Bangl@news |
|
Anno XII N° 537 5/9/12 |
|
Terre rare, è scontro Cina Usa ed Europa per i minerali hi-tec
di Davide
Patitucci
Il Fatto quotidiano - 31 luglio 2012
Usa,
Europa e Giappone hanno deciso di denunciare la Repubblica Popolare
all’Organizzazione mondiale del commercio, perché ha tagliato del 27% le
esportazioni dei minerali utilizzati per smartphone e pc. Il Wto ha costituito
un comitato di esperti per esaminare la questione
Indio,
Europio, Tantalio. I loro nomi ci dicono ben poco. Eppure ne siamo circondati.
Tanto da non poterne più fare a meno. Senza questi preziosi minerali, poco meno
di una ventina, riuniti sotto la definizione di terre rare, i nostri smartphone
e computer cesserebbero, infatti, di funzionare. I grandi del pianeta lo sanno e
attorno a questi nomi litigano da anni. L’ultimo scontro è di queste
settimane. Usa, Europa e Giappone hanno deciso di denunciare la Cina al Wto,
l’Organizzazione mondiale del commercio. Giorni fa è arrivata la risposta del
Wto, che ha deciso di dar seguito alla denuncia costituendo un comitato di
esperti per esaminare la questione.
L’accusa
rivolta al gigante asiatico è di “avere violato le regole del mercato,
riducendo l’esportazione di questi metalli nel tentativo di favorire le
aziende cinesi a danno delle concorrenti e dei consumatori”. Pechino ha
deciso, infatti, di tagliare le esportazioni del 27 per cento nella prima metà
del 2012. E di ridurre, da 26 a 11, il numero di aziende autorizzate a vendere
all’estero i propri prodotti. Già nel luglio 2010 e nel gennaio 2011 il
Governo cinese aveva deciso di decurtare del 40 per cento la produzione di terre
rare. Che, secondo quanto riferisce l’agenzia Bloomberg, dovrebbe fermarsi
quest’anno intorno alle 31mila tonnellate. Una decisione che ha provocato la
reazione del presidente Usa Barack Obama: “Se la Cina lasciasse semplicemente
fare al mercato, non avremmo obiezioni. Ma le sue attuali politiche lo stanno
impedendo e vanno contro le stesse regole che Pechino ha accettato di
seguire”, entrando nel Wto nel 2001.
Ferma
la risposta di Pechino attraverso l’agenzia ufficiale Xinhua, che cita il
libro bianco sui costi ambientali e sociali delle terre rare, un rapporto
pubblicato nei giorni scorsi dal Governo cinese per sostenere le proprie ragioni
dopo la denuncia al Wto: “Alcuni paesi sono stati particolarmente agitati in
questo periodo, dandosi a numerose congetture e inventandosi delle storie. La
pubblicazione di questo libro bianco punta ad offrire alla comunità
internazionale una migliore comprensione dell’industria cinese delle terre
rare e delle politiche del paese in questo settore”. Poi i toni sembrano
diventare meno accesi nelle parole del portavoce del ministero del Commercio,
Shen Danyang: “L’obiettivo delle politiche cinesi sull’export delle
materie prime è conforme alle norme del Wto, che permette ai suoi paesi membri
di prendere le misure necessarie per proteggere le loro risorse e il loro
ambiente. Il nostro scopo principale è, infatti, la tutela dell’ambiente e la
realizzazione di uno sviluppo sostenibile”. Nel rapporto si sottolinea inoltre
che “la Cina non intende limitare la libertà commerciale, né tutelare tale
settore interno tramite distorsioni del commercio e continuerà a fornire i
prodotti delle terre rare al mercato mondiale”. Ma, secondo l’International
Herald Tribune, sarebbe proprio questa la vera ragione delle scelte cinesi:
favorire le imprese nazionali, che potranno in questo modo avvalersi di prezzi
più concorrenziali.
Relegate
in un settore marginale della tavola periodica degli elementi, per molti anni le
terre rare sono state ritenute semplice oggetto di curiosità scientifica. Unico
loro utilizzo applicativo quello di pietrine negli accendini. A dispetto del
loro nome, però, non sono così rare. È la dispersione nei sedimenti a
renderle tali, perché i loro procedimenti d’estrazione sono lunghi, costosi e
potenzialmente dannosi per l’ambiente. Esistono giacimenti in molti paesi tra
cui India, Russia, Usa, Canada, Malesia, Sudafrica e Australia. Ma il vero
dominus del settore è la Cina che, pur detenendo il 35 per cento delle riserve
sfruttabili, è il maggior produttore mondiale. Controlla, infatti, più del 90
per cento del mercato globale delle terre rare.
Finora
per molti paesi è stato più conveniente acquistare il materiale necessario per
lo sviluppo del proprio settore hi-tech piuttosto che produrlo. Ma la decisione
di Pechino di ridurre le esportazioni cambia il quadro. Il primo riflesso sarà
un’impennata dei prezzi di queste materie prime sui mercati internazionali,
eccezion fatta proprio per il mercato interno cinese. Una forma di protezionismo
cui gli Usa potrebbero, ad esempio, reagire, ostacolando gli investimenti cinesi
nelle nuove miniere che si stanno sviluppando sul territorio americano. Sullo
sfondo, la guerra di valute tra le prime due economie del mondo. Che dura da
alcuni anni, in concomitanza con l’impetuosa avanzata dell’economia cinese.
Dopo due anni di crescita nei confronti del dollaro, lo yuan è tornato a
indebolirsi, rendendo le esportazioni cinesi più competitive sui mercati. A
tutto svantaggio proprio degli Usa. Il deficit commerciale tra i due paesi
nell’ultimo anno è, infatti, aumentato di 23 miliardi di dollari rispetto al
2010, attestandosi attorno ai 300 miliardi.
Il
comitato del Wto cui è affidato l’incarico di monitorare le politiche cinesi
in tema di esportazione delle terre rare non si è ancora insediato. I lavori
della commissione non hanno una durata prestabilita, ma potrebbero portare
all’imposizione di dure sanzioni alla Cina.
2011,
l'anno delle armi di Benedetta Verrini
Vita.it - 30 luglio 2012
Impennata
delle spese.
Nel
mondo sono stati spesi 1.740 miliardi di dollari. Una cifra mai raggiunta prima.
E intanto la Conferenza Onu sul Arms Trade Treaty si è chiusa con l'ennesimo
nulla di fatto
E’
ancora lungo e tormentato il destino dell’Arms Trade Treaty-ATT, il Trattato
internazionale chiesto a gran voce da un gruppo di Nobel e dalla società civile
mondiale per dotare tutti gli Stati di uno strumento globale, a carattere
universale, capace di fornire regole comuni ed elevati standard normativi sul
commercio di armi.
La
Conferenza Onu che si è aperta a New York i primi di luglio e si è
dedicata all’argomento, vagliando diverse bozze, non è riuscita a concludere
nulla: il 27 luglio il segretario generale Ban Ki-Moon ha rimandato la questione
richiedendo agli Stati membri ulteriori approfondimenti.
La
posta in gioco, inutile dirlo, è altissima: secondo il Sipri Yearbook 2012 (la
ricerca annuale sulla spesa militare curata dall’autorevole centro di ricerca
per la pace di Stoccolma) i paesi del mondo hanno speso 1.740 miliardi di
dollari, nel 2011, per rifornirsi di sistemi d’arma. Secondo l’Istituto
svedese si tratta della cifra più alta mai spesa dalla caduta del muro di
Berlino a oggi.
“Purtroppo
è l’elaborazione stessa del Trattato a essere messa in discussione, di fronte
alla contrarietà di Stati come la Cina e la Russia”, sottolinea Francesco
Vignarca, coordinatore nazionale della Rete Italiana per il Disarmo.
“D’altra parte le bozze in discussione, in particolare quella più rigorosa
sostenuta da 73 paesi tra cui l’Italia, sono state lentamente spogliate dei
passaggi più significativi, sulla base degli interessi commerciali sostenuti da
alcuni Stati esportatori”.
Ad
esempio gli Stati Uniti, che hanno lavorato per una versione “debole” del
testo che escludesse dalle regole il commercio di munizioni. “Non si tratta di
una cosa da poco”, precisa Vignarca, “Il rifornimento di munizioni può
giocare un ruolo chiave nelle sorti di un conflitto. Gli Usa dicono di non poter
controllare questo commercio, sia per ragioni ideologiche sia per ragioni
strategiche”.
Ancora,
è stato discusso di poter consentire agli Stati produttori di ignorare la
questione dei diritti umani e di avere una sorta di “libertà di coscienza”
riguardo a singoli casi, a prescindere dai criteri generali del Trattato.
E
l’Italia? Pur avendo sostenuto la versione di Trattato più rigorosa, alla
fine anche il nostro paese ha difeso gli interessi particolari dell’industria
delle armi, chiedendo che dal testo fossero escluse le armi leggere non a
esclusivo uso militare. “Come se le armi leggere – ha commentato Emilio
Emmolo, ricercatore di Archivio Disarmo (www.archiviodisarmo.it) – non fossero
utilizzate nei conflitti. Invece è universalmente riconosciuto il loro peso
soprattutto nelle guerre africane”.
Le
armi leggere italiane rappresentano un giro d’affari pari a oltre 250 milioni
di euro l’anno. Sono documentati trasferimenti verso paesi in conflitto e ad
alto rischio di violazione dei diritti umani, come la Libia, la Bielorussia e
diversi paesi arabi.
La
nascita del Trattato si confronta dunque con il business, quello dei 5 maggiori
esportatori mondiali, USA, Russia, Germania, Francia e UK, dove americani e
sovietici coprono, da soli, il 54% dell’export planetario. E si confronta
anche con il destino di intere popolazioni, considerata la particolare
“clientela”, non sempre presentabile, dell’export di armamenti: India,
Corea del Sud, Pakistan, Cina e Singapore sono stati i principali acquirenti
negli ultimi cinque anni.
“Chiediamo
al Governo di dettagliare la propria posizione anche di fronte all’opinione
pubblica e alla società civile”, dichiara Vignarca. La richiesta delle realtà
che si battono per un mondo più sicuro e disarmato è quella che l’Italia si
metta in prima linea per rendere il Trattato, nei prossimi passi di discussione
internazionale, maggiormente dettagliato e dotato di strumenti reali di
controllo”.
La
siccità taglia la disponibilità mondiale di cibo
L'emergenza
alimentare frena la ripresa economica dalla crisi. Raccolti distrutti,
diminuzione della produzione e prezzi alle stelle. L'analisi di Coldiretti
Vita.it - 30 luglio 2012
Caldo
e siccità non colpiscono solo l’Italia, il fenomeno è globale. Se in Italia
le coltivazioni agricole hanno subito oltre mezzo miliardo di euro di perdite la
siccità ha distrutto anche i raccolti degli Stati Uniti provocando una carenza
mondiale di cibo con mais, soia e grano che hanno raggiunto prezzi record per
effetto di aumenti che in un solo mese vanno dal 50% per mais e grano al 30% per
la soia. È quanto emerge da una analisi della Coldiretti sulla base delle
quotazioni alla riapertura settimanale al Chicago Board of Trade, punto di
riferimento del mercato a livello internazionale con il mais a quasi 8 dollari
per bushel, il grano a quasi 9 dollari per bushel e la soia a 16,3 dollari per
bushel per consegne a settembre.
La
siccità che ha colpito gli Usa quest’anno - secondo la National Oceanic and
Atmospheric Administration, - è la peggiore dal 1956 in termini di aree colpite
e secondo i dati del governo i raccolti di grano in ''buona o eccellente''
qualità sono appena il 31% mentre per la soia sono il 34%. Negli Stati Uniti,
che sono il maggiore produttore, si stimano perdite nel settore agricolo per 12
miliardi di euro che si stanno facendo sentire anche sul mercato mondiale dove
– sottolinea la Coldiretti - alla crisi finanziaria si aggiunge quella
alimentare poiché se dal grano si ottiene il pane, il mais e soia sono
componenti indispensabili per l’alimentazione degli animali negli allevamenti
per produrre carne e latte.
Coldiretti
precisa che l’andamento dei prezzi delle materie prime agricole sta provocando
effetti sui mercati internazionali dove con i rincari si prospetta una ripresa
dell’inflazione, ma è allarme anche per il commercio internazionale per la
mancata consegna delle forniture con effetti drammatici sul piano della
disponibilità di cibo nei paesi poveri e della sicurezza sociale in paesi come
la Libia o l’Egitto che sono forti importatori di grano.
L’aumento
dei prezzi è giustificato sul piano congiunturale dal clima che ha colpito con
il caldo e la siccità gli Usa mentre un calo dei raccolti è previsto in Russia
nella zona del mar Nero per le alluvioni ed in Ucraina, ma in realtà a pesare
sono anche i cambiamenti strutturali come ha evidenziato l’ultimo rapporto
Ocse-Fao secondo il quale la produzione agricola deve crescere del 60% nei
prossimi 40 anni per far fronte all’aumento della domanda della maggiore
popolazione mondiale, alla richiesta di biocarburanti e alla crescita dei
redditi in paesi come la Cina che spinge al maggiore consumo di carne e quindi
di mangime per gli allevamenti.
In
Italia l’arrivo di Ulisse rischia di dare il colpo di grazia alle coltivazioni
agricole. A essere stati duramente colpiti sono stati - precisa la Coldiretti -
decine di migliaia di ettari coltivati di mais, pomodori, barbabietole e
girasoli a macchia di leopardo lungo tutta la penisola dove in alcune zone non
piove in modo adeguato da mesi. A soffrire con le alte temperature sono anche
gli animali negli allevamenti dove le mucche arrivano a produrre anche il 10% di
latte in meno nonostante gli accorgimenti adottati per garantire il refrigerio
(doccette, ventilatori, ecc.).
Secondo
Coldiretti questa situazione di emergenza conferma l’importanza che l’Italia
difenda il proprio patrimonio agricolo e la propria disponibilità di terra
fertile in una situazione in cui già adesso circa la metà dei prodotti
alimentari sono importati, a cominciare dalla soia (80%), dal grano (50%) e
anche dal mais (20%).
Le
potenze mondiali rinviano l'adozione del Trattato sul commercio di armi
Amnesty.it
- 30 luglio 2012
Mentre
le uccisioni di civili in Siria continuano a occupare le prime pagine dei
notiziari, il 27 luglio Cina, Russia e Stati Uniti d'America hanno fatto in modo
di rinviare quello che avrebbe potuto essere uno storico accordo per porre fine
all'irresponsabile commercio di armi. "Con un morto al minuto a causa
della violenza armata, le potenze mondiali avevano l'obbligo di agire. Il
presidente Obama ha chiesto altro tempo per raggiungere un accordo.
Quanto
tempo gli occorre?" - ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di
Amnesty International. Amnesty International, Oxfam International e la Rete
internazionale d'azione sulle armi leggere restano comunque ottimiste: un
efficace Trattato sul commercio di armi è a portata di mano, dato che la
maggioranza dei governi ha dichiarato di voler continuare a lavorare in
direzione di un trattato forte che protegga i diritti umani. Le quattro
settimane di negoziati alle Nazioni Unite si sono concluse con una dichiarazione
congiunta sottoscritta da oltre 90 paesi, che s'impegnano a ottenere quel
risultato nel più breve tempo possibile. Amnesty International è impegnata da
quasi 20 anni per l'approvazione di questo trattato, convinta che ci sia
disperatamente bisogno di porre fine all'irresponsabile e scarsamente
regolamentato commercio di armi verso governi che le usano per violare i diritti
umani. Ciò ha causato la morte, il ferimento, lo stupro e la fuga dalle loro
terre di milioni e milioni di persone. Un'altra conseguenza dell'assenza
di adeguati controlli è che le armi finiscono nelle mani di signori della
guerra che continuano a colpire le popolazioni civili, come in Afghanistan,
Colombia, Repubblica democratica del Congo e Somalia. "I negoziati di New
York sono stati la cartina di tornasole della volontà dei governi. Una manciata
di potenze è venuta meno ai suoi impegni, privilegiando i suoi interessi
politici. Questa minoranza stavolta ce l'ha fatta ma non potrà più farlo molto
a lungo. La maggior parte dei governi che vuole un forte Trattato sul commercio
di armi deve tenere alta la pressione per poter raggiungere un accordo nel corso
dell'anno" - ha proseguito Shetty.
La
mancanza di leadership da parte di Cina, Russia e Stati Uniti d'America non è
stata l'unica causa ad aver impedito il raggiungimento di un accordo finale. Il
comportamento ostruttivo di Algeria, Corea del Nord, Egitto, Iran e Siria, per
quanto prevedibile, resta senza scusanti. È probabile che la bozza di
accordo verrà trasmessa alla sessione annuale dell'Assemblea generale, prevista
a ottobre. Nell'attuale formulazione, restano centrali il diritto
internazionale dei diritti umani e il diritto internazionale umanitario, a
dimostrazione che la gran parte dei governi è seriamente intenzionata a fare le
cose per bene. Amnesty International ritiene che l'attuale bozza sia un valido
testo, cui apportare miglioramenti su alcuni aspetti specifici che preoccupano
ancora. Se il Trattato sul commercio di armi venisse approvato durante l'anno,
sarebbe la prima volta nella storia in cui i governi sarebbero vincolati da un
accordo internazionale a prendere decisioni sui trasferimenti di armi tenendo
conto della protezione delle popolazioni civili.
Le
ragioni di un disastro di Walter Ganapini
Vita.it - 30 luglio 2012
Forse
non tutti conoscono il milanese Ugo Finzi , l’unico alto funzionario di Banca
Mondiale che , nei primi ’80 , si scontrò con i Chicago boys di reaganiana
memoria prevedendo, con largo anticipo, che se la loro logica – libero mercato
e privatizzazioni subito , no a gestioni graduali della transizione – avesse
vinto nell’ex URSS, gran parte di quell’economia sarebbe finita sotto il
controllo di pochi amici del nuovo potere e della mafia russa , così come grave
sarebbe stato l’impatto sulle condizioni di vita della maggioranza della
popolazione.
Finzi
è l’uomo che , in Banca Mondiale , molto contribuì a redigerne i manuali
sulle liberalizzazioni , secondo una logica semplicissima : quando si governano
beni comuni fondamentali (quali le risorse idriche , energetiche , ambientali) ,
c’è un interesse generale da tutelare attraverso un’Authority ed un
gestore della leva tariffaria che rappresenti quell’interesse ,
come una holding al 100% pubblica. Verificate tali precondizioni , nulla vietava
, secondo Finzi , che tutto ciò che è gestione operativa di Servizi Pubblici
Locali potesse essere ‘divisionalizzato’ , in vista della eventuale ,
successiva , trasformazione delle divisioni in S.p.A. con capitale , in
quel contesto istituzionale , anche per il 100% di proprietà privata.
Nell’Inghilterra
della Thatcher quei servizi pubblici erano stati frettolosamente privatizzati ,
invece , volutamente ritardando di anni la nascita delle Autorithies
(Offgas, Offwat): ciò consentì ai privati ‘neo’monopolisti di far crescere
del 5-600% le tariffe in tempi brevi , con il ‘Financial Times’ che titolava
“L’imbarazzo dei ricchi” , cioè di quel 10% dei sudditi del Regno Unito
cui andò più del 70% dei profitti da privatizzazioni , mentre l’occupazione
nei settori privatizzati calava del 50% ed il restante 90% di Inglesi scontava
impoverimento e sempre peggiori servizi .
Chi
, come me , nel ’95 conobbe la neoprivatizzata Severn Trent a Birmingham , potè
constatare quegli effetti nei Front Offices e Call Centers, i cui
operatori erano controllati in continuo affinchè non concedessero più di
12 secondi a contatto nel gestire richieste di rateizzazione delle bollette da
parte di migliaia di consumatori. La cosa più preoccupante per chi abbia
a cuore l’interesse pubblico ed i beni comuni è , quindi , la deregolazione ,
oggi dominante a partire dalla globalizzazione in atto. Renato Ruggiero , da
Direttore Generale WTO , prima di Seattle, si pose l’obiettivo di frenare tale
tendenza , cercando di inserire nell’aggiornamento dei trattati commerciali
internazionali una “clausola sociale” (e, dietro alla “clausola
sociale”, una “clausola ambientale”) che consentisse reale , per quanto
progressiva , parità di condizioni competitive per la libera circolazione di
merci e persone in un mercato non regolato solo dal dogma ‘cost
cutting’ , tra i cui frutti di quegli anni una delegazione OCSE scopriva
, nei villaggi dell’Indonesia , migliaia di ‘blind virgins’, ragazzine che
erano state impiegate per saldare le basi hardware per l’industria elettronica
in condizioni tali che i gas di saldatura le portavano in pochi anni a cecità.
Queste nozioni ed esperienze sono note alla parte meno incolta del ceto politico
nazionale , così come la percezione che prevalenti modalità di privatizzazione
senza seria liberalizzazione non fan diminuire di un Euro la spesa
dell’utente finale. Perché allora , chiedo loro , avete dato la stura ,
con i provvedimenti contraddittori in materia (da diversi lustri ondivaghi a
partire da quelli del Sottosegretario Vigneri , al Ministero degli Interni retto
da Napolitano) , alla sbornia della ”finanziarizzazione” che tanti danni e
debiti ha generato a carico delle ex-Municipalizzate-‘multiutilities’ ,
contribuendo al declino competitivo dei territori da esse serviti ?
Perché
non avete studiato la rotta dell’Unione Europea, tra l’Inghilterra
post-thatcheriana con Blair costretto ad investire grandi risorse pubbliche nel
recupero di qualità dei servizi e la Francia che , con Governi di destra e di
sinistra, non metteva mai in discussione il monopolista pubblico EDF come
proprio asset strategico ? Anche per managers di aziende pubbliche
l’obiettivo è creare valore per gli azionisti: perché allora non tenere a
mente il modello tedesco , ad esempio di quella RWE nata da 34 Comuni della
Renania-Westfalia prima del nazismo cui sopravvisse, fino a divenire
, nel dopoguerra, società per azioni , riservandone ai 34 Comuni il 30%
con “golden share”e garantendo così radicamento dell’impresa nel proprio
territorio , pur figurando tra le maggiori multinazionali
energetico-ambientali a scala globale . Certo, la politica va allontanata dalla
gestione dei servizi, che facilmente, nelle sue mani, diventa corruttiva e
clientelare : cruciale è allora il rispetto delle regole e dei ruoli,per
cui la proprietà indica gli obiettivi , nomina un Consiglio di Amministrazione
remunerato in modo etico , cui compete di elaborare strategie per conseguire
tali obiettivi , scegliendo i dirigenti incaricati di tradurre le strategie in
interventi, senza accettare, o addirittura promuovere, confusione nei rapporti
tra i livelli ed i ruoli come sopra descritti , confusione che sarebbe premessa
di catastrofi gestionali e di risultati operativi fallimentari.
E
allora , perché siamo al disastro attuale ?
Trattato
armi, dopo fallimento negoziati pressioni su grandi potenze
Misna
- 30 luglio 2012
Quattro
settimane di negoziati non hanno consentito di raggiungere un accordo per la
formulazione e l’adozione di un Trattato sul commercio delle armi
convenzionali (Att, Arms Trade Treaty). “L’incapacità della Conferenza di
New York di concludere il suo lavoro sul tanto atteso Att, nonostante anni di
sforzi condotti dai paesi membri dell’Onu e dalla società civile di tante
nazioni, costituisce una sconfitta” ha detto senza tanti giri di parole il
segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon.
I
negoziati si sono conclusi venerdì scorso e secondo i rappresentanti delle
organizzazioni non governative che hanno seguito i lavori, alla fine a prevalere
sono stati gli interessi di parte di alcune potenti nazioni, Stati Uniti, Russia
e Cina in particolare.
“Con
una persona che muore ogni minuto a causa di violenze armate, dovrebbe essere un
imperativo per le nazioni più potenti fare da guida. Il presidente Obama ha
invece chiesto più tempo per arrivare a un accordo. Ma di quanto tempo ha
bisogno?” si è chiesto Salil Shetty, segretario generale di Amnesty
International.
“Questi
negoziati – ha aggiunto Shetty – hanno rappresentato un test scomodo per i
leader mondiali. Pochi potenti non sono riusciti a sganciarsi dalle loro
posizioni optando invece per un politica di interessi politici nazionali. Questa
minoranza può anche aver voltato le spalle all’opinione pubblica mondiale, ma
non potrà farlo ancora per molto tempo. La maggioranza dei governi che vogliono
un Att forte devono continuare adesso ad esercitare pressioni così che un
accordo possa essere raggiunto già quest’anno”.
La
Campagna Control Arms – di cui fanno parte diverse organizzazioni non
governative – ha sottolineato a sua volta la posizione espressa con un
comunicato congiunto da 90 nazioni che si sono dette amareggiate ma non
scoraggiate” e determinate ad arrivare quanto prima ad un trattato. Secondo
Control Arms bisogna ripartire dalla posizione espressa da queste nazioni per
arrivare a una svolta.
Economia
Verde? No, Giustizia Ambientale
Famiglie/missioItalia
- 29 luglio 2012
“La
cosiddetta green economy, come la stanno impostando i detentori di questa
economia dominata dalla finanza, vuole solamente sostituire i prodotti
convenzionali con i prodotti biologici, passare alle energie pulite
gestite dai grandi gruppi industriali. Con altre parole, passare in tutto al bio
ma senza cambiare le regole e le strutture di questo sistema che ha tutto
l'interesse di continuare con l'attuale consumismo. Oggi con prodotti bio, con
energie rinnovabili e con meccanismi sostenibili. Tutto questo sostenuto dalla
finanza speculativa, senza toccare minimamente il cuore del sistema che sta
distruggendo il pianeta con i suoi popoli. Insomma, non c’è la minima volontà
di fare una profonda revisione di questo sistema di sviluppo per impegnarsi a
superarlo”.
Questi
ed altri i contenuti della riflessione di padre Adriano Sella, missionario e
impegnato nella diffusione dei “nuovi stili di vita”, di una nuova mentalità,
perfettamente evangelica, basata sull’attenzione alla vita, ai rapporti tra le
persone, all’ambiente e alla mondialità, riguardo il recente summit
dell’ONU sullo sviluppo e la sostenibilità ambientale, svoltosi a Rio in
Brasile, dal 20 al 22 giugno scorsi (Rio +20).
P.
Adriano ha avuto modo di partecipare sia a questo vertice che a quello
parallelo, della Cupola dos Povos, organizzato dalla società civile (giovani,
donne, indigeni, piccoli agricoltori e contadini, ecc…) e, a suo dire,
constatare con mano, il fallimento del primo, condividendo le ragioni e la
denuncia del secondo.
La
Green Economy altro non è che un modo mascherato per ricercare il mero
profitto: cambiano in contenuti, ma l’atteggiamento di fondo resta lo stesso.
Diverso è parlare di Giustizia Ambientale. La difesa dei beni comuni passa per
la salvaguardia di una serie di diritti degli esseri umani e della natura.
Un’utopia? No, afferma con decisione padre Adriano, “Ce l’ha insegnato uno
che è apparso sulla terra più di duemila anni fa (…) Gesù di Nazaret”.
No
all’Economia Verde - Sì alla Giustizia Ambientale
Appello
forte e critico dalla Cupola dos Povos al Vertice dell’ONU durante Rio+20
Rio
+20 oppure Rio-20? Il fallimento del Summit dell’ONU sullo sviluppo
sostenibile ha posto questo dubbio. Infatti, il documento finale sottoscritto
dai governi contiene solamente principi generali, senza volutamente definire
mete e obiettivi comuni. Si tratta del flop del multilateralismo, lasciando
spazio solamente al bilateralismo come vogliono gli Stati Uniti. Insomma,
l’ONU non riesce a svolgere una governance mondiale, per poter orientare e
obbligare i vari paesi del mondo ad intraprendere insieme dei percorsi
importanti per il bene dei popoli e del loro habitat che è il pianeta terra. Ho
potuto partecipare ai due Vertici di Rio+20: quello convocato dall’ONU sullo
sviluppo sostenibile con la partecipazione di rappresentanti di varie
organizzazioni non governative, di entità civili e politiche, e delle numerose
delegazioni dei governi del mondo; e l’altro parallelo, chiamato Cupula
dos Povos, organizzato dalla società civile organizzata con la numerosa
partecipazione di movimenti di giovani, di donne, di indigeni, di piccoli
agricoltori e contadini, di afrodiscendenti, di cittadini e di cittadine del
mondo. Dal secondo summit ho potuto raccogliere una critica forte alla green
economy, sostenuta da quello ufficiale dell’ONU, proponendo invece la
giustizia ambientale. Il vertice dei Popoli ha dichiarato che l’economia
verde è il lifting del capitalismo, voluto dall'attuale sistema per dare un
volto verde al capitalismo ma senza la volontà di rivedere lo sviluppo vigente
e di cambiarlo a livello strutturale. “La cosiddetta economia verde è una
delle espressione dell'attuale fase finanziaria del capitalismo, caratterizzata
dall'utilizzo di meccanismi vecchi e nuovi, come l'aumento dell'indebitamento
pubblico-privato, la spinta eccessiva ai consumi, l'appropriazione e la
concentrazione nelle mani di pochi di nuove tecnologie, i mercati del carbonio e
della biodiversità, l'accaparramento di terre spesso da parte di stranieri, i
partenariati pubblico-privato” ha dichiarato il documento finale del vertice
del Popoli. Mi è sembrata una critica molto giusta perché la cosiddetta green
economy, come la stanno impostando i detentori di questa economia dominata dalla
finanza, vuole solamente sostituire i prodotti convenzionali con i prodotti
biologici, passare alle energie pulite gestite dai grandi gruppi
industriali. Con altre parole, passare in tutto al bio ma senza cambiare le
regole e le strutture di questo sistema che ha tutto l'interesse di continuare
con l'attuale consumismo. Oggi con prodotti bio, con energie rinnovabili e con
meccanismi sostenibili. Tutto questo sostenuto dalla finanza speculativa, senza
toccare minimamente il cuore del sistema che sta distruggendo il pianeta con i
suoi popoli. Insomma, non c’è la minima volontà di fare una profonda
revisione di questo sistema di sviluppo per impegnarsi a superarlo. Ecco,
quindi, l’alternativa necessaria, possibile e urgente, secondo la Cupula dos
Povos: la giustizia ambientale e non l’economia verde. Bisogna imparare a fare
insieme giustizia sociale e giustizia ambientale, hanno sottolineato i vari
popoli riuniti nel controvertice di Rio +20. Sono le due facce della giustizia,
senza l'una diventa impossibile l'altra. Infatti, stiamo percependo sempre di più
che inquinando e distruggendo la natura significa compromettere seriamente la
vita dell'umanità e condurre alla morte il pianeta con tutti i suoi abitanti,
umani e non. “La difesa dei beni comuni passa per la salvaguardia di una serie
di diritti degli essere umani e della natura, per la solidarietà e il rispetto
nei confronti della cosmovisione e delle credenze dei diversi popoli, come, ad
esempio, il “Buen Vivir”, inteso come forma di esistenza in armonia con la
natura, che presuppone la costruzione di una transizione giusta da parte dei
popoli e dei lavoratori e delle lavoratrici” ha sottoscritto l’assemblea dei
popoli. È urgente cambiare il paradigma della vita planetaria, perché
l'attuale è intriso di una preoccupante logica di oppressione e violenza
nei confronti dell'Umanità, la stessa che conduce poi allo sfruttamento e
all'inquinamento di Madre Terra. Tutto questo accade perché l'attuale paradigma
è fondato sul profitto e gestito unicamente dal denaro, oggi mediante
l'espressione della finanza speculativa. Il nuovo paradigma deve essere basato
sul Bene Vivere e deve essere gestito dalla Madre Terra, la quale ci insegna lo
scambio e la condivisione come forme di gratitudine ma anche di
compensazione economica.
Stiamo
sognando? No, perché ce l'ha insegnato uno che è apparso sulla terra più di
duemila anni fa e che ci dichiarò di essere molto unito a Dio da essere
addirittura suo figlio, anche se era nato povero e veniva da un paese che non
contava nulla: Gesù di Nazaret. Ma è anche quello che i popoli della terra
credono, vogliono e s'impegnano a fare sempre più, mediante tutte le lotte dei
tanti cittadini e cittadine del mondo che sono stanchi di vedere come viene
trattato questo pianeta e i suoi abitanti, soprattutto da chi ha il dovere di
guidare le nazioni e da chi si è appropriato illegittimamente, come le imprese
transnazionali, il diritto di cliccare il futuro del pianeta. In piedi,
continuiamo a lottare! É il titolo del documento finale del Vertice dei Popoli
ed è anche l'impegno che ci condurrà al Futuro che Vogliamo, che era il grande
tema del Vertice dell'ONU. Insomma, Rio+20 ha confermato, ancora una volta, che
l'unico cambiamento possibile non viene dall'alto, ma dal basso. In piedi,
continuiamo a lottare per il futuro che vogliamo! Allora sì potremo affermare
Rio+20. Adriano Sella (missionario e discepolo dei nuovi stili di vita)
adrianosella@virgilio.it
La
parola agli sfollati per un possibile sviluppo di Daniela Bandelli
Unimondo
- 2 agosto 2012
In
nome del progresso, ogni anno milioni di persone vengono prese e spostate dal
posto in cui hanno sempre vissuto. Dighe, ponti, strade, miniere e programmi di
sviluppo agricolo rubano alle popolazioni locali luoghi, abitudini e ricordi. Lo
sconvolgimento è totale: progetti futuri tranciati, lavoro e svaghi da
reinventare, compiti tra uomini e donne da ripartire, relazioni saltate,
strutture tradizionali in tilt. Tutto nuovo, da un giorno all’altro. E per la
maggior parte degli sfollati la qualità della vita, sia sotto il profilo
economico sia sociale, non torna mai ai livelli di prima.
