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Estratti da: Silvia Arnolfi, Andrea
Filpa, L’ambiente nel piano comunale. Guida all’éco-management
nel PRG, Il Sole 24 ore, Milano 2000 (cap. 8, Sistema del verde;
cap. 9, Paesaggio e reti ecologiche, pp. 161-182)
Indice: La
trama verde o l’affermarsi del verde urbano come sistema; La
cintura verde, o la campagna come argine all’espansione urbana; I
cunei verdi, o l’insinuazione della campagna nel cuore della città;
La
collana di smeraldi, o l’ambiente naturale come generatore del fatto urbano;
Il
tappeto verde della città funzionalista; La
città ecologica, o l’ambiente come strumento di riqualificazione
urbana e territoriale; Paesaggio
e reti ecologiche.
Le rappresentazioni metaforiche del
sistema del verde come guida per la pianificazione territoriale
L’apparire della nozione di un sistema
del verde da leggersi alla scala dell’area metropolitana favorisce la fuoriuscita
da una visione di parchi e giardini come forme simboliche dotate di una
capacità allusiva universale all’interno della dialettica “natura
come modello da imitare - natura come materia prima da plasmare”, a vantaggio
delle più attuali tematiche connesse al sistema del verde (e all’intero
ambiente naturale) come fatto oggettivo; luogo dello svolgersi dei cicli
biologici e della continuità fisica tra le “categorie tipologiche”
di verde ereditate dalla storia moderna e contemporanea (giardini storici,
parchi ottocenteschi, parchi archeologici, giardini di quartiere, giardini
privati, verde agricolo, aree verdi dedicate alle attività sportive,
cinture verdi periurbane, viali alberati, fasce di verde fluviale ecc.).
La
trama verde o l’affermarsi del verde urbano come sistema
L’affermarsi del concetto di sistema del
verde può essere fatto risalire alla metà dell’Ottocento,
quando al parco come occasione di ulteriore abbellimento dei quartieri
privilegiati o di parziale rimedio alle precarie condizioni igieniche e
sociali dei quartieri popolari degradati si sostituisce l’idea di verde
urbano come parte integrante (e spesso “strutturante”) delle città
in rapida espansione. Questa nuova concezione si concretizza per la prima
volta nel sistema del verde pubblico di Parigi, più tardi fatto
coincidere (nello Schema directeur del 1976) con la “trama verde”
dell’agglomerazione centrale; cuore di un sistema ben più vasto
articolato in quattro anelli concentrici a comprendere tutta la regione
dell’Île de France (Plan Vert).
La trama verde di Parigi viene realizzata
a partire dal 1854, anno in cui l’ingegnere Adolphe Alphand viene posto
alla guida del Service de Promenade et de Plantations de Paris.
Affrancato da ogni occasionalità, il verde costituisce parte integrante
della “macchina urbana moderna” e, in particolare, del programma di modernizzazione
urbana concepito dal prefetto Haussmann con un approccio globale e sistematico.
I problemi igienici, estetici, di ordine pubblico e di trasporto che affliggevano
Parigi poco prima dell’ascesa al trono di Napoleone III vengono affrontati
per la prima volta in modo coordinato, e vengono in buona parte risolti
grazie alla realizzazione di un sistema reticolare diffuso fondato sulla
coincidenza - nelle sue parti “strutturanti” - tra infrastrutture per la
mobilità, infrastrutture tecnologiche (fognarie e di approvvigionamento
idrico) e sistema del verde, pressoché fuso col primo; i giardini
si integrano nell’impianto viario e nello stesso spazio stradale, proprio
come le reti tecnologiche.
