
finanziaria ha deciso di bloccare i suoi finanziamenti destinati alla Costa
d'Avorio fin quando la situazione politico-istituzionale non si chiarirà. [VV]
La
posta in gioco per l'Africa ... e per le grandi potenze
Misna
- 24 dicembre 2010
C'è
grande attesa tra gli ivoriani e la comunità internazionale per i provvedimenti
che la Comunità economica dei paesi d'Africa occidentale (Ecowas/Cedeao)
potrebbe adottare durante il vertice straordinario previsto oggi ad Abuja
(Nigeria): un incontro urgente teso a risolvere la crisi politico-istituzionale
creatasi in Costa d'Avorio dopo il controverso risultato delle presidenziali del
28 novembre. Ormai da giorni si accentuano le pressioni esercitate da potenze
occidentali, come Francia e Stati Uniti, così come da Onu, Unione Africana (UA)
e Unione Europea (UE) sull'autoproclamato presidente Laurent Gbagbo con sanzioni
e pressanti richieste di lasciare il potere, mentre il suo contendente, Alassane
Ouattara, gode di sostegno e riconoscimento. Nelle ultime ore si sono
moltiplicate le consultazioni anche con la dirigenza della Cedeao, organismo
regionale di cui Abidjan è membro, e oggi tutti hanno lo sguardo puntato su
Abuja in attesa di "una presa di responsabilità" riferisce il sito
d'informazione 'Abidjan.net', cioè di una decisione in grado di risolvere il
braccio di ferro politico che minaccia di sfociare in conflitto armato. Di fatto
è già stata ventilata la possibilità di un intervento militare africano in
Costa d'Avorio, "una responsabilità che è dei capi di Stato
africani" ha detto Henri de Raincourt, ministro della cooperazione
dell'ex-potenza coloniale francese, in prima fila, come è solita, nelle
iniziative diplomatiche in corso. L'atteggiamento di Parigi, Washington e New
York non manca di suscitare sospetti e critiche da parte di associazioni di
difesa dei diritti umani e osservatori, africani e non, che vedono dietro
l'eccessivo interventismo soliti giochi di potere e interessi economici da
tutelare. A monte dell'esplosiva situazione odierna "c'è una grande
responsabilità delle potenze occidentali e dell'Onu: sapevano bene che le
condizioni di un voto trasparente, soprattutto nel Nord, non potevano essere
garantite in assenza di riunificazione del territorio" affermano i
responsabili dell'associazione francese 'Survie'. In un comunicato dal titolo
molto esplicito, "La Francia piromane non deve giocare al vigile del
fuoco", viene anche ricordato il coinvolgimento e le responsabilità di
Parigi nella crisi che da otto anni destabilizza la sua ex-colonia. "Era
illusorio credere che le elezioni avrebbero portato il paese africano fuori
dalla crisi - sottolinea 'Survie' - a questo punto urge imboccare la strada
della pacificazione e della distensione tra gli attori della crisi".
Secondo l'associazione francese, "per evitare di far precipitare la Costa
d'Avorio nella violenza" una comunità internazionale responsabile dovrebbe
"smetterla di riconoscere la vittoria di uno dei candidati", ma
soprattutto allontanare "l'idea o l'illusione che una soluzione di forza
possa essere imposta ad un paese ancora diviso". In questa chiave 'Survie'
suggerisce il ritiro delle truppe francesi della missione 'Licorne' per
privilegiare se necessario il potenziamento della locale missione Onu, nota come
'Onuci'. Intanto sul terreno, oltre alle popolazioni ivoriane, prime vittime, a
patire le conseguenze umane ed economiche della crisi post-elettorale ivoriana
sono tutti i paesi dell'Africa occidentale. Il blocco prolungato delle attività
economiche e commerciali ivoriane sta 'impoverendo' la stessa Cedeao, il cui
Prodotto interno lordo (Pil) viene realizzato al 40% dalla sola Costa d'Avorio
grazie alle sue produzioni di cacao, caffè, banane e le sue ricche risorse
minerarie (oro, ferro, petrolio, manganese). Con la chiusura delle frontiere e
le misure restrittive, come il coprifuoco, viene paralizzata l'attività dei
porti ivoriani (Abidjan, Port-Bouet) ma anche il trasporto e la
commercializzazione delle merci verso i vicini Mali, Burkina Faso e Niger con
ingenti perdite economiche per l'intera regione. (A cura di Veronique
Viriglio)[VV]
Contratto di 35 miliardi tra Russia e India per costruire 300 aerei da caccia
AsiaNews - New Delhi - 22 dicembre 2010
Mosca
e Delhi progetteranno e costruiranno insieme aerei da caccia della 5°
generazione. Il presidente russo Medvedev, in visita in India, rinsalda i vecchi
legami e dichiara di sostenerla per un seggio permanente al Consiglio di
Sicurezza Onu. Previsto di raddoppiare i commerci in 5 anni.
La
Russia fornirà all'India aerei jet caccia e missili e costruirà altri reattori
nucleari. Inoltre ieri, durante la visita in India del presidente russo Dmitry
Medvedev, i due Paesi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che "la
Federazione russa sostiene l'India come un degno e forte candidato per un seggio
permanente in un allargato Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite".
La
dichiarazione si unisce a quelle favorevoli di Stati Uniti e Francia, mentre
anche la Gran Bretagna non appare contraria. Solo la Cina non ha chiarito la
propria posizione: i due Paesi sono tradizionali rivali, anche se i loro
rapporti sono molto migliorati di recente, e Pechino vede con sfavore che anche
il Giappone abbia identica ambizione. Il premier cinese Wen Jiabao, durante la
visita in India una settimana fa, si è limitato a dire che "comprende e
sostiene l'aspirazione dell'India a giocare un maggior ruolo nelle Nazioni
Unite, compreso il Consiglio di sicurezza".
La
Russia è uno stretto partner politico ed economico dell'India dai tempi
dell'Unione Sovietica e per decenni ne è stata il principale fornitore di armi.
Di recente New Delhi ha voluto rivolgersi anche ad altre fonti e ha allacciato
forti rapporti con gli Stati Uniti. Gli scambi commerciali con Mosca sono di
circa 10 miliardi di dollari nel 2010, ma i due Paesi prevedono portarli a 20
miliardi entro il 2015.
La
dichiarazione ufficiale parla di un lavoro comune per la progettazione e la
costruzione di 250-300 aerei caccia della 5° generazione, in 10 anni, per un
valore di circa 35 miliardi di dollari. A gennaio la Russia ha sperimentato un
prototipo per la 5° generazione, il PAK FA (nella foto). Il Paese ha vinto
l'agguerrita concorrenza di Stati Uniti ed Europa per la fornitura.
Mosca
costruirà pure altri reattori nucleari per l'impianto per fini energetici nel
Tamil Nadu. L'India, per colmare la sua fame d'energia, progetta di espandere di
15 volte la sua produzione attuale di energia nucleare e di arrivare per il 2032
a 63mila megawatt.
Medvedev,
accompagnato da un'ampia delegazione di imprenditori, ieri ha anche incontrato
il premier indiano Manmohan Singh e il presidente del Partito del Congresso
Sonia Gandhi. Oggi è a Mumbai, capitale finanziaria del Paese e visiterà
l'emergente centro cinematografico di Bollywood.
Vescovi indonesiani: gli islamici radicali stanno colonizzando il Paese
di
Mathias Hariyadi
AsiaNews -Jakarta - 24 dicembre 2010
Il
vescovo di Padang mette in guardia contro la diffusione dell'ideologia islamica
radicale, in modo sistematico e organizzato. Sotto accusa le autorità
politiche, incapaci di frenare le violenze. Intanto la polizia dovrà vigilare
per timore di violenze anticristiane per il Natale.
Mons.
Mathinus D Situmorang, presidente della Conferenza dei Vescovi indonesiani, ha
messo in guardia i leader politici contro il grave pericolo per la convivenza
sociale causato dalle crescenti azioni violente dei gruppi fondamentalisti
islamici. Il vescovo di Padang (Sumatra occidentale), in occasione di una
riunione dell'Associazione Studenti Cattolici Universitari Indonesiani, ha
criticato "uno Stato senza potere" che non sa fermare le decine di
incursioni attuate dai gruppi estremisti contro chiese e cristiani.
"Nel
passato - ha detto il vescovo - l'Indonesia è stata occupata e colonizzata da
poteri stranieri. La situazione di oggi non è molto differente, poiché siamo
dominati da questi cittadini indonesiani".
Di
recente decine di seguaci dell'Islamic Defender Front (Fpi) hanno assalito,
occupato e sbarrato 2 locali di culto a Rancaekek, Reggenza di Bandung,
provincia di Java occidentale. Il vescovo ha spiegato come l'intolleranza
religiosa si stia propagando e cresca anche tra la gente comune. Ha detto che
questi fondamentalisti non avevano pretesti legali per la loro azione, a parte
la circostanza che questi luoghi di culto non avevano il permesso edilizio.
La
situazione peggiora perché le forze di sicurezza non intervengono contro gli
islamici, per ragioni che non si spiegano. "Lo spirito dell'intolleranza -
ha proseguito - trova terreno fertile per interessi politici".
A
Parung, Reggenza di Bogor, le autorità locali hanno emanato un divieto
ufficiale alla chiesa parrocchiale San Giovanni Battista di svolgere le
celebrazioni per il Natale. "Se alcune comunità cristiane in Indonesia
tengono le celebrazioni rituali sulla strada o all'aperto, questo deve avvenire
solo per motivi di emergenza. Altro è che un'autorizzazione per costruire una
chiesa non possa essere ottenuto da anni". "Se il governo e le autorità
locali sono bloccati da ogni gruppo islamico estremista, la situazione peggiorerà
e la sovranità dello Stato sarà con probabilità 'ceduta' a gruppi illegali
che compiranno azioni contrarie alla legge".
Alla
fine, i circa 3mila cattolici della parrocchia S. Giovanni Battista potranno
celebrare il Natale presso le suore locali.
Il
ministro della Difesa Purnomo Yusgiantoro, cattolico, ha negato le accuse e ha
affermato che ogni attività violenta sarà punita.
Ma
mons. Situmorang ha insistito nella critica contro "uno Stato senza
potere" e incapace ad affrontare il problema. "Noi - ha affermato -
siamo orgogliosi di appartenere a una società multiculturale, dove lo spirito
di intolleranza tra seguaci di fedi diverse sia ridotto".
Oggi,
già ore prima dei riti natalizi, nel Paese sono in corso misure di sicurezza,
con migliaia di poliziotti dislocati vicino alle chiese. Nella sola Jakarta sono
stati schierati almeno 8mila poliziotti, a Bali la polizia presidia ogni zona
strategica comprese le chiese.
Uno
studio dell'Istituto Setara per la Democrazia e la Pace avverte che, sebbene le
azioni violente siano state compiute soprattutto dal famigerato Fpi, molta gente
è preoccupata per le azioni meno clamorose realizzate da altri gruppi islamici
radicali. In specie questi gruppi ricevono sempre più sostegno da cittadini e
iniziano ad attirare gruppi liberali e clerici moderati.
Si
parla persino di esponenti radicali "infiltrati" nel Consiglio degli
Ulema Indonesiano (Mui), principale associazione dei chierici islamici del
Paese, cui è riconosciuta una grande influenza morale e anche politica.
Secondo
Setara, tra i gruppi violenti ci sono, oltre al Fpi, anche l'Islamic Reform
Movement (Garis) e l'Islamic People's Forum (Fui). Il rapporto dice che
"nel 2005, il capo Fui Al Khaththath... è entrato nel gruppo dirigente del
MUI". Durante il comitato direttivo del 2005, Al Khaththath è stato tra
quelli che "ha chiesto con forza che il Mui emanasse un editto per proibire
la pratica dell'Islam liberale".
Il fronte interno
di Christian Elia
PeaceReporter
- 15 dicembre 2010
Attentato
contro gli sciiti nella regione sunnita del Paese
Il
Sistan Balucistan è molto lontano dal suo stesso nome, ricco di spezie, che
sussurra di orientalismi e mille e una notte. La realtà è dura, fa male. Terra
di arabi, tessera impazzita di un mosaico persiano. Terra di sunniti, pennellata
in un quadro sciita. Terra di baluci, divisi da un confine, tra Iran e Pakistan.
Sono
almeno trentotto le vittime di un attentato avvenuto questa mattina a Chabahar,
nell'Iran sudorientale, provincia di Sistan-Balucistan, al confine con il
Pakistan. Secondo la prima ricostruzione dei media, sarebbe stato un attentato
suicida: un uomo si è fatto esplodere davanti alla moschea sciita dell'Imam
Hussein, dove fervono i preparativi per la festa dell'Ashura, la commemorazione
dello stesso imam, ucciso in battaglia a Kerbala, nel 680 D.C.
Una
lotta di potere allora, tra i pretendenti al 'trono' del Profeta, che morendo
aveva scatenato la 'fitna' - lotta interna all'Islam - per la sucessione. Oggi,
a certe latitudini, è ancora così. La popolazione della regione soffre il
centralismo persiano-sciita di Teheran. Loro, arabi e sunniti, si sentono
discriminati. Un gruppo di loro, chiamato Jundallah, ha dichiarato guerra a
Teheran. La magistratura di Teheran ha già puntato i riflettori sul gruppo che,
il 24 febbraio 2010, ha subito un colpo durissimo: la cattura di Abdul Malek
Rigi, comandante di Jundallah. Un attentato, proprio alla vigilia della festa
sciita più importante, sarebbe un colpo mediatico importante.
In
realtà, da anni, il regime degli ayatollah accusa Jundallah di usare la
motivazione religiosa per nascondere i veri fini: quelli politici degli Usa,
finanziatori del movimento. Le motivazioni sono varie, prima tra tutte la volontà
di destabilizzare il regime. Un oleodotto, poi, che passerebbe proprio in
Balucistan. Rigi, prima di essere intercettato dai corpi speciali iraniani, era
stato a un incontro segreto con Richard Holbrooke - morto ieri, 14 dicembre 2010
- inviato speciale del Dipartimento di Stato Usa per l'area
Afghanistan-Pakistan. Gli Usa finanziano Jundallah, che si finanzia anche con il
traffico di droga e di esseri umani. La lotta, quindi, si arricchisce di tanti
temi spinosi, ma quello religioso non è secondario, almeno nella percezione
della popolazione locale.