I
disagi, le priorità, le emozioni di queste persone raramente giungono alle
orecchie di chi pianifica i progetti di sviluppo e di ricollocamento. Una
mancanza che l’Ong internazionale Panos, dedicata alla promozione del dialogo
e del cambiamento, cerca di colmare con il programma Oral Testimony, arricchendo
con narrazioni in prima persona il discorso sullo sviluppo, impregnato di grigie
terminologie, generalizzazioni e retorica. Avviato nei primi anni Novanta, per
dare l’opportunità, non solo gli sfollati ma in generale i poveri e gli
emarginati del Sud del mondo, di narrare se stessi, il programma risponde alla
necessità, evidenziata negli studi di Robert Chambers, del Britain Institute
for Development studies del Sussex, che i tecnici dello sviluppo ascoltino le
popolazioni locali e non viceversa, come invece è stato per lungo tempo
insegnato dai propugnatori della modernizzazione e dello sviluppo calato
dall’alto. Un paradigma, quest’ultimo, oramai obsoleto, ma di fatto ancora
applicato nelle pratiche di molti progetti e nell’atteggiamento di molti
operatori, sebbene nelle stanze della cooperazione internazionale si ripeta da
più di trent’anni il mantra dello sviluppo partecipativo.
Dalla
pubblicazione nel 1993 di “Listening for a Change” di Hugo Slim e Paul
Thompson, con cui Panos illustrò per la prima volta la rilevanza della
testimonianza orale nelle pratiche di sviluppo, l’organizzazione ha lavorato
con più di 50 partner in 35 paesi, formato diverse centinaia di intervistatori
e prodotto circa 1300 testimonianze. Storie raccolte, agli inizi con l’ausilio
di mangiacassette che i formatori dovevano portare con sé dall’Europa, oggi
con registratori digitali e maneggevoli videocamere, acquistabili anche nei
paesi di intervento. A carpire percezioni e valori degli inascoltati sono
persone comuni, che parlano la stessa lingua degli intervistati.
Durante
i workshop organizzati da Panos insieme alle Ong partner, imparano a mettere a
proprio agio il narratore, fare le domande giuste, ascoltare e trascrivere le
registrazioni. L’intervista può essere biografica, riguardare i parenti delle
generazioni passate e presenti o concentrarsi su un particolare tema. Può
essere condotta in gruppo, accompagnarsi alle annotazioni su un diario di
comunità e dare spazio a canzoni e poesie.
Gli
script sono poi elaborati e trasformati in pubblicazioni, programmi radiofonici,
servizi fotografici e film. Sono distribuiti nelle stesse comunità, ai media
nazionali e presentati ai summit internazionali, con l’obiettivo di far
arrivare le voci degli emarginati alle orecchie di chi decide le loro sorti, a
giornalisti e accademici. In altre parole, l’obiettivo della fase divulgativa
è innescare un dibattito in cui non parlino i soliti noti, bensì gli esclusi,
anche attraverso il coinvolgimento delle televisioni locali. Per esempio, nel
Jharkhand, stato dell’India orientale, gli indigeni che hanno perso le proprie
terre a causa della crescente estrazione di carbone, con l’aiuto dell’Ong
locale Prerana, si sono fatti sentire con un libricino di interviste e a una
tavola rotonda con gli attori dell’industria mineraria, trasmessa dalla radio
nazionale e da varie televisioni locali.
La
storia degli sfollati del Jharkhand è uno dei sei casi studio, ambientati in
Pakistan, Kenya, Botswana, Namibia, India e Lesotho, raccolti da Olivia Bennett
e Christopher McDowell nel libro “Displaced: The Human Cost of Development”,
che svela le sfide affrontate dalle vittime dei piani di sviluppo per ricreare
una comunità. Sfide che hanno a che vedere soprattutto con l’interruzione
dell’identità culturale, fratture tra generazioni e il riposizionamento dei
ruoli tra i sessi.
Secondo
Bennett, fondatrice del programma Oral Testimony, il merito delle interviste con
gli sfollati è stato portare alla luce la multidimensionalità della loro
condizione, lo stress e il dolore per le cose perdute, che nessun risarcimento
economico può veramente ricompensare. Perché l’imposizione a lasciare il
posto in cui si è vissuta un’intera vita comporta anche un distacco forzato
dai luoghi che rievocano ricordi, un po’ come perdere una persona cara.
“Sentono di aver perso il controllo sulle loro stesse vite: nel nuovo
contesto, non possono più contare sulle competenze che nel territorio
d’origine, spesso in zone rurali, utilizzavano per guadagnarsi da vivere –
spiega l’esperta -.
Inoltre,
la frustrazione della perdita di potere (disempowerment) mina il percorso di
inserimento e la capacità di affrontare le nuove sfide”. Tant’è che anche
dopo trent’anni gli 80 mila pakistani di Tarbela, nel nord-ovest del paese,
che nel 1976 dovettero abbandonare le proprie case per lasciare posto alla
seconda diga più grande al mondo, continuano a chiamare casa il posto che si
sono lasciati alle spalle e a sentirsi degli estranei nei nuovi insediamenti, a
margine del sito, sulle montagne e nelle province di Sindh e Punjab.
Comune
alle testimonianze raccolte è lo stress causato dall’incertezza nei tempi e
nelle modalità dei progetti: rinvii, negoziazioni, ritrattazioni, voci di
corridoio, allarmismi e rassicurazioni si intervallano per decenni, finché un
bel giorno le ruspe o i mezzi per il trasferimento colgono impreparati gli
abitanti, i quali finiscono ingabbiati nelle rigide categorie dei programmi di
ricollocamento, dove la storia delle singole famiglie e le esigenze individuali
si perdono. A meno che, coloro che lo sviluppo spesso considera solo dei numeri
non si trasformino in narratori di se stessi.
Le sfide del continente viste da Dlamini-Zuma
Misna
- 30 luglio 2012
La
carenza di infrastrutture tra paesi africani: è questa, secondo la nuova
presidente della Commissione dell’Unione Africana (UA), Nkosazana
Dlamini-Zuma, la “più grande sfida del continente”. Per la prima volta
dalla sua elezione, lo scorso 15 luglio, ha tracciato a grandi linee quella che
sarà la sua missione: “Una volta che sarò lì, a Addis Abeba, lavorerò al
servizio di tutta l’Africa” ha dichiarato la Dlamini-Zuma intervenuta ieri a
Pretoria davanti alla lega delle donne dell’African national congress (Anc, al
potere).
Secondo
la sua visione del continente, l’integrazione sarà raggiunta “solo a patto
che le infrastrutture migliorino in modo decisivo”. Secondo Dlamini-Zuma, uno
dei problemi sta nel fatto che quelle esistenti collegano zone di produzione di
materie prime ai porti e non paesi africani tra di loro.
L’ex
ministro degli Esteri sudafricano e ministro dell’Interno uscente ha poi
sottolineato che senza pace non ci potrà essere sviluppo né integrazione:
“Come si può costruire una linea ferroviaria nel mezzo di una guerra?” si
è interrogata la nuova responsabile della massima istituzione continentale. Ma
ha poi sottolineato che al di là delle sfide, il continente può anche contare
su punti di forza e molte risorse: l’agricoltura, l’energia e il potenziale
umano. “Ora la sfida consiste nell’utilizzare le risorse per il bene e la
crescita dell’Africa” ha aggiunto la Dlamini-Zuma, sollecitando anche “il
coinvolgimento individuale di ogni cittadino”.
In
questa prospettiva anche il Parlamento panafricano, istanza legislativa con sede
a Midrand ma senza alcun potere decisionale, avrà “un compito più importante
per realizzare l’integrazione africana: l’armonizzazione delle legislazioni
tra i 54 Stati membri”.
E
l'Africa va a energia pulita
Famiglia
Cristiana - 31 luglio 2012
Kenya
e Congo: due esempi di come il continente africano cerca di progredire con le
energie sostenibili, verso l'obiettivo delle emissioni zero. E senza corrente
elettrica.
A
Korogocho, la baraccopoli di Nairobi dove ha vissuto per alcuni anni Padre Alex
Zanotelli, prima di rientrare in Italia, vivono circa 120.00 persone, senza
energia elettrica, candele o altre fonti di luce. Un’idea innovativa che viene
sperimentata ora negli slums, arriva dai ricercatori del prestigioso Mit
(Massachussets Institute of Technology) e promette illuminazione a costo zero.
Il Solar Bottle Bulbs (lampade a bottiglie solari), sperimentato per la prima
volta nel 2002 in Brasile e messo a punto dai ricercatori del Mit, permette di
utilizzare una bottiglia di plastica come se fosse una lampada. Ecco in questo
video la spiegazione di come funziona il sistema, già sperimentato a San Pedro,
provincia di Laguna, nelle Filippine:
Basta
riempire di acqua e candeggina le bottiglie e fissarle a una fessura ricavata
sul tetto: queste rifrangono la luce esterna all’interno dell’abitazione,
riuscendo a illuminare le baracche della capitale kenyana, dove non c’è
energia elettrica, con la stessa potenza di una lampadina da circa 60 watt. Le
bottiglie, una volta posizionate in modo che rimangano esposte per un terzo alla
luce del sole, vengono colpite nella parte superiore dai raggi e da qui la luce
si diffonde per rifrazione alla parte sottostante, illuminando così le
abitazioni, dove anche in pieno giorno, per mancanza di spazio e finestre, è
buio pesto.
Il
progetto, partito in Brasile nel 2002, passando per Haiti e Filippine, è giunto
anche in Africa dove è stato realizzato e promosso da un gruppo locale, “Koch
Hope”, di cui fanno parte i giovani abitanti scolarizzati della baraccopoli.
Un metodo artigianale ed economico che per ora è stato sperimentato su circa
2.000 abitazioni e che proseguirà per raggiungere anche gli altri quartieri di
Nairobi. Oltre a supplire alla mancanza di energia elettrica nelle zone più
povere del pianeta, questo progetto contribuisce al riciclo di migliaia di
bottiglie di PET: soltanto in Nigeria, dove si contano oltre 160 milioni di
abitanti, ogni giorno finiscono tra i rifiuti circa 3 milioni di bottiglie di
plastica.
L’elezione
del ministro sudafricano, la prima volta di una donna alla presidenza della
Commissione UA, ha concluso un lungo braccio di ferro diplomatico durato più di
sei mesi essenzialmente tra paesi anglofoni e francofoni che, invece,
sostenevano la candidatura del presidente uscente, il gabonese Jean Ping.
Osservatori temevano che nel caso di un nuovo fallimento della procedura di voto
il funzionamento stesso della Commissione sarebbe stato compromesso così come
l’immagine e la credibilità dell’Unione Africana, apparsa negli ultimi
tempi sempre più divisa e politicamente poco autorevole, anche quando si tratta
di mediare in crisi e conflitti che destabilizzano il continente.
I vescovi della Bolivia e dell'Ecuador riflettono sull'emergenza
ecologica
Jesus
- luglio 2012
A
poche settimane l'uno dall'altro, due episcopati andini hanno reso pubblici
importanti documenti sull'ambiente, elaborati entrambi secondo il metodo
vedere-giudicare-agire: più ampia e organica la lettera pastorale L'Universo,
dono di Dio per la vita dei vescovi boliviani; più breve, ma assai puntuale, la
dichiarazione Prendiamoci cura del nostro pianeta della Conferenza episcopale
ecuadoriana (Cee).
Il
primo testo parte dall'analisi della crisi ecologica in Bolivia, soffermandosi
sulle conseguenze del cambiamento climatico che nelle diverse regioni ha
provocato la scomparsa di molte riserve d'acqua, come il ghiacciaio Chacaltaya,
la sensibile riduzione delle precipitazioni e l'avanzare della desertificazione.
A ciò contribuisce la deforestazione, concentrata nei dipartimenti tropicali, a
causa del massiccio commercio del legname e del diffondersi delle coltivazioni
di canna da zucchero, soia, girasole e sorgo. Il maggior degrado ambientale è
comunque provocato dall'attività mineraria e dallo sfruttamento degli
idrocarburi, che inquinano l'aria, i fiumi e le falde acquifere, distruggendo
flora e fauna. Di fronte a questa emergenza, i vescovi enfatizzano il valore
della sapienza dei popoli indigeni, il cui «stile di vita in armonia con tutto
il creato ci indica la via del rispetto dell'ecosistema e dei cicli e dei ritmi
della creazione».
D'altro
canto anche nella Bibbia «si afferma che la terra non è un'acquisizione, ma
un'eredità da tramandare alle future generazioni», per cui «non la si riceve
per possederla individualmente, ma per condividerla in maniera solidale coi
fratelli». Da ciò i presuli derivano l'invito ad «abbandonare la logica del
mercato e del consumismo», a vantaggio di uno stile di vita austero e solidale.
Affermano, inoltre, che «non tutto è in vendita; domanda e offerta non possono
determinare la distribuzione di ciò di cui tutte le persone hanno bisogno per
sopravvivere, come l'acqua, l'aria, la terra, il cibo, l'energia». E
ammoniscono a non «privilegiare la produzione di biocombustibili per soddisfare
i bisogni energetici a scapito della sicurezza alimentare».
A
Parlamento e Governo la Conferenza episcopale boliviana domanda politiche
pubbliche che diano priorità alla difesa della biodiversità, la promozione
delle energie alternative e la lotta contro la deforestazione. Sul piano
ecclesiale, infine, i vescovi si impegnano a creare in ogni diocesi una
Commissione per la salvaguardia del creato per accompagnare le comunità
cristiane nella promozione di iniziative di risparmio energetico, riciclaggio
dei rifiuti, uso di prodotti biologici. L'episcopato dell'Ecuador centra,
invece, la propria attenzione sull'attività mineraria, che negli ultimi anni ha
rappresentato uno dei principali terreni di scontro tra il Governo, sostenitore
di un modello di sviluppo "estrattivista", e le comunità indigene,
contrarie a nuovi grandi progetti. I vescovi constatano che «i conflitti
sociali si fanno ogni giorno più aspri e numerosi. Molti sono dovuti
all'insufficienza o al mancato rispetto delle leggi, alla violazione dei diritti
collettivi, alla divisione introdotta nelle comunità, alla criminalizzazione
della resistenza dei popoli, alla promulgazione di leggi senza la previa
consultazione».
Poi
richiamano la visione cristiana della natura, che esige «un modello economico
basato sulla dignità delle persone, sulla giustizia e la solidarietà degli
esseri umani tra loro e con l'ambiente». Perciò la Cee chiede che nello
sfruttamento delle risorse petrolifere e minerarie ci si attenga «al rigoroso
rispetto delle procedure legali e tecniche, come la consultazione preventiva
delle comunità», prevedendo misure di protezione dell'ecosistema e informando
i cittadini sui benefici e sui danni economici, sociali e ambientali di queste
attività. Occorre poi cercare «forme concrete per contrastare l'aumento delle
malattie provocate da arsenico, piombo e mercurio» e «affrontare i problemi
sociali connessi, come la violenza, l'alcolismo, la tossicodipendenza e la
prostituzione ». I vescovi concludono: «Non si tratta allora di dire un
"sì" o un "no" categorico e acritico all'attività
mineraria e all'estrazione di petrolio», ma di informarsi e decidere «tenendo
presente che la vita e la salute degli esseri umani e l'equilibrio ambientale
sono più importanti di tutti i metalli. Uno dei beni più preziosi che dobbiamo
tutelare, per esempio, sono le fonti idriche; possiamo, infatti, vivere senza
oro, ma senz'acqua mai».
Traffico
di stupefacenti coinvolge Messico, Honduras, Venezuela e anche gli USA
Corriere
della Sera - 30 luglio 2012
Dal
2006 a oggi le autorità messicane hanno individuato 3.834 piste clandestine
usate dai trafficanti di droga
I
numeri dicono tanto. Dal 2006 a oggi le autorità messicane hanno individuato
3.834 piste clandestine usate dai trafficanti di droga. In Honduras, scalo
intermedio per la «polvere» diretta verso gli Usa, ne hanno scoperte durante
l’ultimo anni più di 60. Informazioni ufficiali che abbiamo incrociato con
dati raccolti attraverso una ricerca personale su Google Earth.
PIAZZOLE
- Dall’alto somigliano a strade ma usando lo zoom si possono notare piccole
piazzole in «testa» alla pista dove l’aereo – di solito un bimotore – può
manovrare e ripartire. Alcune sono state ricavate usando la via principale in
remoti villaggi. Altre ancora appartengono (o appartenevano) alle compagnie
minerarie e i trafficanti le «prendono in prestito».
VENEZUELA
-Un articolo del «New York Times» ha rivelato come un gran numero di velivoli
parta dalla regione di Apure, in Venezuela. In quest’area i narcos agiscono
insieme ai guerriglieri delle Farc colombiane. Anche qui esiste un reticolo di
piste semi-preparate dal quale decollano ininterrottamente gli aerei diretti di
solito verso l’Honduras.
RADAR
- Una mappa con i tracciati radar fornita dalla Joint Task Force statunitense
mostra l’incredibile traffico attraverso la regione caraibica, con più di 120
tracce. Per contrastare la minaccia, la Dea americana opera con Honduras e
Guatemala. Una cooperazione che di recente ha permesso di bloccare alcuni
velivoli dei trafficanti.
LA
GUERRA DELLA COCA - Il «giro» è consistente, redditizio e inesauribile. Per
questo le bande acquistano un gran numero di aerei (anche negli Usa) usando dei
prestanome attivi nella zona di Fort Lauderdale/Miami. A volte, per fare più in
fretta, li rubano. I piloti non mancano, anche se la missione è rischiosa. Gli
incidenti sono frequenti e in qualche occasione i voli possono essere
intercettati. Da queste parti non si va troppo per il sottile. E’ guerra vera.
Un meccanico brasiliano che faceva parte dell’equipaggio di un narco-aereo è
stato ucciso in Honduras. Invece di arrendersi ha fatto una mossa brusca. E lo
hanno «abbattuto».
Mar Cinese meridionale, Manila mette all'asta tre aree contese da Pechino
AsiaNews - Manila - 31 luglio 2012
L’area
contesa è al largo dell’isola occidentale di Palawan. Per il governo
filippino la zona, ricca di gas naturali, si trova all’interno del territorio
nazionale. Sottosegretario all’energia: “diritti non negoziabili”.
All’asta prevista la partecipazione di compagnie locali e straniere, fra cui
Total, Eni e Shell.
Il
governo filippino lancia un'asta per l'esplorazione di tre aree ricche di
petrolio e gas naturale nel mar Cinese meridionale - che Manila chiama mare
Filippino occidentale - in una zona al centro di un'aspra contesa con Pechino.
All'asta dovrebbero prendere parte diverse compagnie nazionali e internazionali,
tra cui il gigante francese dell'energia Total, la statunitense Exxon,
l'italiana Eni e la Royal Dutch Shell. Per Manila è un tentativo di ridurre la
dipendenza dalle importazioni estere e di contrastare le mire espansioniste
nella regione Asia-Pacifico di Pechino, che in passato ha già promosso dei
bandi per le esplorazioni marittime (cfr. AsiaNews 28/06/2012 Mar Cinese
meridionale, nervi tesi fra Manila, Hanoi e Pechino. Inutile un codice di
condotta) scatenando le proteste di Filippine e Vietnam.
Il
sottosegretario filippino per l'Energia Jose Layug precisa che tutti e tre i
blocchi oggetto del bando appartengono al territorio nazionale e si trovano al
largo dell'isola occidentale di Palawan, dove da poco sono stati scoperti
ingenti riserve di gas naturale nel sottosuolo. Il funzionario rifiuta inoltre
le affermazioni di Pechino, secondo cui la zona rientra nei possedimenti
marittimi della Cina.
"Tutte
le zone che abbiamo messo all'asta - aggiunge Layug - sono ben all'interno delle
200 miglia nautiche, considerate zone economiche esclusive delle Filippine in
base alle disposizioni previste da Unclos", il Codice di condotta delle
Nazioni Unite che regola le dispute nei mari. Il sottosegretario conclude
affermando che Manila "esercita i diritti legittimi di sovranità" e
possiede "l'autorità per esplorare e sfruttare le risorse all'interno di
queste aree" in via esclusiva. "Si tratta di diritti non
negoziabili".
L'arcipelago
nel mar Cinese meridionale, potenzialmente ricco di giacimenti petroliferi
sottomarini, è conteso da Cina, Vietnam, Brunei, Taiwan, Filippine e Malaysia e
da tempo i tentativi di impossessarsi di un atollo o di un altro producono
frizioni fra i vari Paesi. Filippine e Vietnam accusano Pechino di essere sempre
più aggressiva nel rivendicare la sovranità sull'arcipelago. Nelle scorse
settimane si sono verificati scontri fra pescherecci filippini, vietnamiti e
cinesi. In particolare, la tensione fra Manila e Pechino si è innalzata lo
scorso aprile quando navi pattuglia cinesi hanno bloccato - al largo delle
Scarborough Shoal - imbarcazioni della marina filippina, mentre stavano per
arrestare pescherecci cinesi che avevano sconfinato.
Le
mire egemoniche di Pechino preoccupano anche gli Stati Uniti che hanno
accresciuto la loro presenza navale nel Pacifico. Secondo gli esperti di
International Crisis Group (Icg), organismo con base a Bruxelles, le prospettive
di risoluzione delle dispute "stanno diminuendo" e anche se resta
"improbabile" una guerra, tutti i segnali "vanno nella direzione
sbagliata".
Cartoline dall'Algeria - 86 di p. Silvano Zoccarato
Touggourt
16
agosto 2012
A Nazareth e nel mondo
La Chiesa si impegna nella nuova evangelizzazione e il Papa indice l’Anno della Fede. Si tratta di ritrovare Gesù, di viverlo, di testimoniarlo.
Così scriveva Joseph Ratzinger nel 1977:
“La Grande Chiesa non può né crescere né prosperare se le si lascia ignorare che le sue radici si trovano nascoste nell’atmosfera di Nazareth. Prima della ricerca accademica, Charles de Foucauld ha incontrato il vero “Gesù storico” e aprì così una nuova via per la Chiesa. Fu per la Chiesa una riscoperta della povertà. Nazareth ha un messaggio permanente per la Chiesa. La Nuova Alleanza non comincia nel Tempio, né sulla Montagna Santa, ma nella piccola casa della Vergine, nella casa del lavoratore. In uno dei luoghi dimenticati della “Galilea dei pagani”, dalla quale nessuno aspettava qualcosa di buono. Solo partendo da lì la Chiesa potrà prendere un nuovo slancio e guarire. Non potrà mai dare la vera risposta alla rivolta del Novecento contro la potenza della ricchezza se, nel suo stesso seno, Nazareth non è una realtà vissuta”. Joseph Ratzinger 1977
La Chiesa deve ritornare a Nazareth per ritrovare la forza di camminare.
Gesù non rimase a Nazareth.
Charles de Foucauld pensava di aver trovato finalmente Gesù ma è proprio a Nazareth che capì la sua vocazione e la capì restando fisso meditando Gesù. Nel 1896 durante la sua prima esperienza nella trappa sentiva tre vocazioni e le volle vivere tutt’e tre. Aveva scritto: “Niente è più perfetto dell’imitazione di una delle tre parti della mia vita, Nazareth, la quarantena, la vita pubblica…
La vita di Nazareth, è la mia vita, quella della Santa Vergine e di San Giuseppe…
La vita della quarantena sul deserto, è la mia vita, quella di Giovanni Battista…
La vita del ministero, è la mia vita, quella di Pietro e di Paolo, degli apostoli e di San Francesco d’Assisi… Stessi effetti, prodotti dalle stesse cause…
Lo Spirito che ha spinto queste anime è quello che ti spinge”
E Charles si mise in cammino…
Una cinquantina d’anni prima, il Beato Giovanni Mazzucconi, del primo gruppo di missionari del Pime e che poi morì ucciso in Oceania, aveva scritto: “Che importa poi se il sole avanzandosi, mentre abbronzò la faccia del missionario e lo sferzò del ministero faticoso, appena poté vide pure il solitario, raccolto ai piedi di un altare, silenzioso con la pupilla estatica? Che importa? Uno solo è il pensiero dei santi, una sola ed uguale la forza, la gioia del missionario, del cenobita, del parroco: Dio!. Dio la loro vita, perché la loro meditazione. Che importa in quale parte del mondo si consumino i giorni della prova?. Noi siamo uniti perché uno solo è il centro a cui si corre: Dio”.
La Piccola Sorella Maddalena dopo aver viaggiato e disperso le Piccole Sorelle in tutto il mondo, scrisse: “ E’ il Signore che ha fatto tutto presso di me. Niente è impossibile a chi crede. Niente è impossibile a chi ama. Come lo diceva Fratel Charles : “Gesù è il Signore dell’impossibile”.
La Chiesa vive a Nazareth, sui deserti e tra i Gentili della Galilea del mondo… con Gesù nel cuore.
17
agosto 2012
Felici di vivere in Algeria
35 studenti di vari paesi africani che frequentano le università dell’Algeria con borse di studio, hanno partecipato all’Università d’estate nella casa diocesana di Algeri. Otto giorni di incontri, di preghiera, di amicizia. Prima di partire hanno scritto due lettere di cui vi do alcuni tratti.
“Ringraziamo il Signore che ci ha fatto scoprire una Chiesa che è per noi una vera famiglia e che in questi giorni ci ha permesso di vivere insieme, di crescere nella fede, di rinsaldare i nostri legami e di crescere anche spiritualmente e socialmente. La Chiesa si è fatta vicina al nostro vissuto e la sua apertura alla comunione permette a cristiani di diverse denominazioni di sviluppare la loro fede. Che cosa sarebbe la nostra vita senza la Chiesa? Siamo ora più disponibili a fare crescere questa Chiesa per testimoniare Cristo in questa società. Che continui ad unirci!”
E agli studenti africani, venuti di recente in Algeria scrivono:
“Noi vi accogliamo. L’Algeria è un bellissimo paese musulmano. Il rispetto di questa cultura permette un buon inserimento. Accogliete con cuore aperto le informazioni che riceverete. Dopo aver lasciato le vostre famiglie, vi sentirete soli. Sappiate che c’è una comunità cristiana che accoglie tutti a braccia aperte senza distinzione. Ci sono anche iniziative per un buon soggiorno in Algeria e soprattutto per un buon sviluppo dei vostri studi in un clima familiare. Ancora… benvenuti!”
Scherzi del caldo di p. Adolfo L'Imperio
Dinajpur
- 25 agosto 2012
Quando
il sole scotta, tieniti all’ombra, altrimenti... ti prendi un colpo di sole.
Nella
vita sono diversi i “colpi di sole” che poi sono sempre nuovi nel tempo.
Agosto
è il mese più caldo in Italia ed anche da queste parti. Afa, caldo, temporali
e si aspetta la pioggia che mitighi questa ... sofferenza.
Dalle
undici del mattino sino alle tre del pomeriggio mai uscire senza un copricapo o
con l’ombrello che ripara dal sole e dalla pioggia e diventa tuo compagno di
viaggio.
Ma
i colpi di sole sono variegati. In tre giorni abbiamo avuto due serpenti
"cobra" che per il sole sono usciti allo scoperto proprio vicino alla
Cappella del Lebbrosario. Da buon maligno ho pensato “Non vanno le persone
in Chiesa ed allora vengono i serpenti”...
Dover
organizzare l’accoglienza ai tanti visitatori che in Luglio ed Agosto
vengono in Bangladesh a trovare Missionari, visitare luoghi o incontrare
persone: anche questo è un colpo di sole......
Nell’accogliere
uno di questi gruppi ho voluto fare il giovanotto. Ho voluto accompagnarli nella
visita di Dhanjuri sotto il sole dalle undici a mezzogiorno. Sono riuscito ad
arrivare a tavola, mangiare un poco di riso e poi chiedere scusa ed andare a
mettermi a letto. Ne ho avuto per due giorni buoni !!!!
Spiegare
i cambi di valuta, confermare i biglietti, trovare l’interprete, aiutare per
compere al mercato... poi le Sim card per teleofonini e cose simili.
Meno
male che poi tra i visitatori trovi un buon cuoco o cuoca che ti sforna
delle tagliatelle o delle lasagne che fanno dimenticare il caldo con annessi e
connessi.
A
Dhanjuri ho ringraziato di cuore il Signore per Daniela e Moni, ragazze stupende
del gruppo Missio Giovani, che fanno cantare i disabili e danzare con duecento
giovani e ragazze Santal qui per un raduno, ma anche per un piatto di
tagliatelle fatte in casa......
Il
periodo del Ramadam per i fratelli Mussulmani è stato duro perché,
iniziato in Luglio è terminato il 20 Agosto. Fare digiuno dall’alba al
tramonto in questo periodo è veramente un sacrificio.
Partecipare
al raduno di duecento e più giovani è anche questo un colpo di sole.
Fare
i salti mortali per riuscire a trovare come aiutare famiglie o individui nel
bisogno. “Devo andare a Dhaka per portare mia figlia dallo specialista per
gli occhi”
Come andare, dove stare... meno male che la Suora da Dhaka mi risponde “Va bene: per tre gioni possiamo dare un posto per dormire perché siamo vicini all’ospedale specializzato".
Laudato
sii mi Signore per frate sole, che bello, radioso e caldo...
Laudato
sii mi Signore per sorella acqua che è limpida, semplice e casta...
Laudato
sii mi Signore per tante cose belle che hai fatto per noi, per le tante
persone che ci hai posto vicino, per il tempo che ci dai da vivere e lodare.
Fr.
Adolfo
Visita di Mons. Sebastian Tudu a Gaeta di Bruno Guizzi
Gaeta - 2 settembre 2012
Sabato
1° settembre 2012 Mons. Sebastian Tudu, Vescovo di Dinajpur, ha avuto a Gaeta,
presso il Santuario della Montagna Spaccata, un incontro con gli amici che, da
vari anni, aiutano la sua missione.
Mons.
Sebastian Tudu, nato il 17 giugno 1967, è il più giovane Vescovo della Chiesa
ed è anche il primo Vescovo di etnia Santal (i Santal sono un gruppo etnico di
circa 10 milioni di persone, di cui 1 milione in Bangladesh, la maggior
parte in India e piccole comunità in Nepal e Bhutan).
La
diocesi di Dinajpur è stata eretta nel 1927 e da essa si sono formate ben 4
diocesi, dopo la suddivisione del subcontinente indiano: due in India e due in
Bangladesh (l’ultima: Rajshahi è stata eretta nel 1996).
Prima
di Mons. Sebastian si erano succeduti, alla guida della diocesi, tre Vescovi
italiani, tutti del PIME (Mons. Taveggia, Anselmo ed Obert) e tre Vescovi
bengalesi (Mons. Michael Rozario, Theutonius Gomez e Moses Costa).
Per
avere un’idea della sua estensione basta pensare che è grande quasi come
tutto il Lazio e con un numero di abitanti superiore a quello di tutta
l’Italia centrale.
La
diocesi ha 14 parrocchie e vari sottocentri, molto probabilmente il prossimo
anno due di essi, entrambi con oltre 30 villaggi, (Moeshpur e Kudbir) saranno
nuove parrocchie.
Sui
suoi 16 milioni di abitanti i cattolici sono appena 50.000, per la grandissima
maggioranza tribali, di etnia Santal, Orao, Mahali etc. Per tutti loro avere un
Vescovo Santal è una dimostrazione di quanto anche loro, sfruttati o ignorati
dalla classe dominante, sono “fratelli” con gli stessi diritti e doveri
degli altri nel Regno.
In
tutto il Bangladesh, con i suoi 160 milioni di abitanti (80 milioni con meno di
20 anni!) su una superficie che è la metà di quella italiana, i cattolici sono
appena 300.000! Ed i Musulmani che, alla suddivisione dell’India del 1947,
erano il 52-53% ora superano l’85%!
Chiesa
giovane, Vescovo giovane, ma Chiesa viva ed essenzialmente al servizio dei
poveri e di chi è abbandonato, negletto e discriminato dalla società… e
dalle strutture governative.
Chiesa
di minoranza, ma chiesa attiva; appartenere ad una minoranza crea naturalmente
grandi problemi ma da anche senso di appartenenza, unione.
Piccole
chiese e cappelle (spesso polivalenti), sempre piene che, ahimé, mi fanno
ricordare le nostre grandi chiese, troppo spesso vuote.
Tanti
villaggi, in cui se va bene il sacerdote riesce a celebrare la Santa Messa due,
tre volte l’anno e che, con l’aiuto dei Prayer Leaders (Catechisti) seguono
settimanalmente e con devozione la Liturgia della Parola. E, se si vuole andare
a messa… a piedi per dieci-quindici chilometri in un villaggio vicino!
Mons.
Sebastian ci ha parlato delle sfide e delle priorità della sua diocesi e, più
in generale, della Chiesa del Bangladesh, in particolare dell’istruzione.
E,
scusatemi, non posso fare a meno di pensare alle nostre piccole beghe locali ed
ai veleni di cui, in questi giorni si stanno pascendo social networks ed
internet.
La
chiesa è sempre stata in primo piano nel campo dell’istruzione e tutte le
parrocchie della diocesi hanno una scuola primaria, quattro o cinque di esse
anche una scuola secondaria.
Su
base nazionale le migliori scuole sono quelle cattoliche: alcuni furbastri hanno
ben pensato, per ingannare i genitori, di dare a qualcuna di esse il nome di un
santo, per delle scuole che di cattolico hanno purtroppo soltanto il nome e che,
quanto a qualità, sono addirittura al di sotto delle scuole governative!
Nella
diocesi c’è inoltre una scuola professionale (la Novara Technical School) che
è la migliore scuola tecnica del nord del paese e che con le sue sezioni di
falegnameria, meccanica, elettricità, autoofficina e recentemente anche
edilizia e computer, permette a centinaia di giovani di entrare nel campo del
lavoro, che per molti altri resta una chimera.
Attualmente
sono in corso contatti con il governo per il riconoscimento di alcune delle
nostre scuole in quanto, non essendo registrate, e sebbene forniscano livelli di
istruzione ben al di sopra di quelle governative, non godono dei privilegi delle
altre (ad esempio libri gratuiti, riconoscimento dei titoli conseguiti etc).