Sul piano dell’innovazione concettuale,
si assiste all’apparire di nozioni quali “verde pubblico”, “verde come
attrezzatura urbana”, “tipologia di verde”, “verde pianificato”:
-
- verde pubblico come parte integrante della
più generale nozione di spazio pubblico, ossia di luogo che, proprio
in quanto di uso collettivo, deve essere caratterizzato da un disegno unitario
e razionale, emblematico della nuova epoca nella quale i principi dell’illuminismo,
forti dei notevoli progressi della scienza e della tecnica, riformano finalmente
lo spazio urbano;
-
- verde come attrezzatura urbana (pubblica)
ossia spazio ricreativo cui si provvede non più a titolo filantropico
ma per una precisa volontà politica;
-
- tipologie di verde, tendenti a soddisfare
l’intera gamma dei vecchi e nuovi “bisogni” dei cittadini (boulevard, square,
parco urbano, parco periurbano);
particolarmente innovativo risulta l’apparire
dei primi esempi di verde a scala territoriale (il Bois de Boulogne e il
Bois du Vincennes) come inevitabile estensione al grande spazio libero
periurbano del disegno di piano unitario e razionale della Parigi moderna;
- verde pianificato in quanto derivante
dall’attuazione sistematica di un piano realizzato e gestito secondo una
logica programmatoria, favorita dalle particolari condizioni politico-amministrative
dell’epoca.
Si tratta, dunque, di una costruzione
del verde urbano sostenuta dall’efficienza municipale e improntata a una
rigorosa matrice logica, originante spazi percorribili, regolari, luminosi
e attrezzati a sostenere l’impatto dei legittimi utenti; in questo senso,
notevolmente differenziata dalle contemporanee esperienze inglesi, tendenti
al conservazionismo naturalistico e all’empirismo operativo di stampo romantico.
La
cintura verde, o la campagna come argine all’espansione urbana (torna
all'Indice)
Il concetto di green belt (cintura
verde) nasce in Gran Bretagna agli albori del XX secolo come componente
fondamentale del modello insediativo noto come garden-city, messo
a punto da E. Howard.
Nella visione di Howard, il sistema del
verde della città giardino doveva essere caratterizzato, oltre che
da una notevole quantità di verde privato di pertinenza dei singoli
alloggi, da un parco centrale, da grandi strade-parco e da una cintura
verde di contenimento dell’espansione urbana, funzionale anche alla produzione
agricola, alla ricreazione, all’estetica e al mantenimento di quell’equilibrio
ambientale che inizia a essere - seppure ancora su basi intuitive - percepito
come indispensabile.
Lo stesso rapporto tra natura e città
muta radicalmente. L’area di verde non si configura più come spazio
vuoto residuo all’interno della trama edilizia cittadina; coincide piuttosto
con l’ambiente entro il quale si collocano gli edifici; un ambiente opportunamente
articolato secondo una gamma di “gradazioni di naturalità”. Nella
città-giardino era sufficiente interrompere la continuità
urbana attraverso la definizione del bordo interno della cintura verde,
lasciando che quello esterno si perdesse nella campagna circostante, a
testimoniare la continuità ambientale del territorio urbano ed extraurbano;
successivamente, quando si affermerà la tendenza a una replica indifferenziata
e sistematica del modello insediativo a bassa densità e quando si
renderà necessario contrastare i fenomeni di inurbamento massivo
tipici del secondo dopoguerra, la green belt assume uno spessore e quindi
un bordo esterno. Questo passaggio avviene in occasione della redazione
del Piano per la Grande Londra da parte di Patrick Abercrombie nel 1944,
grazie al quale una fascia anulare di aree agricole e boscate profonda
8 km - la Green Belt - viene vincolata all’inedificabilità.
La Green Belt si configura come terzo anello di una serie concentrica
che, a partire dal nucleo della città compatta (coincidente con
il centro di Londra) procedeva con un secondo anello di suburbi per finire
con la campagna più esterna (quarto anello), dove era prevista la
realizzazione di città satelliti (new towns).
La metafora della cintura verde, pur subendo
leggere diversificazioni del contenuto, si conferma come immagine forte
in grado di sopravvivere, in virtù della sua pregnanza intrinseca,
ai leggeri slittamenti di senso che le vengono imposti: dalla sua formulazione
originale di “negativo” della città giardino, fino al suo affermarsi
come punto di riferimento della terminologia e della modellistica urbanistica
di livello internazionale in relazione allo sviluppo dell’idea di decentramento
in città satelliti come soluzione ai problemi indotti dal gigantismo
urbano (sostenuta da Unwin).