L'ultimo
affronto di Teheran ai sunniti iraniani, circa il nove percento della
popolazione, ma privi di qualsiasi riconoscimento ufficiale, è stato l'arresto
dei due figli del più importante imam sunnita, Maulana Abdulhamid Esmail-Zehi.
Una punizione, dicono i siti vicini all'opposizione iraniana, per le denunce di
Maulana, che ha accusato Teheran di aver vietato, il venerdì, la preghiera ai
sunniti nelle moschee. Sciite, perché quelle sunnite sono bandite sia nella
capitale che altrove nel Paese. L'unica regione dove sono 'tollerate' è proprio
il Sistan-Balucistan. Ora che la situazione diventa sempre più tesa tra l'Iran
e l'Arabia Saudita - come ha confermato una serie di file pubblicati da
WikiLeaks, i sunniti sono visti dal regime come quinta colonna da sgominare. Una
minoranza, però, che pare in grado di reagire.
In aumento i cristiani iracheni in fuga
Repubblica
- 20 dicembre 2010
L'UNHCR: "Non rimandateli indietro". L'Alto commissariato delle Nazioni unte per i Rifugiati ribadisce l'appello di astenersi dall'allontanare gli iracheni originari delle aree più pericolose del paese. C'è un preoccupante incremento del numero di persone in fuga dalla capitale, da Mosul verso il Governo Regionale del Kurdistan (GRK) e gli altipiani di Ninewa. Interessati anche gli uffici Onu in Siria, Giordania e Libano
La Svezia ha di nuovo rimpatriato forzatamente un gruppo di circa 20 iracheni a Baghdad. Questo gruppo, rimpatriato alla vigilia della Ashura, comprendeva anche cinque cristiani originari di Baghdad. Lo staff dell'UNHCR a Baghdad ha intervistato tre dei cristiani e tre dei musulmani iracheni che facevano parte del gruppo e tutti hanno confermato di essere originari della capitale irachena. Uno dei cristiani ha affermato di essere fuggito dall'Iraq nel 2007, dopo che i miliziani lo avevano esplicitamente minacciato di morte. Temendo per la propria vita, l'uomo ha raccontato di aver viaggiato attraverso diversi paesi in Medio Oriente e in Europa prima di arrivare in Svezia, dove aveva inoltrato la sua richiesta di asilo. La
sua richiesta è stata rifiutata per tre volte nel 2008 perché l'uomo non è
stato riconosciuto come bersaglio di minacce. Gli altri con cui l'UNHCR è
entrato in contatto hanno affermato che le loro richieste d'asilo sono state
rigettate in seguito al miglioramento delle condizioni di sicurezza in Iraq. |
No ai reimpatri in zone pericolose.
L'UNHCR ribadisce con forza la sua richiesta a
tutti i paesi di astenersi dall'allontanare gli iracheni originari delle aree più
pericolose del paese. Questi rimpatri forzati avvengono proprio in un periodo in
cui i cinque uffici dell'UNHCR in Iraq stanno notando un preoccupante incremento
del numero di cristiani in fuga da Baghdad e Mosul, che si dirigono verso il
Governo Regionale del Kurdistan (GRK) e gli altipiani di Ninewa. Dall'assalto
alla chiesa di Baghdad del 31 ottobre e dai successivi attacchi mirati, le
comunità cristiane di Baghdad e Mosul hanno iniziato un lento ma costante
esodo. Dall'inizio di novembre sono arrivate circa 1.000 famiglie. L'UNHCR ha
sentito molti racconti di persone in fuga dalle proprie abitazioni dopo essere
state minacciate. Alcune di loro sono state in grado di prendere con sé solo
pochi oggetti personali. Gli uffici dell'UNHCR hanno fornito i primi aiuti
d'emergenza e sono in contatto con le autorità locali per assicurarsi che i
cristiani recentemente sfollati ricevano supporto e assistenza.
Quell'attacco alla chiesa in ottobre.
Inoltre, gli uffici dell'UNHCR in Siria, Giordania e
Libano riferiscono di un incremento nel numero di cristiani iracheni in arrivo
che richiedono all'UNHCR di essere registrati e aiutati. Le chiese e le ONG
hanno già previsto un ulteriore aumento di persone in fuga nelle prossime
settimane. Molti dei nuovi arrivati hanno spiegato di essere fuggiti per i
timori suscitati dall'attacco alla chiesa del 31 ottobre scorso. Da novembre, in
Siria circa 133 famiglie (300 persone) sono state registrate dall'UNHCR. La
maggior parte di loro è fuggita dall'Iraq dopo l'attacco alla chiesa di Baghdad
di ottobre. In Giordania, il numero di registrazioni di cristiani nei mesi di
ottobre e novembre è raddoppiato rispetto allo stesso periodo dello scorso
anno. A settembre sono stati registrati 57 cristiani, mentre nei mesi di ottobre
e novembre il loro numero è aumentato rispettivamente fino a 98 e 109.
Le aree più rischiose.
L'UNHCR ribadisce la sua posizione riguardo i richiedenti
asilo originari dei governatorati iracheni di Baghdad, Diyala, Ninewa e
Salah-al-Din, come anche della provincia di Kirkuk, che non dovrebbero subire
rimpatri forzati e dovrebbero invece beneficiare della protezione
internazionale, con il riconoscimento per loro dello status di rifugiati secondo
la Convenzione per i Rifugiati del 1951 o con una forma di protezione
complementare. Inoltre, ovviamente, tutte le richieste inoltrate anche da altri
iracheni dovrebbero essere esaminate con grande attenzione, soprattutto per le
persone appartenenti a minoranze religiose. La posizione dell'UNHCR è dettata
dalla precaria situazione dello stato di sicurezza, dall'elevato livello di
violenza, dagli incidenti legati alla mancanza di sicurezza e dalle violazioni
dei diritti umani che ancora si registrano in alcune zone dell'Iraq. Secondo
l'UNHCR le gravi ed indiscriminate minacce alla vita, i rischi per l'integrità
fisica e per la libertà legati alla violenza o ad eventi gravemente turbatori
dell'ordine pubblico sono ragioni valide per l'assegnazione di protezione
internazionale.
Iraq,
a caccia di eroi di Christian Elia
PeaceReporter
- 17 dicembre 2010
La
morte di un poliziotto sunnita, sacrificatosi per salvare migliaia di sciiti,
diventa un'icona di stato
Fin
dalla nascita degli stati nazione si è reso necessario un mito fondante, un
elenco di martiri e di eroi, materializzata in una galleria di icone e
monumenti. Disseminati sui territori, come i grani di un rosario, per tenere
vivo il rito pagano della retorica patriottica.
Quasi
nessun Paese ne è immune, a ciascuno il suo Pietro Micca. Ma dietro nomi (e
monumenti) ci sono storie e persone. E' il caso di Bilal Alì Mohammed, 31 anni,
poliziotto iracheno. Sunnita, di Balad Ruz, con il suo stipendio manteneva la
madre vedova, le tre sorelle e il fratello, cui pagava gli studi. Una paga da
fame, per il mestiere più rischioso del mondo. Dal 2003, anno dell'invasione
dell'Iraq da parte di una coalizione internazionale guidata dagli Usa, sono
migliaia gli agenti di polizia uccisi. Spesso prima ancora di diventarlo, magari
in fila davanti a un centro di reclutamento. Per i miliziani che hanno
combattuto gli stranieri prima e il governo iracheno adesso sono i peggiori, i
collaborazionisti di un potere senza alcuna legittimità. Sempre al centro di
polemiche, accusati di corruzione e negligenza, male armati. Hanno ereditato -
dopo l'inizio della nuova strategia Usa in Iraq - il lavoro sporco dai marines.
Questi ultimi chiusi nelle mastodontiche basi militari, loro in pattugliamento
per strada, di guardia ai check-point.
Oppure,
come nel caso di Mohammed, di guardia ai luoghi di culto. Nel 2003, infatti, è
crollato il vecchio 'mito' fondante dell'Iraq. Il regime di Saddam, con la
forza, aveva impostato una retorica nazionale tutta basata sull'unità e la
fratellanza, dove le comunità che compongono il mosaico della Mesopotamia
(sunniti, sciiti, curdi, ebrei, cristiani e altri) vivevano assieme, senza
distinzioni etniche e religiose. Non è andata così, nel senso che Saddam
guidava il Paese anche in nome della minoranza sunnita della quale era lui
stesso esponente. Il 2003 ha segnato, nel giro di pochi anni, l'inizio di una
sanguinosa guerra civile tra sunniti e sciiti. Centinaia di migliaia di vittime,
squadroni della morte dell'una e dell'altra confessione, spesso all'interno
delle stesse forze armate e di polizia. Il governo iracheno attuale, da mesi,
tenta di ricostruire un'identità condivisa nel Paese. Aiutato, per altro, da
società di comunicazione Usa profumatamente ricompensate.
Ecco
che Mohammed, suo malgrado, deve vestirsi da eroe. Lunedì 13 dicembre, primo
pomeriggio. A Mohammed è toccato un turno duro: vigilare all'ingresso di una
moschea sciita di Baquba, nell'Iraq. L'occasione è di quelle che, dal 2003,
comporta sangue e violenze. Si celebra l'Ashura, una delle feste più sacre per
gli sciiti, in onore dell'imam Hussein, morto nella battaglia di Kerbala nel 680
D.C. I miliziani sunniti hanno sempre realizzato attacchi feroci contro i
pellegrini sciiti, che arrivano nei luoghi di culto da tutto il Paese e
dall'estero. I colleghi hanno raccontato alla stampa locale che Mohammed nota un
uomo sospetto, che stringe una borsa in modo strano. Lui lo affronta, vede i
fili che spuntano dalla sacca. Urla a tutti di scappare e di allontanarsi,
mentre lui si butta sull'attentantore. L'ordigno esplode. Mohammed muore sul
colpo, assieme al kamikaze e a una donna con la sua nipotina, troppo vicine alla
detonazione. Secondo i colleghi Mohammed ha salvato centinaia di persone che
affollavano la moschea.
Il
governo ne ha voluto subito fare un simbolo della nuova era di riconciliazione
che - ne sono sicuri - aspetta il nuovo Iraq, costruito su un milione di morti.
Giornali, telegiornali, radio, televisioni. La foto di Mohammed è ovunque,
spesso tenuta dalla madre e dalle sorelle. Le immagini del giorno del suo
funerale - trasmesso in diretta - hanno raccontato di centinaia di persone che
son andate a Balad Ruz a rendere omaggio all'eroe dell'epoca nuova. Al nuovo -
vecchio - iracheno. Il governo, in poche ore, ha deliberato di erigere una
statua al coraggioso poliziotto a Baghdad e nel suo villaggio natale. Quando
qualcuno, in futuro, vedrà la statua di Mohammed senza capire di chi si tratta,
forse, l'Iraq sarà tornato alla normalità. Quella che non ha bisogno di eroi,
ma solo di persone come mille altre che fanno il loro lavoro con coscienza.
Nuovo identikit dell’aiuto italiano
di Iacopo Viciani
Repubblica
- 19 dicembre 2010
L’OCSE/DAC
ha pubblicato i nuovi dati dettagliati sull’aiuto pubblico allo sviluppo
del’Italia. A ben guardare sono quelli per il 2009, non si tratta di un
errore, le informazioni complete sugli aiuti vengono prodotte almeno con un anno
di distanza. Garantire un’informazione più tempestiva e più dettagliata è
sicuramente un modo per consentire aggiustamenti in corso degli interventi e
migliorare l’efficacia.
I
dati sono comunque utili perché forniscono un rapito identikit dell’aiuto
pubblico allo sviluppo (APS) dell’Italia e delle sue tendenze. Inoltre, gli
ammontari danno un’indicazione di che cosa potrebbe accadere all’aiuto
italiano nel 2011, che come il 2009 è un anno di tagli finanziari significativi
per la cooperazione bilaterale gestita dal Ministero Affari Esteri.
Quanto
Nel
2009, l’anno della Presidenza italiana del G8, il rapporto APS/PIL
dell’Italia si contrae del 27% rispetto al 2008, la maggiore contrazione in
Europa, ultimo donatore OCSE dopo la Corea del Sud. Al netto del debito il
rapporto APS/PIL passa dallo 0,18% allo 0,15% contro una media EU dello 0,43%,
allo stesso livello del 2008. Sempre secondo l’OCSE, nel periodo 2008-2009
contrassegnato da una forte contrazione dell’assistenza pubblica, gli
aiuti italiani inviati dai cittadini e privati crescono del 56%. La quota
multilaterale passa del 62 al 73% contro una media europea del 38%.
Dove
Nel
2009, i Paesi di maggior investimento della cooperazione bilaterale italiana
sono stati Afghanistan (68 milioni di dollari), Etiopia ( 54 milioni di
dollari), Palestina (39 milioni), Libano (28 milioni), Mozambico ( 25 milioni),
Sudan (20 milioni), Senegal (19 milioni) India ( 15 milioni) Iraq ( 13 milioni),
Uruguay (13 milioni) e Brasile (2 milioni). Nonostante l’investimento,
Brasile, Uruguay e India non sarebbero Paesi prioritari, almeno stando a quanto
indicano le linee strategiche della cooperazione italiana per il triennio
2009-2011.
L’Africa
ha ricevuto il 34% degli aiuti bilaterali contro il 30% dell’anno precedente,
il Medio Oriente il 16% dal 25%, i Paesi meno avanzati il 19% dall’11%.
Possiamo dire che l’Italia ha aumentato la sua attenzione verso l’Africa
sub-sahariana e i Paesi più poveri, ma è ancora lontana dall’obiettivo che
si era data nel 2009 di destinare il 50% dell’aiuto alla regione. Rispetto ai
Paesi meno avanzati la percentuale bilaterale media EU è del 64%.
Per
effetto dei tagli che nel 2009 colpiscono la cooperazione italiana, le risorse
finanziarie complessivamente destinate all’Africa sub sahariana si contraggono
del 13% e quelle verso i Paesi meno avanzati del 26%. In Vietnam, paese
prioritario per la cooperazione del nostro Paese l’impegno italiano si contrae
dell’80%. La contrazione riguarda molti altri Paesi prioritari e riduce la
presenza del nostro Paese: Iraq (-75%), Libano (-55%), Palestina (-43%), Sudan
(-42%), Afghanistan (-41%) e Etiopia (-16%). La presenza italiana di contrarrà
ulteriormente a partire dal 2011. Nonostante i tagli, raddoppia l’impegno in
alcuni Paesi, come Senegal, Sierra Leone, Pakistan e Nicaragua. Quest’ultimo
non è un paese prioritario per la cooperazione italiana.