Nel
suo intervento Mons. Tudu ha poi parlato in particolare della parrocchia di
Dhanjuri, in cui ha svolto i primi due anni del suo ministero (è stato ordinato
sacerdote nel 1999 ed è subito andato lì, dove ho avuto il privilegio di
conoscerlo già nel mio primo viaggio del 2001) tanto cara agli amici di Gaeta,
anche perché vi è ancora attivo, per almeno metà settimana, padre Adolfo.
Dhanjuri
ha da poco celebrato i suoi cento anni di evangelizzazione e, recentemente, ha
avuto notevoli sviluppi. Oltre alla Casa di accoglienza di Beldanga (per i
giovani che studiano nelle scuole superiori governative, finanziata nel
2002-2003 dalla Caritas diocesana di Gaeta, con il contributo di molte
parrocchie della nostra diocesi e di cui è praticamente completata la
sopraelevazione), da qualche anno sono funzionanti il nuovo boarding per i
bambini, la nuova scuola (dalla classe I alla X), fisioterapia e mense nel
lebbrosario, il dispensario gestito dalle Missionarie dell’Immacolata etc.
Gli
amici di Gaeta (ma non bisogna scordare anche quelli di Milano, Padova, Roma
etc) contribuiscono autonomamente (senza contributi di enti, fondazioni o
istituzioni varie) da anni al Sostegno allo Studio di 300 e più bambini/e e,
per questo, Mons. Tudu ha ringraziato tutti.
Molto
attivo, durante la riunione, è stato anche padre Salvatore di Serio che, con
sua quarantennale esperienza bengalese, ha voluto sapere dal Vescovo come sono
cambiate le cose dopo il suo ritorno in Italia, avvenuto ormai 22 anni fa.
Un’altra
priorità della diocesi è quella della salute. Oltre al Programma per
l’eliminazione della lebbra (un ospedaletto a Dhanjuri e 17 ambulatori) esiste
nella diocesi un Ospedale vero e proprio, il St. Vincent di Dinajpur. Si sta in
questi mesi ottenendo dal governo l’abilitazione per 100 posti-letto
(attualmente quelli registrati sono solo 20) ed anche il riconoscimento della
Scuola per infermiere, che da modo a tante giovani di trovare un decoroso posto
di lavoro nelle strutture sanitarie, governative o private, del paese.
Le
dispute in materia di possesso della terra, in cui i poveri tribali si trovano
spesso a combattere nei tribunali con funzionari corrotti e con documenti falsi,
sono un altro campo di attività della giovane chiesa, così come le Cooperative
di Credito (esistenti nelle varie parrocchie ben prima della tanto declamata
Grameen Bank del premio Nobel Yunus) che in questi ultimi anni hanno avuto un
notevole incremento.
Come
ultimo, ma importantissimo, argomento Mons. Tudu ha parlato della formazione dei
sacerdoti e delle suore, senza i quali la giovane Chiesa del Bangladesh non può
progredire.
Attualmente
sono ancora presenti nel paese oltre al PIME, operante essenzialmente nel nord;
anche i Saveriani, i Missionari dell’Holy Cross (Santa Croce) e gli Oblati di
Maria Immacolata.
Vari
sono i Sacerdoti che sono stati aiutati nello studio da benefattori italiani e
Mons. Tudu ha ricordato che anche lui, che ha cominciato la scuola a dieci anni
e non a sei, come d’altronde la maggior parte dei coetanei del suo villaggio
di origine, è stato uno di essi.
Ancor
oggi sente il dovere di ringraziare chi lo ha aiutato, con le preghiere ma anche
economicamente, nei suoi anni di seminario.
Gli
amici di Gaeta stanno attualmente aiutando due seminaristi, Manuel e Marcus ed
hanno già avuto la gioia di vederne recentemente ordinati altri due: Peter ed
Anselmo.
Dopo
aver risposto a varie domande degli intervenuti (circa 150 persone, la sala dei
missionari Martiri del Pime era gremita) Mons. Tudu ha celebrato la S. Messa,
nella affollatissima cappella del Santuario, a cui anche il Coro della Montagna
Spaccata, convocato in fretta e furia, ha voluto partecipare.
Grazie Mons. Sebastian per il tempo che ci hai voluto dedicare, per l’amicizia e per l’impulso che ci hai dato nel continuare, nel nostro piccolo, la nostra azione missionaria.
Missionari Saveriani agosto-settembre 2012
Su
“L’Osservatore Romano” del 4 maggio 2012 è apparso il comunicato sulla
nomina del vescovo di Khulna, in Bangladesh. Il nuovo vescovo è mons. Romen
Boiragi, del clero locale, originario di Shelabunia, la missione fondata e
guidata dai p.Francesco Tomaselli e p. Marino Rigon, ai margini della foresta
vergine sul Golfo del Bengala. Mons.
Romen, 57 anni e sacerdote dal 1985, è stato consacrato vescovo nella
cattedrale di Khulna il 15 giugno scorso, come terzo successore di mons. Dante
Battaglierin, pioniere saveriano in Bangladesh. |
Nella foto mons. Romen tra p. Marino Rigon (sinistra) e p. Mimmo Pietanza
Ancora repressione contro gli indigeni Mapuche. Vittime anche tra i minori
Radiovaticana
- 31 luglio 2012
Nuovi
scontri in Cile a La Araucanìa, tra gli indigeni Mapuche (“gente della
terra”) e le Forze dell’ordine locali. Da giorni ormai continuano le
manifestazioni di protesta rivolte al governo perché mantenga la promessa di
dotare la regione delle infrastrutture necessarie a garantire condizioni di vita
dignitose per le popolazioni indigene. Come riporta l'agenzia Misna, ieri una
nuova protesta con decine di persone che hanno bloccato la Ruta 5 dando fuoco a
pneumatici accatastati. Il bilancio, è di almeno undici indigeni arrestati e il
ferimento di un pensionato, operato d’urgenza all’ospedale della capitale
regionale Temuco, a seguito degli scontri con le forze speciali dei
“Carabineros”, distintesi negli ultimi mesi per i violenti interventi contro
la criminalità locale, che ieri sono intervenute con gli idranti. La settimana
scorsa erano rimasti feriti due minori, uno di dodici e uno di diciassette anni,
provocando anche la condanna del Fondo dell’Onu per l’Infanzia (Unicef).
“Abbiamo circa 950 km di strade sterrate e le nostre risorse non bastano a
pavimentarle” dichiara Eduardo Delgado, sindaco della località di Padre Las
Casas, per sottolineare la critica situazione delle strade che mantiene la
regione in uno stato di isolamento. Un isolamento, come dimostra un recente
studio della Commissione economia per l’America Latina e i Caraibi dell’Onu
(Cepal), anche sociale della comunità dei Mapuche, che oggi conta appena
settecento mila individui che continuano a subire povertà e discriminazione,
dopo essere stati privati anche delle proprie terre, invase da aziende minerarie
e forestali, in particolare sotto la dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990).
Questo rapporto documenta l’emarginazione forzata che i Mapuche sono stati
costretti a intraprendere a causa dell’impoverimento e della degradazione
delle loro terre, oltre alla mancanza di acqua necessaria al fabbisogno della
popolazione in alcune zone. (L.P.)
Chiuse sette ong per lavoratori
di Simone Pieranni
Il
Fatto quotidiano - 29 luglio 2012
Il
premier: “Arriveranno tempi duri”
Il
primo ministro Jabao fa faceva riferimento all' occupazione, lievemente in
difficoltà anche a causa della crisi europea che va a colpire le esportazioni
cinesi. Nei giorni successivi alcuni documenti governativi avevano sottolineato
l'importanza cruciale delle condizioni dei lavoratori, annunciando un aumento di
circa il 20% dei salari minimi
Sette
organizzazioni non governative che si dedicavano ai lavoratori sono state chiuse
in Cina. La denuncia arriva dagli attivisti e va a colpire un settore nevralgico
dello sviluppo della società civile. Specie perché i fatti sono avvenuti nel
Guangdong, regione nella quale si produce un quinto delle esportazioni cinesi.
Il mondo del lavoro in Cina è uno dei punti più rilevanti per misurare la
salute del paese. Alcuni giorni fa Wen Jiabao, il premier, aveva avvisato:
arriveranno tempi duri anche per i lavoratori. Parlava di occupazione,
lievemente in difficoltà anche a causa della crisi europea che va a colpire le
esportazioni cinesi. Nei giorni successivi alcuni documenti governativi avevano
sottolineato l’importanza cruciale delle condizioni dei lavoratori,
annunciando un aumento di circa il 20% dei salari minimi. Nel piano
quinquennale, da qui al 2015, è infatti previsto che mediamente i salari minimi
aumentino del 13%. In alcune zone gli introiti per i lavoratori hanno fatto
registrare numeri importanti, basti pensare a Shanghai che ha aumentato il
livello minimo salariale 18 volte dal 1993, da 210 yuan agli attuali 1.450 yuan
al mese (poco meno di 200 euro).
In
Guangdong poi, il governatore Wang Yang che passa per essere un “liberale”
aveva promosso lo sviluppo di ong specializzate su tematiche lavorative. Eppure,
negli ultimi tempi qualcosa non è andato per il verso giusto e almeno sette di
queste organizzazioni sono state chiuse. Nei giorni scorsi, diversi attivisti
hanno denunciato di essere stati sfrattati dai loro uffici dopo che i
proprietari degli stabili avevano subito pressioni da parte dei funzionari. Gli
impianti degli immobili che occupavano sarebbero stati controllati con una
frequenza di molto superiore alla norma. Le ong che si occupano dei diritti dei
lavoratori nella Repubblica popolare sono da sempre soggette a intimidazioni e
pressioni. Il governo si giustifica ogni volta con il consueto refrain: la causa
della chiusura risiederebbe nella possibilità di infiltrazione di “gruppi e
lobby straniere” che hanno interesse a finanziare grandi scioperi, e proteste
e “a premere il grilletto delle rivolte sociali”.
Eppure
proprio in Guangdong doveva partire il progetto di legge la cui entrata in
vigore era prevista per il primo luglio che si chiama “promozione, sviluppo e
gestione delle organizzazioni sociali” e che avrebbe dovuto facilitare la
registrazione delle ong e sganciarle dal diretto controllo governativo. Entro il
2015, la maggior parte delle organizzazioni sociali dovranno essere in grado di
fornire servizi pubblici e prodotti con la sola autorizzazione del governo,
continua la bozza. Con l’entrata in vigore delle nuove regole, le agenzie
governative che lavorano nei campi dell‘industria, del commercio, della carità
e dei servizi sociali non dovranno più svolgere il ruolo di
“amministratore” ma semplicemente essere “consulenti” nel processo di
registrazione. Zhang Zhiru, direttore del centro per risolvere le controversie
lavorative “Brezza Primaverile” ha dichiarato ai media di Hong Kong, di aver
affittato i sette uffici che gli sono stati chiusi. “Il nostro ufficio – ha
detto – è stato il primo ad essere chiuso nel mese di febbraio, tre mesi dopo
ci siamo trasferiti in periferia. Il padrone dello stabile avrebbe demolito
l’insegna e chiuso elettricità e acqua, nonostante il contratto fosse di tre
anni. Chen Mao è un altro operatore che ha deciso di parlare: la sua ong si
occupava di lavoratori migranti: “il nostro ufficio è stato costretto a
chiudere a maggio”, ha detto al South China Morning Post. “Non ho mai visto
una così grande ondata di repressione governativa come quella che si è
abbattuta sul nostro centro”, ha spiegato. Qiu Guanglie, un funzionario del
distretto di Shenzhen ha detto che il centro ha semplicemente avuto un problema
con il proprietario, incoraggiando le ong “ad agire secondo la legge
cinese”. Il padrone dell’immobile però, che si è identificato con la
stampa con il nome di Yang, ha chiarito in modo laconico di aver subito forti
pressioni: “Chiedete al governo, se avete domande da fare, io ho
sessant’anni e devo mantenere una famiglia di otto persone”.
La
“carota” di Pechino non nasconde il “bastone” del Partito di Willy Lam
AsiaNews - Hong Kong - 31 luglio 2012
I
casi di Shifang e Wukan potrebbero far pensare a un cambiamento di rotta da
parte delle autorità comunista nella gestione delle sempre più numerose
proteste sociali che attraversano tutta la Cina. Ma si tratta di un abbaglio: il
Partito vuole dimostrarsi più vicino alla popolazione ma cerca di tenere i
giovani lontani dalla politica e continua a impedire l’azione di dissidenti e
attivisti per i diritti umani. Pechino però deve stare attenta: i giovani, vero
motore di ogni rivoluzione, si stanno impegnando sempre di più per ottenere
questi cambiamenti. Un'analisi dell'esperto Willy Lam. Per gentile concessione
di The Jamestown Foundation. Traduzione dall'inglese di AsiaNews.
Da
un certo punto di vista, la risoluzione rapida delle proteste di Shifang - nella
provincia sudoccidentale del Sichuan - potrebbe rappresentare un punto di svolta
nell'ambito della gestione delle circa 150mila proteste sociali che ogni anno
avvengono in Cina da parte del Partito comunista cinese (Pcc). Mentre continua a
rafforzare il proprio formidabile apparato per la "preservazione della
stabilità" (weiwen), Pechino sembra voler mettere almeno altrettanta
enfasi sui gesti di conciliazione nei casi di proteste molto pubbliche e di
ampia scala. Tuttavia non ci si aspetta nessuno cambiamento delle misure
draconiane intraprese dal Pcc nella repressione delle sfide frontali poste al
sistema di potere mono-partitico, incluse quelle poste da dissidenti e attivisti
per i diritti umani del calibro di Liu Xiaobo, Gao Zhisheng e Ai Weiwei.
Lo
scorso 1° luglio, diverse migliaia di residenti - fra cui molti studenti di
classi superiori - di Shifang (una città-contea del Sichuan) hanno deciso di
scendere in piazza per manifestare il proprio dissenso alla pianificata
costruzione di una industria destinata alla lavorazione di rame e molibdeno da
1,6 miliardi di dollari. I rappresentanti municipali hanno subito schierato la
polizia in tenuta anti-sommossa contro i dimostranti, che avevano circondato i
palazzi del Partito e del governo. Gli agenti hanno lanciato contro di loro gas
lacrimogeno e ne hanno arrestati 27 [v. Ming Pao, 2 luglio].
È
stato subito chiaro che non soltanto le autorità della capitale provinciale
Chengdu, ma anche quelle di Pechino avevano deciso di adottare un approccio più
soffice e flessibile, per disperdere in maniera rapida questa protesta per la
maggior parte basata sulla questione ambientale. Appena due giorni dopo, i
funzionari di Shifang hanno ceduto alla pressione e hanno dichiarato di voler
rimuovere i piani di costruzione dell'industria, che in precedenza avevano
definito "necessaria per aiutare l'economia a riprendersi" con la
creazione di nuovi posti di lavoro.
I
giornali nazionali con base a Pechino hanno iniziato a rimproverare i funzionari
di Shifang, che non si erano consultati in maniera appropriata con la
popolazione locale, spaventata dall'inquinamento che l'industria avrebbe potuto
generare. Il 5 luglio Chengdu ha inviato Zuo Zheng - vice sindaco della città
di Deyang, che ha giurisdizione su Shifang - a "supervisionare" il
locale segretario del Partito Li Chengjin e ad affiancarlo nella gestione
dell'incidente [v. Cnn, 6 luglio; China News Service, 5 luglio]. Con ogni
probabilità non è una coincidenza che la stessa settimana la Commissione
politica e legale centrale del Pcc - che governa la polizia, l'intelligence
interna, gli uffici dei procuratori e i tribunali - abbia pubblicato delle
istruzioni sui cosiddetti "nuovi metodi per preservare la stabilità"
(chuangxin weiwen).
Mentre
la leadership deve ancora spiegare i dettagli di questi nuovi metodi, il membro
della Commissione permanente del Politburo Zhou Yongkang - che guida la
Commissione legale e politica - ha chiesto ai funzionari incaricati di mettere
in pratica le leggi di emulare il cosiddetto "modello del villaggio
Wukan". Il riferimento è al trattamento dialogico messo in atto dalle
autorità del Guangdong per calmare i "contadini ribelli" di Wukan,
nella provincia meridionale. Alla fine dello scorso anno, i residenti locali
hanno attaccato i funzionari del villaggio, accusati di aver confiscato in
maniera illegale alcuni lotti di terreno appartenenti ai contadini e di averli
poi venduti ad alcuni industriali, ottenendone grandi profitti.
A
gennaio sono state indette nuove elezioni nel villaggio, e alcuni degli
organizzatori della protesta sono stati eletti come nuovi amministratori [v.
"The Grim Future of the Wukan Model for Managing Dissent," China
Brief, 6 gennaio]. Dopo aver discusso con il vice segretario del Partito del
Guangdong Zhu Mingguo, che ha negoziato di persona con i ribelli, Zhou lo ha
elogiato insieme ai suoi colleghi per la loro "lodevole esplorazione"
nel campo del lavoro politico e legale: "Spero - ha dichiarato - che il
Guangdong continui a stabilire metodi esplorativi nel campo della chuangxin
weiwen". Come usare il "modello Wukan" per affrontare sconti fra
polizia e cittadini è stato anche l'oggetto di un campo di addestramento per
1.400 nuovi ufficiali di polizia, a livello municipale e di contea.
Ci
sono anche altri esempi della ritrovata prontezza di Pechino nell'approntare
stili "innovativi" per la salvaguardia della stabilità. Feng Jianmei,
la donna proveniente dalla provincia rurale dello Shaanxi che è stata costretta
a subire un aborto a gravidanza molto avanzata, ha ricevuto dal governo la
promessa di un risarcimento (mai così alto) di 11mila dollari americani.
L'orribile fotografia del suo feto ucciso è circolata in tutto il cyberspazio
cinese, così come nei media stranieri. Due rappresentanti del governo locali
sono stati licenziati e altri 5 licenziati per i propri metodi troppo zelanti -
e illegali - nel mettere in pratica la contestata legge sul figlio unico in
vigore in Cina.
Se
è del tutto vero che una parte dello spirito del chuangxin weiwen include un
metodo più calmo per gestire le proteste, quali sono gli altri fattori che si
annidano dietro questo cambio di rotta? Al di là di un ovvio desiderio di
limitare il numero e l'intensità delle proteste contro il governo (in
crescita), una considerazione chiave potrebbe venire dal rinnovata attivismo
delle generazioni nate dopo gli anni '80 e '90 del secolo scorso.
Anche
se il coinvolgimento di questi giovani era evidente già durante le insurrezioni
di Wukan, il fenomeno ha attirato l'attenzione nazionale durante gli incidenti
di Shifang. Da notare in maniera particolare è stato l'inusuale coinvolgimento
entusiasta di diverse dozzine di studenti delle Scuole medie di Shifang. Lo
slogan di questi adolescenti è risuonato sulle decine di milioni di loro
coetanei attraverso internet: "Non abbiamo paura di compiere un sacrificio;
siamo la generazione post-anni '90"
Che
le autorità siano nervose riguardo al risveglio politico di questa generazione
è reso evidente dalla velocità con cui la macchina della propaganda del Pcc è
entrata in azione. Il popolare quotidiano Global Times ha pubblicato un
editoriale dal titolo: "Non dovremmo incoraggiare gli studenti liceali a
mettersi in prima linea durante in conflitti sociali". Il quotidiano
ufficiale ha avvertito i diversi settori sociali a "non lodare senza
riserve la partecipazione politica degli studenti". Il giornale è andato
oltre, scrivendo: "Nessuno dovrebbe incoraggiare gli studenti a immergersi
in diverse tipologie di incidenti di massa, per non menzionare il mettersi in
prima linea durante confronti politici... È immorale per gli adulti fare uso
dei giovani per raggiungere i propri scopi politici" [v. Global Times e
Ming Pao, 6 luglio].
La
leadership politica ha buone ragioni per essere disturbata dal potenziale
destabilizzante rappresentato da giovani politicizzati. Durante la Rivoluzione
culturale, gli studenti liceali e quelli dei college di circa 20 anni si sono
distinti per la loro partecipazione in alcuni fra i più sanguinosi
"confronti armati" fra le diverse fazioni delle Guardie rosse. Il
desiderio della generazione post-anni '90 di vedere attuata la "protezione
dei diritti" (weiquan) e la difesa dei diritti dei meno privilegiati ha
dimostrato che l'educazione "patriottica" riguardo i presunti gloriosi
traguardi del Partito non sta funzionando bene. Ancora più significativo,
persino se comparato con gli studenti post-anni '80, è il fatto che la
generazione post-anni '90 sembra avere meno bagaglio economico e politico.
Essi
non hanno ancora la preoccupazione di trovare un lavoro o risparmiare abbastanza
denaro per pagare le loro prime rate. Ancora più importante è il fattore
internet - in modo particolare le versioni cinesi di social network simili a
Facebook e Twitter - che ha più influenza sul loro modo di pensare rispetto
alla propaganda del governo. Come ha scritto il famoso scrittore e blogger Han
Han sui giovani post-anni '90 visti nelle dimostrazioni di Shifang: "È
sbagliato definirli i futuri leader della nazione; sono già gli agitatori di
oggi".
Shifang
ha anche dimostrato una delle considerazione più ovvie riguardo l'impossibilità
da parte del Dipartimento propaganda del Pcc di contenere i discorsi critici
verso il governo all'interno del cyberspazio, dove più di 500 milioni di utenti
della Rete si riuniscono in maniera virtuale. Più di 200 fra blogger e critici
sociali famosi a livello nazionale hanno disubbidito all'ordine delle autorità
e hanno pubblicato commenti pungenti su come l'arroganza e l'insensibilità dei
quadri comunisti abbiano contribuito al precipitare degli eventi a Shifang.
Han
Han e il famoso commentatore Li Chengpeng hanno anche lodato la crescente
maturità dei giovani dimostranti di tutto il Paese. L'apparente incapacità di
Pechino di controllare gli opinion leader che operano su internet potrebbe aver
contribuito a convincere le autorità centrali e provinciali a intraprendere
azioni rapide per calmare i residenti di Shifang.
Tuttavia
ci sono poche speranze che l'apparato politico e legale userà metodi più
illuminati per trattare con quei dissidenti che sembrano porre le maggiori
minacce all'autoritarismo del Pcc. Dissidenti come l'attivista per i diritti
umani Hu Jia e l'artista d'avanguardia Ai Weiwei sono ancora sotto il controllo
e la sorveglianza del Partito 24 ore al giorno. E questo nonostante il fatto che
i tribunali cinesi non li abbiano condannati per alcuna accusa. Anche se
l'attivista cieco Chen Guangcheng ha lasciato la Cina due mesi fa, suo nipote
Chen Kegui è ancora trattenuto dalla polizia della provincia dello Shandong.
L'avvocato Song Ze, uno delle dozzine di avvocati per i diritti umani che hanno
aiutato la famiglia Chen, ha perso ogni contatto con i suoi familiari e con i
suoi soci. Gli osservatorii internazionali per i diritti umani credono che, come
per il famoso avvocato Gao Zhisheng, anche Song sia "scomparso"; si
pensa che sia nascosto in un luogo sconosciuto da qualche parte in Cina
La
decisione di Pechino di non retrocedere di un millimetro davanti alle richieste
sempre più diffuse di pagare una giusta ricompensa alle vittime della
repressione di piazza Tiananmen, per non parlare della revisione del verdetto
ufficiale sul 4 giugno secondo cui le proteste sono state "un movimento
contro-rivoluzionario", sono fattori che parlano da soli. Un caso che
dimostra questa affermazione è la morte misteriosa del sindacalista dell'Hunan
Li Wangyang, imprigionato per 22 anni a causa del suo ruolo nel movimento
democratico del 1989.
Li
è stato arrestato di nuovo alla fine di maggio, subito dopo aver concesso
un'intervista a una stazione televisiva di Hong Kong. Il 6 giugno, le autorità
hanno dichiarato che si era suicidato. Il corpo del 62enne è stato subito
cremato nonostante le richieste e le proteste dei parenti e degli avvocati della
famiglia, che volevano chiarezza sulle circostanze della morte. La scorsa
settimana, le autorità dell'Hunan hanno pubblicato un rapporto che conferma che
Li si è suicidato. I parenti più stretti - la sorella e il cognato - sono
stati chiusi agli arresti domiciliari nel tentativo di non farli parlare con i
media stranieri [v. New York Times e Bbc News, 13 luglio].
Il
presidente Mao Zedong aveva già parlato di tutto questo attraverso il suo
discorso sulla natura incendiaria delle proteste popolari: "Una scintilla
nei cieli può dare fuoco a tutta la terra". Mentre le autorità del
Partito potrebbero essere state costrette a usare tattiche di weiwen
relativamente razionali e tese a calmare la situazione subito dopo gli incidenti
di Wukan e Shifang, non ci sono prove che la leadership - sotto il comando del
presidente uscente Hu Jintao - sia pronta a introdurre misure radicali per
promuovere la giustizia sociale e assicurare i diritti e la partecipazione
politica della popolazione ordinaria.
Il
mondo - e le generazioni post-anni '80 e '90 in Cina - aspettano con impazienza
un segnale da parte della nuova leadership che verrà introdotta nel 18esimo
Congresso del Partito, previsto per questo autunno. Vogliono un segno che questo
nuovo governo possa introdurre un vero zelo riformista per riparare le distrutte
relazioni fra il Partito e la cittadinanza.
Cina
popolare e Vaticano ancora ai ferri corti di Piergiorgio Cattani
Unimondo
- 1 agosto 2012
Il
vescovo cattolico ausiliare di Shanghai, Ma Daqin è ufficialmente “stanco”
e deve “riposare” : in realtà è agli arresti domiciliari presso un
seminario della metropoli cinese. La sua colpa è quella di aver rifiutato, il 7
luglio scorso, la consacrazione da parte di un vescovo nominato dal regime e
quindi scomunicato da Roma (consacrazione a vescovo comunque valida per la
presenza di altri 3 in comunione con la Chiesa), e di essersi dimesso
dall’Associazione patriottica cattolica cinese, ossia la “Chiesa
parallela” voluta e controllata dal Partito comunista. Quest’ultimo gesto è
politicamente dirompente in quanto Ma è il primo vescovo ad essersi dimesso
apertamente dall’Associazione. Una “obbiezione di coscienza” che potrebbe
costare cara al presule ma che potrebbe dare il via a una grande mobilitazione
tra il clero e i fedeli in comunione con la Chiesa universale.
La
questione della libertà religiosa è uno dei capitoli più dolenti della
violazione dei diritti umani da parte della Cina popolare. I problemi maggiori,
dopo la fine dell’era maoista e l’apertura alle tradizioni religiose
autoctone, sono proprio con la Chiesa cattolica romana percepita come
un’organizzazione verticale e gerarchica (per certi versi simile a quella dei
comunisti cinesi) in diretta concorrenza con il modello statale della Cina
popolare.
Così
commenta Bernardo Cervellera, direttore di Asianews: “Nel compiere questi
gesti mons. Ma ha semplicemente rivendicato la libertà religiosa per il suo
impegno episcopale, un principio che pure la costituzione cinese difende. Solo
che accanto alla costituzione vi sono regolamenti provinciali e nazionali che
sottomettono la vita delle comunità cristiane e i loro pastori a controlli,
minacce, adulazioni, corruzioni, frenando l'impegno di evangelizzazione.
Con
i suoi gesti mons. Ma ha anche affermato che l'ordinazione di un pastore non è
una questione politica che debba essere manipolata dal potere, ma un gesto
religioso in cui il papa e le sue indicazioni sono da rispettare per amore della
verità.
Da
questo punto di vista, mons. Ma ha compiuto la scelta che da decenni vivono
sulla loro pelle le comunità e i vescovi della Chiesa non ufficiale
(sotterranea) che in nome della salvaguardia della libertà di evangelizzare,
rischiano prigione, sequestri, isolamento, emarginazione”.
Un
articolo della versione online in lingua inglese del Quotidiano del popolo, uno
degli organi ufficiali del regime, presenta una opposta ricostruzione dei fatti,
riportando la posizione dell’organismo governativo per gli affari religiosi
(SARA). Così si legge nell’articolo, apparso il 5 luglio scorso: “Il
dipartimento di Stato per gli affari religiosi ha esortato il Vaticano a
recedere dalle sue minacce di scomunicare due vescovi cinesi che erano stati
ordinati senza l’approvazione papale, e di ritornare al «corretto sentiero di
dialogo». Le minacce di scomunica sono «estremamente irragionevoli e dure»,
ha detto in un comunicato un portavoce di SARA”. Poi l’articolo prosegue con
una spericolata quanto propagandistica ricostruzione storica.
“L’Associazione patriottica cattolica cinese era stata obbligata ad iniziare
a ordinare vescovi scelti da lei negli anni ’50 dopo che il Vaticano aveva
minacciato di emettere una scomunica. Da allora l’Associazione ha nominato più
di 190 vescovi, concorrendo a garantire e a promuovere il prospero sviluppo
della Chiesa cattolica cinese. Il perdurare della pratica dell’associazione di
ordinare vescovi è necessario per diffondere il verbo del cattolicesimo in
Cina, dove la maggior parte delle diocesi erano rimaste per lungo tempo senza
vescovo. Questa pratica va incontro a una forte aspirazione della maggioranza
dei sacerdoti e dei fedeli ed è una manifestazione della libertà religiosa”.
Un’affermazione incredibile che stravolge la realtà. Ma non è finita:
“Ogni rigetto o discussione con questa pratica religiosa è una limitazione
della libertà e un atto di intolleranza che va a deterioramento del prospero
sviluppo delle [strano plurale davvero!, ndr] chiese cattoliche in Cina e nel
mondo. Il governo cinese è intenzionato a discutere ogni questione, inclusa
l’ordinazione di vescovi, con il Vaticano, ma il governo continuerà a
sostenere l’Associazione patriottica cattolica cinese nella scelta e
nell’ordinazione dei suoi vescovi prima che le due parti raggiungano un
accordo”.
La
reazione furibonda del regime è connessa anche alla scomunica commessa dal
Vaticano al vescovo “patriottico” di Harbin Yue Fusheng, un provvedimento
che allontana ancora Pechino da Roma. Dal canto suo il Vaticano replica con una
nota ufficiale, in cui tra l’altro si legge: “Tutti i cattolici in Cina,
Pastori, sacerdoti, persone consacrate e fedeli laici, sono chiamati a difendere
e a salvaguardare ciò che appartiene alla dottrina e alla tradizione della
Chiesa. Anche nelle presenti difficoltà essi guardano con fiducia al futuro,
confortati dalla certezza che la Chiesa è fondata sulla roccia di Pietro e dei
suoi Successori.
Confidando
nell’effettivo desiderio delle Autorità governative cinesi di dialogare con
la Santa Sede, la medesima Sede Apostolica auspica che dette Autorità non
favoriscano gesti contrari a tale dialogo. Anche i Cattolici cinesi attendono
passi concreti nello stesso senso, primo fra tutti quello di evitare le
celebrazioni illegittime e le ordinazioni episcopali senza mandato pontificio,
che creano divisione e recano sofferenza alle comunità cattoliche in Cina e
alla Chiesa universale.
È
motivo di apprezzamento e di incoraggiamento l’ordinazione del Rev. Taddeo Ma
Daqin a Vescovo Ausiliare della diocesi di Shanghai, avvenuta sabato 7 luglio
corrente. La presenza da parte di un Vescovo, che non è in comunione con il
Santo Padre, era inopportuna e mostra mancanza di sensibilità verso
un’ordinazione episcopale legittima”.
Toni
fermi e duri che non lasciano presagire un avvicinamento tra le parti. Nella
Chiesa cattolica si discute molte su quale linea tenere nei confronti della Cina
Popolare. Papa Ratzinger, all’inizio del suo pontificato, aveva dato
un’accelerazione al dialogo, culminata con la conciliante Lettera ai cattolici
della Repubblica Popolare cinese(va notata la dizione “Repubblica Popolare
cinese” e non “Cina continentale”, come invece scritto nella recente Nota
citata in precedenza) del 27 maggio 2007. Grandi speranze aveva sortito il
documento, ma poi i fatti sono andati in tutt’altra direzione con arresti di
vescovi fedeli a Roma e con una libertà di culto concretamente negata. Così ha
ripreso vigore la linea intransigente del Cardinal Zen che a più riprese ha
tuonato contro qualsiasi tipo di apertura: il vescovo emerito di Hong Kong spera
probabilmente in un cedimento del regime che potrebbe spaventarsi a vedere la
crescita del dissenso e il diffondersi della protesta che potrebbe coinvolgere
milioni di fedeli cinesi. Il regime sembra avvalorare la diagnosi di Zen, anche
se per ora non dà segni di cambiamento.
Gli indigeni Nasa contro il controllo armato del territorio
di Andrea Dalla
Palma
Unimondo
- 31 luglio 2012
Dall’articolo
330 della Costituzione della Repubblica colombiana, considerata da
molti un esempio di democrazia moderna: “In conformità con la Costituzione e
le leggi, i territori indigeni sono governati da Consigli formati e
regolamentati secondo gli usi ed i costumi propri delle loro comunità”.
Se
la tutela delle comunità indigene in Colombia é un principio riconosciuto
sulla carta, altrettanto non si può dire nella realtà dei fatti. Nell’ultimo
mese, solo per rimanere all’attualità più stretta, si é registrata una
escalation delle tensioni tra Nasa (conosciuti anche come Paeces), forze
dell’ordine e combattenti delle FARC. I Nasa sono una popolazione indigena
amerinda presente nella regione andina de Cauca, nel sud-ovest della Colombia e
che vive, in prevalenza, dei prodotti offerti dalla terra che abita (come mais,
patate, caffè). Da anni la zona del Cauca é teatro di scontri tra diverse
parti in causa: da una parte la popolazione autoctona, dall’altra,
armati, i ribelli delle forze rivoluzionarie e dall’altra ancora, sempre
armati, la polizia e l’esercito.