I
cunei verdi, o l’insinuazione della campagna nel cuore della città
(torna
all'Indice)
La nozione di cuneo verde si sovrappone
parzialmente a quella di “fasce” lineari di verde” cui, secondo progettisti
quali Forestier e Stübben, era delegato il compito di assicurare la
continuità tra paesaggio extraurbano e parchi cittadini. La differenza
sta nell’assumere come esclusiva la dimensione radiale, caratterizzata
da: una “punta” che si incunea nel cuore cittadino; un corpo lineare ma
“svasato” cui corrispondono spessori gradualmente crescenti all’allontanarsi
dal centro; una “coda” che si espande fino a identificarsi con la campagna
circostante.
La prima formulazione teorica di un sistema
del verde organizzato secondo il modello dei cunei verdi avviene, quasi
contemporaneamente, nella Germania e nell’Inghilterra degli anni Dieci.
In Germania i diagrammi radiocentrici
di Rud Eberstadt (1911) e di Martin Wagner (1919) illustrano rispettivamente
“cunei verdi che interrompono l’espansione urbana” e “zone di influenza
dei boschi urbani nella ristrutturazione di Berlino”. Non appena terminato
il primo conflitto mondiale, tali schemi costituiranno il riferimento per
il gigantesco programma di ristrutturazione della città di Berlino,
basato sulla realizzazione di un sistema integrato di trasporto pubblico
e di verde. Centinaia di ettari di volkspark (parchi del popolo)
disposti a raggiera lungo l’anello periferico si aggiungono alla preesistente
cintura verde e sono resi raggiungibili in tempi molto ridotti dalla grande
maggioranza della popolazione. Gli stessi tracciati ferroviari del trasporto
di massa costituiscono un’occasione per la creazione di cunei verdi, in
quanto disposti “in trincea”, e quindi non interferenti con la fruizione
trasversale della città.
Nel frattempo, in Gran Bretagna, Patrick
Geddes - una formazione universitaria da biologo, arricchita da successivi
studi nel campo socioeconomico - sta elaborando una visione organica dell’insediamento
umano che prelude alla attuale sensibilità ecologista. Nel 1915
pubblica il volume Città in evoluzione, nel quale prefigura
un capovolgimento del rapporto città/campagna efficacemente reso,
in termini diagrammatici, dal celebre schema del 1917, dove quelli che
sembravano spazi connettivi di un sistema reticolare proiettato all’esterno
diventano forme “in positivo” convergenti al centro. Alla campagna è
dunque affidato il ruolo attivo di condizionamento della città attraverso
“cunei verdi” che si inseriscono nell’abitato.
All’evoluzione della linea di ricerca
tendente a incuneare il verde nella città compatta per metterla
in comunicazione col territorio aperto, afferisce uno dei piani urbanistici
più avanzati del secondo dopoguerra: il Finger Plan o “Piano
delle cinque dita”, redatto nel 1947 per la città di Copenaghen.
Come per il Piano della Grande Londra, si intende salvaguardare la presenza
del verde diffuso attraverso l’applicazione di standard e accorpare gli
spazi naturali di maggiore dimensione in grandi sistemi; questa volta,
però, utilizzando forme radiali e non anulari.
Ad analoghe configurazioni spaziali giungono
anche i progettisti delle new towns inglesi, nelle quali i cunei
di verde stabiliscono la continuità tra città e campagna
interrompendo le sequenze edificate. In particolare, nella new town
di
Harlow, pianificata da un gruppo di cui fanno parte gli architetti paesaggisti
Sylvia Crowe e Bodfan Gruffydd, adotta esplicitamente i tracciati delle
strade e dei corsi d’acqua come assi lungo i quali il paesaggio agricolo
e boscato circostante fluisce fin nel cuore della città, integrato
da un sistema capillare di percorsi pedonali. Altro elemento di grande
efficacia è la scelta delle essenze arboree, selezionate e disposte
in modo tale da annullare praticamente la differenza tra verde urbano ed
extraurbano.
Anche le villes nouvelles francesi,
realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta (Firminy-Vert, Toulouse le Mirail),
adotteranno come struttura portante il sistema ambientale fuso con quello
della mobilità, del resto già di haussmanniana memoria.
Il successo di questo modello non deve
però far dimenticare le aspre critiche di cui è stato oggetto.
Camillo Sitte, convinto difensore dei valori della civiltà urbana
mediterranea, parlò di “usanza ridicola di alberare i viali urbani”,
inaugurando un atteggiamento destinato a essere condiviso da numerosi altri
assertori della mancanza di configurazione urbana insita nella bassa densità
abitativa e nell’eccessiva permanenza di spazi verdi nel panorama edilizio.