Come
Nel
2009 l’Italia esborsa verso i PVS solo il 76% di quanto promesso contro il
79% dell’anno precedente: solo un 1 milione di dollari al Vietnam contro i 50
milioni promessi; 3 milioni contro gli 8 in Kenya. Altri deficit negativi
rispetto alle promesse si riscontrano anche in Mozambico (-13 milioni) o
Guatemala (- 5 milioni). Al contrario, Palestina, Etiopia e Albania ricevono più
assistenza di quanta inizialmente promessa.
Per
cosa
Nel
2009 il settore più finanziato dall’aiuto bilaterale italiano è
l’agricoltura (10% dell’aiuto) con un incremento di 121 milioni di dollari
rispetto all’anno precedente. Nel 2008 era stata la potabilizzazione, il
settore più finanziato. Dopo l’agricoltura seguono le cancellazioni del
debito (9% dell’aiuto bilaterale), e la sanità (al 5,7% dal 3,7% del 2008). I
costi amministrativi sono in crescita di 12 milioni di dollari e diventano
quinto settore più finanziato dalla operazione italiana. Seguono l’educazione
al 3,6% dal 1,6% con più 7 milioni di dollari. Il sostegno alla
potabilizzazione e igiene è il settimo settore più finanziato e rappresenta il
3% con una riduzione di oltre cento milioni di dollari sul 2008. L’aiuto
alimentare subisce una riduzione di 50 milioni di dollari e una taglio del 55%
delle sue disponibilità ma resta l’ottavo settore più finanziato dalla
cooperazione italiana. Il sostegno al finanziamento dei servizi essenziali di
base (educazione e sanità di base, salute riproduttiva e potabilizzazione)
conserva la quota del 7% sul bilaterale, ma con una riduzione del 41% dello
stanziamento assoluto complessivo.
Peggiora
fortemente la percentuale di aiuto condizionato all’acquisto di beni e servizi
italiani (aiuto legato), che al netto del debito costituisce il 54% del
bilaterale dal 38% dello scorso anno – il peggior valore in Europa dopo il
Portogallo. Sono soprattutto i prestiti concessionali a determinare questo
risultato deludente poiché il 96% risultano “legati”.
In
sintesi, nel 2009 la cooperazione italiano evidenzia queste tendenze:
Quantità
dell’aiuto =peggioramento
Prevedibilità
dell’aiuto = costante
Attenzione
all’Africa Sub – sahariana = miglioramento
Attenzione
ai Paesi meno avanzati = miglioramento
Aiuto
legato = peggioramento
Bankitalia:
"Il 45% della ricchezza in mano al 10% delle famiglie"
Repubblica
-20 dicembre 2010
Il rapporto di Bankitalia: gli italiani sono fra i più ricchi al mondo (il 60% sta economicamente meglio del 90% del resto del mondo), ma il "benessere" è concentrato in poche mani e la povertà è in aumento
Il
45% della ricchezza complessiva delle famiglie italiane alla
fine del 2008 è in mano al 10% delle famiglie. E' uno dei
dati contenuti nel rapporto su "La Ricchezza delle
famiglie italiane" elaborato dalla Banca d'Italia. La
metà delle famiglie italiane, quelle a basso reddito,
detiene solo il 10% della ricchezza complessiva. Intanto,
nel primo semestre del 2010, sempre secondo la Banca
centrale, la ricchezza netta delle famiglie è diminuita
dello 0,3 per cento in termini nominali, tornando ai livelli
del 2005. Il calo è dovuto "a una diminuzione delle
attività finanziarie e a un aumento delle passività, che
hanno più che compensato la crescita delle attività
reali".
Nel confronto internazionale le famiglie italiane risultano poco indebitate; alla fine del 2008 l'ammontare dei debiti era stato pari al 78% del reddito disponibile lordo: in Germania e in Francia esso risultava pari a circa del 100%, negli Stati Uniti e in Giappone al 130%.
Il
41% dei debiti delle famiglie italiane è rappresentato dai mutui per l'acquisto
della casa. I numeri confermano anche che la povertà è in lenta e graduale
crescita e che tra il 2007 e il 2008 la ricchezza è calata del 3,5% a prezzi
correnti, e del 6,5% a prezzi costanti.
Il
fatto che la ricchezza sia concentrata in poche mani ("Molte famiglie
detengono livelli modesti o nulli di ricchezza mentre all'opposto poche
dispongono di una ricchezza elevata", dice il rapporto) condiziona il resto
dei dati. Nel 2009, ad esempio, anno di crisi nera, la ricchezza delle famiglie
risulta cresciuta di circa l'1,1% grazie ai risultati positivi delle attività
finanziarie (+2,4%). In termini reali, l'aumento della ricchezza complessiva
rispetto alla fine del 2008 è stato dell'1,3% (più di 100 miliardi di euro del
2009). La ricchezza lorda in numeri assoluti è stimabile in circa 9.448
miliardi, quella netta a 8.600 miliardi, corrispondenti a circa 350mila euro in
media per famiglia.
Dal
raffronto internazionale emerge comunque che le famiglie italiane sono in media
tra le più ricche al mondo. A fine 2008, la ricchezza netta delle famiglie era
pari a 7,8 volte il reddito disponibile lordo, in linea con quello della Francia
(7,5) e del Regno Unito (7,7), lievemente superiore a quello del Giappone (7), e
significativamente superiore a quello del Canada (5,4) e degli Stati Uniti
(4,8).
Le
attività reali detenute alla fine del 2008 dalle famiglie italiane erano pari a
5,4 volte il reddito disponibile, un valore di poco inferiore a quello della
Francia (5,7), in linea con quello del Regno Unito (5,2), ma superiore a quello
di Usa (2,2), Canada (3,3) e Giappone (3,4). L'Italia conferma la maggiore
propensione all'investimento immobiliare, che riflette tra l'altro una struttura
del sistema produttivo che vede la preponderanza delle microimprese familiari,
per le quali gli immobili sono anche capitale d'impresa. Decisamente minore,
anche in rapporto agli altri paesi, l'investimento in attività finanziarie.
Secondo
studi recenti, la ricchezza netta mondiale delle famiglie ammonterebbe a circa
160.000 miliardi di euro e la quota "italiana" sarebbe di circa il
5,7%. L'Italia si colloca nelle prime dieci posizioni tra gli oltre 200 paesi
considerati nello studio, in termini di ricchezza netta pro-capite. Il 60% delle
famiglie italiane ha una ricchezza netta superiore a quella del 90% delle
famiglie di tutto il mondo; la totalità delle famiglie italiane, invece, ha una
ricchezza netta superiore a quella del 60% delle famiglie dell'intero pianeta.
Unimondo - 20 Dicembre 2010
In
virtù della crisi si invocano tagli alla spesa pubblica e
la manovra Finanziaria pare risparmiare su tutto. Proprio
tutto? In realtà le risorse per il “contrasto
dell’immigrazione illegale”, circa 178 milioni di Euro
all’anno, non mancano. “Per chi pensa che la garanzia dei diritti umani non sia un costo, ma un principio inderogabile, scriverne è a dir poco imbarazzante - spiega Grazia Naletto della campagna Sbilanciamoci - ma in tempi in cui tutto viene monetizzato è forse utile ricordare che la politica del rifiuto (i respingimenti, i trattenimenti nei Cie, le espulsioni, la cooperazione con i paesi di origine), non è una necessità, ma una scelta costosa e inefficiente se rapportata agli scopi che si propone di raggiungere”. Certo il problema etico è importante e prioritario e vale la pena ricordare come La Caritas al pari di organizzazioni, quali il Consiglio d’Europa e l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, hanno spesso preso fermamente posizione contro la pratica dei “respingimenti” italiana, rilevando come “l´iniziativa italiana sia illegale e mini totalmente il diritto di ogni essere umano ad ottenere asilo”. |
Ma non solo. Se, come ricorda Oliviero Forti,
responsabile immigrazione della Caritas, “occorre rendersi conto che quello
dell'immigrazione è un fenomeno complesso e che un’unica tipologia di
interventi, come appunto i respingimenti, alla lunga produrrà effetti
fallimentari'' è necessario e doveroso chiedersi quanto costa questo
fallimento.
Difficile
fare una stima del costo annuo medio della “politica del rifiuto”, ma per
Sbilanciamoci “mettendo insieme tutti i dati disponibili sugli stanziamenti
del sistema, destinati solo alla costruzione e gestione degli ex Cpt, dal 1999
al 2011 raggiungiamo un importo complessivo di 985,4 milioni di euro (in media
circa 75 milioni l’anno)”. Intensa anche la sola iniziativa dell’attuale
governo che con l’ultima finanziaria ha stanziato complessivamente per la
lotta all’immigrazione illegale (introduzione del reato di ingresso soggiorno
illegale, Cie e esecuzione delle espulsioni) “287milioni e 618mila euro”.
Gli allegati alla finanziaria 2011 evidenziano poi “uno stanziamento di 111
milioni di euro per il 2011, di 169 milioni per il 2012 e di 211 milioni di euro
per il 2013”.
Alle
risorse sinora considerate vanno aggiunte quelle necessarie per garantire la
vigilanza nei centri, “circa 1.000 operatori a 32.875 euro l’anno per
operatore”, quello sostenuto per l’esecuzione dei rimpatri (noleggio vettori
e personale di polizia che esegue l’accompagnamento) e quello per il controllo
straordinario di mari e frontiere.
Se
questi due ultimi capi di spesa si rifanno al programma pluriennale di gestione
del Fondo europeo per i rimpatri che supporta gli stati membri, entrambi non
sono a costo zero per l’Italia. Sbilanciamoci ricorda che “il
cofinanziamento dichiarato dallo stato italiano, per i rimpatri, è pari a
40milioni e 318mila euro”, mentre il programma pluriennale per il controllo
delle frontiere conta “194 milioni e 809mila euro”.
Risorse
a cui devono aggiungersi quelle gestite dall’agenzia europea Frontex
(l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere
esterne degli Stati membri dell’Unione europea attiva dal 2004) che tra il
2006 e il 2009 ha visto l’impegno di “219 milioni e 828mila euro, con una
crescita esponenziale che ha portato i 19,1 milioni del 2006 agli 88,2 del
2009”.
Non
male, per una necessità che per Melting Pot Europa, promotore di una campagna
contro i respingimenti attraverso un esposto penale .pdf, “rischia
quotidianamente di violare le norme costituzionali, le norme comunitarie e
quelle internazionali” e che ha spinto più volte dal 2004 ad oggi Amnesty
International, ICS-Consorzio italiano di solidarietà e Medici Senza Frontiere a
chiedere “al ministro dell'Interno di chiarire urgentemente alcuni aspetti
delle procedure adottate”.
La
Libia oggi è uno dei fronti più caldi di questa battaglia per i diritti umani,
ma ad accompagnare le atrocità di “Come un uomo sulla terra”, non possiamo
non pensare che “considerando solo le risorse ricordate - conclude
Sbilanciamoci - la cattiveria del nostro ministero degli Interni oltre a ledere
diritti umani fondamentali ci costa molto, in media almeno 178 milioni l’anno.
Libia esclusa”. Esclusi, quindi, anche i 5 miliardi che Mu'ammar Gheddafi
richiede periodicamente.
A
bene vedere, secondo Caritas, gli italiani residenti all'estero sono 4.028.370 e
rappresentano il 6,7% della popolazione italiana. Un numero quasi pari agli
immigrati residenti in Italia. È quanto emerge dalla V edizione del ''Rapporto
Italiani nel Mondo 2010'' della Fondazione Migrantes. Si deduce che gli
immigrati che sono entrati in Italia hanno, sino ad oggi, rimpiazzato gli
italiani emigrati dall’Italia, esenti, peraltro, da politiche cattive e
costose. È grazie a chi è riuscito ad “entrare comunque e nonostante” che
l’Italia gode, oggi, di un saldo attivo. Una timida crescita che fa ben
sperare. [A.G.]
F35:
la scomunica dei vescovi, Finmeccanica se la ride di Luciano Bertozzi
Nigrizia
- 22 dicembre 2010
In
Piemonte, dove si assemblano gli aerei più costosi della storia, i vescovi
hanno espresso tutta la loro contrarietà all'operazione. Ma i bilanci del
gruppo armiero italiano, che non soffre la crisi, s'ingrassano con quelle
entrate. Continuano le vendite di armi a paesi belligeranti.
In
terra novarese è un nervo scoperto che lacera anche il tessuto della comunità
diocesana. Stiamo parlando dell'assemblaggio dell' F35, l'aereo più costoso
della storia. L'Italia si è impegnata a comprarne 131 esemplari, per un importo
di 15 miliardi di euro. Il loro assemblaggio avviene a Cameri, in provincia di
Novara.
Un
argomento che spacca il mondo cattolico. Il vescovo di Novara, mons. mons.
Renato Corti, ha ribadito la sua contrarietà. Tra l'altro già espressa, in
precedenza, anche da mons. Fernando Charrier vescovo di Alessandria. La
Commissione diocesana "Giustizia e pace" di Novara il 1° gennaio del
2007 - come ci ricorda in una lettera, ricevuta da Nigrizia, don Mario Bandera
della locale Commissione "Giustizia e pace" - aveva stilato una nota
in cui, partendo dalle affermazioni del magistero, esprimeva la propria
contrarietà al progetto della costruzione degli F35, che prevede un enorme
sperpero di soldi pubblici, sottratti alle spese sociali, alla sanità e
all'istruzione, settori certamente più bisognosi di finanziamenti.
Successivamente, a livello regionale, la Commissione per la pastorale del
lavoro, presieduta da mons. Charrier, e che ingloba le varie commissioni
"Giustizia e pace" del Piemonte, ha diramato un comunicato, firmato
anche da mons. Tommaso Valentinetti, presidente nazionale di Pax Christi, che
ribadiva il "no" all'intera faccenda.
Mons.