La
settimana scorsa, il tentativo della Guardia Indigena di scacciare dal proprio
territorio la polizia di guardia in alcuni villaggi del Cauca é degenerato in
violenti scontri che hanno provocato la cattura ed il ferimento di diversi
militari e un morto tra la popolazione autoctona. Tutto questo ha reso
necessaria la convocazione, da parte del governo, di un tavolo di dialogo tra
forze politiche e rappresentanti Nasa. Questi ultimi, stanchi delle continua
lotta armata tra militari e rivoluzionari, hanno chiesto che tanto i ribelli
quanto la polizia e l’esercito abbandonino il territorio. Secondo i portavoce
dei Nasa, se la presenza delle FARC costituisce, ovviamente, una grande minaccia
alla pace e alla tranquillità della popolazione locale, altrettanto si può
dire per le forze di polizia. Rappresentanti dell’ACIN (Asociación de
Cabildos Indigenas del Norte del Cauca) fanno sapere di voler optare per un
“pacifismo radicale. Non sopportiamo la presenza di nessun uomo armato,
legalmente o illegalmente, e siamo disposti ad affrontare senza armi le FARC per
la libertà della nostra terra. Se quello che guadagniamo dalla presenza della
polizia e dell’esercito é più guerra, rinunceremo alla protezione dello
Stato e ci auto organizzeremo per la nostra difesa”.
Per
tutta risposta, il presidente della Repubblica Juan Manuel Santos ha fatto
sapere che le forze di sicurezza non abbandoneranno né questa né nessuna zona
del paese. Il Governo - mette in chiaro Santos – non può accettare la
richiesta di ritiro; al contrario, deve proteggere tutti i cittadini. Il ritiro
delle forze armate non sarebbe altro che un favore ai guerriglieri, che
assumerebbero il controllo totale della zona. Niente gioverebbe più ai
narcoterroristi che una lacerazione del rapporto di fiducia tra la società
civile e lo Stato.
Non
sono pochi quelli che, viste le richieste, accusano gli indigeni di
collaborazionismo con le FARC. Queste ultime sono presenti nella zona da diversi
anni, agli ordini del leader Edgar López Gómez, detto “Pacho Chino”, su
cui pende una taglia di 1,4 milioni di dollari. Per dare risalto alla guerra
armata contro il terrorismo e la criminalità, il Governo Santos illustra i
numeri: “nel primo semestre di quest’anno, la cattura di membri delle FARC
è aumentata del 76% e nel caso degli integranti dell’ ELN (Esercito di
Liberazione Nazionale) del 49%. Nelle ultime offensive sono stati eliminati i
leader ribelli Afonso Cano e Mono Jojoy. Per via di questi risultati senza
precedenti, la pressione militare contro il terrorismo continua”.
In
Colombia, i Nasa non sono gli unici a soffrire la violazione del proprio diritto
alla terra, costituzionalmente riconosciuto. Secondo la stessa Corte
costituzionale, sono 35 i popoli indigeni minacciati di estinzione a causa dei
conflitti armati e delle espropriazioni forzose. Popoli come gli Arhuaco, i
Nukak, gli Awa, i Wayuu o gli abitanti afro e indios del Chocò vivono
quotidianamente nell’incubo della guerriglia. Non solo: gran parte delle
comunità deve affrontare gravi problemi socio-ambientali quali la povertà, la
deforestazione e la sempre più scarsa produttività delle terre, condizioni
igieniche e sanitarie precarie, mancanza di infrastrutture e difficile accesso
all’istruzione di base. Molti dei villaggi sono oggi disabitati, per via dei
fenomeni migratori verso le grandi città come Bogotà e Medellin. Le Nazioni
Unite hanno sollecitato il governo ad adottare soluzioni contro lo stato di
crisi acuta, secondo quanto previsto dagli accordi internazionali per la difesa
delle popolazioni indigene.
Il
9 agosto si celebra la “giornata internazionale delle persone autoctone“.
Per la Colombia (e non solo) dev’essere l’occasione per ripensare le proprie
politiche di aiuto allo sviluppo e di tutela delle popolazioni indigene. Una
tutela che non può limitarsi alla presenza militare e che deve trasformarsi in
una presenza reale e sociale dello Stato, frutto di accordi condivisi con i
beneficiari.
Donne
armate dentro le Farc di Paola Bisconti
Articolo
21 - 30 luglio 2012
In
mezzo alla giungla del sud-est della Colombia si mimetizzano i guerriglieri
delle Farc-Ep (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia-Ejercito del pueblo).
Un esercito composto da uomini, donne e anche bambini che ogni giorno si
addestrano… per combattere contro chi da decenni non intende riconoscere i
diritti degli abitanti delle zone rurali della nazione. Insediati anche nelle
pianure ai piedi delle Ande, i soldati dell’organizzazione più longeva del
mondo, compongono dei corpi militari che fanno riferimento ad un leader forte,
determinato e combattente. Nonostante i media intendano dimostrare
all’opinione pubblica che le Farc hanno gettato la spugna, loro continuano ad
essere sempre più belligeranti. Il 23 luglio scorso, infatti, hanno attaccato
per la sessantasettesima volta durante l’anno, un altro bersaglio appartenente
allo Stato, il suo acerrimo nemico. Nei fiumi di Boyocà e Aurauca si sono
riversate ingenti quantità di petrolio greggio in seguito ad un’offensiva
nella sede dell’Ecopetrol che ha provocato lo scoppio dell’oleodotto
lasciando 120.000 persone senza acqua.
Le
azioni violente messe in atto dalle Farc provocano una forte destabilizzazione
politica nella nazione che spesso è ricorsa al sostegno militare degli Stati
Uniti. In passato dopo vari scontri armati e molte perdite di vite umane
sacrificate con l’obiettivo di ottenere le riforme a favore della popolazione
contadina colombiana le Farc raggiunsero un accordo firmando nel 1984 gli
“accordi della Uribe” che prevedevano il cessate il fuoco nonché la
possibilità di votare i propri sindaci. L’attività del movimento esistente
dal 1964 fu così legalizzata ma nel corso degli anni subirono altri attacchi
molto violenti fino a ritornare poi nel 1998 a siglare un altro patto storico: i
“dialoghi del Caguàn” che consentirono l’apertura del negoziato di pace
fra il presidente Andrès Pastrana e il leader storico Manuel Marulanda Vèlez,
soprannominato il “Tirofjo” ossia colpo sicuro, che sancì un decennio di
pace terminato nel 2002 finchè il presidente Pastrana terminò il suo mandato.
Da
allora è in corso una battaglia cruenta che non risparmia nessuno, entrambe le
fazioni non intendono rinunciare alle proprie motivazioni: le Farc continuano a
sostenere di voler rappresentare gli interessi dei poveri, accusano il governo
colombiano di fare affari con gli Stati Uniti che mirano a privatizzare le
risorse naturali del Sud-America, non accettano lo sfruttamento delle
multinazionali e contestano la violenza dell’esercito governativo inviato
prima dal presidente Alvaro Uribe e poi da Juan Manuel Santos. Nonostante i
buoni motivi fa discutere il metodo violento utilizzato dal capo Rodrigo
Londonio, successore di Alfonso Cano, morto in un attentato, per far valere i
propri diritti. L’arruolamento di 3000 bambini strappati dalle loro famiglie
per essere usati come kamikaze è certamente inaccettabile così come è
intollerabile la scelta apparentemente progressista di accogliere nuove leve
femminili.
La
questione riguardo le donne armate che combattono al fianco dei soldati delle
Farc suscita una serie di perplessità. La presenza delle ragazze all’interno
del gruppo è pari al 40%, molte di loro decidono di arruolarsi per fuggire da
un clima familiare opprimente perché conservatore e maschilista. La divisa è
ritenuta anche come unica possibilità di acculturarsi dato che la gran parte
delle adolescenti non ha ricevuto neanche una prima istruzione di base. Tuttavia
una volta reclutate le ragazzine vengono usate dai soldati per i loro piaceri
sessuali, a rivelarlo è un’inchiesta condotta da “El Tiempo”, il
quotidiano colombiano, che ha riportato alcuni particolari agghiaccianti: le
donne che scelgono la carriera militare devono dimenticare il sogno di diventare
madri, la contraccezione è una delle prime regole da rispettare, qualora la
“sfortunata” rimanesse incinta in seguito ad un rapporto forzato con uno dei
guerriglieri è costretta ad abortire oppure se il capo decide di far portare
avanti la gravidanza il neonato sarà cresciuto in un orfanotrofio.
Se
la loro presenza all’interno dell’organizzazione tiene alto l’umore degli
uomini, le ragazze non respirano lo stesso clima di armonia perché sono vere e
proprie vittime di un maltrattamento disumano. Per diffondere la vera
realtà che si cela dietro questo corpo militare è in corso una campagna di
sensibilizzazione “Operazione da donna a donna” che se non risolverà il
problema di certo potrà contribuire a far emergere la verità, come quella che
riguarda il finanziamento illecito dell’organizzazione.
Il
traffico illegale di narcotici è la principale fonte di sovvenzionamento,
inoltre i rappresentanti delle Farc hanno imposto una tassa che i
narcotrafficanti devono pagare ai contadini che lavorano la pasta ossia
l’elemento indispensabile per ottenere la polvere della cocaina. Chi osa
sottrarsi a questa imposta è severamente punito dai guerriglieri che non
esitano a rapire il soggetto in questione finchè qualcuno non provvederà a
pagare il conto insoluto.
Lo
Stato colombiano ritiene grave l’azione paragonandola ad un sequestro di
persona. Le Farc, infatti, sono note in tutto il mondo per i rapimenti di
personaggi celebri. Il più recente è stato Romeo Langlois, giovane
fotoreporter francese, catturato nell’aprile del 2011 nella regione
meridionale di Caqueta dove il trentacinquenne si trovava come “embedded” al
seguito dell’esercito ed è stato liberato lo scorso maggio. Durante il
periodo di segregazione, il giornalista, che ha dichiarato di non essere stato
maltrattato dai guerriglieri, ha avuto modo di ascoltare i veri motivi della
loro battaglia che spesso degenera in atti così brutali.
Ancora
più mediatica fu l’azione di rapimento di Ingrid Betancourt, figlia di
Gabriel Betancourt ambasciatore presso l’Unesco e della senatrice Yolanda
Pulecio. Ingrid al termine del negoziato di pace con il presidente Pastrana tentò
di ristabilire un dialogo con le Farc ma il 23 febbraio del 2002 durante il
viaggio fu rapita al confine fra la città di Florencia e San Vincente del
Caguan da alcuni guerriglieri che la tennero in ostaggio per 6 lunghi anni. Nel
2007 i rappresentanti delle organizzazioni diffusero dei video e delle foto che
mostravano la senatrice Betancourt in vita ma fortemente provata fisicamente.
Successivamente alla liberazione avvenuta grazie all’operazione di
intelligence denominata “Jacque” la donna colombiana pubblicò un libro
giunto in Italia grazie all’edizione di Sonzogno con il titolo “Forse domani
mi uccideranno”. Ingrid Betancourt era nota per il suo impegno pacifista sia
come componente di spicco del partito verde Oxigeno e poi nelle battaglie contro
la corruzione, per questo ha ricevuto in Spagna il Premio Principe delle Asturie
per la difesa dei diritti umani mentre Walter Veltroni, ex sindaco di Roma, la
dichiarò cittadina onoraria della capitale italiana e il quotidiano l’Unità
la candidò al Premio Nobel per la Pace.
È
indispensabile che le autorità governative trovino al più presto un accordo
con le Farc affinchè non continuino le azioni violente, lo spargimento di
sangue, lo sfruttamento di bambini e l’abuso di giovani donne ma vengano
rispettati i diritti di tutta la popolazione colombiana, contadini compresi.
Nord-Kivu, la lettura e le soluzioni del presidente Kabila
Misna - 30 luglio 2012
“L’Uganda
non ha nulla a che vedere con la ribellione del Movimento del 23 marzo (…)
invece la presenza del Rwanda nell’est del paese è un segreto di
pulcinella”: in uno dei suoi rari interventi radiotelevisivi il presidente
Joseph Kabila è uscito dal silenzio sulla crisi che si è riaccesa dallo scorso
aprile nella provincia del Nord-Kivu (est), teatro di gravi violazioni dei
diritti umani e scontri che contrapongono truppe regolari (Fardc) e vari gruppi
ribelli, in particolare l’M23.
Per
il capo dello Stato, riconfermato al potere lo scorso novembre con un voto
contestato, ci sono tre soluzioni alla crisi dell’Est: militare, politica e
diplomatica. Ma per cominciare “è necessario” il dispiegamento di una forza
neutrale internazionale che faccia da cuscinetto tra i combattenti, come
suggerito dall’Unione africana (UA) durante il suo ultimo vertice del 15
luglio a Addis Abeba. Kabila non si è invece espresso sulla possibilità di
negoziare con la ribellione del M23, formata per lo più da ex combattenti della
ribellione tutsi congolese del Congresso nazionale per la difesa del popolo
(Cndp), integrati nell’esercito sulla base di un accordo di pace firmato con
Kinshasa nel marzo 2009 e di cui rivendicano la piena applicazione. Ma secondo
le autorità locali del Nord-Kivu, Kinshasa avrebbe chiesto ad esperti una
valutazione degli accordi di tre anni fa in presenza di una mediazione
internazionale. L’intervento del presidente congolese è stato pronunciato
mentre sul terreno si stanno intensificando i combattimenti tra militari
regolari e ribelli che puntano a Goma, capoluogo della provincia orientale.
Scontri sono stati segnalati a Kibamba, Rugari e Mbuzi, ma anche nei pressi di
Kibumba, a una ventina di chilometri soltanto da Goma. Qualche giorno prima i
miliziani del M23 avevano già raggiunto questa posizione ma erano stati
respinti da una controffensiva delle Fardc, sostenuta dagli elicotteri della
missione Onu (Monusco). Ma nelle ultime ore le forze governative sembrano aver
nuovamente perso terreno per mancanza di munizioni.
Da
giovedì più di 2000 persone sono fuggite dai villaggi per trovare rifugio a
Goma e fonti di stampa locale, tra cui ‘Radio Okapi’, riferiscono di nuove
defezioni all’interno dell’esercito, citando il nome del colonnello Eric
Badege, accompagnato da un centinaio di uomini, che si starebbero incamminando
verso Rubaya, in territorio di Masisi. Finora a causa dei combattimenti più di
200.000 persone hanno abbandonato la provincia del Nord-Kivu, di cui 30.000 si
sono rifugiate in Uganda e Rwanda. La società civile locale ha lanciato un
appello alle Fardc e alla Monusco chiedendoli di “rafforzare le misure di
sicurezza su Goma dove una situazione esplosiva rischia di incendiarla”.
Sul
fronte della diplomazia internazionale, Parigi ha annunciato che si rivolgerà
oggi ufficialmente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per condannare
formalmente la ribellione del M23 e ogni suo sostenitore. Nelle ultime settimane
rapporti dell’Onu hanno evidenziato il sostegno di Kigali alla nuova
formazione armata, suscitando le condanne formali di Stati Uniti, Germania e
Olanda al Rwanda, che ha finora negato ogni sua responsabilità.
Editoriale
Congo Attualità 157
Paceperilcongo.it
Le
dichiarazioni “secessioniste” del M23.
Nel
suo discorso del 21 luglio, a Bunagana, (Nord Kivu) Jean-Marie Lugerero Runiga,
presentandosi come coordinatore del "Movimento del 23 marzo" (M23), ha
elencato le solite critiche contro il regime incarnato da "Joseph
Kabila", un regime, d’altra parte respinto all’unanimità anche dalla
popolazione. Egli cita, tra l’altro, la cattiva gestione dell’esercito e dei
servizi di sicurezza, il malgoverno, la corruzione e lo sfruttamento illegale
delle risorse naturali del Paese. Ha quindi affermato che «l’attuale classe
politica congolese non è in grado di gestire correttamente ed efficacemente la
RDCongo nella sua attuale configurazione, soprattutto a causa della vastità del
suo territorio e di un governo eccessivamente centralizzato». Ha, infine,
concluso dicendo che "Bisogna avere il coraggio di innovare radicalmente e
profondamente". Già, innovare. Ma come? Questa è la questione. Runiga non
ha voluto dire esplicitamente la sua proposta. Ma attraverso la sua insistenza
sulla non viabilità della RDCongo nelle sue dimensioni attuali, ci si rende
conto che il suo movimento, il M23, ha decisamente accettato la logica della
balcanizzazione della RDCongo, in conformità con la missione assegnatagli dal
suo mandante, l’uomo forte di Kigali. Runiga si limita a dire che lui e i suoi
"amici" non escludono di fare ricorso a "strategie
alternative" per costringere le autorità di Kinshasa a rispettare gli
"impegni" assunti nell’accordo di pace del 23 marzo 2009, tra il
Governo di Joseph Kabila e il CNDP.
Invece
di parlare degli accordi del 23 marzo 2009, in gran parte (troppo) rispettati
dal governo, Runiga dovrebbe piuttosto parlare di quei “segreti accordi del 13
dicembre 2010”, quando il CNDP aderì alla Maggioranza Presidenziale
(MP), senz’altro con obiettivi ben precisi. Sarebbe certamente più onesto.
Dovrebbe pure parlare di ciò che Bosco Ntaganda e Joseph Kabila si sono detti
alla vigilia delle elezioni di novembre 2011.
Ciò
che Runiga omette di dire è che l’attuale crisi del Nord Kivu non sarebbe
avvenuta
-
se non ci fosse stata la decisione del Tribunale Penale Internazionale di fare
arrestare Bosco Ntaganda,
-
se il governo non avesse deciso, nel mese di aprile 2012, di procedere al
trasferimento di truppe del CNDP in altre circoscrizioni militari fuori del
Kivu,
-
se “Joseph Kabila” avesse affidato l’incarico di primo ministro a una nota
personalità del RCD o se avesse affidato a qualcuno del CNDP qualche ministero
in seno al governo centrale,
-
se le elezioni nel Masisi non fossero state annullate, proprio a causa della
violenza perpetrata da militari del CNDP nei pressi o all’interno dei seggi
elettorali, impedendo così al CNDP di avere qualche deputato all’Assemblea
Nazionale.
Runiga
non dice che la potenza militare del suo movimento gli è assicurata
dall’appoggio dei regimi di Kigali e Kampala. L’attuale crisi del Nord Kivu
ha certamente qualcosa di mafioso.
Jean-Marie
Lugerero Runiga dimentica che la balcanizzazione della RDCongo non è certamente
la risposta che milioni di donne e uomini congolesi attendono per realizzare le
loro aspirazioni di pace, democrazia, buon governo e di benessere sociale. I
veri patrioti continueranno ad esprimere con forza la loro volontà di vivere
insieme in un Congo unito, nonostante le sue debolezze di ogni genere. Essi si
mobiliteranno contro l’aggressore attraverso vari eventi: preghiere, marce,
dibattiti politici, raccolte di fondi e messaggi di solidarietà con gli
sfollati, ecc.
Il
possibile avvicinarsi della caduta del “mito dell’uomo forte di Kigali”.
Forse
anche la Comunità Internazionale comincia a capire ciò che la gente del Kivu
dice già da molto tempo: che la RDCongo è vittima di continue invasioni e
aggressioni da parte dell’esercito rwandese e che i servizi di sicurezza dello
Stato (esercito, polizia, intelligence) sono totalmente infiltrati da ufficiali
ruandesi al servizio degli interessi del loro Paese. Ma il prezzo pagato dalla
popolazione congolese si cifra in milioni di vittime: vedove, orfani, sfollati,
rifugiati, donne violentate, bambini soldato. Nonostante tutto ciò, il governo
di Paul Kagame è stato a lungo sostenuto e elogiato dalla comunità
internazionale, per il suo modo di gestire l’economia del Paese e gli aiuti
ottenuti. Kigali dipende, infatti, dagli aiuti internazionali per più del 50%
del suo bilancio nazionale. Ma forse la Comunità Internazionale si sta ora
accorgendo che gli aiuti finora ricevuti per “ridurre la povertà e promuovere
la crescita economica”, sono serviti a dare un po’ di fiato all’economia
nazionale, ciò che ha permesso di finanziare più facilmente, anche con gli
apporti provenienti dal contrabbando dei minerali congolesi, l’occupazione
militare e economica del Kivu, mediante l’infiltrazione dell’esercito
congolese e l’acquisto di terre e pascoli congolesi, in vista di
un’emigrazione clandestina di popolazioni civili ruandesi verso il territorio
congolese, a scapito della popolazione locale.
Negli
ultimi giorni, nel tentativo di fermare l’appoggio del regime ruandese al
gruppo terroristico del M23, vari Paesi occidentali, tra cui Stati Uniti,
Olanda, Gran Bretagna e Germania hanno deciso di sospendere l’erogazione,
almeno parziale e temporanea, degli aiuti governativi. Tale misura non dovrebbe,
però, limitarsi all’obiettivo della cessazione, da parte di Kigali,
dell’appoggio fornito al gruppo terroristico M23, ma dovrebbe protrarsi fino a
che Kagame accetti di organizzare un dialogo inter ruandese, con la
partecipazione del Governo e dell’opposizione, interna ed esterna, in vista di
accordi che permetterebbero non solo il ritorno in Ruanda dei rifugiati ruandesi
ancora residenti nel Kivu, ma anche dei membri delle FDLR, usate finora come
pretesto per invadere ripetutamente il Kivu. Alla sospensione degli aiuti
economici al Governo, si potrebbero aggiungere anche altre misure, tra cui
l’embargo sulle armi, il blocco di conti bancari, l’interdizione di
viaggiare all’estero, l’emissione di mandati di cattura internazionali nei
confronti delle persone implicate in crimini di guerra e crimini contro
l’umanità, il richiamo in patria, per consultazioni, degli ambasciatori
accreditati a Kigali e la sospensione temporanea degli investimenti stranieri
nel Paese.
La
pressione internazionale su Paul Kagame, Presidente del Ruanda, sta aumentando.
A causa del suo regime dittatoriale, delle sue mire espansionistiche, delle sue
ambizioni egemoniche e della sua implicazione in numerosi crimini di guerra e
crimini contro l’umanità, Paul Kagame sta perdendo, forse, l’appoggio degli
alleati europei. Il mito dell’"uomo forte" di Kigali sta,
probabilmente, cadendo. Come pure, forse, sta svanendo l’illusione di una
corsa allo sviluppo economico di un Paese privato del diritto alla libertà di
espressione e alla democrazia.
Mentre Kim Jong-un gioca al parco, lo zio si prende il Paese
di
Joseph Yun Li-sun
AsiaNews - Seoul - 30 luglio 2012
Continua
l’Amleto a Pyongyang. Kim Jong-un, giovane dittatore, si fa fotografare mentre
gioca sulle giostre e sorride alla moglie; lo zio Jang Song-taek guida le purghe
e si afferma sempre di più ai vertici del potere. Ma rischia grosso, perché i
coreani permettono soltanto alla famiglia Kim di governarli.
Jang
Song-taek, eminenza grigia del potere in Corea del Nord, ha lanciato la propria
campagna per raggiungere le vette del potere nel Paese. Cognato del defunto Kim
Jong-il (ne ha sposato la sorella Kim Kyong-hui) e quindi zio e tutore
dell'attuale dittatore Kim Jong-un, è considerato dall'intelligence di Seoul e
da quella americana il vero fautore delle riforme in atto a Pyongyang.
Nella
notte, il regime ha attaccato il resto del mondo e gli odiati confinanti:
"I pupazzi della Corea del Sud dicono che il nostro leader, il maresciallo
Kim Jong-un, si stia preparando per delle riforme di tipo occidentale.
Dimostrano così la loro ignoranza: il giovane leader sta invece convogliando su
di sé l'amore del popolo per vincere la grande guerra contro il Sud".
La
retorica è quella tipica dell'ultimo regime stalinista al mondo. Ma è un fatto
che, da circa due mesi, le leve del potere a Pyongyang stiano cambiando, come
pure l'atteggiamento della guida suprema. Distaccandosi dal padre - che ha
parlato in pubblico solo 2 volte in 17 anni di regno - e dal nonno - ideologo
socialista dall'immagine rigorosa - il giovane maresciallo si fa vedere ogni
giorno e interagisce con la popolazione. Jong-un ha permesso l'apertura di una
pizzeria e di un fast food nella capitale, ha inaugurato un Parco divertimenti,
ha provato le giostre, ha presentato alla folla sua moglie e ha concesso la
trasmissione in diretta delle gare olimpiche. Ma ha anche avallato la rimozione
del capo dell'esercito, generale Ri Yong-ho, che sarebbe stata imposta dallo zio
Jang.
Quest'ultimo,
nel gennaio 2009, è stato indicato dal defunto Jong-il come suo tutore.
Approfittando di questa nomina e dell'ictus che aveva colpito il dittatore, ha
iniziato a tessere la propria tela. Secondo una fonte di AsiaNews "è lui
che ha rimosso i militari del vecchio regime ed è lui che sta spingendo per una
riforma economica del Paese. Il nipote non è stupido, ma non conosce bene i
gangli del potere locale e vede nello zio un alleato. Con il tempo l'asse
potrebbe rompersi, ma per ora sembra funzionare". L'unico pericolo,
sottolinea la fonte, "è che la popolazione nordcoreana vede nella famiglia
Kim, e solo in lei, l'unica autorizzata a detenere il potere. Kim Il-sung è
ancora molto amato e i suoi discendenti sono in qualche modo legittimati a fare
quello che vogliono. Jang deve stare attento, perché appena sua moglie dovesse
morire rischia di essere epurato anche lui".
Storica sentenza della Corte interamericana dei diritti umani per i popoli
nativi
Amnesty.it
- 30 luglio 2012
La
sentenza emessa dalla Corte interamericana dei diritti umani nel giudizio
Sarayaku v. Ecuador, resa pubblica il 25 luglio, rappresenta una grande vittoria
per i popoli nativi. All'inizio dello scorso decennio, una compagnia
petrolifera era stata autorizzata a introdursi nelle terre tradizionali dei
sarayaku, senza informare questi ultimi. La Corte ha stabilito che
l'Ecuador ha violato il diritto della comunità sarayaku ad essere consultata,
all'identità culturale e alla proprietà comune dei terreni in questione.
La
Corte ha anche giudicato lo stato ecuadoriano responsabile di aver posto a
rischio la vita e l'integrità fisica dei sarayaku, dopo che la compagnia
petrolifera aveva collocato oltre 1400 chili di esplosivo nel loro territorio.
"Questa sentenza, che avrà conseguenze positive in tutto il continente
americano, rende chiaro che gli stati hanno l'obbligo di svolgere consultazioni
ad hoc, prima di essere coinvolti in progetti di sviluppo che avranno un impatto
sui popoli indigeni e sui loro diritti. Queste consultazioni, spiega la Corte,
dovranno essere fatte in buona fede, secondo procedure culturalmente adeguate e
con l'obiettivo di raggiungere un consenso.
L'esplorazione
o l'estrazione delle risorse naturali non può aver luogo a spese dei mezzi di
sopravvivenza fisica e culturale dei popoli nativi sulle loro terre" - ha
dichiarato Fernanda Doz Costa, ricercatrice sui diritti economici, sociali e
culturali nelle Americhe di Amnesty International. La sentenza è stata emessa
in un momento delicato, in cui ai popoli nativi viene negato il diritto di
essere coinvolti in decisioni che spesso hanno effetti devastanti per la loro
stessa sopravvivenza. I governi di molti paesi americani continuano a progettare
autostrade, oleodotti, dighe idroelettriche e miniere a cielo aperto nei pressi
se non all'interno dei terreni nativi, spesso senza ottenere il loro consenso
libero, preventivo e informato.
La Chiesa al fianco dei giovani per un riscatto umano e sociale
Radiovaticana
- 31 luglio 2012
Continua
in Guatemala l’impegno delle istituzioni contro la povertà e la corruzione
nella difesa della democrazia. Una sfida raccolta con particolare impegno dalla
Chiesa locale che offre alla comunità e in particolare ai giovani segni di
speranza con un impegno di carità sociale e di formazione spirituale. Altra
grande sfida per la Chiesa guatemalteca è la presenza delle sette. Di
provenienza statunitense, crescono nella società locale per la loro
disponibilità economica e la forte, ma apparente, esperienza di comunità che
offrono. Don Leonardo Biancalani, teologo, sacerdote italiano della diocesi di
Massa Marittima-Piombino incaricato di svolgere un corso di aggiornamento per
formatori e sacerdoti sulla “Morale sociale”, racconta al microfono di Luca
Collodi la sua esperienza nel Paese latino-americano:
R.
- La situazione è quella di un Paese che si vuole riscattare socialmente, ma
anche quella di un Paese che manifesta un’estrema povertà, anche se - allo
stesso tempo - manifesta un grande entusiasmo. Ho visto una Chiesa che vuole
veramente riscattarsi e che vuole dare un segno forte di speranza, anche se
permangono, però, delle tensioni visibili nel Paese e una povertà abbastanza
evidente.
D.
- Il ruolo della Chiesa del Guatemala come s’inserisce oggi in questo cammino
di riscatto, di legalità, di rafforzamento della democrazia?
R.
- La Chiesa guatemalteca, per quella che è appunto la mia esperienza personale,
credo che stia facendo un lavoro di carità sociale molto importante così come
di formazione dei sacerdoti: una formazione spirituale e una formazione
liturgica, anche con l’uso mirato dei segni liturgici. C’è un’attenzione
- sia per quanto riguarda la liturgia sia per quanto riguarda la carità - da
parte della Chiesa guatemalteca molto importante e questo sono convinto che potrà
permettere quest’opera forte nel corso degli anni per riportare la Chiesa in
alto.
D.
- Guardiamo anche ai giovani: i giovani del Guatemala rispetto all’esperienza
di fede...
R.
- E’ un Paese relativamente giovane. Voglio ricordare che sono appena 30 anni
che è finita la guerra, una guerra veramente sanguinosa. E’ quindi un Paese
giovane, dove i giovani chiedono alla Chiesa non soltanto l’allegria tipica
dell’America Latina, ma chiedono soprattutto una presenza molto forte. C’è
da parte dei giovani una voglia di stare insieme, anche se però si notano
quelli che sono i segni di una guerra che è stata sanguinosa: da un certo punto
di vista si vede, quindi, un certo di tipo di frazione. Chiaramente il fenomeno
della disoccupazione, fenomeno certamente conseguente di altri problemi sociali,
e la corruzione sono dei mali endemici. Stanno cercando ora di reagire con
forza, ma si vede una certa fatica. Sono convinto che però non manchi la forza
e non manchi la voglia da parte dei giovani, che sono poi il sale della società,
per cercare di ricostruire e arrivare veramente ad un riscatto sociale.
D.
- Altro tema che interessa non solo il Guatemala, ma tutta l’America è quello
delle sette. Da questo punto di vista, la Chiesa come si sta muovendo?
R.
- Il problema delle sette è evidentissimo: basta girare con la macchina per
trovare qualsiasi tipo di cartello con una chiesa particolare, dai nomi più
disparati. Io credo che questo sia un problema veramente drammatico, perché
molti hanno perso - da questo punto di vista - la fede per aderire alle sette,
anche perché sono sette di estrazione americana, che "conquista" in
tutti i sensi: quindi sia da un punto di vista economico, sia da un punto di
vista di una "apparente e forte comunità". Io credo che questa sarà
una sfida per la Chiesa cattolica guatemalteca molto forte, anche perché le
sette sono ramificate: ogni 300-400 metri ci si imbatte in una chiesa con un
nome diverso. Sono molto forti i Testimoni di Geova, i Mormoni e anche altri
vari tipi di sette particolari.
La miseria dei tribali Bodo, vittime delle violenze in Assam
di Nirmala
Carvalho
AsiaNews - Mumbai - 30 luglio 2012
A
Kokrajhar, epicentro delle rivolte tra indigeni e settlers musulmani, un
sacerdote salesiano racconta le condizioni di 15mila tribali accolti nei campi
profughi della diocesi. Case bruciate, terreni devastati e bestiame ucciso. Si
affaccia il rischio di diffusione di malattie, soprattutto tra anziani, bambini
e donne incinte.
Una
situazione "patetica", di assoluta "miseria e disperazione":
così p. Sebastian sdb, sacerdote della parrocchia Don Bosco di Kokrajhar,
descrive ad AsiaNews la condizione di oltre 15mila tribali, accolti nei 10 campi
profughi della diocesi dopo le violenze tra indigeni Bodo e settlers musulmani.
Al momento, i disordini sembrano essere rientrati, e oggi P Chidambaran,
ministro degli Interni, visiterà la popolazione dell'Assam. Eppure, spiega il
sacerdote salesiano, ad attendere queste persone vi è "un futuro incerto,
desolante e cupo, soprattutto per i loro figli. Essi hanno perso ogni
cosa".
Le
rivolte sono esplose nella notte tra il 21 e il 22 luglio, quando uomini armati
non identificati hanno ucciso quattro giovani nel distretto di Kokrajhar,
un'area popolata dai tribali Bodo. Secondo le prime ricostruzioni della polizia,
per vendetta, alcuni tribali avrebbero attaccato dei musulmani, sospettandoli di
essere i responsabili dell'uccisione. Da quel momento, le violenze sono esplose
in modo incontrollabile, con gruppi diversi che hanno dato fuoco ad auto, case e
scuole, sparando contro persone e in luoghi affollati. Tra il 22 e il 23 luglio,
le rivolte si sono estese a macchia d'olio, raggiungendo anche il distretto di
Chirang. Il bilancio finale parla di 53 morti, e più di 170mila persone (tra
tribali e settlers) fuggite dai villaggi.
In
questi giorni, la parrocchia Don Bosco ha allestito 10 campi profughi, dove
hanno trovato rifugio e aiuti oltre 15mila tribali Bodo. "Le famiglie -
racconta p. Sebastian - hanno abbandonato i villaggi portando con sé solo i
vestiti che avevano indosso, tanta era la paura. Le loro case sono state ridotte
in cenere, i loro terreni sono devastati, il loro bestiame ucciso. Queste
persone sono traumatizzate dal punto di vista fisico e psicologico". Adesso
il pericolo maggiore riguarda la diffusione di malattie, soprattutto perché il
Paese è in piena stagione monsonica. "Abbiamo organizzato - spiega il
sacerdote - campi di primo soccorso, nei quali distribuiamo medicine, servizi
sanitari di base, lenzuola pulite e acqua potabile. Donne incinte, bambini
piccoli e anziani sono le categorie più vulnerabili, e vogliamo limitare il
contagio". Lo Stato nordorientale dell'Assam non è nuovo a violenze
simili. In genere, i disordini nascono da dispute di tipo economico, in cui la
diversità etnica è solo una circostanza aggravante. Più volte il Bodoland
Territorial Council (Btc), autorità territoriale non autonoma che amministra le
zone a maggioranza Bodo, ha denunciato i soprusi compiuti dai settlers
musulmani, che dal confine con il Bangladesh entrano in modo illegale in India e
si appropriano dei terreni degli indigeni.