La
collana di smeraldi, o l’ambiente naturale come generatore del fatto urbano
(torna
all'Indice)
Mentre in Europa, e segnatamente in Gran
Bretagna, sopravviveva la concezione di parco urbano come adattamento del
giardino paesaggistico inglese a rimedio per i nefasti riflessi che lo
sviluppo dell’economia industriale stava i causando sulla salute degli
abitanti della città, negli Stati Uniti si fa strada una concezione
“produttiva” degli investimenti in attrezzature sociali urbane, in quanto
direttamente connessi all’incremento della rendita fondiaria delle aree
circostanti.
Il primo caso nel quale si manifesta chiaramente
la validità di questa equazione dell’economia urbana è la
realizzazione, verso la metà del 1800, del Central Park della città
di New York, ad opera dell’agronomo e intellettuale riformista Frederick
Law Olmsted in collaborazione con l’architetto Calvert Vaux. Olmsted, destinato
a divenire, nel 1857, sovrintendente della Park Commission della
città, rappresenta anche uno dei primi esponenti di una specializzazione
professionale inedita - la landscape architecture - funzionale proprio
alla altrettanto inedita visione del verde urbano come “strumento per lo
sviluppo”. L’attualità della visione di Olmsted non spicca solo
in relazione a quella dei suoi contemporanei: bisognerà aspettare
a lungo, per esempio, perché in Italia si affermi l’idea di sottrarre
il verde urbano al dominio esclusivo della “standardizzazione quantitativa”
e di affidare ad esso una funzione strategica nei processi di riqualificazione
urbana.
Un altro aspetto di estrema attualità
concerne il carattere dell’idea stessa di pianificazione: rinunciando in
partenza all’ipotesi di governare la crescita urbana con un solo strumento
onnicomprensivo e atemporale, questa viene pensata come “una successione
di interventi attuati realizzando porzioni compiute di città, frutto
congiunto della azione privata e di quella pubblica, in funzione delle
esigenze del momento e delle regole del mercato”.
In una realtà territoriale caratterizzata
dai nascenti sistemi metropolitani, il “sistema ambientale/parco urbano”
americano, integrato alla rete dei trasporti, si configura immediatamente
come struttura portante del processo di formazione della città.
Trattandosi di un ambiente ancora dotato dei caratteri originari (e non
di spazi prevalentemente agricoli strappati al dilagare delle attività
insediative e produttive urbane per fare ad esse da argine, come in fondo
sarà ancora, novanta anni dopo, la Green Belt londinese),
gli elementi fisici, morfologici e vegetazionali peculiari del territorio
vengono conservati nella loro continuità e valorizzati proprio a
partire dalla loro capacità di connotazione del luogo; sensibilità
che le esperienze urbanistiche e territoriali europee assimileranno
con estrema lentezza, e spesso quando la continuità ambientale sarà
ormai definitivamente compromessa.
La metafora della “collana verde” (emerald
necklace) espressiva proprio della successione di luoghi naturali significativi
collegati da una fascia di verde e infrastrutture lineari di trasporto
nasce con il progetto che lo stesso Olmsted realizza compiutamente - per
quanto si possa parlare di compiutezza in un sistema per sua natura “aperto”
- a Boston nel ventennio 1873-1893.
L’Emerald Necklace di Boston, che
interessava in realtà diciannove municipalità, si configura
come un sistema continuo (park-system) di parchi, spazi verdi per
il gioco, riserve naturali, strade-parco (parkways) che mette in
comunicazione il centro della città con i quartieri meridionali
e il territorio non urbanizzato, conferendo a Boston una struttura urbanistica
estremamente moderna nonché una pregevole qualità ambientale.
La validità di questo modo di intendere
il verde in città - o meglio, gli insediamenti umani nell’ambiente
naturale - risiede principalmente nello schema continuo, flessibile e aperto
di spazi verdi differenziati; la strutturazione della città futura
a partire dal sistema ambientale e, in particolare, dalla conservazione
delle emergenze naturali in tutta la loro diversità (nel caso di
Boston: sponde fluviali, rilievi collinari, porzioni di campagna e isole
della baia), contribuisce, come del resto anche la lezione del migliore
paesaggismo inglese, alla formazione di identità culturale della
comunità che in quei luoghi si va insediando, con risvolti positivi
anche sul piano antropologico e sociologico.