Corti, riprendendo quel comunicato, l'ha integralmente citato, affermando come
pastore della comunità novarese, "la necessità di opporsi alla produzione
e alla commercializzazione degli strumenti concepiti per la guerra". Ha poi
proseguito: "Abbiamo la speranza che si arrivi a un ripensamento, che
permetta una riflessione più allargata e approfondita, capace di incidere nella
mentalità delle persone e delle istituzioni".
Ma
difficile pensare a un cambio di strategia. I bilanci di Finmeccanica vivono
anche di quelle entrate. Il fatturato dei primi nove mesi del 2010 del gruppo
armiero italiano, sfiora i 13 miliardi di euro, con un leggera crescita, mentre
l'utile netto è sceso da 364 milioni a 321. Gli ordini, pari a 13,5 miliardi
sono analoghi a quelli dello stesso periodo 2009.
Fra
di essi sono da evidenziare la fornitura di 12 elicotteri AW 101 all'India, la
terza tranches del caccia europeo Eurofighter, l'ammodernamento di dieci
elicotteri inglesi, la fornitura di trenta elicotteri ad un cliente dell'area
sud del Mediterraneo, non meglio precisato, forse la Libia, una serie di sistemi
elettronici per le forze armate statunitensi, l'ammodernamento degli aerei da
trasporto G 222 destinati agli USA e poi trasferiti all'aviazione afgana, la
fornitura di altri otto aerei da trasporto C27J agli Stati Uniti.
Degno
di nota è anche il contratto per il controllo elettronico dei confini
meridionali della Libia, per contrastare il flusso d'immigrazione clandestina
verso l'Europa, che si tradurrà in maggiori sofferenze per tanti disperati in
fuga dai paesi della guerra e della fame.
L'elenco
dei principali clienti è particolarmente preoccupante, tutto il contrario di
quanto sancisce la legge 185 del 1990 che disciplina il commercio delle armi
italiane, che vieta le esportazioni ai paesi belligeranti e responsabili di
accertate violazioni delle convenzioni internazionali sui diritti umani. Proprio
per evitare questi divieti il governo sta procedendo in parlamento al suo
stravolgimento.
Anche
l'analisi della distribuzione del personale del gruppo sottolinea la scelta di
incrementare la presenza nei paesi in cui la spesa per le armi è maggiore, come
negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia. Non a caso su un totale di
76.000 dipendenti, 12.000 sono occupati in Nord America, 10.000 in Inghilterra e
3.700 in Francia. Del resto, Finmeccanica ha comprato DRS Technologies un
importante fornitore americano del Pentagono, a dimostrazione della volontà di
accaparrarsi una parte significativa dell'enorme budget militare di Washington.
Un'altra
criticità rilevabile dai dati di bilancio è costituita dalle spese per ricerca
e sviluppo. Finmeccanica ha investito nel settore, nei primi nove mesi 2010,1,3
miliardi di euro, circa il dieci per cento del fatturato ed è una delle società
italiane che più spende a tali fini. La spesa si è concentrata soprattutto
sull'elettronica per la difesa (38% del totale), elicotteri (21%) ed aeronautica
(18%). Come si vede con una netta prevalenza nel comparto militare.
Risorse
umane particolarmente qualificate sono utilizzate per inventare nuovi ordigni o
perfezionare quelli esistenti. Tutto questo lavoro si tradurrà in lutti e
rovine invece di migliorare la qualità della vita. È ora che la comunità
degli scienziati reagisca per imporre una sorta di riconversione della ricerca
dai fini bellici a quelli civili.
In
prima fila fra chi cerca di cambiare la situazione c'è l'oncologo e senatore PD
Veronesi che mediante la propria fondazione ha evidenziato la necessità di
ridurre le spese per la difesa per liberare le risorse necessarie ad aumentare
quelle sociali, ad esempio per la lotta ai tumori.
I
tempi di crisi sono i migliori per ripensare il nostro modello di sviluppo, è
ora quindi di ripensare un'economia che vede opportunità dove ci sono tensioni
o conflitti. Il ministero dell'economia, azionista di riferimento di
Finmeccanica, deve spingere il gruppo ad attuare il principio della
riconversione produttiva dal militare al civile, peraltro già sancito dalla 185
Gelmini,
5 milioni per tradurre il Talmud di Enrico Piovesana
PeaceReporter
- 22 dicembre
Tra
i tagli alla scuola e all'università, il ministro dell'Istruzione trova 5
milioni per finanziare, tramite il Cnr, la traduzione in italiano del testo
sacro ebraico
Nel
pomeriggio del 14 dicembre, il giorno della fiducia a Berlusconi, mentre Roma
bruciava e gli studenti assediavano i palazzi della politica, la commissione
Cultura del Senato approvava a maggioranza lo 'schema di decreto ministeriale
recante ripartizione del Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di
ricerca, per l'anno 2010'.
Tra
gli stanziamenti previsti da questo decreto a firma del ministro Mariastella
Gelmini - che all'inizio di gennaio verrà sottoposto al parere della
commissione Cultura della Camera - figurano ben 5 milioni di euro ''a sostegno
del progetto pluriennale 'Talmud', che vede il Cnr collaborare con l'Unione
delle comunità ebraiche italiane - Collegio rabbinico italiano (Ucei-Cri) per
la traduzione integrale in lingua italiana, con commento e testo originale a
fronte, del Talmud, opera fondamentale e testo esclusivo della cultura
ebraica''.
Mentre
con una mano la Gelmini cala la pesante scure dei tagli sulla scuola pubblica e
sull'università, con l'altra mano dà dieci miliardi delle vecchie lire a un'équipe
di trenta traduttori specializzati che lavoreranno per cinque anni alla
traduzione italiana del testo sacro ebraico. Un lavoro monumentale, visto che il
Talmud consta di seimila pagine divise in quaranta volumi. L'anziano rabbino di
Gerusalemme, Adin Steinsaltz, ci ha messo cinquant'anni per tradurre in ebraico
moderno il testo originale in aramaico.
Un
lavoro certamente importante per la comunità ebraica italiana, che
evidentemente sulla Gelmini esercita un'influenza ben maggiore di quella del
mondo scolastico e accademico nazionale.
Padre Kizito è innocente
Nigrizia
- 21 dicembre 2010
Definitivamente
archiviate dalla procura della repubblica di Nairobi le accuse di pedofilia a
carico del missionario comboniano, direttore responsabile di Nigrizia. Una
vicenda che si trascina dall’estate del 2009.
«Non
c'è luogo a procedere a carico del sospettato». Queste le parole contenute in
una lettera inviata il primo dicembre 2010 da Alice Ondieki, sostituto
procuratore nell'ufficio del Procuratore Generale del Kenya. «Ulteriori
indagini non hanno fornito alcuna prova sostanziale a sostegno dell'accusa».
L'ufficio del Procuratore Generale invita quindi ad archiviare il fascicolo che
conteneva le accuse di pedofilia a carico di Padre Kizito.
Il
comboniano, padre Renato Kizito Sesana, dunque, è innocente anche secondo la
giustizia kenyana.
A
dare la notizia è Amani onlus, che collabora strettamente con padre Kizito. In
un comunicato, Amani onlus sottolinea che «a rafforzare la conferma della piena
innocenza di padre Kizito, nei successivi paragrafi dello stesso documento si
afferma che i testimoni chiave e le presunte vittime hanno ritrattato le loro
accuse. I ragazzi coinvolti hanno anche dichiarato di essere stati pagati per
accusare Kizito. Il sostituto procuratore afferma ancora che la persona
raffigurata nelle immagini che sono state diffuse non è padre Kizito. Non
risulta chiaro chi abbia ottenuto il cd con le immagini né chi gliel'abbia
fornito, perché le dichiarazioni rilasciate da accusatori e testimoni sono
contraddittorie. Infine, uno dei ragazzi ha scritto una lettera di scuse a padre
Kizito».
«Le
conclusioni alle quali è giunta la giustizia kenyana - continua Amani - sono
molto diverse da ciò che gli accusatori di padre Kizito andavano affermando nel
giugno-luglio del 2009. In deposizioni giurate, dichiarazioni alla stampa e
interviste con i media essi lo avevano additato come un pedofilo che nel corso
degli anni aveva abusato di centinaia di bambini. Queste accuse avevano avuto
ampia copertura sui media kenyani e internazionali, con un effetto devastante
per la persona di Padre Kizito. I due avevano ulteriormente accusato padre
Kizito di aver illegalmente architettato la loro rimozione dall'amministrazione
fiduciaria della Comunità Koinonia, in ritorsione per la loro denuncia».
«Di
conseguenza, il funzionamento e il sostegno dei sei centri per ragazzi di strada
gestiti dalla Comunità Koinonia, di cui padre Kizito è il fondatore, sono
stati pesantemente colpiti. Il futuro degli oltre 250 bambini e ragazzi
direttamente sostenuti da Koinonia - e degli oltre mille beneficiari indiretti -
è stato messo concretamente a rischio».
«Fortunatamente
- rimarca Amani - non è mai mancato un forte sostegno internazionale, in
particolare dall'Italia. Amani Onlus, infatti, e altri amici hanno sempre difeso
padre Kizito, senza mai alzare i toni. In Kenya, anche la forte eco del lavoro
sociale di Koinonia si è fatta sentire. Ne è stata una prova, tra le altre, la
Marcia per i diritti dei bambini tenutasi a Kibera l'11 dicembre scorso, che ha
visto la partecipazione di decine di comunità e organizzazioni religiose e di
quasi duemila bambini».
Conclude
Amani: «Considerato che le indagini, ora concluse, non hanno trovato alcun
elemento fattuale a sostegno di qualsivoglia accusa, per senso di giustizia e di
responsabilità, i media kenyani e internazionali che avevano a lungo citato il
nome di padre Kizito in un contesto infamante e accusatorio, dovrebbero dare lo
stesso rilievo alla notizia del suo definitivo proscioglimento, considerato
anche il danno subito dalle comunità locali. Ogni persona ingiustamente
accusata merita che le siano restituiti il rispetto e la dignità».
Si lotta contro la schiavitù
di Emanuela Stella
...
ma
9 leader abolizionisti finiscono in galera
Repubblica
- 22 dicembre 2010
Manifestavano contro la riduzione in schiavitù di due bambine di 9 e 13 anni. La leadership islamica è accusata di volere mantenere la schiavitù, ufficialmente abolita tre volte, nel 1905, nell’81 e nel 2007, quando è stata dichiarata reato penale punibile fino a 10 anni di carcere. Tuttavia è ancora largamente praticata soprattutto nelle zone rurali. L'impegno e i rischi di SOS Schiavi
Nove militanti di una organizzazione che si batte contro la schiavitù in Mauritania sono stati picchiati e arrestati a Nouakchott, capitale del paese, mentre manifestavano contro la riduzione in schiavitù di due bambine di 9 e 13 anni. Il Forum des Organisations Nationales de Droits Humains (Fonadh), che raccoglie 17 Ong tutte impegnate nella tutela dei diritti umani, ne ha chiesto l’immediato rilascio; tra gli arrestati c’e’ anche il presidente della Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste en Mauritanie (IRA) e responsabile locale di SOS Schiavi 1, Biram Ould Dah Ould Abeid, in stato di fermo dal 13 dicembre. Una
delegazione del Partito Radicale, guidata da Marco Pannella, con il deputato
Matteo Mecacci, relatore per i diritti umani e la democrazia all'Assemblea
parlamentare dell'OSCE, e il senatore Marco Perduca, segretario della
Commissione speciale per i Diritti Umani del Senato, sarà nella capitale della
Mauritania questa settimana per incontrarlo. |
La
leadership islamica.
Viene
accusata da Biram Abeid di volere il persistere della schiavitù, ufficialmente
abolita tre volte, nel 1905, nell’81 e nel 2007 (due anni fa questa forma di
oppressione è stata dichiarata reato penale punibile fino a 10 anni di carcere)
ma ancora praticata in Mauritania, soprattutto nelle zone rurali. Il mese scorso
l’inviato speciale delle Nazioni Unite incaricato di elaborare una campagna di
sensibilizzazione sulle forme moderne di schiavitù, Gulnara Shahinian, ha
dichiarato che “esistono tuttora casi molto gravi” di schiavitù in questo
paese.
Gli
schiavi di oggi.
Sono
valutati in 600mila uomini, donne e bambini, il 20 per cento della popolazione
mauritana, sono i mori, o haratin, costretti a servire i bianchi bidhan, di
etnia araba. Già prima dell’Islam, sottolinea Biram Abeid (lui stesso ex
schiavo) in una recente intervista all’Osservatorio internazionale per i
diritti, la schiavitù era radicata nelle società di queste regioni
saharo-saheliane: con l’islamizzazione i gruppi dominanti delle comunità
arabe e di quelle berbere e nere sono riusciti a strumentalizzare la nuova
religione per legittimare un sistema sociale schiavista. In seguito, durante la
penetrazione coloniale, gli arabo-berberi firmarono coi colonizzatori
francesi trattati che contenevano clausole non scritte ma vincolanti, tali da
assicurare loro un’abbondante manodopera servile. E dopo l’indipendenza
della Mauritania, nel 1960, le stesse élite arabo-berbere hanno ereditato lo
stato post-coloniale dalla Francia, conservando la schiavitù nonostante la
promulgazione di costituzioni e leggi che si dicevano egualitarie.
Chi
libera schiavi è ricompensato.
L’articolo
2 della legge dell’81 che aboliva la schiavitù recita: “Lo Stato risarcirà
gli aventi diritto”, ovvero i padroni degli schiavi, ai quali si è promessa
una contropartita per l’abolizione. Dunque questa abolizione paradossalmente
è stata un riconoscimento di fatto della legittimità della schiavitù in
Mauritania. Così i padroni hanno continuato a tenere sequestrata una vasta
popolazione servile, reclamando crediti verso lo Stato. Nel 2007 il primo
presidente democraticamente eletto in Mauritania ha introdotto una legge che
criminalizza la schiavitù e le pratiche schiaviste, ma non è stata avviata
alcuna inchiesta o procedimento penale, e la legge è rimasta lettera morta.
Occorre che la legge sia applicata in modo sistematico e rigoroso per funzionare
da deterrente rispetto alle pratiche schiaviste, sottolinea Biram Abeid, e lo
Stato deve farsi carico dell’emancipazione economica, sociale e culturale
degli schiavi, creando per loro migliori condizioni economiche, dotando i loro
villaggi e le loro bidonville di infrastrutture sanitarie ed idrauliche,
aiutando coloro che lasciano i padroni ad inserirsi nella società.