Quel grande interprete del Concilio di d. Antonio Sciortino
Famiglia Cristiana - 31 agosto 2012
Il
ricordo del cardinale Martini di don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia
Cristiana. Con la sua morte scompare una delle più eminenti personalità del
nostro tempo.
Quasi
in coincidenza con la celebrazione del cinquantesimo anniversario
dell’apertura del Vaticano II, è venuto a mancare un pastore che è stato un
vero interprete del Concilio.Soprattutto nel dialogo con il mondo e nel sapere
leggere i “segni" dei tempi. Carlo Maria Martini, strappato agli studi
biblici, per guidare la diocesi di Milano, la più grande del mondo, ha fatto
della Parola di Dio il perno di tutta la sua attività pastorale. Un
vescovo che ha saputo parlare a credenti e non credenti, agli uomini di cultura
come alle persone semplici. |
La “cattedra dei non credenti” era seguita da migliaia di persone,
soprattutto giovani che affollavano ogni angolo del Duomo, per ascoltare il
cardinale confrontarsi con chi non aveva il dono della fede ma era aperto,
comunque, al dialogo e alla trascendenza. Affrontava i problemi, anche quelli più
gravi, con quella “saggezza biblica” che emanava da ogni suo gesto e parola.
Non dava l’impressione di calare dall’alto il suo magistero. Ma affascinava
chiunque l’avvicinasse con tratti gentili e cortesi. E con la sua capacità di
trarre insegnamenti dai testi sacri, mostrando la perenne attualità e vitalità
della Bibbia.
Con la morte del cardinale Martini scompare una delle più eminenti personalità
dei nostri tempi, un biblista di fama internazionale, che ci ha insegnato a
vivere e ad affrontare i problemi attuali con il Vangelo in mano. Ha saputo
coniugare sapere e credere, con aperture sapienti e intelligenti. Lascia in
eredità l’amore per i testi sacri e uno stile pastorale che lo rendeva vicino
e partecipe dei problemi degli uomini d’oggi, qualunque fosse la
condizione sociale e il credo religioso degli interlocutori.
Disabili, difficile trovare lavoro
di Valeria Pini
Repubblica - 29 luglio 2012
Onu:
"Uno su due è disoccupato"
Secondo
la Cgil, in Italia sono oltre 750 mila le persone con handicap iscritte alle
liste di collocamento obbligatorio. Un problema che si aggrava con la recessione
economica. "Le aziende possono chiedere la sospensione dagli obblighi di
assunzione previsti dalla legge 68/99. E così il 25% dei posti riservati, nel
pubblico come nel privato, rimane scoperto"
E'
una missione impossibile quella dei disabili alla ricerca di un posto di lavoro.
Oltre la metà non lo trova. Una situazione che peggiora con la crisi economica.
Secondo l'ufficio per i diritti dei portatori di handicap delle Nazioni Unite
(Scrpd), nei Paesi industrializzati la disoccupazione dei portatori di handicap
raggiunge il 50-70%. Mentre in Italia la Cgil rivela che sono oltre 750 mila le
persone disabili iscritte alle liste di collocamento obbligatorio.
L'Organizzazione
internazionale del lavoro (Ilo) stima che questa situazione costa tra l'1 e il
7% del prodotto interno. "Il potenziale di moltissime donne e uomini
disabili rimane non sfruttato e non riconosciuto lasciando la maggior parte di
loro a vivere nella povertà, nella dipendenza e nell'esclusione sociale",
si legge nel rapporto L'occupazione per la giustizia sociale e una
globalizzazione equa. Disabilità.
Sospensione
dagli obblighi di assunzione. Lo corsa tra concorsi, invio di curriculum e
centri per l'impiego è sempre più difficile per chi è costretto su una sedia
a rotelle o vive qualche forma di handicap. In Italia, secondo la Cgil, dalla
prima ondata della crisi, tra il 2008 e il 2009, l'occupazione dei disabili si
è ridotta di oltre un terzo. La recessione ha aggravato la situazione perché
"le aziende in crisi possono chiedere la sospensione dagli obblighi di
assunzione dei disabili previsti dalla legge 68/99, una legge avanzata, solidale
e innovativa ma che resta inapplicata perché mancano le ispezioni", spiega
Nina Daita, responsabile politiche per la disabilità della Cgil. E' così che
il 25% dei posti da assegnare ai portatori di handicap (oltre 65 mila nel 2009),
nel pubblico come nel privato, rimane scoperto.
Procedura
d'infrazione per l'Italia. La situazione è tale che la Commissione europea ha
citato nel giugno scorso l'Italia davanti alla Corte di Giustizia Ue per
l'incompleto recepimento della direttiva 2000/78 sulla lotta alla
discriminazione sul lavoro. La normativa comunitaria 1 impone infatti ai datori
di lavoro di prendere i provvedimenti appropriati per consentire alle persone
disabili di accedere a un'occupazione e di progredire nella carriera, un obbligo
non pienamente previsto, secondo Bruxelles, dalla legge italiana.
La
storia. "Il diritto del lavoro dei disabili, riconosciuto dalla legge
68/99, in Italia di fatto non esiste. Oltre alla propria patologia fisica, si
deve combattere contro fortissime barriere, non solo architettoniche, ma
soprattutto mentali", spiega Lorenzo Torto, 24 anni, malato di tetraparesi
spastica che vive su una sedia a rotelle. E' precario con un contratto in
scadenza il 29 settembre. Per ottenere il posto ha dovuto lottare ed è arrivato
a scrivere al presidente della Repubblica, al Parlamento europeo e alla
Commissione giustizia dell'Ue.
La
Ue. "Sulla vicenda c'è stato l'impegno del capo dello Stato, e mi auguro
che continui - aggiunge - ma la risposta di Bruxelles mi ha lasciato
scioccato". C'è infatti una procedura di infrazione alla Corte di
Giustizia europea contro l'Italia per non aver recepito completamente la
direttiva 2000/78, "ma dal ricorso del giugno 2011 ancora non sono state
fissate le udienze e in Italia non se ne sa niente. C'è un'omertà delle
istituzioni totale", attacca Lorenzo, che è stato iscritto alle liste di
collocamento obbligatorio per tre anni ma non è mai stato chiamato.
Solo
il 17% dei disabili occupati in Italia afferma di aver trovato lavoro grazie ai
centri per l'impiego, secondo l'ultima indagine Istat (2004), mentre il 31% si
è affidato alla rete di parenti e amici, il 20% ha partecipato a un concorso
pubblico e il 16% ha inviato il curriculum in risposta agli annunci. La ricerca
è quasi sempre lunga e molto difficile e l'80% dei disabili denuncia di aver
cercato lavoro senza trovarlo.
I
18 anni di Emergency. Più o meno di Fabio Pipinato
Unimondo
- 30 Luglio 2012
La
redazione di Unimondo augura ogni bene ad Emergency nell’anno della maggiore
età. Vogliamo sottolineare alcuni aspetti positivi che hanno reso grande
l’Associazione e non mancare al nostro dovere di rilevare anche alcuni “un
po’ meno positivi” certi che quest’ultimi sono sottodimensionati rispetto
ai primi. Lunga vita ad E.
Segni
+
Efficiente.
Ogni 2 minuti curano una persona. Trattasi della più grande Associazione
italiana d'intervento umanitario d'emergenza. In meno di 20 anni ha superato in
(termini di risorse umane e finanziarie) tutte le altre ONG italiane.
Efficace.
Ha curato circa 5 milioni di persone in 16 paesi. Raccoglie 35 milioni di euro
di cui l'80% da privati.
Comunicativa.
Ripetute apparizioni nelle reti Tv nazionali e 750.000 fan su facebook dimostra
nei fatti che sa catturare l'attenzione non solo degli italiani ma delle giovani
generazioni. È inspiegabile la chiusura sia del mensile E guidato egregiamente
da Gianni Mura che di peacereporter che contava tonnellate di accessi giorno. Il
tutto giustificato per tenere aperti gli ospedali. Un linguaggio un po' troppo
simile a quello di Tremonti: “di cultura non si mangia”.
Radicata.
Ha gruppi di appoggio e di supporto in moltissime province e città italiane.
Trattasi, in rare eccezioni, più di venditori di gadget (magliette, felpe,
portachiavi, capellini, bomboniere) che laboratori di pensiero ma sono la forza
di E.
Trasparente.
Bilancio sociale e bilancio economico scaricabile on line. In quest'ultimo il
costo del personale influisce circa il 6%. Più limpido di così non si può.
Italiana.
I poliambulatori aperti in Italia dimostrano che non v'è più differenza tra
nord e Sud del mondo. L'emergenza sta ovunque. E. l'ha capito per prima.
Segni
-
Governance.
Un'associazione che vede prima la moglie e poi la figlia del fondatore come
Presidente non dà una grande parvenza di democrazia. Con tutto il rispetto per
le due grandi donne che hanno dato / sta dando moltissimo.
Gratis.
Emergency offre cure gratuite. Sono le prime parole della mission. Ciò è in
controtendenza alle culture dei sud del mondo che tendono a far pagare, anche
simbolicamente, le cure mediche per garantire una sostenibilità delle strutture
ospedaliere locali. Bisognerebbe discernere l'emergenza di guerra dalle
strutture che operano in situazioni non più emergenziali applicando differenti
modalità di contribuzione da parte dei beneficiari. Una volta che gli ospedali
passeranno in mano ai locali su quali risorse finanziarie possono contare?
Autoreferenziale.
Il manifesto per una medicina basata sui diritti umani non contiene riferimenti
alle conferenze internazionali promosse dalle Nazioni Unite come la
Dichiarazione di Alma Ata o altre importanti dichiarazioni continentali.
Trattasi di un approccio tipicamente italiano. Tutto nasce e finisce con la
nostra organizzazione.
Genius
Loci. Tutte le strutture di Emergency sono progettate, costruite e gestite da
staff internazionale specializzato, impegnato anche nella formazione del
personale locale. Gli internazionali insegnano ai locali. Già visto, grazie.
Banche
armate. Tra gli Istituti di credito di riferimento v'è sia Banca Popolare Etica
che Banca Popolare dell'Emilia Romagna che, ad onor del vero, ha svolto
operazioni relative all’esportazione di armamenti con ditte come Simmel Difesa
che fino a qualche anno fa pubblicizzava nel suo catalogo – ormai
inaccessibile al pubblico – sistemi di “munizioni a grappolo”. Chiudere il
conto, no?
Mission?
In Sri-Lanka ha distribuito barche a motore, canoe e reti da pesca ai pescatori
del villaggio di Punochchimunai. Nello stesso villaggio ha ricostruito 91
abitazioni in muratura destinate alle famiglie del villaggio. Dopo lo tsunami in
Sri-Lanka v'erano centinaia di organizzazioni internazionali. Non è forse
meglio che ognuno faccia il suo specifico? I chirurghi facciano i chirurghi, i
pescatori i pescatori ed i muratori i muratori altrimenti si rischia il geometra
in sala operatoria ed il medico in cantiere.
Pace.
"pace=emergency" implica che l'unica alternativa pensabile, e dunque
possibile, alla guerra sia l'intervento umanitario di pochi professionisti
specializzati (compreso il medico chirurgo, bianco, con la maglietta col logo),
mentre tutti gli altri restano a casa a fare il tifo e un pò di carità. Si
cancella, come afferma Mauro Cereghini, così da un lato l'idea di pace come
pratica politica diffusa e come mettersi in mezzo, che il pensiero nonviolento o
lo stesso Alexander Langer hanno tentato di elaborare e praticare, e dall'altro
le esperienze di cooperazione dal basso e di diplomazia popolare che cercano di
costruire relazioni dirette di lungo periodo tra comunità e territori, volte al
co-cambiamento attivo e reciproco, anziché al trasferimento “passivo ed
unilaterale” di aiuti e donazioni.
Segni
+ o -
Il
nome. Un fortissimo brand marketing oriented che va diritto al cuore del
donatore. Però rafforza la cultura dell'emergenza. In assenza di altre
informazioni viola l'immaginario, per dirla con Aminata Traoré. E tutto diventa
emergenza. Sull'emergenza – relazione a breve termine - la gente dona. Sulle
relazioni a lungo termine promosse dalla cooperazione internazionale e dalla
diplomazia popolare che non hanno nulla di sensazionale la gente non dona.
Cardiochirurgia
pediatrica. E' uno degli ambiti d'intervento di Emergency. Bene. Forse un centro
a Khartoum in Sudan con un'architettura che potrebbe andar bene anche ad Oslo è
un tantino avveniristico per un paese ove il 45% della popolazione è
malnutrita. La regione Trentino Alto Adige che è al top per la Sanità in
Italia non ne ha uno. I pazienti vanno a Verona. Proviamo con un'analisi
comparata costi benefici?
Contro.
Gino Strada è un leader contro la guerra. La sua parola buca lo schermo ed ha
un effetto maggiore della sommatoria di tutte le altre associazioni e/o
Istituzioni pacifiste e nonviolente italiane. Spesso l'attacco frontale da parte
del chirurgo politologo contro tutti gli interventi armati dell'occidente, anche
di peacekeeping sotto l'egida dell'Onu, tendono a semplificare un pò troppo il
quadro.
ps.
il lettore avrà certamente notato un po' di amarezza tra le righe. Il pezzo è
stato scritto da un redattore già fisioterapista e poi giornalista. I tagli
affatto chirurgici alle due redazioni decisi unilateralmente da Emergency ci
riguardano tutti; eccome. L'Associazione preferisce far camminare la gente
anziché farla ragionare? Legittimo. Ne prendiamo atto... con un po' di
amarezza. Noi non usiamo il bisturi ma la penna. Ed è nostro dovere
intervenire. Anche se questo può dispiacere i più. Detto ciò... lunga vita ad
E.
Terra
dei roghi, un disastro annunciato di Antonio Maria Mira
Avvenire
- 30 luglio 2012
«La
combustione dei rifiuti, pericolosi e non, sprigiona altissime colonne di fumo
nere e dense. I mezzi a disposizione degli ecocriminali, per tali devastazioni,
sono rudimentali ma efficaci. Bastano, solitamente, pneumatici fuori uso,
stracci e taniche di benzina». Non è la descrizione odierna della “terra dei
fuochi”, quella che stiamo raccontando da tre settimane. È, invece, quello
che scriveva otto anni fa la Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei
rifiuti, meglio nota come Commissione ecomafie. Era il 28 luglio 2004 e nella
"Relazione sull’attività della commissione", a pagina 53, c’era
un paragrafo intitolato "L’emergenza diossina nella provincia di
Caserta". Con questi precisi riferimenti ai roghi dei rifiuti. «Materiale
da bruciare c’è in abbondanza nelle campagne isolate. Qui i camion arrivano
di notte e trovano ad attenderli persone fidate, senza le quali nessuno sarebbe
capace di districarsi tra le stradine della campagna. Sono proprio questi fumi
densi e neri che hanno originato la cosiddetta "emergenza diossina"
nelle zone del casertano e napoletano».
Gli
allarmi sulla “terra dei fuochi” sono dunque vecchissimi. Ben noti perfino
al Parlamento. Almeno dal 1996, come vedremo. Ma inascoltati. Eppure la denuncia
era chiarissima. «In seguito agli esami eseguiti su numerosi campioni di
mangime, foraggio, latte e suoi derivati – si leggeva ancora – è emersa la
presenza di una percentuale di diossina superiore di ben dieci volte i limiti
fissati dalla normativa europea». Allarme preciso e documentato. Infatti,
proseguiva la Commissione, «la diossina è la causa dell’inquinamento di una
notevole estensione del territorio, in particolare tra i comuni di Marcianise ed
Acerra da una parte, e Casal di Principe e Castel Volturno dall’altra».
Una
storia comunque ancora più vecchia. Il 24 marzo 2004, nel corso delle audizioni
della Commissione a Caserta, il direttore del dipartimento prevenzione della Asl
Aversa Ce2, Pasquale Campanile, rivela: «Sin dal lontano 1994 abbiamo
cominciato tutta una serie di ricerche miranti a verificare se, nelle produzioni
zootecniche e nelle foraggiere destinate all’alimentazione del bestiame, vi
fossero contaminanti ambientali di prevalente provenienza da discarica». Ebbene
tali contaminanti c’erano, già 18 anni fa. «Abbiamo verificato –
proseguiva Campanile – che, in presenza dei siti a più alta conurbazione ed a
più alta concentrazione di micro e macrodiscariche – abusive e non;
autorizzate e non –, la presenza di diossina in concentrazioni superiori alla
media di tre picogrammi stabilita dal regolamento comunitario, era massiccia».
Quale il motivo? Di varie ipotesi, rivela il dirigente, «la più verosimile ci
è sembrata l’abbruciamento massiccio di scorie, pneumatici, gomma e
quant’altro».
Una
situazione drammatica che era già stata segnalata al Parlamento fin dall’11
marzo 1996 nella Relazione conclusiva della Commissione, allora solo del Senato.
«Di eccezionale gravità – scriveva ben 16 anni fa – si è rivelata la
situazione riscontrata tra le province di Caserta e Napoli, in particolare
nell’agro aversano e lungo la litoranea domiziano-flegrea, per la presenza di
numerose discariche abusive di rifiuti, la cui gestione è direttamente
riconducibile a clan della criminalità organizzata». Due anni dopo la
Commissione, divenuta bicamerale, nella Relazione sulla Campania approvata l’8
luglio 1998 aggravava l’allarme: «È stato accertato che analisi compiute su
alcune colture di Villa Literno hanno evidenziato una concentrazione di metalli
pesanti assai superiore ai limiti previsti dalla legge, determinando aumenti di
neoplasie, soprattutto nella provincia di Caserta. Si tratta di una situazione
da tenere sotto stretto controllo, adottando idonee misure e promuovendo
indagini epidemiologiche specifiche, per accertare eventualmente la connessione
tra tali episodi e gli smaltimenti illeciti di rifiuti nel territorio».
Quattordici
anni dopo la situazione si è aggravata come confermano proprio le indagini
epidemiologiche. Eppure la Commissione è tornata ad occuparsene altre due
volte. Nella Relazione sulla Campania del 26 gennaio 2006 si legge: «È emerso
un territorio martoriato per alcune significative porzioni, e visibilmente
oltraggiato da lunghe e numerose colonne di fumo, sprigionate dai frequenti
incendi di rifiuti, fonti incontrollate di inquinamento da diossina e, quindi,
di pericolose alterazioni dell’intera catena alimentare». Il 13 giugno 2007,
in una nuova Relazione, la Commissione fa anche delle proposte, definendo «indilazionabile
un programma di monitoraggio a carattere permanente avente ad oggetto la
presenza e la concentrazione di diossina nei territori maggiormente colpiti
dall’emergenza rifiuti nonché il livello di esposizione a rischio delle
popolazioni residenti». Questo cinque anni fa. Ma nulla è cambiato nella
“terra dei fuochi” della quale è tornata a occuparsi anche l’attuale
Commissione. Vedremo cosa scriverà nell’imminente nuova Relazione.
Dell'Utri,
lo scandalo italiano di Marco Travaglio
Espresso
- 30 luglio 2012
Pregiudicato
per frode fiscale, amico di narcotrafficanti e bancarottieri, prediletto dai
Corleonesi: da quasi quarant'anni in questo Paese non c'è vicenda oscura in cui
non sia coinvolto. Eppure, mentre lui conserva tranquillamente il suo seggio in
Parlamento, il Pdl per rifarsi la verginità se la prende solo con la Minetti
(30
luglio 2012). Da quando Berlusconi ha dato il lieto annuncio del suo
ritorno sulle scene, nel Pdl s'è aperta la caccia a Nicole Minetti. Non che
manchino ottimi motivi per auspicare la sua scomparsa non solo dalla Regione
Lombardia, ma da qualunque altra istituzione. Il fatto è che erano già tutti
stranoti nel 2010 quando il Cavaliere la impose nel listino bloccato di
Formigoni. Anche la notizia che la soubrette-igienista dentale-amante è
imputata per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile nel
gran bordello di Arcore è vecchia di un anno e mezzo. E allora quale sarebbe la
novità che giustifica la richiesta di dimissioni partita da Berlusconi e dal
fido Alfano? Pare che l'ultimo travestimento del Caimano sia all'insegna della
"sobrietà". E poi la signorina grandi forme ha accampato un legittimo
impedimento al processo millantando impegni istituzionali al Pirellone. Come se
non fosse proprio il Caimano l'utilizzatore finale del lenocinio e il primatista
mondiale dei legittimi impedimenti inventati.
EPPURE
PER I MAGGIORENTI del Pdl e gli house organ la parola d'ordine è una sola e
imperativa per tutti: via la Minetti. Ce ne fosse uno che, per sbaglio, alza il
ditino e domanda: «Scusate, ma Dell'Utri no?». Il senatore siciliano, imputato
per mafia e pregiudicato per frode fiscale (2 anni e 6 mesi), è di nuovo sotto
inchiesta a Palermo per estorsione ai danni dell'amico Silvio, avendogli
spillato una trentina di milioni (di cui 21 alla vigilia della sentenza per
mafia in Cassazione) per una villa che nel 2004 ne valeva 9. «Ora - ha
commentato - mi manca solo l'accusa di pedofilia». In effetti non c'è
praticamente scandalo, negli ultimi 40 anni, che non l'abbia visto protagonista.
Non delude mai: quando ti aspetti che c'entri, e anche quando non te lo aspetti.
Più che di libri antichi, è un instancabile collezionista di amici farabutti e
capi d'imputazione. Nel 1973 porta il mafioso Mangano ad Arcore. Nel 1980 si fa
beccare al telefono con lui Mangano a parlare di improbabili
"cavalli". Nell'86 Silvio lo chiama per informarlo di una bomba contro
la sua casa a Milano, e lui: «E' una cosa alla Mangano, come dire: ti faccio
sentire, sono qui... lui non sa scrivere». Nel novembre '93, mentre crea Forza
Italia, le sue agende registrano due appuntamenti con Mangano, reduce da 11 anni
di galera per mafia e droga. Nel '98 riceve nel suo ufficio di via Senato Natale
Sartori, pedinato dalla Dia in un'indagine per droga. E due mesi dopo la Dia lo
filma mentre incontra a Rimini il falso pentito Chiofalo. Nel '99 si candida al
Parlamento europeo e un uomo di Provenzano ordina ai picciotti di votarlo: «Dobbiamo
portare a Dell'Utri, se no lo fottono... 'sti pezzi di cornuti (i giudici, ndr)».
NEL
2001 E' CANDIDATO alla Camera e il boss Guttadauro ordina al mafioso Aragona: «Con
Dell'Utri bisogna parlare... alle elezioni '99 ha preso impegni» col boss
Capizzi. Aragona: «Io sono stato invitato al Circolo, la sede culturale di
Dell'Utri in via Senato». Nel 2003 Vito Palazzolo, condannato per
narcotraffico, imputato per mafia e fuggito in Sudafrica, lo contatta tramite la
moglie per sistemare le sue pendenze. Nel 2005 lo scandalo delle scalate
bancarie dei furbetti: Fiorani parla di 200 mila euro da sganciare ai senatori
Grillo e Dell'Utri. Il quale nel 2008 viene sorpreso al telefono col
bancarottiere Aldo Miccichè, arrestato martedì in Venezuela e legato alla
'ndrangheta, che gli spiega i brogli sul voto all'estero e si sente ringraziare
per «i due bravi picciotti», tra cui un Piromalli, che gli ha mandato in
studio. Nel 2010 tre scandali: P3, finanziamenti facili della banca di Verdini e
appalti eolici. C'entrerà mica Dell'Utri? Sì, in tutti e tre. Nel 2012
l'arresto di Massimo De Caro per furto di libri antichi alla biblioteca
Girolamini di Napoli: è intimo di Dell'Utri, indagato con lui per corruzione.
Intanto riparte il processo d'appello per mafia, dopo che la Cassazione gli ha
confermato il concorso esterno per trent'anni, escluso il periodo 1978-82. Per
tutti questi motivi, deve dimettersi Nicole Minetti.
Mafia
dei Tir, il grande cartello di Michele Sasso e Giovanni Tizian
Espresso
- 1 agosto 2012
Cosa
Nostra, Camorra e 'Ndrangheta si sono messe d'accordo per controllare insieme
migliaia di camion che ogni giorno attraversano l'Italia. Chiedono il pizzo ai
guidatori, a cui in cambio procurano affari con i colossi europei(01 agosto
2012)L'ultimo sequestro c'è stato la scorsa settimana: un'azienda con quaranta
tir, che secondo la procura di Napoli appartiene a ai casalesi. Per gli
investigatori non è una sorpresa: delle 312 imprese sottratte alla criminalità
organizzata negli ultimi diciotto mesi, oltre la metà si occupano di
autotrasporto, il nuovo business delle cosche. «Le mafie si adattano alle
tendenze del mercato, forti del know how di professionisti che suggeriscono i
settori più redditizi», spiega Michele Prestipino, procuratore aggiunto alla
Direzione antimafia di Reggio Calabria.
In
Italia l'86 per cento delle merci viaggia su gomma: ogni giorno sterminate
processioni di camion si mettono in marcia, spesso lungo l'A1 formano un'unica
colonna ininterrotta da Napoli a Bologna. Quelle carovane sono una sorgente di
guadagni, quasi infinita: il giro d'affari complessivo del settore supera i 60
miliardi l'anno. Una torta che interessa ben 97 mila società, di cui 65 mila
però sono solo padroncini: la loro ditta è il mezzo che guidano. Lo scenario
perfetto per gli strateghi dei clan, che hanno capitali da investire e armi per
imporre le loro regole.
Il
mercato è talmente ghiotto che Cosa nostra, casalesi e 'ndrangheta hanno creato
un'intesa nazionale, per evitare di litigare nell'ingorgo dei loro tir:
l'embrione di una potentissima "Anonima Trasporti", in grado di
piegare anche le multinazionali.
Francesco
Ventrici, uomo della cosca calabrese Mancuso, è stato intercettato mentre
metteva in guardia i dirigenti della Lidl Italia, filiale della holding tedesca
dei discount: «Voi volete la guerra, ma la guerra in Calabria non la vince
nemmeno il Papa».
Il
messaggio era chiaro: dovevano continuare a usare i camion della famiglia,
qualunque concorrente avrebbe fatto una brutta fine. Ci vuole poco per fermare
un mezzo, incendiarlo è facilissimo: solo tra marzo e aprile le fiamme ne hanno
distrutti 48, soprattuto al Nord, spesso senza permettere di identificare la
natura del rogo. Ma il fumo dei sospetti arriva lontano.
In
silenzio, i padrini da anni si sono inseriti nelle code dei bisonti della
strada. Hanno creato società con dinamismo manageriale e capacità di
mimetismo. Come spiegava un boss calabrese attivo in Lombardia: «Se ti siedi
con un professionista di Tnt, gli devi parlare da professionista; se ti siedi
con uno shampista napoletano, gli devi parlare allo stesso modo».
Non
è un esempio a caso. I Flachi di Milano, che da venticinque anni dominano la
scena criminale padana, avevano creato un consorzio che faceva da mediatore tra
Tnt, il colosso olandese della logistica, e i padroncini. Il clan si presentava
con un'offerta competitiva, senza esplicitare minacce: «Siamo da dieci anni
dentro. Il nostro interesse è che la Tnt inizi a fare un percorso nuovo e noi
gli garantiamo immagine, efficienza di lavoro e tutto».
Il
rapporto è andato avanti per anni, finché la magistratura non ha certificato
le relazioni pericolose e commissariato per sei mesi le sedi incriminate. «Le
imprese gestite dalla 'ndrangheta sono di piccole e medie dimensioni, ma sul
mercato occupano posizioni dominanti», chiarisce il procuratore Prestipino: «Sono
proiezioni imprenditoriali dell'organizzazione che non hanno necessità di far
valere la qualità del lavoro perché operano in un mercato protetto».
Spesso
si limitano a mediare tra i padroncini e chi ha bisogno di trasferire la merce,
fabbriche o catene di supermarket. La mediazione ha un costo: una provvigione
tra il 10 e il 15 per cento, che diventa una sorta di pizzo legalizzato. E
finisce per colpire le già magre entrate dei piccoli proprietari. «Non
possiamo stare a galla perché la concorrenza mafiosa ci strozza: un viaggio di
1.500 chilometri a noi costa 3.500 euro mentre loro lo fanno per 800 euro»,
denuncia Filippo Casella, imprenditore catanese con 20 camion. Nel 1998 si
ribellò alle richieste dei boss e ha testimoniato contro il padrino Nitto
Santapaola: gli chiedevano due milioni e mezzo di lire al mese, ma pretendevano
anche l'assunzione di amici degli amici e l'assegnazione di subappalti per le
loro ditte.
Una
pratica diffusa messa a nudo da decine di operazioni che hanno svelato la
presenza di broker mafiosi in tutta la Sicilia: a Gela, Catania, Palermo, e
soprattutto Vittoria, cuore di un distretto che produce pomodori e primizie
esportati ovunque.
E'
nell'ortofrutta che l'Anonima Trasporti riesce ad avere il ruolo più
importante, condizionando l'intera filiera. L'inchiesta "Sud Pontino"
ha svelato il cartello delle famiglie siciliane, campane e calabresi per
dominare la distribuzione agricola su larga scala: una rete che dai campi del
Sud arrivava fino al grande ortomercato di Fondi, che rifornisce la capitale, e
ancora più su a Latina, Bologna, Milano. Acquistano, trasportano, rivendono. In
questo modo, i clan federati hanno la certezza di mettersi in tasca il 40 per
cento del prezzo finale della merce: è come se per ogni chilo di fragole o di
melanzane, quattro etti fossero cosa loro. «A Rosarno la distribuzione
alimentare medio-grande è controllata dalla cosca Pesce attraverso proprie
aziende o ditte che hanno accettato il compromesso», commenta Prestipino,
citando la località dove lo sfruttamento della manodopera nei campi ha
provocato la più grande rivolta di immigrati mai avvenuta in Europa.
Anche
i corleonesi cominciarono con i camion. Li comprarono nel dopoguerra per portare
il bestiame, loro o rubato, nei macelli di Palermo. Poi li usarono per
trasferire terra e materiali dai cantieri delle prime opere pubbliche. Un ciclo
che adesso si ripete spesso. «L'infiltrazione avviene attraverso la catena dei
subappalti e per contiguità con i settori dell'edilizia e del commercio che
sono tradizionalmente i più controllati dalla criminalità organizzata»,
analizza Rita Palidda, docente all'università di Catania ed esperta del
rapporto tra mafia ed economia nell'isola. Dai suoi studi emerge il ritratto di
un predominio ormai consolidato nelle regioni meridionali: «E' un paradosso la
violenza negli autotrasporti: più esteso e duraturo è il controllo e meno si
ricorre ad azioni violente perché l'infiltrazione è ormai consolidata e le
imprese e gli amministratori si adeguano». La Sicilia è la prima patria di
questo business: delle 59 ditte di trasporti confiscate in via definitiva, 32
hanno sede lì. Nelle mappe delle forze dell'ordine Catania appare come una
capitale della logistica di Cosa nostra. L'ultima operazione è scattata a
marzo, con il blocco di beni per 20 milioni di danni di Giovanni Puma, accusato
di essere uomo del clan Madonia. Fino al blitz, le sue imprese hanno lavorato
per conto di Eurodifarm, la società lombarda controllata da Dhl, uno dei leader
mondiali delle consegne, rimasta all'improvviso senza mezzi con cui distribuire
i medicinali in Sicilia. E anche i "supplenti" avrebbero dovuto
chiedere il permesso al signor Puma. Il provvedimento di sequestro è stato poi
revocato dai giudici del riesame ma le indagini proseguono.
Il
caso forse più clamoroso è quello della Riela, confiscata nel 1999 a una
famiglia alleata di Santapaola: da allora i dipendenti hanno lavorato duro per
farla sopravvivere nella legalità e far fruttare i duecento tir, e sono
diventati un esempio. Pericolosissimo per i boss, che non sono rimasti a
guardare. Hanno aspettato il momento giusto e l'hanno tagliata fuori dai
contratti. Di fronte alla voragine nei fatturati, a gennaio l'Agenzia nazionale
che gestisce i beni sequestrati si è arresa e ha messo l'azienda in
liquidazione. Ma le istruttorie hanno svelato chi c'era dietro la crisi:
l'antico padrone Filippo Riela, che è stato arrestato per concorso esterno in
mafia. Riela avrebbe stabilito un patto per rilevare i mezzi e girarli a una
società fidata, nel tentativo di sottrarli agli inquirenti. Secondo le
indagini, la rete dei Riela è composta da tante ditte "amiche" nella
Sicilia orientale: impresari ragusani considerati a lui vicini hanno l'appalto
per la quasi totalità dei viaggi tra Nord e Sud dei supermercati Auchan e del
salumificio Rovagnati.
Ora
per i padrini dei tir si prospetta un altro affare: quello dei contributi
pubblici destinati all'autotrasporto. La rivolta dei Forconi che ha paralizzato
collegamenti e forniture in tutta Italia è nata in Sicilia. Ha causato danni
per duecento milioni di euro al giorno. E si è chiusa con la loro vittoria: il
governo Monti ha promesso incentivi per lenire gli effetti dell'aumento di
carburante e agevolazioni per la costruzione di nuove infrastrutture. Oggi ogni
anno lo Stato spende 454 milioni di euro per sostenere i tir italiani.