La
minoranza arabo-berbera.
In
Mauritania la minoranza etnica degli arabo-berberi detiene le leve del potere
politico, economico e militare a detrimento dei cittadini considerati di seconda
categoria, vale a dire le etnie nere (Pulaar, Soninke, Wolof, Barbara) e quelli
considerati ancora più inferiori, come gli haratin (schiavi ed ex schiavi). I
neri sono stati vittime di razzismo, di sparizioni forzate, di deportazioni, di
espropriazioni e di allontanamenti massicci dagli impieghi pubblici e privati
durante gli anni tra l’86 e il ‘92. I numerosi schiavi ed ex schiavi, poveri
ed impoveriti, continuano a subire le pratiche schiaviste ed ancestrali con
tutto ciò che queste comportano, come lavoro non remunerato, analfabetismo,
pene corporali, violenze sessuali, espropriazioni terriere. Quelli che vivono in
campagna sono confinati in una sorta di homeland (i territori assegnati ai neri
nel Sudafrica dell’apartheid), privi del minimo necessario per una vita
decorosa; quelli che fuggono si ammassano nei ghetti intorno alle grandi città,
in condizioni di povertà e precarietà totale.
Gaza, la guerra non si ferma
di Vittorio Arrigoni
PeaceReporter
- 22 dicembre 2010
Nonostante
il silenzio della stampa, gli attacchi israeliani continuano nella Striscia
E'
sorprendente constatare quanti giornalisti internazionali, anche fra i più
quotati, una volta giunti a Gaza riportino come l'assedio si sia attenuato
osservando i negozi strapieni di cianfrusaglia e il declino del mercato nero dei
tunnel negli ultimi mesi.
Senza
necessariamente entrare nella Striscia basterebbe documentarsi con i rapporti
delle maggiori organizzazioni per i diritti umani per comprendere la situazione
reale. Recentemente, 21 fra le maggiori Ong che operano a Gaza, fra le quali
Amnesty International, Oxfam, Save the Children, Christian Aid and Medical Aid
for Palestinians hanno denunciato come un milione e mezzo di abitanti della
Striscia, (più della metà sono bambini) continuano a essere strangolati da un
assedio illegale sotto ogni punto di vista.
Nel
rapporto, nominato "Speranze svanite, la continuazione del blocco di
Gaza" si fa luce sulle promesse disattese d'Israele di un allentamento
dell'assedio all'indomani del massacro dello Freedm Flotilla. Secondo l'Onu,
Israele ha permesso l'entrata a solo il 7 percento del materiale necessario per
la ricostruzione degli ospedali e delle scuole danneggiate o distrutte durante
l'offensiva Piombo Fuso, e ciò fra le altre cose quest'anno ha comportato
l'impossibilità d'accesso all'istruzioni ad oltre 40 mila studenti. L'economia
continua a essere al collasso per via del blocco delle importazioni e delle
esportazioni, con il 93 percento delle industrie chiuse e oltre il 70 percento
della forza lavoro disoccupata. L'88 percento della popolazione continua a
vivere di aiuti, sotto la soglia di povertà.
L'imposizione
della "buffer zone", quella porzione di terra nei pressi del confine
che Israele ha di fatto sequestrato sparando a chiunque si avvicini, secondo
l'Onu riguarda terreni fertili dal confine fino a un chilometro e mezzo
nell'entroterra palestinese, cioè il 35 percento del totale dei terreni
coltivabili a Gaza e che ora sono lasciati incolti. E' proprio avvicinandosi a
queste zone di confine che si ha la misura di quanto l'assedio non si sia
affatto attenuato, ma al contrario stretto attorno alle vite dei suoi abitanti,
rendendo la vita impossibile ai contadini e ai molti raccoglitori di materiale
edile di riciclo dai palazzi in macerie.
Dall'inizio
di novembre ad oggi, il Palestinian Center for Human Rights e l'International
Solidariety Movement hanno documentato 31 attacchi compiuti dei soldati
israeliani al confine direttamente contro civili palestinesi. Sei di queste
vittime sono bambini.
15
dicembre - Circa alle 9,50, cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit
Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi
impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo
alla gamba sinistra Waleed Nasser Marouf di 21 anni originario di Beit Lahia.
14
dicembre - Circa alle 8,00, cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit
Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi
impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo ad
un piede e alla mano sinistra Mohammed Motei Shkhaidem, 23 anni di Beit Lahia.
Circa
tre ore più tardi, gli stessi cecchini hanno ferito alla gamba sinistra Jom'a
Abu Warda, 29 anni, originario di Jabalya.
Verso
le 13, sempre nella stessa zona, i soldati israeliani hanno sparato ancora e
gambizzato un altro civile:, Fadi Fareed Abu Hwaished di 18 anni.
12
dicembre - Circa alle 8 cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza,nei pressi di Beit
Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi
impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo ad
una gamba Aziz Aayesh al-Sous, 34 anni originario di Beit Lahia.
11
dicembre - Circa verso le 11,55 cecchini israeliani appostati su una delle torri
di osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di
Beit Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi
impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo ad
una gamba Suhaib Sami Mrouf, di 16 anni.
10
dicembre - Circa alle 08,20 cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit
Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi
impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo ad
una gamba Ibrahim Ghaben, 16 anni di from Beit Lahia, che si trovava a 150 metri
dal confine.
Circa
alle 9 soldati israeliani appostati sul confine Sud Est della Striscia di Gaza
con Israele, nell'area di Khuza a est di Khan Younis, hanno sparato verso dei
contadini palestinesi che lavoravano la terra a circa 800 metri. Nidal Hassan
al-Najjar di soli 16 anni, e' rimasto ferito al piede destro.
9
dicembre - Circa alle 7,30, cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit
Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi
impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo
alle gambe Sultan Sad Izmail, 29 anni e Ahmed Sad Ghaben, 20 anni.
4
dicembre - Circa alle 9, cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione poste sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit
Lahiya, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi
impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile. Due
colpiti e feriti alle gambe dai proiettili israeliani: Mohammed Ata al-Hossoumi
di 22 anni e Bilal Shaban al-Hossoumi di 17 anni. Bilal da 5 mesi aveva dovuto
sostituire al lavoro il fratello ventiseienne, anch'esso rimasto ferito dai
soldati israeliani più o meno nella stessa zona. Mohammed Ata al-Hossoumi che
prima dell'inizio dell'assedio della Striscia di Gaza lavorava presso una
fattoria, ora non ha trovato altro impiego che recarsi al confine a raccattare
materiale edile riciclabile, pietre e ferro. Un'ora dopo i primi 2 ferimenti,
nella stessa aerea soldati israeliani hanno sparato ancora e ferito un altro
operaio palestinese, Marwan Mahmoud Ma'rouf, di Beit Lahia, colpito da un
proiettile al piede destro. Bilal Sha'ban al-Hossoumi e Mahmoud Ma'rouf hanno
subito diverse fratture alle gambe, essendo stato colpiti da proiettili
"dum dum", proiettili che esplodono all'impatto, vietati dalle
convenzioni internazionali.
2
dicembre - Circa alle 10,10 cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione sul confine Nord della Striscia di Gaza, nei pressi di Beit Lahia,
hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel
recupero di materiale edile riciclabile a circa 400 metri dal confine. Schegge
di proiettile hanno ferito al piede 'Alaa' Nafez Barakat, di 21 anni, originario
dal campo profughi Al Shati, a Overt di Gaza City.
30
novembre - Circa alle 7,20 cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione poste sul confine a Nord Ovest di of Beit Lahia, a Nord della
striscia di Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi
impegnanti nel recupero da delle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo
alla gamba Ismail Saed Ghaben, 31 anni, originario di Beit Lahia. Non è la
prima volta che Ismail viene ferito. Nel 2004, durante una incursione
israeliana, i soldati delle forze di occupazione gli spararono ad un ginocchio.
Nel 2008 fu ferito ancora da un proiettile ad una mano. Questa volta gli è
andata peggio delle precedenti: i chirurghi dell'ospedale Kamal Udwan hanno
dovuto amputargli 3 dita del piede. Anche 2 fratelli di Ismail in passato sono
stati feriti mentre lavorano nei pressi del confine.
Un'ora
dopo il primo ferimento nella stessa zona i soldati israeliani hanno sparato e
colpito alle gambe altri tre lavoratori palestinesi: Ghassan Mas'oud Abu Riala
di 21, anni, e Ameen Akram Abu Shawish, di 22 anni, entrambi originari di
Zaytoun, a Nord a Gaza City. E Nader Mohammed al-Anqar, di 21 anni, proveniente
da Beit Lahia.
Circa
due ore dopo, alle 10 e 40, cecchini israeliani ancora in azione: colpito Bayan
Farouq Tanboura, di 26, contadino di Beit Lahia che si stava recando ad
acquistare delle patate su di un campo posto a circa 600 metri dal confine,
ignorando che una incursione israeliana era in corso.
Anche
due fratelli di Bayan in passato sono stati colpiti dai proiettili israeliani:
Adham e Kaled.
28
novembre - Circa alle 08:15 cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della Striscia di
Gaza, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti
nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo ad una gamba
Mukhles Jawad al-Masri di 15 anni, originario di Beit Hanoun che si trovava a
circa 500 metri dal confine. Circa un'ora dopo, nella stessa zona, i soldati
israeliani hanno ferito ad una gamba un altro giovane lavoratore palestinesi:
Khalil al Zanin, 20, originario di Beit Hanoun, e poco più a ovest, sempre alla
stessa ora, a finire gambizzato era Mamdouh 'Aayesh al-Sous, di 28 anni, di Beit
Lahya.
27
novembre - Circa alle 9,10 cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione sul confine Nord fra la Striscia di Gaza e Israele, nei pressi di
Beit Lahia, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi
impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile ferendo ad
un gamba Shamekh Said al-Debes, 16 anni, originario di Jabalya . 3 ore dopo
nella stessa zona, a essere colpito alle gambe è stato Ahmed Mahmoud Jarbou',
di anni 26, pescatore proveniente da campo profughi di al-Shati , Ovest di Gaza
City , che stava pescando vicino alla riva. Alle 14 circa, cecchini israeliani
ancora all'attacco di civili palestinesi nei pressi del confine Nord della
Striscia a Beit Hanoun (Erez). Colpito ad una gamba l'ennesimo operaio
palestinese impegnato nel recupero di materiale edile riciclabile: si tratta di
Khalid Ashraf Abu Sitta, di 21, originario di Beit Hanoun.
24
novembre - Circa alle 09,45, cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della Striscia di Gaza
hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel
recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo al piede sinistro
Rami 'Aayesh al-Shandaghli, 28 anni, originario di Jabalya town, che si trovava
a circa 400 metri da confine.
19
novembre - Circa alle 08,20 cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione sul confine Nord fra la Striscia di Gaza e Israele, nei pressi di
Beit Lahia, hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi
impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile ferendo ad
al piede dstro Mohammed Isma'il al-Ghandour, 34 anni, orignario di Beit Lahia
town, che stava lavorando a circa 70 metri dal confine.
13
novembre - Circa alle 09:00 am, cecchini israeliani appostati su una delle torri
di osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della Striscia di
Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti
nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile, ferendo alla gamba
destra Ammar Khalil Hamdan, 22 anni originario di Beit Hanoun, che stava
lavorando a circa 400 metri dal confine.
12
novembre - Circa alle 08:15 am, cecchini israeliani appostati su una delle torri
di osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della Striscia di
Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti
nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile ferendo alla gamba
destra Bashir Sami 'Aashour, 20 anni, originario di Beit Hanoun, mentre stava
lavorando a circa 50 metri dal confine.
10
novembre - Circa alle 7,45 cecchini israeliani appostati su una delle torri di
osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della Striscia di Gaza
hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi impegnanti nel
recupero di materiale edile riciclabile, ferendo alla gamba Ibrahim Yousef
Ghaben, 28 anni originario di Beit Lahia.
7
novembre - Circa alle 06,15 cecchini israeliani appostati su una delle
torri di osservazione vicine a Beit Hanoun (Erez), al confine Nord della
Striscia di Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di lavoratori palestinesi
impegnanti nel recupero dalle macerie di materiale edile riciclabile ferendo
alla gamba sinistra Karam Talal al-Adham, 19 anni, originario di Beit Lahia.
2
novembre - Circa alle 1, soldati israeliani appostati sul confine Nord Est del
centro della Striscia di Gaza hanno aperto il fuoco verso un gruppo di
lavoratori palestinesi che stava raccogliendo materiale di riciclo come ferro,
plastica e alluminio a 300 metri dal confine. Hussam 'Abdul Hafez al-Khaldi di
34 anni, è stato colpito da un proiettile alla spalla destra. 5 ore dopo, alle
16, ambulanze palestinesi sono riuscite ad avvicinarsi al confine Est di Khan
Yunis, per recuperare il corpo ferito di Mahmoud Mohammed Shirrir, 34 anni
originario di Abbassan village. Shirirri, un disabile mentale, si era avvicinato
al confine e i soldati israeliani non hanno esistato a sparargli addosso sebbene
chiaramente non rappresentasse una minaccia. Il proiettile gli ha perforato
l'anca sinistra.
Nella
quasi totalità dei casi esaminati, i cecchini israeliani hanno sparato contro i
civili palestinesi senza alcun colpo di avvertimento. Spesso i proiettili
utilizzati sono "dum dum", vietati dalle leggi internazionali. Spesso
i cecchini puntano alle ginocchia dei civili, in modo da provocare invalidità
permanenti.
Secondo
il PCHR, gli attacchi ai lavoratori palestinesi nella buffe3 zone hanno
raggiunto una escalation senza precedenti: 81 lavoratori feriti e 9 uccisi
dall'inizio dell'anno.
Il
massacro dei lavoratori palestinesi è destinato a continuare anche nel nuovo
anno nell'impunità della comunità internazionale, e nel silenzio quasi totale
dei media di massa.