A
sbarrare le strade sono stati i camionisti isolani, riuniti nel movimento Forza
d'Urto, a cui poi si sono aggregati pescatori e agricoltori, altre vittime del
caro gasolio. Nel giro di qualche giorno la protesta è divampata in tutta
Italia, dando volto al potere della categoria. Anche se le forze dell'ordine
hanno numerosi sospetti sugli animatori dei presidi, soprattutto nelle regioni
meridionali. L'impresario che ha guidato gli sbarramenti nel trapanese è poi
finito in manette: i pm di Napoli lo accusano di avere messo i suoi camion al
servizio delle cosche. Ci sono state altre denunce, respinte dal leader di Forza
d'Urto, il catanese Richici, come insinuazioni per affossare «il grande
movimento popolare». Al fianco di Richichi nelle barricate dei Forconi c'era
Enzo Ercolano, figlio dello storico capomafia di Catania Pippo e fratello di
Aldo, condannato per l'omicidio del giornalista Giuseppe Fava. Enzo si occupa di
trasporti: insieme al padre è stato indagato e poi prosciolto nella maxi
inchiesta "Sud Pontino". Ma non è l'unico della dinastia Ercolano,
famiglia imparentata con i Santapaola, ad avere investito nei tir. I cugini,
Angelo, Maria e Aldo Ercolano, hanno fatto molta più strada: la loro Sud
Trasporti si è insediata nel polmone economico del Paese, creando la base
principale nell'interporto piemontese di Rivalta.
Angelo
Ercolano è un imprenditore apprezzato, che non è mai stato coinvolto in
indagini penali. Gli investigatori si sono occupati di lui in una sola
circostanza, prima del 2005, a causa dei suoi incontri con Giovanni Pastoia. E'
il figlio di Ciccio Pastoia, boss di Belmonte Mezzagno e braccio destro di
Bernardo Provenzano morto suicida in cella. Anche lui si occupa di trasporti,
con filiali a Catania. Ma questa frequentazione non ha mai dato luogo a
contestazioni penali: erano solo affari.
Invece
gli altri fratelli-soci della Sud Trasporti, Aldo e Maria, finirono sotto accusa
nel 1995 in un'inchiesta sui boss della logistica in cui spuntavano anche i nomi
del padre Angelo Ercolano e di Nitto Santapaola. Ma tutto è stato archiviato,
senza ostacolare la crescita del loro gruppo. Adesso operano in tutta Europa con
una branca polacca e da pochi mesi hanno aperto una nuova società: smaltimento
e trasporto di rifiuti, pericolosi e non. Hanno anche un nuovo logo: "My
Way. La strada del successo".
Per
i migranti non ci sono diritti di Silvia Cerami
Espresso
- 30 luglio 2012
Migliaia
di profughi stanno attraversando l'Adriatico per scappare dalla Grecia e
arrivano a Brindisi, Bari, Venezia. Dove le convenzioni internazionali sono
sospese, nessun medico e nessun legale può vederli. E dove anche i minorenni
vengono rinchiusi nei Cie o rispediti indietro, in barba ai trattati (30 luglio
2012). Il vano del camion si apre sullo sguardo spento. C'è poca aria, puzza di
benzina e sofferenza. Nessun bagaglio, nessun documento. Solo le mutande e un
sacchetto di plastica infilato in testa. Un altro profugo fuggito
dall'Afghanistan è morto soffocato in fondo alla stiva di un traghetto salpato
dalla Grecia. Morto in un porto italiano per sfuggire alla Polizia di frontiera.
La stessa che ti fa morire anche se respiri ancora. Perché ti respinge come
merce da buttare.
Alì,
Amid, Sayed, Zaher. Morti che avremmo potuto evitare semplicemente rispettando i
trattati internazionali sui diritti dei rifugiati e la normativa italiana sui
richiedenti asilo. Ogni anno in migliaia attraversano l'Adriatico, tentando di
scappare dalla Grecia, un paese condannato nel gennaio 2011 dalla Corte Europea
dei Diritti dell'Uomo 'per trattamenti inumani e degradanti' nei confronti dei
profughi. In molti casi si tratta di persone provenienti dall'Afghanistan, Iraq,
Sudan, Eritrea, persone che avrebbero diritto ad una protezione internazionale.
E invece ad Ancona, Bari, Venezia, Brindisi, tutti i giorni, nel silenzio, i
diritti umani sono sospesi. Perché «se sei un rifugiato e muori nessuno fa
domande, ma per vivere da qualche parte tutti ti interrogano».
Solo
nell'ultima settimana di giugno due ragazzi afghani sono morti nel porto di
Ancona, due sono in coma e uno è finito in ospedale in gravissime condizioni.
Negli stessi giorni una nave con 84 rifugiati è approdata a Leuca. Otto persone
sono disperse. I corpi di chi riesce a sopravvivere raccontano più delle
parole. Corpi di ragazzi, spesso minori, su cui è impressa la carta geografica
di un viaggio. Le ferite inferte dai talebani e il dito di una mano fatto
saltare a colpi di manganello da un poliziotto greco. I lividi sulla schiena
delle prigioni turche e le gambe che non ti sorreggono dopo oltre trenta ore di
traversata dai porti di Patrasso o Igoumenitsa, rannicchiato dentro ad un
container senza cibo, senza acqua, senza aria. E poi il sacchetto in testa da
infilare quando la nave sta per attraccare perché la Polizia di frontiera
italiana si è dotata di nuovi e potentissimi rilevatori sonori, capaci di
individuarti anche dal solo respiro. Scanner a raggi X, banditi da altri Paesi
come la Francia, perché dannosi per la salute. E la rabbia. Quella che esplode
quando ti sbattono a forza in fondo a quella stessa nave con cui sei arrivato.
Perché se ti trovano, nella maggioranza dei casi, ti rimandano indietro,
affidandoti al comandante. Senza che sia possibile contattare un legale
indipendente o farsi comprendere grazie a un interprete. Senza consentire agli
operatori delle cooperative di poter operare con piena indipendenza, perché
molti luoghi sono preclusi all'acceso di enti terzi per i pretesti più vari.
Dai motivi di sicurezza alla natura extraterritoriale.
«Il
servizio è svolto solo in determinate ore e in determinati giorni, gli
operatori intervengono quasi sempre solo su chiamata della Polizia di frontiera.
Inoltre "intervistano" in poche ore decine di persone, dedicando a
ciascuna di esse alcuni minuti per stabilire questioni di vita o di morte come
quelle relative alla loro volontà di chiedere o meno asilo. Tutti i tempi sono
scanditi dall'urgenza di farli ripartire» denuncia Alessandra Sciurba della
rete di associazioni Tuttiidirittiumanipertutti.
Persone
a cui non viene data alcuna informazione sui propri diritti e che non potranno
avanzare una richiesta di asilo o presentare un ricorso contro le misure di
riaccompagnamento forzato.
Eppure
questi provvedimenti, limitativi della libertà personale, dovrebbero essere
soggetti ad un controllo dell'autorità giudiziaria, soprattutto nei casi dubbi
sulla minore età. E invece in molti casi, come ha dimostrato il recente studio
'Human cargo' condotto da Pro Asyl e Greek Council for Refugees, non viene
notificato un provvedimento di respingimento formale, scritto, motivato e
tradotto avverso il quale poter proporre ricorso. Spesso non vengono registrati
nemmeno i nomi. Così è più facile. Nessuna traccia dell'esistenza e del
transito.
«Il
fatto che non si proceda a una distinta procedura di identificazione delle
singole persone, né a valutare le singole posizioni dei migranti richiedenti
asilo o dei minorenni, conferma il carattere collettivo delle espulsioni
camuffate da pratiche di riammissione informale in Grecia che le autorità
italiane eseguono sulla base del Regolamento Dublino II e dell'accordo
bilaterale stipulato nel 1999», spiega Alessandra Ballarini, avvocato in prima
fila nella difesa dei diritti dei migranti.
Il
governo italiano continua infatti ad appellarsi ad un accordo stretto
dall'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema e ad intensificare la
pratica della 'riammissione delle persone in situazione irregolare', rispedendo
i migranti in Grecia, come se non fosse un Paese che accoglie solo lo 0,03 per
cento delle richieste di protezione internazionale, dove i migranti non hanno
speranze di venire accolti. Per tanti è una condanna alla clandestinità
perpetua se non addirittura alla morte.
Patrasso
non è né una via di uscita né di speranza, i campi di detenzione sono luoghi
in cui si rischia la vita ogni giorno e i profughi cercano di sopravvivere in
attesa di scappare. «La Polizia esiste per proteggere le persone, ma qui non è
così. Ci picchia, ci arresta e lo fa anche se siamo minori. Abbiamo lasciato le
nostre case per vivere. Non per morire». Per spiegare la rabbia insostenibile,
sono sufficienti queste poche parole, scritte da un gruppo di profughi lo scorso
Natale, dopo che la Polizia aveva fatto irruzione in una vecchia fabbrica in cui
avevano trovato rifugio. Un ragazzino mentre cercava di fuggire è caduto dal
secondo piano. Nessuno ha chiamato l'ambulanza.
Una
situazione che si è acuita con la crisi finanziaria e l'aumento dei fenomeni di
razzismo. «Tornare a Patrasso non è stato facile», racconta Alessandra
Sciurba, che più volte, stanca di vedere i morti qui, ha fatto il viaggio al
contrario. «C'era il ricordo della violenza della Polizia e la consapevolezza
che quel campo, per quanto precario, era l'unico posto che i rifugiati avessero
in quella città. Orami è raso al suolo. Al suo posto, adesso, c'è una grande
zona recintata pronta per essere edificata. I ragazzi li trovi fuori dalla città,
guardando tra l'erba alta dei campi che circonda le stazioni di servizio.
Fantasmi che si nascondono, come se la terra potesse inghiottirli. Tutti hanno
provato almeno una volta a raggiungere l'Italia».
Il
nostro Paese «richiamandosi ad un vecchio accordo bilaterale del 1999, che
prevedeva respingimenti "senza formalità" ed appellandosi al
principio in base al quali il primo Paese in cui è identificato un migrante lo
deve prendere in carico, in concreto nega l'esistenza del diritto di asilo»
spiega il professor Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto di asilo e
statuto costituzionale dello straniero presso l'Università di Palermo.
«Si
tratta in sostanza di un sequestro di persona legalizzato. Sono sulla nave e
vorrebbero scendere a terra, il comandante non li fa scendere perché altrimenti
incorrerebbe nel reato di agevolazione dell'ingresso irregolare, chiama allora
la Polizia che li mantiene sulla nave e li rimanda indietro senza riconoscere il
diritto di asilo. In altri casi i migranti scoperti a bordo dei camion vengono
portati in un ufficio di Polizia di frontiera all'interno del porto e comunque
reimbarcati sulle navi in qualche ora. Anche in questi casi, non si riconosce né
il diritto di accesso alla procedura di asilo, che è riconosciuto da tutte le
convenzioni internazionali, dai trattati e dalle direttive dell'Unione europea e
dalla nostra Costituzione, né la circostanza che la persona ha anche il diritto
di provare, la sua minore età, e comunque di avvalersi dei diritti di difesa,
contro il respingimento, trovandosi ormai nel territorio dello Stato». E
pensare che la Polizia di frontiera, in base a una direttiva europea recepita
dal nostro ordinamento, non avrebbe alcuna competenza nello stabilire la
fondatezza o meno di una richiesta d'asilo.
Il
Dipartimento di Pubblica Sicurezza precisa di applicare tutte le procedure, in
particolare: «per quanto riguarda persone che dai porti della Grecia arrivano
sul territorio nazionale in stato di irregolarità al termine delle necessarie
procedure di identificazione vengono riammessi verso la Grecia solo coloro i
quali risultino maggiorenni ovvero minori ma accompagnati da almeno una figura
parentale di riferimento o in buone condizioni di salute e non determinati a
chiedere protezione. Inoltre, proprio per la particolare realtà greca ed in
ragione della giusta sensibilità che l'Italia ha nei confronti dei diritti dei
migranti, è prassi più che consolidata accettare sul territorio nazionale
soggetti che sebbene provenienti da un paese dell'Ue e dell'area Schengen, quale
la Grecia, manifestino la volontà di chiedere asilo in Italia». Confrontando
però i dati relativi agli arrivi e ai respingimenti dei migranti al porto di
Venezia, forniti dalla Prefettura e dal Consiglio Italiano Rifugiati,
l'Osservatorio AntiDiscriminazioni Veneto ha notato alcune discrepanze. Nel 2010
ad esempio la Prefettura di Venezia dichiara che sono stati intercettati 715
migranti 'irregolari', di questi 627 sono stati respinti 'con affido al
comandante', mentre 88 sono stati accolti. Eppure il CIR sostiene di averne
incontrati nello stesso periodo 252, tra loro 44 minori non accompagnati.
Volendo dare per scontato che tra i non respinti 44 siano i minori non
accompagnati, è molto probabile che 419 persone siano state rimandate in Grecia
senza aver avuto un colloquio con gli operatori umanitari. Tra gennaio e ottobre
2011, facendo sempre lo stesso confronto, è accaduto a 155 persone su 331.
Per
quanto riguarda i minori non accompagnati, le norme, come spiega il Dipartimento
di Pubblica Sicurezza stabiliscono che: «si proceda all'affidamento del sindaco
del Comune entro la cui giurisdizione si è realizzato il rintraccio. Per
l'accertamento dell'età viene effettuata la radiografia del polso per la
deduzione dell'età ossea. E in caso di indicazioni dubbie trova applicazione il
principio del favor minoris, per cui il soggetto viene comunque messo sul
territorio e trattato come minore». I minori hanno infatti diritto alla
protezione, alla salute, all'istruzione, alla tutela dallo sfruttamento. Eppure
secondo quanto denunciato da Pro Asyl spesso si stabilisce la loro età
semplicemente guardandoli, tanto da registrarli come adulti, pur non essendolo.
Emblematico ed agghiacciante il caso di un bimbo di dieci anni rispedito nel
novembre scorso da Bari a Patrasso e registrato dalle nostre autorità come
diciottenne.
Una
situazione preoccupante anche sul piano della libertà personale. «Il destino
dei minori stranieri non accompagnati è quello di essere rinchiusi nei CIE, con
l'ultima 'riforma' di Maroni anche fino a 18 mesi. Luoghi che, secondo il
rapporto elaborato dal Comitato per la protezione dei diritti umani, risultano
'inadatti a garantire una permanenza dignitosa e inadeguati a tutelare i diritti
fondamentali'.
Luoghi
di vera detenzione con condizioni igieniche considerate aberranti. E se non
fosse già abbastanza drammatico la spending review prevede la cancellazione
anche del Comitato Minori Stranieri, che nelle mille difficoltà, ha permesso di
monitorare il fenomeno. Con questi tagli si mina il già precario equilibrio su
cui si fonda il sistema di accoglienza italiano» tuona Raffaele Salinari,
presidente di Terre des Hommes, associazione non governativa di respiro
internazionale.
Bambini
traditi di cui spesso si perdono le tracce. «In molti casi finiscono preda
della criminalità, della prostituzione, del commercio di organi» spiega Sandra
Zampa, capogruppo in Commissione Bicamerale Infanzia e Adolescenza per il
Partito Democratico «e quelli che non sono scomparsi e sono nelle comunità,
che li ospitano con il progetto di reinserirli, oggi rischiano di essere mandati
via, come hanno denunciato molti Comuni, perché non ricevono i fondi per il
loro sostentamento da oltre un anno. Sbagliare nell'accoglienza, oltre a uno
spreco di risorse, significa produrre un circuito che sfocia nell'illegalità,
alla lunga altrettanto costoso».
Errori,
costi e violazione dei diritti fondamentali per i quali, nel caso del
respingimento verso la Libia del maggio 2009, l'Italia è già stata condannata
dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. E pensare che il governo di allora,
per sostenere l'opportunità di rispedire indietro i migranti senza nemmeno
identificarli, si era appellato al trattato d'amicizia italo-libico, siglato da
Silvio Berlusconi in persona. Del resto che importa se la Libia non ha
sottoscritto neppure la Convenzione di Ginevra sui rifugiati.
Retate della polizia contro richiedenti asilo
di Carlo Ciavoni
Repubblica - 29 luglio 2012
L'ennesima
denuncia dell'agenzia umanitaria Habeshia 1 che riceve testimonianze dirette
dalle carceri della "nuova" Libia di persone costrette ad indicibili
sofferenze e che hanno l'unico torto di aver tentato di arrivare in Europa per
fuggire dagli orrori dei propri paesi. Le galere di Gheddafi ci sono ancora a
difesa della "Fortezza-Europa"
La
"nuova" Libia continua ad infliggere sofferenze a centinaia di
profughi, per "accontentare" i suoi partner europei. L'Agenzia
umanitaria eritrea Habeshia 2 - diretta da padre Moses Zerai - continua a
ricevere testimonianze terribili di perosne sottoposte a prove indicibili, tra
maltrattamenti, condizioni di vita degradanti, violazione totale dei diritti
fondamentali di queste persone. "L'Europa è responsabile di quanto la
Libia sta facendo, violando gravemente i fondamentali diritti umani - si legge
in un documento diffuso da Habeshia - in quanto, tra l'altro, alcuni stati
membri europei hanno finanziato la costruzione di questi veri e propri lager in
terra libica, dove vengono rinchiusi centinaia di profughi provenienti dal Corno
d'Africa e dalle regioni sub-sahariane.
"Il
silenzio dell'UNHCR 3". Sì, padre Zerai parla proprio di
"silenzio" da parte dell'Agenzia delle Nazioni Unite che tutela i
diritti dei rifugiati. "Di fronte alle violenze perpetrate a danno dei
richiedenti asilo in questi ultimi mesi in Libia - dice Habeshia - l'Ufficio del
UNHCR di Tripoli si deve assumere le sue responsabilita e denunciare al mondo
ogni forma di discriminazioni e tortura che viene inflitta ai profughi. Chiedere
l'intervento della cosiddetta comunità internazionale, perché faccia tutte le
pressioni neccessari per il rispetto dei diritti dei profughi e dei richiedenti
asilo politico".
"I
carcerieri libici difendono la fortezza-Europa". Appare dunque sempre più
intellorabile il fatto che centinaia di persone rischino la vita nelle galere in
Libia, solo perché le autorita di quel Paese si sentono vincolate ad un accordo
con l'Europa, per proteggere la sua "fortezza" dall'arrivo dei
disperati che chiedono protezione. "Chiediamo a tutte le ONG umanitarie -
aggiunge padre Zerai - che prestino maggior attenzione a quanto sta succedendo
in Libia a danno dei profughi. Denunciare gli effetti degli accordi bilaterali
di certi Paesi senza garanzie per il rispetto dei diritti umani, mettendo così
in pericolo la vita di molte persone e favorendo solo i trafficanti di esseri
umani".
Uccisioni e torture della giunta militare al potere
Repubblica
- 31 luglio 2012
Axmnesty
International documenta la sparizioni ed eliminazioni fisiche extragiudiziali,
oltre che ripeture sevizie, della giunta militare nei confronti di soldati e
poliziotti fedeli all'e presidente Touré, tutti coinvolti nel tentativo di
contro-colpo di stato del 30 aprile scorso. Nei giorni successivi al fallito
tentativo di rovesciare la giunta militare del capitano Sanogo, numerosi soldati
vennero arrestati e portati alla base militare di Kati
In
un rapporto sul Mali, diffuso oggi dopo aver svolto, a luglio, una missione di
10 giorni nel paese, Amnesty International 2 ha documentato decine di
sparizioni, uccisioni extragiudiziali e torture commesse dalla giunta militare
nei confronti di soldati e poliziotti fedeli all'ex presidente Touré,
coinvolti nel tentativo di contro-colpo di stato del 30 aprile. Nei giorni
successivi al fallito tentativo di rovesciare la giunta militare del capitano
Sanogo, numerosi soldati vennero arrestati e portati alla base militare di Kati,
20 chilometri a nord della capitale Bamako, quartier generale della giunta.
Almeno 21 detenuti vennero prelevati nottetempo dalle loro celle e di loro non
si è più saputo nulla. Gli altri furono trattenuti in condizioni terribili e
sottoposti a torture e abusi sessuali per oltre 40 giorni.
"Hanno
il dovere di indagare". "Le autorità del Mali hanno il dovere di
indagare su tutti i casi che abbiamo documentato. I responsabili delle brutali
vendette contro i promotori del tentato contro-colpo di stato devono essere
chiamati a rispondere delle loro azioni", ha dichiarato Gaetan Mootoo,
ricercatore sull'Africa occidentale di Amnesty International. Amnesty
International ha raccolto i nomi dei 21 detenuti scomparsi nella notte tra il 2
e il 3 maggio. Uno dei loro compagni di prigionia ha raccontato: "Alle 2
del mattino, hanno aperto la cella. Le guardie hanno iniziato a leggere una
lista di nomi. A mano a mano, le persone chiamate uscivano fuori. Non abbiamo
saputo più nulla di loro".
Di
un gruppo di soldati non si sa più nulla. Amnesty International è anche
preoccupata per la sorte di un gruppo di soldati rapiti dai militari fedeli alla
giunta il 1° maggio, mentre erano ricoverati nell'ospedale Gabriel Tourè di
Bamako. Nonostante le sue richieste, l'organizzazione per i diritti umani non ha
potuto ottenere i loro nomi nè informazioni su dove attualmente si trovino. I
soldati arrestati all'indomani del tentato contro-colpo di stato del 30 aprile
furono detenuti nella base militare di Kati in condizioni disumane e degradanti:
80 persone stipate in una cella di cinque metri quadrati, in mutande, costretti
a fare i bisogni in buste di plastica e privati del cibo durante i primi giorni
di prigionia.
Le
denunce. Un ex detenuto ha denunciato i metodi di tortura usati per estorcere le
confessioni: "Ci hanno detto di ammettere che volevamo fare il colpo di
stato. Ci hanno fatti sdraiare, faccia in giù, con le mani dietro la schiena
legate ai piedi. Uno di loro ci ha infilato uno straccio in bocca spingendolo giù
con un bastone. Non riuscivamo neanche a urlare. Ci hanno spento le sigarette
addosso, uno di loro me l'ha spenta dentro un orecchio". Un agente di
polizia, che faceva parte del gruppo dei detenuti, ha descritto gli abusi
sessuali: "Eravamo in quattro. Ci hanno ordinato di spogliarci
completamente e di sodomizzarci gli uni con gli altri, altrimenti ci avrebbero
ucciso. Mentre eravamo costretti a compiere quegli atti, le guardie ci urlavano
di farlo più velocemente".
Gli
obblighi del governo. Nel 2009, il Mali ha ratificato la Convenzione
internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata.
Pertanto, ha sottolineato Amnesty International, le autorità del paese hanno
l'obbligo di rendere noto dove si trovino tutti i poliziotti e i soldati
scomparsi all'inizio di maggio. Ulteriori informazioni riguardano le 50 persone
intervistate da Amnesty International (33 soldati e 17 poliziotti), arrestate
dopo il tentato contro-colpo di stato del 30 aprile, si trovano ora in centri di
detenzione ufficiali.
Traduzione di Andrea Sparacino
Traoré
ci riprova di Michela Trevisan
Nigrizia
- 1 agosto 2012
Il
rientro a Bamako del presidente di transizione dopo due mesi trascorsi a Parigi
dà nuove speranze al paese e alla comunità internazionale. Nei prossimi giorni
dovrà formare un nuovo governo di unità nazionale, organizzare la riconquista
del Nord, in mano agli islamisti armati, e fronteggiare l’emergenza umanitaria
che minaccia 4 milioni e mezzo di persone.
La
Comunità economica degli stati dell'Africa dell'Ovest (Cedeao/Ecowas) ha
concesso ieri al presidente ad interim del Mali, Dioncounda Traoré, una decina
di giorni in più per formare un nuovo governo di unità nazionale e riprendere
in mano le redini istituzionali di un paese spaccato a metà dopo il golpe che
il 22 marzo ha deposto il presidente eletto Amadou Toumani Touré.
Il
7 luglio, l'organizzazione regionale, preoccupata per il consolidarsi del
dominio jihadista nel Nord, aveva posto un ultimatum in questo senso, fissando
la scadenza al 31 luglio, sotto minaccia di sanzioni. La svolta è arrivata
pochi giorni prima del termine, il 27 luglio, con il rientro a Bamako del
presidente Traoré, in esilio volontario a Parigi dal 23 maggio, quando fu
aggredito e ferito da un gruppo di uomini, sostenitori dei golpisti. La sua
prima mossa è stata quella di sottrarre potere al primo ministro Cheick Modibo
Diarra - che guida un governo di tecnici e militari -, annunciando la creazione
di tre nuove istituzioni: l'Alto consiglio di Stato, il Consiglio nazionale di
transizione e la Commissione nazionale per i negoziati col Nord. Ma il
"nemico interno" di Traoré è il capitano Amadou Sanogo, leader dei
golpisti, ancora molto influente nella gestione degli affari dello Stato.
Il
consolidamento e il rafforzamento delle istituzioni è un passaggio fondamentale
per la Cedeao, che spinge per la riunificazione del paese ed ha già pronto un
piano per intervenire militarmente, con una forza di 3.000 uomini, contro gli
islamisti armati che controllano le tre principali città - e regioni
amministrative - del Nord: Timbuktu, Gao e Kidal. L'opzione militare, sostenuta
da Francia e Stati Uniti, attende solo il via libera del Consiglio di Sicurezza
dell'Onu, che nella riunione del 5 luglio ha preso tempo, chiedendo alla Cedeao
maggiori dettagli riguardo al piano di intervento militare.
Nel
frattempo, nonostante il fallimento dei precedenti tentativi, Bamako continua a
cercare la via del dialogo con gli islamisti. Nei giorni scorsi è arrivata nel
Nord una delegazione dell'Alto consiglio islamico del Mali, incaricato di
cercare di aprire negoziati con i due gruppi armati che controllano il
territorio: Ansar Al Dine e il Movimento per l'unità e la jihad nell'Africa
dell'Ovest (Mujao).
I
due gruppi, godrebbero del sostegno finanziario e del consistente rifornimento
di armi da parte di al-Qaeda nel magreb islamico (Aqmi), movimento terroristico
con il quale intrattengono "relazioni complesse, fondate su basi
opportunistiche o ideologiche" secondo quanto dichiarato di recente dal
generale Carter Ham, capo del Comando militare statunitense in Africa (Africom).
Un
segnale provocatorio del proprio dominio incontrastato sul territorio lo ha dato
Ansar Dine, con la distruzione di nove dei sedici mausolei dei santi musulmani a
Timbuctu, città dichiarata dall'Unesco patrimonio dell'umanità.
L'imposizione
di una stretta interpretazione della shari'a, la legge islamica, in tutto il
territorio - divieto di ascoltare musica, bere o vendere alcolici, obbligo per
le donne di portare il velo - ha già provocato due morti: un uomo e una donna
non sposati, accusati di "relazione illegittima", lapidati a morte il
29 luglio ad Aguelhok, nella regione di Kidal, a 150 chilometri dalla frontiera
algerina.
Ed
è stata proprio la volontà degli islamisti di imporre una lettura così dura
della legge islamica, a portare alla rottura con il Movimento nazionale per la
liberazione dell'Azawad (Mnla) la ribellione separatista dei touareg che il 17
gennaio aveva avviato il conflitto per la conquista del territorio.
In
attesa di un intervento internazionale, intanto, il 21 luglio è stata
annunciata, a Bamako, la nascita delle Forze patriottiche di resistenza (Fpr),
coalizione che riunisce sei movimenti di auto-difesa: le Forze di liberazione
delle regioni nord (Fln), le milizie Ganda-Koy e Ganda-Izo (già attive in
passato contro i ribelli touareg), l'Alleanza delle comunità della regione di
Timbuctu (Acrt), la Forza armata contro l'occupazione (Faco) e il Cerchio di
riflessione e azione (Cra). Scopo dichiarato del movimento armato è
"difendere il territorio, liberando il nord del Mali dalla presenza
islamista, con o senza il sostegno dell'esercito".
Il
conflitto per la conquista del settore settentrionale del paese, la carestia che
ha colpito l'intero Sahel e la stretta jihadista sulle popolazioni, hanno
provocato 420.000 sfollati, secondo gli ultimi dati dell'Ufficio per il
coordinamento degli affari umanitari dell'Onu (Ocha), con oltre 4 milioni e
mezzo di persone a rischio insicurezza alimentare e oltre 200.000 bambini già
colpiti da malnutrizione acuta. Una crisi in costante crescita anche per le
difficoltà, per le agenzie umanitarie internazionali, di operare sul
territorio.
Le prove dell’occupazione
di Amira Hass
Internazionale.it
- numero 960 - 3 agosto 2012
Di
recente un giudice in pensione ha scritto in un rapporto che la Cisgiordania non
può essere definita un territorio occupato. Ecco una lista di argomenti che
descrive bene questa non occupazione.
1.
Attacchi dei coloni: negli ultimi mesi c’è stata un’escalation costante.
Pestaggi, colpi di pistola, incendi di campi, alberi sradicati, sconfinamenti,
graffiti offensivi.
2.
Ad aprile cinque abitanti di un villaggio a est di Nablus sono stati attaccati
dai coloni. Quando hanno reagito sono stati arrestati dall’esercito
israeliano.
3.
A giugno tre israeliani armati sono stati fermati dalla polizia per aver
sabotato la conduttura che porta l’acqua ai beduini a nordest di Gerusalemme.
Finora però non è stato incriminato nessuno.
4.
Gli ordini di demolizione con cui le autorità mantengono il 62 per cento della
Cisgiordania (area C) sgombra dai palestinesi.
5.
Il governo ha ordinato di demolire otto villaggi per far posto a nuove zone di
addestramento militare.
6.
Ogni estate le forniture d’acqua per centinaia di migliaia di palestinesi sono
insufficienti.
7.
Alcuni diplomatici dell’Ue mi hanno detto: “Il nostro sostegno finanziario
all’Autorità Nazionale Palestinese dipende dalla soluzione dei due stati, che
non può esistere senza l’area C; Israele punta all’annessione dell’area
C; ma allora perché continuiamo a pagare?”. Nonostante questo, l’Unione
vuole rafforzare i suoi legami commerciali con Israele.
Berlino
e Washington vendono armi ai regimi per la "stabilità" nel Medio
Oriente
AsiaNews - Berlino - 30 luglio 2012
Il
governo tedesco conferma una trattativa per la vendita di carri armati a Qatar e
Arabia Saudita. Gli Usa potenziano il Kuwait con nuovi basi missilistiche e
radar. Gli investimenti potenziali ammontano a decine di miliardi di euro.
Esperti mettono in guardia sul rischio di aumentare le violazioni dei diritti
umani e il potere di governi dittatoriali.
Germania
e Stati Uniti continuano a vendere armi ai loro alleati in Medio Oriente. I
Paesi interessati sono Qatar, Arabia Saudita e Kuwait che in questi mesi hanno
più volte manifestato interessi per l'acquisto di armamenti, fra cui missili e
carri armati. I potenziali investimenti ammontano a diversi miliardi di euro.
Oggi, Georg Steiter, portavoce del governo tedesco, ha confermato una trattativa
con il Qatar per la vendita di 200 carri armati Leopard 2 del valore di 2
miliardi di euro. A inizio luglio, i giornali tedeschi avevano scoperto una
trattativa fra Berlino e Arabia Saudita per l'acquisto di almeno 800 carri
armati dello stesso modello con un investimento di 10 miliardi di euro.
Il
comportamento del governo tedesco suscita le polemiche dell'opinione pubblica
che accusa la cancelliera Angela Merkel di una politica estera a "due
facce". Da un lato quella pacifica tenuta nei summit internazionali di Onu
e Nato, dall'altro quella favorevole alla guerra e alla vendita di armi a Paesi
che non rispettano diritti umani e libertà religiosa. Lo stessa strategia è
portata avanti dagli Stati Uniti. La scorsa settimana gli Usa hanno concluso un
affare milionario con il Kuwait firmando la vendita di 60 sistemi di lancio
missilistico, la costruzione di 20 basi missilistiche e quattro nuovi centri
radar. Nel 2011 Washington ha venduto all'Arabia Saudita armi, fra cui aerei e
missili, per un valore di 30 miliardi di dollari.
Secondo
il settimanale tedesco Der Spiegel, la cancelliera e il suo staff premono
per concedere armamenti a tutti quei Paesi considerati importanti per la
stabilità dello scacchiere medio orientale, e questo per evitare l'invio di
soldati in zone ad alta tensione come ad esempio Iraq e Siria. Secondo gli
esperti la decisione della Germania si inserisce all'interno di una strategia più
ampia per contenere la minaccia iraniana attraverso alleanze strategiche con
monarchie e regimi musulmani sunniti.
In
molti però si domandano: cosa accadrebbe se tali armamenti finissero nelle mani
sbagliate? Markus Kaim, ricercatore dell'Istituto per la sicurezza e gli affari
internazionali, avverte sui rischi di questa strategia. Egli spiega che la
vendita di armamenti a governi totalitari come l'Arabia Saudita o a fazioni
particolari come il caso siriano rischiano di aumentare i pericoli di
destabilizzazione. Esempi del fallimento di questa strategia sono l'Afghanistan,
dove negli anni '80 la vendita di armi pesanti a ribelli talebani nella guerra
contro i sovietici ha aiutato la creazione di uno dei più feroci regimi
islamici del mondo. In Indonesia il governo ha utilizzato mezzi blindati e armi
pesanti comprate ai governi occidentali, fra cui la Germania, contro i ribelli
della Papua occidentale. Il caso più recente riguarda l'Arabia Saudita, che nel
2011 ha inviato truppe e blindati per reprimere le rivolte pro-democrazia
esplose nel vicino Bahrain.
Libano,
tutta la fatica delle sminatrici italiane di Maurizio Caprara
Corriere
della Sera - 1 agosto 2012
Lavora
carponi per 40 minuti e per altri 40 minuti si riposa. Meriterebbe notorietà
anche se il sistema dell’informazione di oggi tende a negarla a una ragazza di
22 anni le cui forme sono coperte da una tuta mimetica e che non cerca di
esibirsi. Eppure Roberta Micoli fa un lavoro importante. Sveglia alle 4.30,
inizio turno un’ora dopo, è una degli italiani del “10° guastatori
Cremona” che cercano mine nella fascia di Libano meridionale separata da
Israele da 119 chilometri di un’approssimativa Blue line. Una striscia di
terra più piena di ostacoli di un normale confine, eppure non degna di
chiamarsi così perché tra i due Paesi separati non esistono relazioni
diplomatiche e la pace è sempre uno stato di fatto precario, poco formalizzato.
La
caporalmaggiore Roberta Micoli, come il sergente Cosimo Piccinno che l’assiste
e ogni 40 minuti le dà il cambio perché ognuno dei due sia sempre lucido e
pronto di riflessi, deve scavare con una grazia da restauratrice di affreschi e
un polso stabile da chirurgo. Le mine che cercano loro due e i loro compagni
d’arme furono messe sottoterra da Israele negli anni ’70, quando gli
attentati di terroristi palestinesi, le incursioni di fedayn dal Libano e le
robuste risposte militari israeliane erano abituali e frequenti. Poi vicino alle
mine si aggiunsero nuove reti, cavalli di frisia, e per motivi diversi quelle
bombe anti-uomo, pronte a esplodere con soltanto otto chili di pressione, si
sono in più casi spostate.
LE
MINE BISOGNA CERCARLE - Israele ha fornito alla forza multinazionale dell’Onu
Unifil2, nella quale rientrano 1.100 italiani su 12 mila effettivi di 39 Paesi,
la mappa del campo minato di Marwain. Tuttavia, la pioggia e la crescita di
radici nella sterpaglia hanno modificato la posizione di numerose delle trappole
esplosive nascoste. E allora occorre cercarle, prima passando un metal detector
su un corridoio largo un metro ricavato tra pietre e cespugli, poi scavando a 20
centimetri di profondità, poi ripassando il metal detector per verificare se
non ci sono mine nei 20 centimetri ancora più in basso. Incuranti, anziane
donne libanesi sconfinano dai percorsi bonificati per fare legna e caricarla sui
propri muli, alcuni dei quali, in passato, si racconta siano saltati per aria.
ELEMENTI
PIU' DISPARATI - E’ un aspetto dell’Italia che viene poco raccontato, questo
di Marwain, municipalità libanese nella quale una globalizzazione
post-conflittuale mischia gli elementi più disparati: controllo della sicurezza
affidato dall’Onu a truppe del Ghana, bandiere gialle dei fondamentalisti
islamici di Hezbollah vicino a quelle dell’esercito libanese (ormai in parte
spostato da Sud a Nord-Est per i rischi dovuti all’instabilità in Siria,
causata dalla catena di rivolte e repressione ordinata da Bashar el Assad). E
poi noi italiani che abbiamo avuto la triste notorietà di essere tra i
principali produttori di mine altrettanto efficienti nello sminare; militari
cinesi che compiono operazioni analoghe con capacità tecniche più limitate; le
recinzioni israeliane a soltanto 21 metri dalle tre mine fatte brillare dai
guastatori di Cremona lunedì scorso.
NON
MANCANO I SERPENTI - «Un lavoro faticoso, ma dà soddisfazione», dice Roberta
Micoli mentre in ginocchio taglia una radice. «Il caldo pesa parecchio, la tuta
anche», spiega, e si riferisce alla protezione che ha indosso. Una decina di
chili di peso, un assemblaggio di placche simili a lapidi rivestite di stoffa.
Un completino antischegge non proprio ideale per la temperatura quando il caldo
raggiunge, come in questi giorni, i 40 gradi. Pensare alla morte è inevitabile
percorrendo il sentiero bonificato, tra postazioni riservate alla squadra medica
pronta a intervenire in caso di esplosione accidentale, mine affioranti fuori
dai bordi e cavalli di frisia. Ma i pericoli non si nascondono soltanto negli
esplosivi nascosti. Tra i rami da tagliare, a farsi vivi talvolta sono la «vipera
palestinese», la «macro-vipera lepetina turanica» e il «cobra del Sinai».
Anche lo scorpione con punture «raramente pericolose per la vita», rassicura
relativamente un cartello del contingente italiano, e, da non trascurare,
minacciose nuvole di api.
LA
BLUE LINE - Tutta questa bonifica serve a permettere di piantare i piloni blu
della Blue line, traiettoria riemersa dopo la guerra del 2006 tra Israele e
Libano. Le sue origini risalgono a una risoluzione del Consiglio di sicurezza
dell’Onu del 1978. Soltanto che una linea tracciata a penna su una mappa in
scala diventa, nella realtà, una striscia larga decine di metri. E per
concordare in quali punti l’Onu deve far piazzare i piloni blu, Israele e
Libano ricorrono all’intermediazione di Unifil. Senza contare la possibilità
che le mappe del Medio Oriente, di questi tempi, cambino ancora.
Occorre maggiore attenzione per l’istruzione e l’alimentazione dei bambini
indigeni Chepang
Agenzia Fides - Shaktikhor - 1 Agosto 2012
La
popolazione Chepang, uno dei gruppi indigeni più svantaggiati ed emarginati del
Nepal, sta lottando per l’istruzione dei propri figli. Quelli che riescono a
mandarli a scuola, anche a costo di vendere i propri capi di bestiame, si
preoccupano che le condizioni di povertà possano contribuire a mettere fine
all’istruzione. Nell’ultimo censimento del 2001 sono stati registrati 52
mila Chepangs, ma gli attivisti sostengono che da allora il numero sia almeno
raddoppiato. La Nepal Federation of Indigenous Nationalities calcola 59 gruppi
indigeni nel paese che costituiscono oltre il 37% dei 30 milioni di abitanti.
Secondo i dati del Nepal's Central Bureau of Statistics, il tasso di
alfabetizzazione è di appena del 23% su 90 mila Chepangs di 54 villaggi
compresi nei distretti di Chitwan, Dhading, Gorkha, Makwanpur, Lamjung e Tanahu,
contro una media nazionale del 40%. Un problema cronico di questa popolazione
prevalentemente dedita all’agricoltura, è l’insicurezza alimentare. Le
famiglie dipendono dai 2 raccolti annuali della durata di 3 mesi ognuno, oltre
l’80% vivono al di sotto della soglia di povertà che, insieme alla distanza
dei centri abitati dalle scuole, aggrava il problema dell’alfabetizzazione.
Nella maggior parte dei villaggi c’è solo una scuola elementare per
un’intera area, e i bambini sono costretti a camminare a piedi per ore per
raggiungere la scuola media. Il più delle volte quando arrivano sono esausti e
affamati perchè non sono riusciti a mangiare al mattino e non riescono a fare i
compiti quando rientrano a casa. Per cercare di far fronte al problema, il
governo ha messo a disposizione dei piccoli Chepang un ostello gratuito dove
hanno anche da mangiare e possono evitare di fare ore di strada a piedi.
Tuttavia la scuola ha posto solo per 40 bambini, mentre nel solo villaggio di
Shaktikhor sono oltre mille. La situazione di queste comunità è davvero
critica e servono più programmi per la scolarizzazione dei bambini. Nella zona
di Ramnagar, 20 chilometri da Shaktikhor, un gruppo di missionari indiani aveva
aperto una scuola solo per i bambini Chepang, la Navodaya School, tuttavia essa
non può seguire più di 200 studenti. Ogni anno ricevono oltre 350 domande di
iscrizione, ma possono essere accettate solo 35. (AP) (1/8/2012 Agenzia Fides)
– La popolazione Chepang, uno dei gruppi indigeni più svantaggiati ed
emarginati del Nepal, sta lottando per l’istruzione dei propri figli. Quelli
che riescono a mandarli a scuola, anche a costo di vendere i propri capi di
bestiame, si preoccupano che le condizioni di povertà possano contribuire a
mettere fine all’istruzione. Nell’ultimo censimento del 2001 sono stati
registrati 52 mila Chepangs, ma gli attivisti sostengono che da allora il numero
sia almeno raddoppiato. La Nepal Federation of Indigenous Nationalities calcola
59 gruppi indigeni nel paese che costituiscono oltre il 37% dei 30 milioni di
abitanti. Secondo i dati del Nepal's Central Bureau of Statistics, il tasso di
alfabetizzazione è di appena del 23% su 90 mila Chepangs di 54 villaggi
compresi nei distretti di Chitwan, Dhading, Gorkha, Makwanpur, Lamjung e Tanahu,
contro una media nazionale del 40%. Un problema cronico di questa popolazione
prevalentemente dedita all’agricoltura, è l’insicurezza alimentare. Le
famiglie dipendono dai 2 raccolti annuali della durata di 3 mesi ognuno, oltre
l’80% vivono al di sotto della soglia di povertà che, insieme alla distanza
dei centri abitati dalle scuole, aggrava il problema dell’alfabetizzazione.
Nella maggior parte dei villaggi c’è solo una scuola elementare per
un’intera area, e i bambini sono costretti a camminare a piedi per ore per
raggiungere la scuola media. Il più delle volte quando arrivano sono esausti e
affamati perchè non sono riusciti a mangiare al mattino e non riescono a fare i
compiti quando rientrano a casa. Per cercare di far fronte al problema, il
governo ha messo a disposizione dei piccoli Chepang un ostello gratuito dove
hanno anche da mangiare e possono evitare di fare ore di strada a piedi.
Tuttavia la scuola ha posto solo per 40 bambini, mentre nel solo villaggio di
Shaktikhor sono oltre mille. La situazione di queste comunità è davvero
critica e servono più programmi per la scolarizzazione dei bambini. Nella zona
di Ramnagar, 20 chilometri da Shaktikhor, un gruppo di missionari indiani aveva
aperto una scuola solo per i bambini Chepang, la Navodaya School, tuttavia essa
non può seguire più di 200 studenti. Ogni anno ricevono oltre 350 domande di
iscrizione, ma possono essere accettate solo 35.
L'arma del dialogo contro la follia islamista di Boko Haram
di Anna Pozzi
Jesus
- luglio 2012
Non
passa (quasi) domenica senza che vi sia un attentato contro chiese o luoghi di
culto cristiani in Nigeria. Ormai l'offensiva della setta islamista Boko Haram
ha subìto un evidente salto di qualità sia in termini di capacità
organizzativa che di intensità degli attentati, che hanno provocato negli
ultimi due anni più di mille morti.
Solo
lo scorso 17 giugno, tre chiese sono state devastate da attentati a Kaduna e
violenti scontri sono scoppiati nella città di Damaratu con oltre 68 morti. «Abbiamo
a che fare con un gruppo di criminali che pensano che la Chiesa sia un nemico,
perché ai loro occhi incarna la cultura occidentale. Non penso però che questa
sia la visione della maggioranza dei musulmani della Nigeria. Chi assalta i
luoghi di culto cristiani è una banda di criminali che ha perso ogni forma di
orientamento. Non si sa più nemmeno che cosa vogliano ottenere con questa
violenza», ha dichiarato a Fides monsignor Ignatius Ayau Kaigama, arcivescovo
di Jos e presidente della Conferenza episcopale nigeriana.
Tuttavia,
di fronte a una situazione così allarmante, né le autorità locali né la
comunità internazionale sembrano in grado di intervenire efficacemente per
mettere fine all'ondata di atti terroristici che stanno destabilizzando il Nord
del Paese.
«Boko
Haram», continua l'arcivescovo, «ha una struttura formata non solo da fanatici
disposti a sacrificare la propria vita per dare la morte agli altri, ma anche da
sponsor, alcuni dei quali sono stranieri. Dobbiamo chiedere alle nostre forze di
sicurezza di individuare i finanziatori e gli ispiratori di questa campagna di
violenza. Purtroppo, al momento, non sono state in grado di farlo». Intanto,
però, c'è anche chi a livello di base e lontano dai riflettori dei media,
continua a lavorare per promuovere la convivenza pacifica. È quanto cercano di
fare, ad esempio, le suore Oblate di Nazareth, che hanno fondato una scuola
frequentata da più di 800 alunni, sia cristiani che musulmani, a Kaduna, una
delle città più "calde" della Nigeria.
«La
Scuola di Nazareth», racconta suor Semira Carrozzo, «è un luogo di incontro,
dialogo e amicizia tra famiglie di varie religioni. Le violenze rischiano di
dividere la popolazione su basi etniche o religiose, distruggendo il lavoro di
crescita spirituale che cerchiamo di portare avanti ogni giorno nella scuola».
Anche monsignor Kaigama mette in guardia: «È corretto affermare che Boko Haram
è contro i cristiani e la religione cristiana, ma stiamo attenti a non
confondere questa setta con l'intera popolazione musulmana della Nigeria, con la
quale cerchiamo di mantenere buoni rapporti». «La lotta contro gli estremisti»,
hanno sottolineato anche 250 capi tradizionali durante un recente incontro con
il presidente Goodluck Jonathan, «non può essere equiparata a una lotta contro
l'islam o i suoi fedeli».
No alle nozze forzate
di Giampiero Sandionigi
Jesus
- luglio 2012
Il
22 giugno a Islamabad si è insediato un nuovo Governo, guidato da un esponente
del Partito popolare del Pakistan, Raja Pervez Ashraf.
Davanti
al Parlamento il nuovo esecutivo si è impegnato ad agire in continuità con il
Governo precedente, costretto alle dimissioni dopo che il primo ministro Syed
Yousuf Raza Gilani è stato deposto da una sentenza della Corte suprema.
Il
rimpasto ha posto Paul Bhatti, fratello di Shahbaz Bhatti – il ministro
cattolico per le minoranze ucciso il 2 marzo 2011 –, alla guida del dicastero
per l'Armonia nazionale. Sulla sua scrivania Bhatti trova, tra l'altro, un
progetto di legge da poco messo a punto dalla Commissione nazionale per le
minoranze religiose e volto a contrastare le conversioni e i matrimoni forzati.
La
normativa elaborata dalla Commissione prevede, fra l'altro, che la registrazione
di conversione di un cittadino all'islam non sia più effettuata da un agente di
polizia, ma da un magistrato (una misura che intende arginare abusi,
falsificazioni e casi di corruzione).
Ai
neofiti, inoltre, non dovrebbe essere consentito contrarre matrimonio fino a che
siano decorsi 6 mesi dalla conversione. In una società in cui, su 180 milioni
di abitanti, circa il 95% professa l'islam (i cristiani sono il 3%, gli hindù
meno del 2), il fenomeno delle conversioni forzate è piuttosto diffuso,
soprattutto tra le donne. Secondo l'agenzia Fides, sono almeno un migliaio ogni
anno i casi di ragazze cristiane e hindù costrette, anche con violenze e
stupri, al matrimonio islamico. Lo stesso Paul Bhatti, quando era consigliere
speciale del primo ministro per le questioni delle minoranze religiose,
denunciava che le cause principali del fenomeno sono povertà, analfabetismo,
ignoranza e ingiustizia sociale.
Le
nuove norme incontrano il plauso e il sostegno delle istituzioni cristiane.
Secondo il padre domenicano James Channan, impegnato nel dialogo interreligioso,
l'iniziativa di legge è «molto importante ». Per questo i cristiani la
sostengono «con vigore, nell'ottica di contribuire allo sviluppo, al progresso
e alla costruzione di una nazione tollerante, pacifica, pienamente rispettosa
dei diritti dell'uomo».
Produzione di cocaina, per gli usa è in testa il Perù
Misna
- 31 luglio 2012
La
produzione di cocaina in Colombia è scesa nel 2011 del 25%, il calo più
consistente dal 1994, e il paese è ormai alle spalle di Perù e Bolivia, primi
due produttori mondiali: parola di Gil Kerlikowske, lo ‘zar’ antidroga
statunitense, che in una conferenza nel Centro di studi strategici e
internazionali (Csis) di Washington, ha presentato i nuovi dati raccolti
dall’ufficio per le politiche contro gli stupefacenti della Casa Bianca.
Secondo Kerlikowske, nell’arco dell’ultimo decennio la produzione di cocaina
pura in Colombia è diminuita complessivamente del 72%, passando da 700
tonnellate nel 2001 a 195 lo scorso anno. In base ai dati statunitensi, nel 2011
il Perù ha prodotto 325 tonnellate e la Bolivia 265.
“Sono
risultati storici e hanno conseguenze enormi, non solo per gli Stati Uniti e il
continente americano, ma per tutto il mondo” ha detto l’altro funzionario
statunitense. Anche l’estensione delle piantagioni coltivate a foglia di coca
in Colombia è scesa, secondo lo stesso studio, dai 100.000 ettari registrati
nel 2010 agli 83.000 dell’anno scorso.
I
dati di Kerlikowske confliggono con quelli presentati la settimana scorsa
dall’Onu che ha contato 345 tonnellate di cocaina prodotte in Colombia nel
2011; una divergenza che Kerlikowske ha attribuito a differenti metodi di
calcolo, per poi elogiare anche gli sforzi del principale alleato
latinoamericano della Casa Bianca nello sradicamento delle coltivazioni illegali
e la lotta al narcotraffico attaraverso il controverso ‘Plan Colombia’,
milionario programma anti-droga e anti-guerriglia finanziato dagli Usa, ma
bocciato da numerose organizzazioni non governative.
Accordo di pace a Qalamoun sulla linea tracciata dagli oppositori a Roma
Agenzia Fides - Damasco - 31 luglio 2012
Nuovo
successo dell’iniziativa “Mussalaha” (Riconciliazione) che si sta
adoperando per dimostrare che esiste una “terza via” possibile, alternativa
alla guerra e alle armi, quella della società civile.
Secondo
quanto riferiscono fonti locali all’Agenzia Fides, il 30 luglio è stato
firmato un “accordo storico tra le forze dell’opposizione di Qalamoun e i
rappresentanti di Mussalaha di Yabroud, Qâra, Nebek e Deir Atieh e dintorni”.
La regione di Qalamoun è un’area di altopiani situata tra Damasco ed Homs che
comprende i villaggi cristiani di Maaloula (dove si continua a parlare
l’aramaico, la lingua vernacolare di Gesù) e di Saydnaya (dove è collocato
il Santuario della Madre di Dio) oltre agli antichi monasteri di Santa Tecla,
Mar Touma, Mar Moussa e Mar Yakoub. La popolazione è in maggioranza sunnita ma
vi è pure una forte presenza cristiana che è rispettata grazie ad un patto che
risale di tempi di Saladino.
Da
mesi diversi villaggi della regione, si erano proclamati
"indipendenti" e avevano paralizzato le istituzioni statali (comuni,
stazioni di polizia, tribunali) e della vita civile (con scioperi diffusi e
permanenti). Questa fase di disobbedienza civile è stata accompagnata da una
insurrezione armata con miliziani che attaccavano postazioni dell'esercito, ma
anche alcuni civili ritenuti vicini al governo o troppo concilianti con il
regime. Ai miliziani si sono aggiunte le bande criminali che hanno approfittato
del disordine e della mancanza di sicurezza per rapire persone a scopo di
estorsione ed effettuare rapine contro fabbriche, depositi, negozi.
L’accordo
di ieri si unisce alla dichiarazione di Roma dei gruppi dell'opposizione riuniti
dalla Comunità di Sant'Egidio. In base a tale accordo l'opposizione rinuncia
all’opzione militare, e, quindi, vieta ai suoi membri di attaccare le forze
governative, militari o di sicurezza e i civili. Essa depone le armi e rimette
la sicurezza nelle mani dello Stato. Da parte sua il governo continua a dare
alla popolazione civile la libertà di esprimersi democraticamente attraverso
manifestazioni e sit-in .
Grazie
all’accordo, riferiscono le fonti di Fides, i prigionieri politici che non si
sono macchiati di delitti di sangue sono stati liberati e le persone rapite a
scopo politico o di lucro sono state rimesse in libertà. “Le famiglie sunnite
divise tra oppositori e lealisti oltre tra oppositori di diverse fazioni si
ritrovano riunite da questo accordo che dimostra ancora una volta la forza di
persuasione della società civile che ricostruisce a partire dai capi tribali e
di clan, con l'accompagnamento delle autorità religiose, un patto sociale che
non può essere completo finché il rumore delle armi non si sarà spento in
tutta la Siria” concludono le fonti di Fides.
Ad
Aleppo le comunità cristiane creano un comitato di assistenza umanitaria
Agenzia Fides - Damasco - 31 luglio 2012
Mentre
continuano i combattimenti ad Aleppo tra le forze governative e gli insorti, le
comunità cristiane della città siriana hanno deciso la costituzione di un
comitato di coordinamento per fornire assistenza umanitaria alle persone i
difficoltà ed ai profughi. Secondo fonti locali contattate dall’Agenzia
Fides, il comitato è formato da 11 persone in rappresentanza delle 11 comunità
cristiane di Aleppo.
“Si
cercherà di trovare il modo di garantire una certa sicurezza nei quartieri
abitati dai cristiani e di fare in modo che questi non abbandonino le loro
abitazioni perché non si ripeta qui quello che è accaduto ad Homs, dove le
case abbandonate dai civili in fuga sono state usate come capisaldi dai
combattenti. E questo ha provocato la strage nei quartieri cristiani di Homs”
dicono le nostre fonti.
“Speriamo
che l’appello al dialogo lanciato domenica dal Santo Padre (vedi Fides
30/7/2012) venga raccolto sia all’interno della Siria sia dalla comunità
internazionale” sottolineano le fonti di Fides che ricordano pure che “le
sanzioni economiche adottate contro il regime in realtà colpiscono gli strati
più poveri della popolazione. Le persone abbienti si sono rifugiate in Libano,
in Giordania o in Turchia, ma i poveri non hanno nulla per far fronte a questa
situazione”.
“Il
dialogo è l’unico modo per trovare la pace ed ottenere la democrazia, fondata
sul rispetto dei diritti di tutti” concludono le fonti di Fides. (L.M.)
Corsa contro il tempo per accogliere i progughi
Repubblica
- 30 luglio 2012
L'Unicef
sta aumentando la sua capacità di risposta rispetto al flusso di arrivi in
Giordania. Gente che conduceva una vita normale, nulla di simile dunque
all'esodo dipersone affamate proveniente dall'Africa sud sahariana. L'Agenzia
dell'Onu supporta la costruzione del nuovo sito di Za'atari, dove saranno
accolti i primi 5.000 rifugiati siriani entro pochi giorni. La capacità di
accoglienza arriverà fino a 150.000 persone
Con
l'aggravarsi del conflitto in Siria, che sta provocando un aumento tragico del
numero di bambini e famiglie siriane in fuga verso la Giordania, l'Unicef 2 sta
rapidamente aumentando la sua capacità di risposta all'emergenza. Sta
supportando, ad esempio, la costruzione del nuovo sito di Za'atari nei pressi di
Mafraq nel nord della Giordania, dove si prevede saranno accolti i primi 5.000
rifugiati siriani entro pochi giorni. La capacità di accoglienza del sito
arriverà fino a 150.000 persone.
Gli
Spazi Amici dei bambini". Con l'Agenzia Federale Tedesca per il soccorso
tecnico (THW), suo partner, l'Unicef sta sostenendo la costruzione di siti per
la distribuzione dell'acqua e per i servizi igienici per rispondere alle
necessità umanitarie più urgenti. Sono già state installate cisterne, 80
servizi igienici mobili e 80 docce utili per 5.000 persone. Autobotti
distribuiranno acqua non appena i rifugiati arriveranno al campo. L'Unicef ha
provveduto ad ulteriori rifornimenti di emergenza per soddisfare le esigenze
iniziali delle persone accolte, con 25.000 kit a base d'acqua per le famiglie,
Spazi Amici dei bambini (CFS), scuole mobili, kit per lo sviluppo dell'infanzia,
teloni, stuoie di plastica e oggetti d'emergenza. Il primo Spazio Amico dei
bambino è già stato costruito.
Il
flusso di famiglie con i loro piccoli. ''Sempre più bambini e famiglie stanno
arrivando in Giordania dalle frontiere meridionali della Sira. La crisi
umanitaria cresce sempre piu''', ha dichiarato Dominique Hyde, Rappresentante
dell'Unicef Giordania. ''L'Unicef e i suoi partner sono impegnati in una corsa
contro il tempo per rendere disponibile acqua pulita, servizi igienici e docce
al campo di Za'atari perché nei prossimi giorni è previsto l'arrivo che le
prime famiglie di sfollati siriani arrivino entro pochi giorni''. Più di 13.000
siriani sono arrivati nei siti di transito per rifugiati in Giordania
dall'inizio di luglio, quasi la metà durante la scorsa settimana, mettendo
sempre più sotto pressione le strutture di accoglienza. L'Unicef fornisce acqua
e servizi igienici - includendo la distribuzione di circa 9.000 kit per l'igiene
dei bambini - nei quattro luoghi di transito, provvedendo anche a programmi per
la protezione dei minori e all'istruzione.
La
capienza dei siti. I siti potevano contenere fino a 2.160 nuovi arrivati, ma
hanno ormai raggiunto un livello record con più di 10.000 rifugiati - oltre
quattro volte la loro capacita'. Più di 38.800 siriani in Giordania sono
registrati come rifugiati o sono in attesa di registrazione. ''Più della metà
degli sfollati sono bambini e adolescenti che continuano ad affrontare il
disagio psico-sociale causato dalle violenze e dagli spostamenti. Il numero di
donne accompagnate dai loro figli è in aumento''. L'Unicef ha lanciato un
appello per 17,8 milioni di dollari per sostenere la risposta all'emergenza in
Giordania. Mancano ancora 10,76 milioni, inclusi 3 milioni di dollari necessari
a supportare il sito di Za'atari che ospiterà i profughi siriani in crescente
afflusso.
Il
futuro è una Siria fatta a pezzi?
Articolo
21 - 29 luglio 2012
Si
combatte per le strade di Aleppo, città per storia e cultura troppo importante
per essere lasciata dal governo nelle mani dei ribelli sunniti. È ad Aleppo che
si sta sviluppando la fase più acuta della guerra civile che negli ultimi dieci
giorni – con l’assalto (respinto dai governativi) di 5mila ribelli a Damasco
– ha subito una drammatica escalation, segnata dall’attentato di una
settimana fa che ha ucciso alcuni dei più stretti collaboratori del presidente
Bashar Assad.
Il
nord è l’obiettivo immediato dei ribelli armati che intendono strapparlo al
controllo del governo e proclamarlo subito «territorio liberato». Uno sviluppo
che segnerebbe una sconfitta forse irreparabile per il presidente siriano. Per
questo la battaglia di Aleppo potrebbe rivelarsi persino più cruenta di quella
di Damasco. L’esercito ha spostato verso questa bellissima città, patrimonio
dell’umanità, migliaia di uomini e decine di mezzi corazzati per respingere
l’assalto dell’Esercito libero siriano (Els), la milizia dell’opposizione.
Nei
combattimenti ad Aleppo i governativi possono contare anche sull’appoggio
degli elicotteri ma i ribelli ora hanno armi per contrastare la maggiore potenza
di fuoco delle forze armate regolari: razzi anticarro, lanciagranate,
migliatrici pesanti, bombe. E sono sempre più motivati, grazie anche allo
stipendio mensile che ricevono dagli sceicchi del Golfo, decisi a far cadere il
nemico Assad.
Proseguono
anche le defezioni. Le ultime due riguardano gli ambasciatori negli Emirati e a
Cipro che sono passati all’opposizione. Il fenomeno è in crescita ma riguarda
in quasi tutti i casi siriani sunniti, a conferma delle caratteristiche sempre
più settarie del conflitto. Per questo non sono pochi coloro che vedono una
Siria frantumata con la caduta di Assad.
Il
presidente siriano è ancora in sella ma deve affidarsi sempre di più ai
reparti dell’esercito composti in prevalenza da membri della sua setta, quella
alawita e sull’appoggio silenzioso della maggioranza dei cristiani. Sa che con
l’afflusso continuo di armi destinate ai ribelli, per le forze armate regolari
sarà sempre più difficile tenere il controllo delle aree del paese a
maggioranza sunnita. È plausibile che, di fronte all’emergere di una entità
sunnita più o meno omogenea sotto il controllo dell’Els, Assad sia costretto
a trasformare l’ovest del paese, la zona di Latakiya, a maggioranza alawita,
in una enclave ben difesa e con l’accesso al mare.
Una
soluzione resa concreta dal timore che gli alawiti hanno di vendette sunnite in
caso di caduta del regime. Per loro sarebbe preferibile la resistenza ad
oltranza in un piccolo territorio a una vita sotto il tallone sunnita.
Il
sostegno degli alawiti è un patrimonio di eccezionale importanza sul quale
Assad potrà contare in ogni circostanza. Ha perciò ragione Robert Fisk quando
scrive, come ha fatto nei giorni scorsi, che solo la perdita dell’appoggio
alawita, alquanto improbabile, può segnare la sconfitta senza appello di Assad.
Questo
però è solo un pezzo del puzzle della Siria frantumata che rischia di venire
alla luce tra qualche mese. Non è solo una teoria la possibilità che le
regioni kurde siriane si rendano autonome sul modello del Kurdistan iracheno
separato da Baghdad, voluto dagli Usa dopo il primo attacco al regime di Saddam
Hussein nel 1991. Ma kurdi sono anche quelli che combattono la Turchia e non è
un mistero che Bashar Assad stia dando spazio ed appoggi al Pkk per ricambiare
la «cortesia» ricevuta dal premier turco Erdogan, il più rapido ad
abbandonarlo e a dare aiuto e accoglienza ai ribelli armati e al Consiglio
nazionale siriano (opposizione). Il Pkk potrebbe usare il territorio di una
Siria spaccata in più parti per tenere sotto pressione Ankara che, a sua volta,
finirebbe per creare una zona cuscinetto in terra siriana come ha fatto negli
anni passati al confine con l’Iraq.
E
il Golan occupato da Israele? C’è chi lo vede trasformato in un contenitore
per siriani in fuga dai futuri padroni di Damasco. Israele, in ogni caso, non lo
ha ridato al regime baathista e non lo darà a nuove autorità siriane, ammesso
che queste ultime intendono chiederne la restituzione.
Sono oltre due milioni gli sfollati smentite voci su un governo in esilio
Repubblica
- 1 agosto 2012
L'allarme
di Unhcr e Mezzaluna rossa: 130mila i rifugiati fuori dal Paese, l'Algeria apre
un centro di accoglienza. Ad Aleppo quinto giorno di battaglia, 15mila persone
che volevano fuggire sono rimaste bloccate in città. Il Cns nega la creazione
di un esecutivo all'estero. Spunta un video di soldati lealisti giustiziati dai
ribelli
SEMBRA
un dramma senza fine, quello che sta colpendo la Siria dove - oltre ai durissimi
combattimenti e alle migliaia di morti per gli scontri tra regime e ribelli - si
aggiunge ora una gravissima emergenza umanitaria. Oltre due milioni gli sfollati
interni al paese e almeno 130mila rifugiati fuori dal confine, in Turchia,
Giordania, Libano, Algeria e Iraq. Una stima che, secondo l'Unhcr (l'agenzia
dell'Onu per i rifugiati), è al ribasso visto che molti profughi non sono stati
registrati.
E
mentre centinaia di migliaia di persone lasciano Aleppo, dove si combatte strada
per strada da ormai cinque giorni, altre rimangono bloccate in città senza
riuscire a fuggire. In questa condizione sarebbero almeno 15mila siriani, che si
stanno rifugiando in scuole, moschee ed edifici pubblici. Circa settemila civili
sono nelle residenze universitarie, secondo la portavoce dell'Unhcr Melissa
Fleming, mentre la Mezzaluna rossa araba siriana (Sarc) e altre associazioni
ogni giorno registrano circa 300 famiglie di sfollati che hanno bisogno di
assistenza immediata.
E
i paesi che stanno dando ospitalità ai profughi si organizzano: lunedì la
Giordania ha aperto un campo al confine, ieri l'Algeria ha allestito un centro
di accoglienza a Sidi Fredj, a ovest della capitale. Secondo il governo di
Algeri, dodicimila persone sono fuggite in Algeria, dove non hanno bisogno di
visto d'ingresso.
Al
dramma dei profughi siriani si aggiunge l'emergenza per i circa 500.000
palestinesi rifugiati proprio in Siria, la maggior parte a Damasco. I
palestinesi direttamente interessati dagli scontri in corso nel paese sono circa
225.000, rivela l'Unhcr, che spiega come il conflitto abbia
"inasprito" le condizioni di vita e i rischi per queste persone.
Niente
governo d'opposizione in esilio. Il Consiglio Nazionale Siriano ha bocciato
l'idea di negoziati per formare un governo siriano in esilio tra le forze di
opposizione a Bashar al Assad. Lo ha chiarito il leader del Cns, Abdu Basset
Sayda, secondo il quale si tratta di "una decisione affrettata cui vorremo
che non si desse seguito perchè in realtà indebolirebbe l'opposizione". A
lanciare l'idea era stato Haytham al-Maleh, 81 anni, designato per guidare il
primo esecutivo post Assad
La
battaglia per Aleppo. I ribelli siriani hanno preso il controllo delle stazioni
di polizia di Salihin e Bab al-Neyrab dopo battaglie durate ore. Nei
combattimenti sono morti circa 40 ufficiali di polizia e soldati, così come un
generale. Nonostante le conquiste dei ribelli, il regime sembra aver ripreso
slancio: secondo l'agenzia di stampa ufficiale siriana, le forze governative
stanno dando la caccia "ai resti dei gruppi terroristi armati" nel
quartiere Salaheddine di Aleppo, infliggendo loro molte perdite.
Le
esecuzioni sommarie. Ma se i paesi Occidentali, Stati Uniti in testa, mettono
l'accento sulla violenza della repressione del regime, bisogna ricordare come la
violenza coinvolga tutti gli attori in gioco. Un video amatoriale apparso oggi
online mostra infatti le esecuzioni sommarie ad Aleppo di miliziani lealisti, i
cosiddetti 'shabiha', da parte dei disertori dell'Esercito Siriano Libero,
braccio armato dell'opposizione. Nel filmato si vedono un gruppo di individui
appartenenti alla tribù filo-governativa degli al-Berri condotti su una piazza
gremita di uomini armati i quali, al loro apparire, gridano "Libero
Esercito per sempre!" e 'Allahu Akbar!, cioè "Allah è grande!".