Benedetto
XVI guarda al Sinodo per il Medio Oriente di Samir Khalil Samir
AsiaNews - Roma - 21 dicembre 2010
Nel suo discorso alla Curia romana, il pontefice sottolinea la comunione con gli ortodossi, la ricchezza delle tradizioni orientali e l'urgenza di un rifiuto della violenza nelle tensioni del Medio oriente. Un commento dell'islamologo p. Samir
Ieri
il papa ha presentato gli auguri natalizi ai Cardinali e ai membri della Curia
romana. Il suo discorso ha abbracciato tre punti: Nel primo, il Santo Padre
commenta la formula liturgica dell'Avvento "Excita, Domine, potentiam tuam,
et veni" = Sveglia la tua potenza, Signore, e vieni! Il secondo punto tratta
del Sinodo delle Chiese del Medio Oriente, che ha avuto luogo dal 10 al 24
ottobre. Il terzo tratta del suo viaggio in Gran Bretagna (16-19 settembre). Io
vorrei fermarmi a commentare quanto il pontefice ha detto sul secondo punto.
La
riflessione del Papa è divisa in due parti: la prima è incentrata sul suo
viaggio a Cipro (4-6 giugno) per consegnare l'Instrumentum laboris del Sinodo ai
Patriarchi e Vescovi; la secondo sul Sinodo stesso che ha avuto luogo in
Vaticano.
La
riflessione di Benedetto XVI è molto concreta. Parte dall'esperienza vissuta in
profondità, con i Paesi che visita, e con i popoli che incontra.
L'ecumenismo
con gli Ortodossi
Cipro
è un Paese à stragrande maggioranza ortodosso, almeno nella parte greca
dell'Isola. Il papa ricorda con grande gratitudine l'indimenticabile ospitalità
della Chiesa ortodossa. A questo punto fa un commento ecumenico di una grande
ricchezza spirituale e teologica: "Anche se la piena comunione non ci è
ancora donata, abbiamo tuttavia constatato con gioia..." ed enumera quattro
caratteristiche.
Questa
premessa significa due cose: la prima è che esiste già una comunione con la
Chiesa ortodossa, ma non è ancora perfetta e piena. Ed è importante che il
capo della Chiesa cattolica affermi con chiarezza che la comunione esiste già.
La seconda è che questa premessa indica il desiderio profondo del Papa che ci
sia "la piena comunione". La teologia cattolica riconosce che la
comunione esistente tra le due Chiese permette già adesso la "communicatio
in sacris" (il condividere in particolare l'Eucaristia) in alcune
circostanze, anche se viceversa la Chiesa Ortodossa non lo consente.
Quanto
alle quattro caratteristiche che ci uniscono, il Papa le enumera:
*
"la forma basilare della Chiesa antica ci unisce profondamente gli uni con
gli altri";
*
"il ministero sacramentale dei Vescovi come portatore della tradizione
apostolica";
*
"la lettura della Scrittura secondo l'ermeneutica della Regula fidei",
*
"infine, la fede nella centralità dell'Eucaristia nella vita della
Chiesa".
Queste
quattro caratteristiche uniscono profondamente le due Chiese. Averle elencate,
così chiaramente e con sobrietà dovrebbe permettere di dare un fondamento
solido alla ricerca ecumenica tra queste due tradizioni.
Ricchezza
della tradizione cattolica orientale
Quando
si parla dell'Oriente cristiano, si pensa spontaneamente all'Ortodossia. Questo
è naturale, se paragoniamo il numero degli ortodossi con quello dei cattolici
orientali. Ma nel Medio Oriente non è del tutto così. Se questa situazione è
assolutamente evidente in Egitto, dove gli ortodossi sono 30 volte più numerosi
che i cattolici, la situazione è diversa nel Libano e nell'Iraq per esempio,
dove i cattolici sono un po' più numerosi degli ortodossi.Il Papa ha voluto
ricordare che la Chiesa cattolica è anche Orientale. Anzi, la Chiesa cattolica
d'Oriente ha una ricchezza liturgica (e non solo liturgica, ma anche teologica,
spirituale, canonica, agiografica, ecc.) variegata, e un'antichità apostolica.
"In manifestazioni imponenti, abbiamo potuto vedere la ricca cultura
cristiana dell'Oriente cristiano". Aggiungerei una nota: menzionando la
liturgia latina accanto a quelle maronita e melchita, il papa suggerisce che la
Chiesa latina è altrettanto orientale come le altre Chiese: essa fa uso della
liturgia occidentale romana, ma la stragrande maggioranza dei suoi fedeli sono
orientali, anzi comprende spesso più Arabi dei fedeli delle altre Chiese
d'Oriente.
Un
Paese diviso dalla violenza
Cipro
vive una tragedia che rischia di diventare definitiva: la divisione del Paese in
due, tra Turchi (musulmani) e Greci (ortodossi). Una divisione molteplice:
linguistica, etnica e religiosa. Il Papa ha vissuto questa divisione, avendo
alloggiato proprio alla Nunziatura situata sulla linea di separazione tra le due
parti dell'isola. Abbiamo vissuto, durante l'incontro col Santo Padre a Cipro,
il profondo "desiderio di pace e di comunione quali erano esistite
prima", e la sofferenza degli abitanti dell'isola.
Questa
divisione è frutto della violenza. "Tutti sono consapevoli del fatto che
la violenza non porta alcun progresso - essa, infatti, ha creato la situazione
attuale -". Cipro è come un appello negativo alla non-violenza. Chi ci
vive si accorge quanto la violenza non porta nessun bene, ma solo distruzione e
male, che può durare indefinitamente!
Di
fronte a questa situazione, nessuno può rassegnarsi, il Papa meno di chiunque!
Non si può accettare questa situazione! Esorta i fedeli e tutti quanti:
"Preparare la gente per questo atteggiamento di pace è un compito
essenziale della pastorale". Così facendo indica una delle missione
fondamentale della Chiesa, in particolare laddove c'è (o c'è stata) guerra!
Ma
come realizzare la pace, come raggiungerla? Come rifare una unica nazione
cipriota per il bene di tutti? Esiste un'unica metodo: "Solo nel
compromesso e nella comprensione vicendevole può essere ristabilita un'unità",
afferma Benedetto XVI. "Compromesso" è una parola che non piace a
nessuno. Eppure è necessaria in certi casi. Ma il compromesso, se non è
accettato in profondità, rischia di non resistere: deve essere accompagnato
della comprensione per l'altro. Pensiamo tutti alla situazione tra Israele e
Palestina, che dura da più di 60 anni: se ognuna delle parti non cerca di
"capire", "comprendere" la posizione dell'altro, non ci sarà
mai pace!
Il
Santo Padre torna qui su un punto essenziale nel suo pensiero: la violenza, per
qualunque motivo, non può essere giustificata. Essa porta solo disagio,
all'individuo come alla comunità. E come aveva già detto a Regensburg (e
riprenderà nella seconda parte), è in opposizione a Dio e alla Fede. E' un
messaggio di pace assoluta, costi quel che costi!
Conclusione
Come
si vede, la teologia di Benedetto XVI parte dall'esperienza concreta che fa,
esperienza interiorizzata, meditata e riflettuta. E' una riflessione profonda su
tutto ciò che sperimenta nei suoi viaggi. In questo, si rivela un vero
intellettuale: non nel senso di chi fa dei discorsi teorici e delle
considerazione astratte, ma nel senso di chi riflette sui fatti per tirarne
delle conclusioni per la vita di ogni giorno!
Natale
a Betlemme : bandita la croce dai souvenir
AsiaNews - Betlemme - 21 dicembre 2010
Per
timore del fondamentalismo islamico, laboratori tessili di Hebron e Gerusalemme
producono e vendono magliette e altri oggetti raffiguranti la chiesa della
Natività senza croce. Discriminazioni e crisi economica costringono i cristiani
a fuggire dai territori palestinesi e da Israele. Il rischio è vedere in futuro
una Terra Santa senza cristiani. Intervista a Samir Qumsieh, direttore della
televisione cattolica Al-Mahed Nativity Tv Station di Betlemme.
Questo
Natale a Betlemme la croce è stata bandita dai souvenir destinati a turisti e
pellegrini in Terra Santa. Alcuni laboratori tessili di Gerusalemme ed Hebron
hanno iniziato a stampare e vendere magliette che raffigurano la chiesa della
Natività di Betlemme senza croce. Per la crescita del fondamentalismo islamico
nei territori palestinesi, la croce è stata eliminata anche dalle t-shirt delle
squadre di calcio. Intervistato da AsiaNews, Samir Qumsieh, giornalista e
direttore della televisione cattolica Al-Mahed Nativity Tv Station di Betlemme,
afferma : " Voglio lanciare una campagna per invitare la gente a non
comprare questi prodotti - afferma - perchè la rimozione della croce è una
intimidazione nei confronti dei cristiani è come affermare che Gesù non è mai
stato crocifisso ".
Come
ogni anno migliaia fra autorità, fedeli e turisti provenienti da tutto il mondo
affolleranno la notte del 24 dicembre la Chiesa della Natività di Betlemme per
la messa di mezzanotte. Essa sarà celebrata dal patriarca latino di Gerusalemme
e vi parteciperanno la più alte cariche dell'Autorità palestinese.
Qumsieh
dice che la popolazione sta vivendo questi giorni con gioia, ma la situazione
dei cristiani resta comunque drammatica. Secondo il giornalista, il dialogo di
questi anni tra islamici, cristiani ed ebrei non ha cambiato la situazione.
"
In Terra Santa - afferma Qumsieh - l'emigrazione dei cristiani è in continua
crescita, anche se le autorità si rifiutano di dare numeri precisi. Ogni giorno
vi sono persone che fuggono in altri Paesi . Noi cristiani viviamo in una
costante sensazione di paura e incertezza e se tu vivi sempre con addosso una
tensione e brutti pensieri non puoi pianificare nulla .
Secondo
il giornalista " la popolazione scappa perchè non c'è lavoro e i
controlli israeliani limitano gli spostamenti ". Altro fattore sono invece
i problemi interni alla Palestina, come lo scontro tra Hamas e Fatah, che ha
riflessi sulla situazione economica . Qumsieh sottolinea che dal 2002 al 2010 la
popolazione cristiana di Betlemme è scesa da oltre 18mila persone a
11mila. A Gaza, dopo la salita al potere di Hamas nel 2006, i cristiani sono
scesi di circa 3200 unità, passando da oltre 5mila a meno di 1800 nel 2010. A
Gerusalemme vivono invece solo 15400 cristiani (2% della popolazione), come
riporta uno studio del Jerusalem Institute for Israel Studies. Essi sono
il 50% in meno rispetto ai 31mila registrati residenti nel 1948, quando i
cristiani rappresentavano circa il 20% della popolazione della città.
Il
giornalista dice che se l'esodo andrà avanti non ci saranno più cattolici in
Terra Santa e che un giorno la chiesa della Natività potrebbe essere
trasformata in un museo. " Se non ci sono più cristiani in Terra Santa -
afferma - non ci potranno più essere cristiani da nessuna parte ".
Intanto,
in occasione delle celebrazioni per il Natale, l'esercito israeliano ha ordinato
ai soldati dislocati nei territori palestinesi occupati di agevolare il
passaggio dei pellegrini cristiani ai posti di blocco. Ai militari è stato
anche distribuito un opuscolo che spiega l'importanza del Natale per i cristiani
e invita i soldati a evitare inutili discussioni e ostacoli alle frontiere con
la West Bank. (S.C.)
Anche
la Bolivia riconosce la Palestina come Stato indipendente. Panico in Israele
di
Joshua Lapide
AsiaNews - Gerusalemme - 23 dicembre 2010
Lo
hanno già fatto Brasile, Argentina e Venezuela. L'Uruguay riconoscerà la
Palestina nel 2011; in Cile se ne discute. Il riconoscimento
"unilaterale" è sconsigliato dagli Stati Uniti. Dubbiosa la Ue.
Israele ha chiesto a tutti i suoi ambasciatori di opporsi in tutto il mondo a
simili iniziative.
Nella
tarda serata di ieri, il presidente Evo Morales ha annunciato che la Bolivia
riconosce formalmente lo Stato palestinese all'interno del confini del 1967.
Morales ha detto pure che in questi giorni scriverà a Mahmoud Abbas, presidente
dell'Autorità palestinese, per informarlo di questa decisione.
Nelle
scorse settimane Brasile e Argentina hanno riconosciuto lo Stato palestinese; lo
stesso ha fatto il Venezuela; l'Uruguay ha annunciato che lo farà entro il
prossimo anno. Un gruppo di parlamentari cileni sta spingendo perché il
riconoscimento avvenga anche da parte del Cile, dove vive una comunità
palestinese di oltre 300 mila persone.
Secondo
i presidenti di questi Stati, il riconoscimento della Palestina sarà di aiuto
per ricercare una coesistenza pacifica con gli israeliani. In più, questi passi
diplomatici rappresentano una scossa perché il dialogo fra le due parti, da
tempo bloccato, possa riprendere fiato.
Gli
Stati Uniti - che sono stati incapaci di fermare il proliferarsi di insediamenti
israeliani nei territori occupati (una condizione sempre richiesta dai
palestinesi per riprendere il dialogo) - hanno messo in guardia dal
riconoscimento "unilaterale" di uno Stato palestinese.
L'Unione
europea invece ha deciso di "aspettare il tempo opportuno" per il
riconoscimento.
L'offensiva
diplomatica palestinese preoccupa la diplomazia israeliana. Secondo fonti di
AsiaNews, il governo d'Israele ha chiesto a tutti i suoi ambasciatori di
vigilare e di frenare ogni iniziativa che porti nel futuro ad accrescere il
numero di nazioni che riconoscono lo Stato palestinese.
L’Eni paga 30 milioni
Nigrizia
- 21 dicembre 2010
Trovato
l’accordo con le autorità di Abuja per la mega tangente di 182 milioni di
dollari versata a politici locali dal gruppo Tskj, di cui faceva parte anche il
gigante italiano. Evitato il processo. Che continua, invece, in Italia. Quella
somma si aggiunge ai 365 milioni che l’Eni deve pagare, per la stessa vicenda,
negli Usa.
Per
mettere a tacere ogni scandalo, Snamprogetti Netherlands, che fa capo a Saipem
del gruppo Eni, ha deciso di chiudere la partita giudiziaria in Nigeria,
mettendo sul tavolo della procura di Abuja 30 milioni di dollari, più 2,5
milioni per il rimborso spese e per costi legali sostenuti dal governo del paese
africano.
Spese
che saranno rimborsate a Saipem dallo stesso cane a sei zampe, affinchè quei
costi non vadano ad impattare sui bilanci della controllata.