C’è mai stata in Medio Oriente una guerra così ipocrita?
di Roberr Finck
Il
fatto quotidiano - 31 luglio 2012
Una
guerra altrettanto ricca di vigliaccheria, immoralità e retorica fasulla?
Ovviamente non mi riferisco alle vittime siriane, ma alle menzogne e alle bugie
di chi ci governa. La risposta ai massacri è stata una pantomima degna più di
Swift che di Tolstoj o Shakespeare.
Qatar
e Arabia Saudita armano e finanziano i ribelli per rovesciare la dittatura
alawita-sciita-baathista di Assad e da Washington non arriva nemmeno una parola
di critica. Barack Obama e Hillary Clinton dicono di volere la democrazia in
Siria, ma il Qatar è una autocrazia e l’Arabia Saudita è tra i maggior
esempi di califfato autoritario del mondo arabo, alleata dei ribelli salafiti in
Siria e, a suo tempo, fervente sostenitrice del regime medievale talebano in
Afghanistan.
Quindici
dei 19 dirottatori dell’11 settembre venivano dall’Arabia Saudita e,
ovviamente, noi abbiamo bombardato l’Afghanistan. Ma davvero c’è chi crede
che l’Arabia Saudita vuole la democrazia in Siria?
In
Libano il partito-milizia degli sciiti hezbollah è la longa manus dell’Iran
sciita e fedele alleato di Assad. Da 30 anni gli hezbollah si accreditano come
difensori dei diritti dei palestinesi eppure oggi nemmeno una parola di condanna
sugli stupri e i massacri di civili siriani a opera dei soldati di Assad e della
milizia “Shabiha”. E poi abbiamo i nostri eroi americani: Hillary Clinton,
Leon Panetta, ministro della Difesa, e il presidente Obama. Panetta, lo stesso
che raccontò la gigantesca balla del coinvolgimento di Saddam negli attentati
dell’11/9, oggi annuncia che in Siria “la situazione sta sfuggendo di
mano”. Dal canto suo Obama annuncia, un giorno sì e l’altro pure, “che la
Siria è oggetto di attenzione da parte del mondo”.
Siamo
certi che agli Usa farebbe piacere se i ribelli siriani aprissero gli archivi di
Assad e ne mettessero il contenuto, torture comprese, a disposizione
dell’opinione pubblica internazionale? Abbiamo dimenticato che qualche anno fa
l’Amministrazione Bush inviava gli arabi sospettati di terrorismo a Damasco
perché fossero torturati e che le stesse ambasciate occidentali fornivano
l’elenco delle domande da fare ai detenuti? E per non farci mancare nulla c’è
l’Iraq. La settimana scorsa ci sono stati in Iraq 29 attentati che hanno
lasciato sul terreno 111 morti civili. Nella stessa settimana il numero dei
civili assassinati in Siria è stato più o meno lo stesso. Ma ormai l’Iraq
non fa più notizia. È una pratica chiusa e archiviata. E poi l’Occidente che
c’entra? Ha forse qualche responsabilità per quanto accade oggi in Iraq?
Quanto
all’informazione, stendiamo un pietoso velo di silenzio. Lo stesso silenzio
della Bbc che copre di questi tempi un solo evento: le Olimpiadi. Basta guardare
un telegiornale della Bbc per capire cosa intendo dire: la torcia olimpica viene
prima di tutto il resto, bambini massacrati compresi.
E
infine ci siamo noi, cittadini democratici e progressisti che, giustamente,
scendiamo in piazza per protestare contro la politica di Israele nei territori
occupati, ma che al cospetto della carneficina in corso in Siria non
organizziamo nemmeno una timida dimostrazione, eccezion fatta per qualche corteo
di sparuti gruppi di esuli siriani. Eppure il numero delle vittime non ha uguali
in Medio Oriente. Giusto o sbagliato che sia, il messaggio è semplice e chiaro:
chiediamo giustizia per gli arabi e protestiamo solo se a massacrarli sono gli
occidentali e gli israeliani. Se invece li massacrano altri arabi, allora non
facciamo una piega. E così facendo finiamo per dimenticare la “grossa”
verità. Vogliamo rovesciare la sanguinaria dittatura siriana non perché amiamo
i siriani o odiamo il nostro ex amico Bashar al-Assad o perché ce l’abbiamo
con la Russia che ha tutte la carte in regola per ambire a un posto di prima
fila nel Pantheon degli ipocriti, ma più semplicemente per dare una lezione
all’Iran e magari sventare i suoi piani nucleari, sempre che esistano.
Insomma
niente a che vedere con i diritti umani e con la morte di tanti bambini siriani.
©
The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Un inferno chiamato Mogadiscio di Stefano Piziali
vita.it
30 luglio 2012
Centinaia
di migliaia di persone nei campi profughi in condizioni drammatiche, bambini a
rischio malnutrizione, un costante clima di violenza, strade impraticabili. La
testimonianza di un operatore del Cesvi da una città dove l'emergenza non
finisce mai
Un
rapporto Unicef rivela che 2,5 milioni di somali, circa un terzo della
popolazione, ha bisogno di aiuti urgenti. La Somalia resta infatti il paese del
Corno d'Africa con le peggiori condizioni di vita: un bambino su 5 è in
pericolo di vita a causa della malnutrizione. I conflitti, l'instabilità
politica, le piogge scarse e l’impossibilità per gli aiuti di raggiungere,
per ragioni di sicurezza, alcune zone del paese, sono fattori che rischiano di
provocare nei prossimi mesi migliaia di vittime, soprattutto tra i bambini.
Cesvi
lavora da circa anno a Mogadiscio, dove almeno 200.000 persone vivono in decine
di piccoli e grandi campi profughi. Si tratta di coloro che dopo il ritiro dalla
città di Al Shabab (gruppi militanti che si ispirano ad Al Qaeda) vi si
sono riversate dal Centro e dal Sud della Somalia per sfuggire alla siccità,
alla fame, alle malattie ed alla guerra, che ancora interessano gran parte del
Paese.
Mogadiscio
è ora una striscia di terra di ca. 30x20 chilometri controllata dalle truppe
della Unione Africana e del Governo federale di transizione somalo, dove la vita
sta lentamente riprendendo. A breve, in agosto, le prime elezioni tracceranno
forse un percorso politico più chiaro.
La
città è in gran parte ancora distrutta (soprattutto gli edifici pubblici). La
sicurezza resta un problema ed è assai rischioso muoversi senza una scorta
armata, infatti elementi di Al Shabab sono ancora presenti in città, dove quasi
ogni giorno bombe improvvisate o granate scoppiano per rendere difficile la
ricostruzione al Governo di transizione. Le ronde dei soldati del governo somalo
non sono peraltro rassicuranti, in quando sono spesso causa di soprusi e
violenze.
La
presenza di Cesvi, altre ONG e organizzazioni internazionali, è indispensabile
per assicurare cibo, acqua e assistenza a quanti non hanno nulla che non sia un
tetto fatto di stracci e teli di plastica. Cesvi opera nella protezione dei
bambini: creando con il sostegno di UNICEF luoghi a loro dedicati nei campi di
sfollati, Child Friendly Spaces, nei quali i bambini possono giocare, stare
insieme imparare a leggere e scrivere. Inoltre gestisce un Centro di
salute, a breve saranno due, nel quale si riversano sia gli abitanti della città
sia gli sfollati. Quattro cliniche mobili assicurano ai campi di sfollati visite
regolari di personale medico somalo.
In
questi giorni è iniziato anche un progetto in collaborazione con UN HABITAT per
la raccolta dei rifiuti solidi urbani: sparsi ovunque nella città tra macerie e
strade impraticabili. Una occasione per dare lavoro e diminuire i rischi di
malattie legate alla scarsa igiene e ambientale.
Garantire
la sicurezza e la protezione dei propri operatori, assicurando nel frattempo
progetti efficaci e verificabili è la sfida che Cesvi si appresta ad affrontare
nelle prossime settimane. Dopo il mese di Ramadan, appena iniziato, durante il
quale Al Shabab ha minacciato azioni terroristiche clamorose, sarà possibile
verificare se questa sfida potrà essere vinta. Ma già oggi l’impegno egli
operatori Cesvi è massimo per assicurare una assistenza ai più deboli: donne e
bambini. Il piccolo appena arrivato accompagnato da papà al Centro di Salute
Cesvi in cerca di aiuto per curare la lebbra ha davanti una lunga cura per poter
guarire, ma tutta Mogadiscio necessiterà di assistenza ancora per molto tempo
per uscire da decenni di guerra e miseria.
E gli spagnoli si sentono truffati
di Roberto Di Caro
Espresso
- 1 agosto 2012
Da
Madrid a Barcellona, sta esplodendo la rabbia sociale di un intero Paese. Dove
la gente è sempre più convinta che il crac sia soltanto un sistema per
allargare la forbice sociale, trasferendo altri soldi dai ceti medio bassi ai
ricchi(31 luglio 2012)Non sarà elegante, ma rende il sentire generale, il
cartello che in faccia al Museo del Prado inalberano Leonor Aragón e Estrella
Martinez de Morentin, insegnanti precarie di liceo, 1.800 euro al mese, la
quattordicesima appena cancellata dal governo di Mariano Rajoy come a tutti gli
statali, il posto in forse perché hanno tagliato classi e programmi educativi.
Recita: "Nos mean y dicen que llueve", letteralmente "ci pisciano
addosso e dicono che piove". Ovvero, ci raccontano che non si può fare
altrimenti, tagliare, rinunciare, sacrificare (in Italia la formula è "ce
lo chiede l'Europa"): «Invece quelle di Rajoy sono scelte precise contro
di noi, contro la classe media e i lavoratori, a favore di chi ha speculato e
specula e di chi a tal punto ha sgovernato questo paese da lasciarlo sul
lastrico. Dicono che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità.
Mentono. Sono loro che hanno vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Chi?
Tutti. Non si salva nessuno. Mancano in Spagna politici "honorados"».
Degni
di onore, di rispetto: c'è in quel termine tutto il senso di frustrazione e di
disorientamento che respiri nelle proteste della capitale come nelle altre
grandi e medie città. Certo, gli indici economici sono impietosi: il Pil 2012
è previsto in calo tra l'1,5 e l'1,7 per cento, il deficit è al 6,3 per cento,
la disoccupazione al 24,6, gli interessi sui "bonos" al 7,7 in
crescita, il valore delle case (tutto cominciò nel 2008 con la bolla
immobiliare) è crollato del 15 per cento e i mutui del 25. L'ultima crisi
spagnola, scoppiata all'improvviso ai primi di maggio, rischia di essere la mina
che fa saltare l'euro e l'Europa.
Ma
c'è negli spagnoli una delusione più profonda. Per essere stati ingannati ieri
e traditi oggi. Lo si vede il 19 luglio con i centomila che a Madrid calano alla
Puerta del Sol e fino a notte la occupano scontrandosi con la polizia: ceto
medio, impiegati, statali di un'amministrazione non mal funzionante ma
elefantiaca, disoccupati ormai tra i giovani al 50 per cento, medici e
infermieri con gli ospedali a rischio, madri che a settembre su tempere e
quaderni dei figli a scuola pagheranno l'Iva al 21 anziché al 4 per cento.
E
poi "mineros y bomberos", i minatori dalla provincia di Teruel e i
pompieri che inondano di schiuma la piazza, persino poliziotti in borghese.
Cortei e flash-mob nei giorni successivi, quando da un ufficio scendono in
trenta e urlano slogan sotto uno dei palazzi del potere, e la sera quando
migliaia di disoccupati tengono assemblea in mezzo ai turisti che scattano foto,
agli skaters, alle statue viventi del fachiro sospeso in aria, del fantasma, dei
mostri di Alien. C'è Gabriela, studentessa di Belle arti e cameriera per
campare, che non avrà più il presalario. Alba, che insegna Topologia a
Matematica e ti spiega come «il taglio secco dei finanziamenti distruggerà in
un colpo quella struttura della ricerca scientifica che la Spagna si era
faticosamente costruita in trent'anni».
Edgar
e Alberto, 19 e 28 anni, con la maschera bianca degli Anonymous, «1.400
manifestazioni da inizio anno e non vogliono ascoltarci, dopo i tagli allo stato
sociale verranno quelli alla libertà di espressione». Sheila Borreguero, 25
anni, disoccupata da uno, che di socialisti e popolari dice: «Sono cani diversi
con lo stesso collare, quello della Merkel». Il 27 tocca ai taxisti, contro le
liberalizzazioni. Il primo agosto nuova protesta generale. Izquierda Unida e le
Comisiones Obreras, storico sindacato di resistenza al franchismo, e parte
dell'Ugt vicino ai socialisti, chiedono un referendum contro la «frode
elettorale» perpetrata da Rajoy presentandosi con un programma e attuandone un
altro. Per il 25 settembre un volantino annuncia «l'occupazione del Congresso,
per esigere le dimissioni del governo, nuove elezioni e l'apertura di una fase
costituente». Il Congresso è già blindato: le strade di accesso sono chiuse,
i bar in faccia semideserti.
Il
senso di frustrazione e disorientamento, ricostruisce Enric Juliana, uno dei
maggiori editorialisti spagnoli e vicedirettore de "La Vanguardia" (è
suo il volume "La deriva della Spagna"), è quello di «un paese che
per tre quarti del Novecento si è sentito ai margini della storia imbalsamato
in una dittatura anacronistica, poi ha scoperto le libertà civili, il suo posto
in Europa, un boom economico ininterrotto per 15 anni fino al 2007 quando ancora
la crescita era al 3,7 per cento. Fino al tonfo del 2008, quando l'elica s'è
messa a girare alla stessa velocità ma al contrario, e il Pil è finito
sottozero».
Cos'hanno
fatto allora i politici? «Hanno negato. Zapatero ci ha messo un anno a
concedere, in un'intervista, "se proprio lei vuole usare il termine
crisi...". Hanno anestetizzato la società: Rajoy per non allarmare perché
sapeva di vincere le politiche 2011 e sperava di fare il bis in Andalusia nel
marzo di quest'anno. Sì, il ruolo della politica è stato fondamentale nel
provocare il disastro». Che arriva il 9 maggio con il crollo di Bankia,
istituto di credito organicamente legato al Ppe. Repentino e inaspettato
nonostante vi fossero tutti i segnali: fino ad allora non si ricorda un solo
convegno di industriali o Camere di commercio sulla crisi incombente. E ora
tutti a chiedersi: come abbiamo fatto a non capire, a non accorgerci? Alla bolla
immobiliare è seguita quella finanziaria con la crisi americana fino a quella
bancaria, con un'esposizione di 100 miliardi, solo 30 per ora coperti dalla Bce:
bolle meno note, ma non meno devastanti sulle finanze pubbliche, quella delle
tariffe elettriche, speculazione sulle energie alternative che promettevano 8
per cento di interessi ora insostenibili pari a un disavanzo per 30 miliardi nel
solo settore elettrico; e quella degli armamenti, 30 miliardi per la politica di
acquisti di fregate, aerei e tank che si trascina dall'epoca Aznar, il popolare
prima di Zapatero.
Ma
la crisi che le cifre raccontano la vedi per le strade. Una folla di
"Compro oro", i più sudamericani, volantinano anche i bimbi e
spingono i genitori nelle loro botteghe: raccontano che la gente vende oro a
mezzo chilo alla volta, i gioielli di una vita, con le donne che piangono, per
pagare il mutuo: i fortunati ai quali la casa non è ancora stata confiscata e
messa all'asta. Piercing a 9 euro sulla Calle Carmen, perforazione inclusa,
"promoción crisis". Rosa Clara sconta i suoi abiti da sposa. Roulette
deserta in sala giochi sulla Arenal, va solo il Bingo «perché puoi scommettere
anche 10 o 20 centesimi», ti spiega Juan che ci lavora.
La
crisi è ovunque volti la testa. Ma il leit-motiv della protesta è: ci
ingannano! «I soldi ci sono, ma li usano per sé, i loro amici e le banche»,
attaccano al banchetto delle Comisiones Obreras Victor Rodriguez, 41 anni,
minatore di Teruel in sciopero da 55 giorni, e Angel Múnoa, segretario per la
salute delle fabbriche di Madrid. Demagogia, rifiuto di guardare in faccia la
realtà? «Vuole un esempio? Riducendo progressivamente gli aiuti da qui al 2018
come da accordo già firmato, salvare le miniere di carbone costa 196 milioni
l'anno. Rajoy ha tagliato subito gli aiuti del 63 per cento, che significa 8
mila famiglie di lavoratori sul lastrico, 50 mila con l'indotto, la morte per i
paesi che sulle miniere vivono. Però due giorni dopo il Congresso, con i voti
bipartisan di Ppe e Psoe, ha regalato 276 milioni alle cinque società di
gestione delle autostrade che s'irradiano da Madrid: tutte partecipate da banche
vicine o ai popolari o ai socialisti...».
Dunque
è vero, i soldi ci sono e se li intasca la politica per salvare se stessa? «Sì,
il denaro c'è!», e stavolta a dichiararlo col punto esclamativo è, sul
quotidiano in rete "El Plural", un economista emerito come Vicenç
Navarro, ex-rettore a Barcellona, a capo di un network di accademici sullo stato
sociale. Quello slogan poco elegante sulla pioggia? «Dice la verità, il
governo non fa ciò che dovrebbe», riconosce Joaquín Trigo, direttore generale
dell'Istituto di studi economici di Madrid, l'indipendente Iee. Ma che altro
potrebbe fare? «Oh, cento cose. Emettere "bonos" volontari a 5 anni
con interessi al 3-4 per cento, con i quali puoi però pagare tasse e debiti
verso lo Stato; tassare le rendite degli stranieri che hanno case di proprietà
in Spagna e le affittano; tassare le aziende spagnole con sede a Gibilterra
anche se la rocca non è riconosciuta dalla Spagna...». La mannaia vera
dovrebbe però abbattersi, secondo Trigo e molti con lui, sulle autonomie: «Dal
distretto al governo centrale abbiamo sette livelli decisionali, ciascuno dei
quali legifera e controlla. Sa quante pagine di leggi si producono ogni anno,
comprese le direttive europee? Più di un milione! Sa quanto tempo è necessario
per portare un cavallo da corsa da Girona al Portogallo? Sette giorni, perché
ogni comunità autonoma che si attraversa fa la sua ispezione secondo le sue
leggi diverse dalla vicina e con i suoi tariffari...»
Visto
da Madrid, l'enorme potere delle 17 autonomie del paese (tre vere, Catalogna,
Paese Basco, Galizia) sono il bubbone che trascina lo Stato centrale nel
baratro. E la richiesta di "rescate", salvataggio, già avanzata da
Valencia, Murcia e persino dall'orgogliosa Catalunya, probabile per altro
quattro, suona come una campana a morto per l'attuale organizzazione dello
Stato: «Eviteremo il salvataggio, in Spagna non arriveranno a controllare i
nostri conti gli "hombres de negro"», i "men in black"
della troika Fondo monetario-Unione europea-Banca centrale europea, ripete il
ministro delle Finanze Cristobal Montoro, «ma è possibile che noi mandiamo i
nostri "hombres de negro" nelle autonomie». Viste da Barcellona, le
cose stanno all'opposto: lì monta l'ondata indipendentista, oltre il 50 per
cento negli ultimi sondaggi. La crisi può fare da detonatore, la Spagna rischia
di andare in frantumi, chi va in vacanza all'estero si sente come quei
cosmonauti che partirono dall'Unione Sovietica e al ritorno l'Urss era sparita.
Il
dato immediato è la confusione che ormai regna nel governo: prova ne sia il
giallo dell'appello perché l'Unione europea proceda con il fondo salva-Stati,
steso dagli spagnoli e smentito da francesi e italiani. Ma il dato profondo è
il fallimento, morale oltre che di cifre, di un'intera dirigenza politica ed
economica. Sembra di nuovo, all'improvviso, la "Spagna invertebrata"
stigmatizzata da Ortega y Gasset, segnata dall'assenza di una classe dirigente
degna e per questo riconosciuta dalle masse. Certo, Ortega era un conservatore,
parlava di élite, scriveva nel '22. Ma tanto più grave è, la mancanza di
nerbo e di visione, in una democrazia giovane come questa.
In
cima a Calle de Preciados un'anziana elegante violinista, i capelli
impeccabilmente accrocchiati sulla nuca, suona "Non ho l'età" per
qualche monetina dei turisti. Grande paese, dove la forma è sacra e con
chiunque parli ti racconta nei dettagli un pezzo di storia patria, come quella
violinista la Spagna è ora lì senz'altra visibile aspettativa se non che la
signora Merkel apra la borsa.
No a vasectomia e legamento delle tube, ma solo per i buddisti
AsiaNews - Colombo - 31 luglio 2012
Un’organizzazione
di monaci crede che la popolazione buddista sia “a rischio” per colpa di
programmi di pianificazione familiare promossi dal governo. Nessun accenno alle
minoranze del Paese. I buddisti rappresentano il 70% della popolazione dello
Stato.
La
Bodubalasena, un'organizzazione di monaci buddisti, chiede al governo dello Sri
Lanka di abolire vasectomia e legamento delle tube "per far aumentare la
popolazione buddista". Secondo l'associazione infatti, nel Paese le leggi
non proteggono, né salvaguardano, i diritti e l'identità di chi è buddista,
promuovendo invece campagne di pianificazione familiare in cambio di soldi.
Eppure, lo Sri Lanka conta una popolazione totale di oltre 20,2 milioni di
persone, di cui il 70% sono buddisti.
La
Bodubalasena chiede di vietare la sterilizzazione maschile e femminile nel corso
della prima conferenza nazionale del gruppo, tenutasi il 28 luglio scorso al
Bandaranayake Memorial International Conference Hall (Bmich). Oltre a questa
tematica, l'associazione ha affrontato altre questioni, per lo più legate a
proposte nel campo dell'educazione. Tuttavia, le questioni riguardano la sola
comunità buddista, laica e religiosa. Più volte la comunità buddista in Sri
Lanka ha dimostrato di avere "due anime": da un lato, vi sono quanti
cercano il dialogo e l'incontro con le minoranze cristiana e musulmana del
Paese; dall'altro, c'è chi tende a voler "preservare" una posizione
di maggior potere e forze all'interno della società, data dal fatto di
costituire la maggioranza religiosa. Così, il Paese non è nuovo a episodi di
discriminazione - talvolta sfociati in rappresaglie e gesti violenti - da parte
di gruppi e partiti buddisti più radicali. Tuttavia, questa tendenza si associa
a un problema di natura etnica e culturale, che contrappone la popolazione tamil
(12,6%), più povera e concentrata nel nordest dell'isola, a quella singalese
(74%), ricca e diffusa nel resto dello Stato. (MMP)
Matrimonio vietato a coppia di colore in una chiesa del Mississipi
Il Fatto Quotidiano - 29 luglio 2012
Un
prete rifiuta di sposare una coppia perché di colore. E’ accaduto negli Stati
Uniti che votato alla Casa Bianca un presidente nero, Barack Obama.
L'incredibile vicenda è avvenuta a Chrystal Springs. Il prete è stato
minacciato dalla comunità Se avesse celebrato le nozze lo avrebbero licenziato
Un
prete rifiuta di sposare una coppia perché di colore. E’ accaduto negli Stati
Uniti che votato alla casa bianca un presidente come Barack Obama.
L’incredibile vicenda è in Mississippi, uno stato che vive ancora la piaga
del razzismo. La chiesa battista di Chrystal Springs non ha voluto ospitare
Charles e Tè Andrea Wilson che prevedevano di coronare il loro sogno d’amore
lì. Intervistato dalla stampa locale, il reverendo Stan Weatherford ha detto
che in quella chiesa non si è mai celebrato un matrimonio tra persone di colore
da quando è stata aperta nel 1883. Ha aggiunto, inoltre, che i membri della
congregazione bianca si sono opposti in modo cosi virulento al matrimonio della
coppia al punto da minacciare di licenziarlo. Insomma il sacerdote ha ceduto
alle pressioni razziste della comunità. La congregazione ha stabilito che
nessuna coppia nera debba sposarsi in quella chiesa di Crystal Spring – ha
chiarito Charles – e se il pastore avesse celebrato il matrimonio sarebbe
stato cacciato”.
Weatherford,
pastore bianco, si è però offerto di celebrare le nozze in una chiesa non
lontana dove i fedeli neri sono in maggioranza. I futuri sposi prevedevano di
diventare frequentatori abituali della parrocchia battista dopo il matrimonio,
ma sono stati costretti a cambiare programma dopo il secco no da parte della
congregazione. A Charles e Te’ Andrea non è rimasto che fare dietrofront e
comunicare a tutti gli invitati, giunti nel frattempo in chiesa, che il
matrimonio non si poteva fare. Se non altro all’indomani il reverendo
Weatherford ha ugualmente sposato la coppia, però in un’altra cappella. A
spiegare il motivo dello spostamento è stato il neo sposo. “
Il Dpp di Taiwan cerca nuovi sbocchi per la democrazia in Cina
di Wang
Zhicheng
AsiaNews - Pechino - 30 luglio 2012
Il
partito sconfitto alle precedenti elezioni presidenziali ha deciso di riaprire
l'ufficio per i rapporti con la Cina. L'atteggiamento critico verso la
leadership di Pechino potrebbe incontrarsi con le critiche della popolazione
cinese contro la corruzione e le ingiustizie. Taiwan rimane un modello di
democrazia nel mondo cinese.
Il
Dpp (Democratic Pregressive Party), sconfitto alle ultime due tornate elettorali
presidenziali, ha deciso di rafforzare i suoi legami con i cinesi della Cina
popolare riaprendo il "Dipartimento per gli affari della Cina", chiuso
nel 2007. Alcuni esperti, guardando alla politica interna dell'isola, dicono che
il partito non guadagnerà più voti. Ma altri, anche in Cina, pensano che il
Dpp potrebbe aiutare lo scontento dei cinesi in madrepatria a premere per una
maggior democrazia.
Lo
scorso 25 luglio, Su Tseng-chang, presidente del Dpp, ha proposto la riapertura
dell'Ufficio per gli affari cinesi e il comitato centrale del partito l'ha
approvata. L'ufficio era stato chiuso nel 2007, inserito nel dipartimento degli
affari internazionali, per sostenere l'idea dell'ex presidente Chen Shuibian
secondo cui Taiwan e Cina sono due nazioni separate con la loro specifica
sovranità sui due lati dello Stretto. Pechino ha sempre combattuto ogni
idea di indipendenza di Taiwan che per essa rimane una "provincia
ribelle", ma sempre parte della Repubblica popolare cinese.
I
tentativi di indipendenza dell'isola sono stati boicottati dalla Cina con
minacce di invasione armata e penalizzazioni sul commercio, tanto che nel 2008
Chen Shuibian ha perso le elezioni a favore di Ma Ying-jeou, appoggiato dalla
comunità dei businessmen, fautore di un approccio più amichevole e all'interno
del quadro di una "unica Cina" (e non "due nazioni" ai lati
dello Stretto).Secondo alcuni esperti taiwanesi, la mossa della riapertura
dell'ufficio, serve al Dpp a ricalibrare la sua politica verso il grande vicino,
abbassando i toni di sfida usati nel passato. Ma vi sono anche esperti in Cina e
a Taiwan che vedono nell'atteggiamento di critica verso la leadership di Pechino
una grande possibilità per il Dpp. All'interno della Repubblica popolare il
malcontento della popolazione ha raggiunto livelli altissimi, producendo
rivolte, scioperi, dimostrazioni e critiche su internet. Il Dpp potrebbe aiutare
tutto questo malcontento e incanalarlo verso una richiesta di maggiore
democrazia in Cina. Tali esperti fanno notare che Taiwan è l'unico esperimento
di piena democrazia nel mondo cinese e di fatto funge da modello per molti.
Perfino i turisti che dalla Cina vanno a Taiwan passano le sere a guardare i
dibattiti politici alla televisione: una cosa mai vista nella madrepatria.
Il
Dpp potrebbe anche essere sostenuto da altri Paesi dell'area: la presuntuosa e
brutale affermazione di sovranità della Cina su territori contesi nel Mar
Cinese e nel Mar Giallo, sta rendendo aspri i rapporti di Pechino con
Giappone, Corea del Sud, Filippine, Vietnam.
Una epidemia di Ebola uccide 13 persone
Repubblica
- 30 luglio 2012
La
febbre emorragica affligge il paese dell'Africa orientale, denuncia
l'Organizzazione Mondiale della Sanità . Gli sforzi si stanno concentrando per
impedire al virus di dilagare e coinvolgere ampi strati della popolazione. Il
focolaio a Kibale, circa 160 km ad ovest di Kampala
Un
focolaio del virus mortale di Ebola ha già ucciso 13 persone in Uganda e si sta
cercando in tutti i modi - fanno sapere dall'Organizzazione Mondiale della Sanità
2- di evitare che la febbre emorragica dilaghi. Non esiste alcun trattamento o
un vaccino contro l'Ebola, che si trasmette a stretto contatto personale e, a
seconda del ceppo, uccide fino al 90% di coloro che contraggono il virus.
Finora
l'epidemia è stata sottovalutata. Joaquim Saweka, rappresentante dellOms in
Uganda, ha detto che, sebbene le infezioni sospette di Ebola sono emerse ai
primi di luglio nel distretto di Kibale, circa 160 chilometri a ovest della
capitale Kampala, l'epidemia non è stata considerata tale fino a venerdì
scorso. "Ci sono al momento 20 persone sospettate di aver contratto l'Ebola
e 13 di loro sono morti", ha detto Saweka. "Un team di esperti del
governo ugandese, l'OMS e il CDC (US Centers for Disease Control 3) sono ora in
campo nel tentativo di affrontare tutti i casi sospetti e quelli che con loro
hanno avuto, anche solo occasionalmente dei contatti".
I
sintomi. Kibale è vicina alla Repubblica Democratica del Congo (RDC), dove il
virus è emerso nel 1976, prendendo il nome dal fiume Ebola. I sintomi includono
l'insorgenza improvvisa di febbre, debolezza intensa, dolori muscolari, mal di
testa e mal di gola, seguiti da vomito, diarrea, eruzioni cutanee, insufficienza
renale e la funzione del fegato ed emorragie sia interne che esterne. Ebola
stata avvertita l'ultima volta in Uganda, nel maggio dell'anno scorso, quando
uccise una ragazzina di 12 anni. L'epidemia più devastante del paese c'era
stata nel 2000, quando 425 persone erano state contagiate, più della metà
delle quali sono morte.
Madre di una dissidente cattolica si dà fuoco. Ira e sconcerto fra i
vietnamiti di J.B. An Dang
AsiaNews - Hanoi - 31 luglio 2012
Dang
Thi Kim Lieng si è auto-immolata davanti agli uffici governativi della
provincia meridionale di Bac Lieu. La figlia Maria Ta Phong Tan, ex poliziotta
convertita al cristianesimo, è in carcere in attesa di processo. Rischia fino a
20 anni di galera per propaganda contro lo Stato. Attivisti per i diritti umani
e blogger: accuse pretestuose.
La
comunità cattolica vietnamita è sotto shock per la morte di Dang Thi Kim
Lieng, madre di Maria Ta Phong Tan (nella foto), famosa dissidente in carcere in
attesa di processo e che rischia fino a 20 anni di prigione. La donna si è data
fuoco di fronte agli uffici governativi nella provincia meridionale di Bac Lieu,
per protestare contro gli abusi delle autorità che tengono in prigione la
figlia privandola dei diritti di base. Il decesso causato dalle gravi ferite
inferte dalle fiamme ha scatenato la reazione di molti blogger del Paese, che
puntano il dito contro il partito comunista e i leader di governo colpevoli di
attuare una politica di repressione e di violare in modo sistematico la libertà
di religione e di pensiero, con accuse pretestuose fra cui "propaganda
contro lo Stato".
Senza
dire nulla a parenti e amici, Dang Thi Kim Lieng si è diretta verso gli uffici
governativi della provincia di Bac Lieu e si è auto-immolata. Attivisti e
avvocati che si battono per i diritti umani in Vietnam raccontano che la donna
è morta durante il trasporto all'ospedale di Ho Chi Minh City. Tuttavia, né
polizia né autorità ufficiali hanno voluto rilasciare commenti sulla vicenda o
confermarne la dinamica. Alcuni parenti riferiscono che Dang di recente appariva
molto preoccupata per la sorte della figlia Maria Ta Phong Tan, rinchiusa in un
carcere della ex Saigon, che non vede dal settembre scorso, data del suo
arresto. Per la polizia è colpevole di attività "sovversiva" e di
scritti "infamanti" pubblicati in rete, che gettano discredito sul
governo di Hanoi e il partito comunista.
Il
dibattimento in aula contro Maria Tan, 44 anni, dovrebbe iniziate il prossimo 7
agosto e vi sono concrete possibilità che sia condannata a decine di anni di
galera. La donna è un ex poliziotta molto conosciuta in Vietnam, perché ha
denunciato in rete abusi e storture del sistema carcerario. Nei suoi confronti
pesa anche la decisione di convertirsi al cattolicesimo, dopo essere trascorso
un'adolescenza e un'infanzia caratterizzate da continui "lavaggi del
cervello" dei funzionari locali del partito per inculcarle l'ideologia
comunista. Tuttavia, l'incontro con un avvocato e attivista per i diritti umani
le ha fatto riscoprire un desiderio di fede che, nel tempo, l'ha spinta al
battesimo.
Il
governo vietnamita attua un controllo serrato sulle attività religiose e spesso
i cattolici sono vittime di violenze e abusi, sia a livello di singoli individui
che di intere comunità. Fra i molti esempi vi sono i montagnard negli altipiani
centrali e i padri Redentoristi, ad Hanoi e Ho Chi Minh City, il cui impegno
pastorale viene soffocato con sistematica regolarità. Tuttavia, le violenze non
hanno impedito loro di svolgere un ruolo fondamentale per la diffusione del
cattolicesimo e della dottrina della Chiesa, in particolare fra i poveri e gli
abbandonati