La
vicenda tacitata così lautamente ha nel suo cuore un gigantesco caso di
corruzione internazionale. La compagnia di Paolo Scaroni ha fatto parte dal 1994
al 2004 di un consorzio (Tskj) guidato dall'americana Halliburton e composto da
quattro multinazionali - oltre alla compagnia texana e al gruppo italiano, dalla
giapponese Jgc e dalla francese Technip - il quale avrebbe versato 182 milioni
di dollari in tangenti per corrompere politici e alti funzionari nigeriani con
lo scopo di aggiudicarsi l'autorizzazione a costruire impianti di liquefazione
di gas. I benefici dell'operazione si sarebbero aggirati intorno ai 6-7 miliardi
di dollari.
In
Nigeria, per questa vicenda, è finito in carcere anche il direttore di
operazioni di Saipem, l'italiano Giuseppe Surace. Il 25 novembre 2010, l'EFCC,
la Commissione per i crimini economici e finanziari della Nigeria, ha
autorizzato la perquisizione degli edifici della Halliburton a Lagos. In questa
occasione sono stati arrestati dieci impiegati e due direttori, così come il già
citato amministratore delegato della Saipem, e il suo omologo francese della
Technip.
Una
tangente per la quale l'Eni ha dovuto aprire i cordoni della borsa anche negli
Stati Uniti. L'holding di Scaroni dovrà infatti versare una multa complessiva
di 365 milioni di dollari all'amministrazione americana () per porre fine
all'azione penale portata avanti dal dipartimento della giustizia statunitense,
visto che quel caso di corruzione ha violato anche alcune nomative previste
dalla legislazione Usa.
Se
in Nigeria e negli Stati Uniti, le autorità giudiziarie si sono accontentate
del risarcimento milionario, non altrettanto sta accadendo in Italia. Per la
medesima ipotesi di corruzione, infatti, nell'udienza preliminare del processo
in corso a Milano, ieri il pm Fabio De Pasquale ha ribadito le richieste di
rinvio a giudizio per cinque persone fisiche. Le quali sono indagate per
corruzione internazionale, mentre Saipem è indagata per l'ipotesi di aver
violato la legge 231 sulla responsabilità delle aziende.
La
prossima udienza è stata fissata per il 30 dicembre, nella quale il giudice
Simone Luerti scioglierà le riserve sulle eccezioni presentate dalle difese,
mentre in quella successiva, il 12 gennaio, potrebbe decidere sul rinvio a
giudizio.
Ma
in Nigeria, l'Eni deve fronteggiare anche un'altra accusa. Questa volta l'ha
presentata, in settembre, una ong internazionale, l'Environmental Earth Right
Action, che ha pubblicato il rapporto di una spedizione sul campo nel quale si
documenta un nuovo sversamento di petrolio dagli oleodotti dell'Agip in Nigeria.
L'inquinamento ambientale e il suo risarcimento da parte delle multinazionali
dell'oro nero restano uno snodo ancora irrisolto.
L'Africa,
comunque, rappresenta per il gruppo Eni il 52% della sua produzione mondiale. Lo
ha confermato in un'intervista a Jeune Afrique lo stesso amministratore delegato
Paolo Scaroni. Il quale ha dichiarato che il continente «è la chiave della
nostra crescita futura» e che la sua società investirà in Africa 14,5
miliardi nei prossimi 4 anni. Non si tratta soltanto di investimenti nel Nord
Africa (Algeria, Libia ed Egitto), dove il gruppo opera da decenni, o
dell'Angola, che è divenuta una ricca miniera di denaro. L'Eni ha deciso di
investire anche in Togo, paese trascurato da altri gruppi.
La
Shell nel delta del Niger: petrolio e diritti rubati
Misna
- 21 dicembre 2010
A
Koroama manca l'acqua da sei mesi. "Prima hanno dragato il fiume, poi hanno
cominciato a bruciare il gas" racconta Kingsay Kwokwo, un capo villaggio
che alla "responsabilità sociale" delle multinazionali del petrolio
non crede più. In quest'angolo del Delta del Niger, nello Stato di Bayelsa
sotto il tacco della Royal Dutch Shell, la MISNA è accompagnata da un piccolo
gruppo di difensori dei diritti umani. "Le società straniere promettono
milioni di dollari in progetti di sviluppo locale, ma spesso alle comunità non
arriva nulla" dice padre Edward Obi, un missionario che dirige il Center
for Social and Corporate Responsibility (Cscr). L'ultima conferma arriva dalla
regione di Gbaran-Ubie, dove a giugno è stato inaugurato un impianto
"integrato" per il petrolio e il gas naturale. L'opera è una delle più
significative tra quelle realizzate da Shell, alla conquista del Delta dal 1936.
A pieno regime l'anno prossimo sarà in grado di produrre un miliardo di metri
cubi di metano al giorno, circa un quarto dell'intera produzione nigeriana. Gli
idrocarburi sono raffinati sul posto prima di essere inviati a Bonny Island, un
terminale noto alle cronache per le tangenti milionarie versate a politici e
funzionari da società nordamericane ed europee. A Koroama, invece, resta la
rabbia. Il villaggio è sventrato da due oleodotti nonostante la loro
costruzione fosse vietata da uno studio di sostenibilità ambientale effettuato
dal governo nigeriano nel 2005. "Quel documento - sottolinea padre Edward -
prevede anche che Shell garantisca un sistema di forniture di acqua potabile per
compensare almeno in parte i danni ambientali". I giovani del Center for
Social and Corporate Responsibility hanno raggiunto 17 villaggi e intervistato
centinaia di persone. Degli acquedotti promessi non c'è traccia, nonostante
Shell sostenga che dall'inizio dei lavori le comunità locali abbiano ottenuto
"benefici" e "lavoro". Nei villaggi ricordano come fosse
ieri le promesse che l'odore e i veleni del gas bruciato sarebbero durati poco.
"Ma da giugno le fiamme nel cielo del Delta non si sono mai spente"
assicura un capo tradizionale che dal suo villaggio vede ciminiere e torri di
metallo. C'è rabbia e delusione anche quando si parla di lavoro, "300
posti a tempo indeterminato" sostiene Shell. "I tecnici e gli operai
li portano da fuori" risponde la gente dei villaggi. A maggio le proteste
delle donne della regione di Gbaran-Ubie hanno costretto il governatore di
Bayelsa a una mediazione. Per completare i "progetti sociali" previsti
da un accordo firmato da Shell con le comunità locali, ora, ci sarà tempo fino
al 31 dicembre. "Ma anche questa - dicono alla MISNA dal Delta - è solo
un'illusione".[VG]
L'imam: "Chi semina l'odio tra di noi è un terrorista"
di Claudio
Monici
Avvenire
- 24 dicembre 2010
Muhammad
Ibraim è a capo del Comitato di Faisalabad per il dialogo interreligioso:
"Un'aula del mio luogo di culto è stata dedicata a un vescovo
cattolico"
"
Chi cerca di spezzare i rapporti di convivenza, fraternità reciproca e di
solidarietà, che sono sempre esistiti e continuerano a esistere tra la comunità
musulmana e quella cristiana del Pakistan, non ha nulla a che fare con la
religione. Questi personaggi, che per fortuna sono pochi, sono solo dei
terroristi. La parola di Dio non appartiene a loro". L'imam Muhammad Ibraim
è a capo del Comitato provinciale per il dialogo interreligioso e per la pace
nel Punjab, vive a Faisalabad, dove predica nella sua moschea.
Quando
gli domandiamo come stanno i rapporti tra cristianesimo e islam in Pakistan,
risponde: "Accade molto di frequente che nelle occasioni importanti ci
ritroviamo insieme a celebrare le rispettive ricorrenze religiose. E dirò di più,
la mia moschea fa anche da seminario religioso, e un'aula è stata dedicata a un
vescovo cattolico. L'abbiamo voluta elevare alla memoria della figura di
monsignor John Joseph, il vescovo di questa città, che sacrificò la vita in un
gesto estremo pur di difendere un suo fedele ingiustamente accusato di
blasfemia. Credo che una dedica simile non esiste in nessun'altra moschea al
mondo ".
-Era
la primavera del 1998 e fu proprio un caso di blasfemia, come oggi accade per
Asia Bibi e altre vittime di una legge ritenuta iniqua. Lei cosa ne pensa?
Che
è una legge sbagliata lo dissi già all'epoca della sua approvazione,
trent'anni fa. E già allora prevedevo che si sarebbe ritorta contro tutti,
perché male interpretata e, soprattutto, utilizzata per scopi ambigui. Ha
colpito tutti: il 45 per cento degli accusati sono di religione musulmana,
mentre le accuse quasi sempre sono solo vendette personali. Ma se non ci fosse
una legge a regolamentare, comunque, l'offesa verso una religione, ci troveremmo
di fronte alla giustizia sommaria, della strada, anche se poi anche questo
accade di già.
-Ritiene
che anche i predicatori debbano avere un senso di responsabilità nei loro
sermoni quando si rivolgono ai fedeli, insegnando il rispetto e la tolleranza
verso le minoranze religiose?
Senza
dubbio. È molto importante che sia così. Bisogna insegnare a imparare a
convivere con gli altri, senza danneggiare il credo altrui, ma rispettandolo.
Però, affinché sia così, tutte le religioni del Libro devono essere
rispettare. Anche l'islam. Certe azioni e certi personaggi andrebbero
scoraggiati dal promuovere i falò del Corano o le vignette blasfeme. Tutto
questo è sbagliato e non porta da nessuna parte. Crea soltanto il male e
l'odio.
-C'è
qualcosa che, secondo lei, andrebbe fatto di più per impedire il proliferare di
un terrorismo che dice di agire nel nome di una religione?
Dobbiamo
sconfiggere la povertà e far vincere l'istruzione. Nessun credo al mondo
insegna la parola terrorismo. Nessuna religione al mondo spinge i propri fedeli
agli attacchi suicidi, promettendo loro cose che non ci sono. Ma è proprio
approfittando di quell'enorme bacino strabordante di povertà e ignoranza che i
capi del terrorismo attingono a piene mani e comandano la morte.
-Domani
ricade la ricorrenza cristiana del Natale: lei ogni anno fa visita alla comunità
cristiana, a cominciare dal suo vescovo, per omaggiarli di doni. Ha già idea di
quello che dirà loro?
Il
mio messaggio sarà di pace, nell'insegnamento che è stato affidato da Gesù ai
cristiani attraverso le parola amore, tolleranza e accettazione. Parole che ogni
cristiano conosce, rispetta, e che come messaggio di speranza diffonde nel
mondo.
Assolto padre Mario Bartolini
MissiOnLine
- 22 dicembre 2010
Dopo
ripetuti rinvii è arrivata la sentenza che ha scagionato il missionario
italiano. Ma il procuratore ha annunciato che ricorrerà in appello
Padre
Mario Bartolini è stato assolto. Dopo ripetuti rinvii, dovuti a un prolungato
sciopero dei lavoratori del Potere Giudiziario, martedì 21 dicemebre il
tribunale di Yurimaguas (Perù) si è finalmente pronuciato sul caso del
missionario, accusato di "ribellione" assieme a Geovanni Acate e altri
leader indigeni per aver sostenuto la maximobilitazione indigena culminata nei
sanguinosi scontri di Bagua del giugno 2009. Mario Bartolini e Geovanni Acate
sono stati assolti da tutte le imputazioni a loro carico. Altri cinque leader
indigeni, invece, sono stati condannati a cinque anni con la condizionale. Il
procuratore dello Stato ha già annunciato che ricorrerrà in appello contro la
sentenza che scagiona Bartolini e Geovanni. La stessa cosa faranno gli avvocati
dei cinque leader condannati.
Violazione diritti umani, governo autorizza missione esperti Onu
Misna - 20 dicembre 2010
Il
governo di Colombo ha acconsentito all'ingresso nel paese di una delegazione di
esperti dell'Onu, incaricati di indagare sui sospetti crimini di guerra commessi
dall'esercito sui civili nel 2000, durante l'offensiva contro i ribelli delle
Tigri Tamil. Lo riferisce la stampa locale sottolineando che la decisione di
inviare una missione è stata presa dallo stesso Segretario generale Ban
Ki-moon, i cui emissari incontreranno in una data ancora da stabilirsi, i
colleghi di una commissione di riconciliazione nazionale già oggetto di
critiche da parte di numerose ong locali per la sua "mancanza di
indipendenza" nei confronti del potere centrale. Nell'annunciare la
decisione, Ban Ki-moon ha espresso soddisfazione per la collaborazione mostrata
dal presidente Mahinda Rajapaksa. Secondo stime delle Nazioni Unite circa 7000
civili sono rimasti uccisi nei primi quattro mesi del 2009, che hanno anticipato
l'ultima cruenta offensiva sulla spiaggia di Mullaitivu, dove si ritiene fossero
rimasti intrappolati tra il fuoco dell'esercito e quello dei ribelli 100.000
civili tamil. [AdL]
L'esercito
si prepara al Natale insieme a cristiani e buddisti di Melani Manel Perera
AsiaNews
- Colombo - 21 dicembre 2010
A
Colombo e nel nord del Paese molti eventi sono organizzati per celebrare la
nascita di Gesù "portatore di pace". Concerti, balli, scambi di
regali: diverse le iniziative a cui hanno preso parte leader religiosi e
spirituali cattolici, buddisti e musulmani. In un clima di armonia nazionale,
dopo trent'anni di guerra.
Nel
nord dello Sri Lanka, in particolare nelle zone colpite dalla guerra, l'esercito
nazionale insieme con i cattolici locali ha organizzato molte iniziative per
celebrare il prossimo Natale. Buddisti, sacerdoti, monaci e suore hanno
partecipato ai diversi eventi, festeggiando la nascita di Gesù "principe
della pace" con canti, balli, scambi di regali, ascolto reciproco e aiuti
per i più bisognosi. Funzionari dell'esercito hanno poi sottolineato che il
"perdono", uno dei significati di questa festa, è un dono importante
del cristianesimo.
Nella
cappella del St. Joseph College (Colombo) l'Associazione cristiana dell'esercito
dello Sri Lanka ha organizzato un concerto di Natale il 19 dicembre scorso. P.
Joseph Benedict, cappellano dell'esercito, ha recitato la preghiera d'apertura e
ha ringraziato Dio per tutti i soldati che hanno combattuto per portare la pace.
E ha fatto benedetto i militari che servono nell'esercito. P. Sylvester
Ranasinghe, rettore del St. Joseph College, ha spiegato il messaggio cristiano,
sottolineando l'importanza di riconoscere nella società attuale i simboli del
Natale, e attuarli nella nostra vita.
La
Seva Vanitha, un'associazione di aiuto per le famiglie dei caduti in guerra, ha
organizzato una serata di canti natalizi per eroi di guerra nel centro di
riabilitazione Ranaviru sevana, a Ragama, il 17 dicembre scorso. La signora
Manjulika Jayasuriya, presidente dell'associazione, ha presieduto l'apertura, e
ha poi distribuito regali a tutti i pazienti del centro.
L'Interreligious
Foundation for National Harmony e la Child Foundation for Ethnic Harmony hanno
preparato un altro evento sabato 11 dicembre, nella chiesa metodista di Jaffna.
P. Sarath Hettiarachi, presidente dell'Interreligious Foundation for National
Harmony, ha raccontato ad AsiaNews: "Molte persone hanno partecipato alla
serata: circa 500 monaci buddisti, visitatori singalesi, il coro della chiesa
metodista di Gampara, alcuni leader religiosi musulmani e indù. Dal nord sono
arrivati militari e un folto gruppo di tamil. Questo - ha aggiunto il sacerdote
- è la prima volta, dopo trent'anni di guerra, che a Jaffna si celebra il
Natale con una festa del genere. E tutto in nome dell'armonia nazionale".
La corruzione non è un problema
di Nicola Sessa
PeaceReporter
- 13 dicembre 2010
Gli
Stati Uniti passano sulla corruzione e i capricci dei regimi dell'Asia centrale
pure di imporre la propria influenza nell'area
"La
corruzione è rampante in Uzbekistan e la criminalità organizzata è in
rapporti molto stretti con il governo di Tashkent. Questa è la fotografia del
paese fatta dall'ambasciata statunitense in Uzbekistan e rivelata da Wikileaks
nelle ultime ore. Nonostante tutto, il governo americano deve chiudere un occhio
e sopportare i capricci del presidente Islam Karimov che si atteggia come un
khan del diciannovesimo secolo. In gioco, per Washington, ci sono il transito
per il rifornimento in Afghanistan e il lungo lavoro diplomatico per innestare
una salda influenza nell'Asia centrale a discapito della Russia.
L'Uzbekistan
è uno snodo fondamentale del North Distribution Network (Ndn), la rete di
rifornimento che permette di mantenere in piedi la logistica degli eserciti in
Afghanistan. Nel 2009, Karimov minacciò di sospendere il transito dei cargo
perché Hillary Clinton aveva assegnato un premio all'attivista per i diritti
umani Mutabar Tadjibayeva - appena uscita dalle galere uzbeke. L'ambasciatore
americano, convocato da Karimov, trasmise al Dipartimento di Stato Usa tutta la
sua preoccupazione per i "toni gelidi" usati dal presidente. In un
momento così delicato, con delle questioni molto importanti sul tavolo - tra
cui quella dei rifornimenti alle truppe impegnate in Afghanistan - il
rappresentante diplomatico annota che "fare pressioni pubbliche su di lui
(ndr su Karimov, per la questione dei diritti umani in Uzbekistan) può costarci
il transito". Meglio tenere gli occhi chiusi, dunque, e occuparsi delle
vere priorità per Washington.
Stessa
situazione nel vicino Tagikistan: nel preparare la visita dell'allora capo del
Centcom, generale David Petraeus, l'ambasciata americana di Dushambe descrive il
paese soffocato dalla dittatura di Imomali Rahmon - "noto ubiracone" -
e dalla inettitudine di un "Parlamento che discute appena di importanti
atti legislativi come la legge di budget nazionale".
Stando
alle analisi dell'ambasciata di Dushambe, pubblicate da Wikileaks, una parte
degli introiti statali deriva da attività criminali poiché "il Tagikistan
è il principale corridoio di transito per l'eroina" immessa sul mercato
russo e quello europeo. Queste valutazioni, inequivocabilmente negative, non
sono sufficienti a modificare l'atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti
del khan Rahmon: Petraeus aveva il compito di corteggiarlo e "assicurarsi
il suo consenso per il transito di armi e munizioni destinate alle truppe Usa in
Afghanistan", in cambio il generale americano poteva "garantire
l'appoggio degli Stati Uniti per contenere i combattenti (ndr, islamici)
nell'est del paese".
Ma
come risulta dalle comunicazione intercorse tra l'ambasciata di Dushambe e
Washington, Rahmon non si accontentava e chiedeva premi materiali per
l'assistenza prestata, "grandi infrastrutture - quali centrali elettriche,
tunnel per il Pakistan e ponti sul nulla". Le assurde richieste del
presidente tagiko vengono però valutate positivamente dall'ambasciata Usa in
quanto segnavano un progressivo allontanamento del Tagikistan dalla Russia, un
passaggio importante nella strategia a lungo termine degli Stati Uniti che vuole
imporre - a qualsiasi prezzo - il proprio predominio strategico nell'area.
Via
libera del Senato americano al trattato sul disarmo nucleare di Alberto Simoni
La Stampa - 22 dicembre 2010
Ma
per Obama è una vittoria a metà
Alla
ratifica del nuovo trattato di disarmo nucleare "New Start" manca solo
la firma del presidente americano Barack Obama. Dopo il voto procedurale di
ieri, che chiudeva il dibattito e portava alla votazione finale, l'esito del
voto di oggi appariva scontato, salvo sorprese dell'ultimo secondo.
Sorprese
che non ci sono state: il Senato ha detto sì alla ratifica del trattato siglato
lo scorso aprile a Praga da Obama e dal presidente russo Dmitry Medvedev, con 71
voti favorevoli e 26 contrari, una maggioranza ben più ampia di quella
necessaria. Dopo il braccio di ferro dei giorni scorsi e la fatica dei
democratici a raccogliere consensi, la strada si è spianata ieri quando dieci
repubblicani si sono detti pronti a votare con la maggioranza (i democratici
contavano di arrivare a 57 voti tra le proprie fila, mentre per la ratifica
servono i due terzi dei voti).
Il
trattato prevede che Stati Uniti e Russia riducano progressivamente i propri
armamenti nucleari in modo che, entro sette anni dalla ratifica, nessuno dei due
Paesi abbia più di 1.550 testate nucleari e 700 i vettori nucleari e richiede
il ripristino di ispezioni sui siti, sospese lo scorso dicembre quando è
scaduto il trattato originale. La ratifica rappresenta «un potente segnale al
mondo», è stato il primo commento di Barack Obama. «S’è aperta una
stagione di progressi per l’America. Ciò riflette il messaggio inviato dagli
elettori a novembre, che seguirò anche l’anno prossimo», ha aggiunto il
presidente Usa. Obama si è detto «felice» che democratici e repubblicani
hanno insieme approvato «una delle priorità per la sicurezza nazionale».
Bartolomeo I: continueremo a dialogare con il Papa e con l'Islam
di NAT da
Polis
AsiaNews - Istanbul - 21 dicembre 2010
Il
Patriarca ecumenico difende la scelta del dialogo con i cattolici, gli ebrei e i
musulmani nonostante le critiche avanzate da alcuni settori ortodossi
tradizionalisti. Ecologia: "L'ambiente, la natura, sono creazione di Dio e
non appartengono solo a noi che viviamo oggi nel 2010. Appartengono a tutte le
generazioni future".
Alla
vigilia delle festività natalizie, Bartolomeo I ha pronunciato un importante
discorso di fronte a un pubblico particolarmente qualificato del mondo
ortodosso, difendendo la scelta del dialogo interreligioso da parte del
Patriarcato ecumenico. "Noi insisteremo nel dialogo, malgrado le critiche
che subiamo" ha detto. "Esiste un certo fondamentalismo religioso, un
fenomeno purtroppo tragico, che si trova sia tra ortodossi e cattolici che tra
musulmani ed ebrei. Sono persone che pensano di aver soltanto loro diritto
di esistenza sulla terra, quasi come se dovessero solo loro dominare su questo
nostro pianeta secondo l'Antico Testamento. E secondo loro non c'è posto per
nessun altro, e sono di conseguenza contrari a qualsiasi dialogo".
Il
patriarca ha continuato: "Subiamo critiche e attacchi perché
intratteniamo dei rapporti con il Papa (perché siamo convinti sostenitori
del dialogo ecumenico tra ortodossi e cattolici), con l'islam e con il mondo
ebraico. Ma noi continueremo ad andare avanti per la nostra strada, secondo la
via tracciata dai nostri predecessori, ben consci del nostro operato e
indipendentemente delle critiche di cui siamo oggetto. Questi settori
caratterizzati da posizioni estremiste si trovano dappertutto. E' naturale
dunque che subiamo le loro critiche, secondo i loro dettami ideologici,
tutti noi che cerchiamo di avere orizzonti aperti ed una visione teologica
delle cose. Perche vogliamo la pacifica coesistenza di tutti , basata sui
principi della carità e dell'amicizia".
Bartolomeo
I ha aggiunto: "Questo è il credo del Patriarcato Ecumenico e vi voglio
ricordare che nel 1920 il reggente della sede patriarcale, insieme al sinodo,
avevano indirizzato ai cattolici ed ai protestanti un enciclica, denominata 'La
comunità delle chiese', sul modello dell'appena nata 'Società delle nazioni'.
Quella enciclica viene considerata oggi dal Consiglio Mondiale delle
Chiese come la 'Carta' del movimento ecumenico del nostro tempo. Tutto ciò è
noto agli addetti ai lavori, ed è bene che sia diffuso e fatto conoscere a
quanta più gente sia possibile".
Bartolomeo
I ha sottolineato: "Per quanto riguarda il dialogo interreligioso esso
è il nostro credo e la nostra convinzione. Perché occorre conoscersi
meglio, lavorare insieme rispettando il credo religioso altrui, la sua identità
culturale, senza sopraffazioni. Questo è l'unico modo per poter vivere in
pace. Per questo motivo il Patriarcato, oltre ad avere un dialogo con altre
Chiese e confessioni cristiane, da 25 anni ha avviato un dialogo con l'islam e
l'ebraismo. Abbiamo fatto con successo diversi incontri. Con i musulmani e gli
ebrei, i nostri fratelli, non si discute di questioni puramente teologiche in
quanto sarebbe più difficile. Ma si discute di questioni sociali, questioni
sociali a cui sono sensibili tutte le persone, tutta l'umanità, in tutto
il mondo".
L'ecologia
è uno dei temi favoriti del Patriarcato ecumenico dal 1989. Il Patriarca ha
detto: "Tutto quello che cerchiamo di fare lo facciamo perché riteniamo
che sia nostro dovere, perché la Chiesa dovrebbe essere attivamente presente
nella scena contemporanea ed essere sensibile ai problemi della gente,
incoraggiarla e sensibilizzarla ad amare e proteggere la natura come la propria
casa". E ha aggiunto: "L'ambiente, la natura, sono creazione di Dio e
non appartengono solo a noi che viviamo oggi nel 2010. Appartengono a
tutte le generazioni future".
Monsignor
Dositheos, portavoce del Patriarcato, ha commentato per AsiaNews l'omelia del
Patriarca: "Prevale una certa confusione in alcuni settori del mondo
cristiano ortodosso tra i due termini, tradizione e tradizionalismo. La
tradizione, a cui fanno spesso appello queste minoranze, è la continua ricerca
di interpretare e capire la verità; mentre il tradizionalismo a cui in sostanza
appartengono queste minoranze, rappresenta una sterilità intellettuale che
spesso e volentieri si identifica nel mondo ortodosso con il nazionalismo".
La Chiesa celebra il Natale coi più poveri
di J.B. Vu
Asianews
- Hanoi - 23 dicembre 2010
Diversi
eventi sono stati organizzati in tutto il Paese per portare lo spirito natalizio
tra le persone in difficoltà. Sacerdoti, suore, seminaristi e volontari hanno
distribuito doni ai malati di Hiv/Aids, bambini orfani, anziani soli, poveri,
disabili e lebbrosi. L'arcivescovo di Hanoi ai cattolici: "con il vostro
esempio risvegliate la coscienza della società".
La
Caritas e la Chiesa vietnamita hanno deciso di celebrare il Natale di quest'anno
coi più poveri del Vietnam, organizzando in tutto il Paese eventi e feste.
Nella cattedrale di Hanoi oltre mille persone - tra bambini di strada, anziani,
malati di Hiv/Aids e poveri - hanno partecipato ieri alla messa per celebrare la
nascita i Gesù. Dopo la funzione, alcuni gruppi hanno ricevuto regali di Natale
da sacerdoti, suore, seminaristi e volontari che hanno lavorato e vissuto con
loro nell'ultimo periodo.
Mons.
Nguyen Van Nhon, arcivescovo di Hanoi, ha espresso parole di speranza con i
volontari: "La vostra presenza ci ricorda che non bisogna perdere tempo. E
che dobbiamo fare il nostro dovere e vivere secondo la nostra missione. Voi
siete stati coraggiosi nell'accettare una vita dura, che ci rende persone
appassionate ed entusiaste. Se talvolta vi sentite tristi, delusi perché
pensate di non fare nulla, dovete invece essere fieri e pensare che con il
vostro esempio avete risvegliato la nostra coscienza e quella della società".
Nel
corso della settimana, con il tema "Il Natale d'amore", i fedeli della
diocesi di Phan Thiet hanno fatto visita e portato doni a 230 famiglie che
vivono in circostanze difficili, centinaia di orfani, anziani soli e persone
disabili. Il 24 e il 25 dicembre la Caritas della diocesi porterà "Il
Natale d'amore" alle persone che vivono in isole piccole e remote come le
Phu Qui e le Binh Thuan.
Il
centro pastorale dell'arcidiocesi di Saigon ha organizzato un Festival di Natale
per 4500 disabili. L'evento è un'opportunità per lavoratori sociali,
volontari, direttori di rifugi e centri d'accoglienza di portare la felicità e
la pace del Natale ai rifugiati.
Rappresentanti e volontari della Caritas nazionale hanno pure visitato i lebbrosi del sanatorio Eana di Ban Me Thuot, e quelli del Dakkia e del Darring nella diocesi di Kontum. C'è stata mobilitazione anche tra le persone, che hanno donato soldi e medicine ai malati, e innalzato preghiere per lebbrosi, orfani e disabili degli altopiani.