La lezione di Olmsted assume ben presto
la scala metropolitana-regionale come privilegiata e si diffonde rapidamente
nelle grandi città degli Stati Uniti (nella stessa conurbazione
bostoniana un allievo di Olmsted - Eliot - dilaterà il park-system
fino
a coinvolgere venticinque amministrazioni), andando a costituire la base
del filone ideologico dell’American Park Movement, fautore di uno
sviluppo urbano calato nella realtà naturale.
Tra i primi sostenitori europei dei park-systems
americani
troviamo, nella Parigi del ventennio precedente il primo conflitto mondiale,
Jean-Claude Nicolas Forestier. Allievo e collaboratore di Alphand, Forestier
amplifica a scala territoriale la gerarchizzazione del verde operata dal
maestro e propone anche in Europa il passaggio alla scala regionale nella
pianificazione delle aree verdi. Questo gli appare, infatti, l’unico espediente
per neutralizzare le limitazioni che fittizi perimetri amministrativi impongono
all’equilibrato espandersi delle città. Propugna infatti l’estensione
del sistema del verde a più città, a più dipartimenti,
alla nazione intera, fino a prefigurare l’ingresso di più nazioni
nel sistema.
Tra i contributi teorici più significativi
di Forestier, l’idea di “introdurre la campagna in città” attraverso
un’evoluzione del boulevard di haussmaniana memoria: strade-parco
(o parchi-passeggiata ) percorse dal trasporto pubblico che collegano le
diverse tipologie gerarchiche di spazi verdi urbani, sia tra loro sia con
le località ricreative e di servizio della campagna periurbana (boschi,
cimiteri, luoghi termali ecc.).
Come sopra accennato, la lezione di Olmsted
contribuisce al rilancio e al rinnovamento della scuola paesaggistica inglese,
grazie all’estensione del campo d’azione alla totalità dell’intera
conurbazione metropolitana.
L’intenzione di conservare le caratteristiche
originarie del sito (una volta divenuto città) porterà ben
presto i landscape architects a costruire la città nuova
direttamente a partire dalla ricerca di un legame organico con i caratteri
e la preesistenza del luogo, avvalendosi, oltre che della tradizione paesaggistica,
con le sue evoluzioni in termini di site planning, townscape
ecc., della lezione di Patrick Geddes.
Ambiente e paesaggio assumono ormai il
ruolo di elementi generatori del progetto urbano, garantendo ad esso una
notevole originalità rispetto a schemi e modelli standard dell’epoca,
nonché una spiccata specificità rispetto al verde indifferenziato
(quando non incolto) che avrebbe a lungo caratterizzato la città
funzionalista europea. La strada-parco, inoltre, in quanto garanzia di
continuità dell’ambiente naturale urbano e di contatto di questo
con i “serbatoi naturali” esterni, può essere considerata antesignana
del moderno corridoio biologico, tema centrale dell’attuale ecologia urbana.
Il
tappeto verde della città funzionalista (torna
all'Indice)
Dall’affermarsi del Funzionalismo e, con
esso, dell’urbanistica come disciplina autonoma, consegue il concetto polivalente
di verde urbano come oggi lo intendiamo (sinonimo di parco ma anche di
giardino, viale, campo sportivo, area giochi ecc.). Lo spazio verde non
si qualifica più per la sua specifica identità, o per il
tipo di estetica di cui si fa portatore, bensì per le funzioni che
è in grado di svolgere. Le stesse espressioni “verde sportivo” o
“verde di rispetto” riportate nelle legende dei moderni piani urbanistici
risentono ancora direttamente di questo clima culturale.
Ricerche già molto avanzate sulla
classificazione delle tipologie del verde e sulla determinazione di standard
quantitativi, come quelle condotte da Joseph Stübben nella Germania
di fine secolo e poi da Martin Wagner, vengono inglobate e sviluppate nell’ambito
del corpus disciplinare dell’urbanistica, ed entrano a far parte
del retroterra culturale degli architetti urbanisti del periodo interbellico.
L’urbanistica stessa è percepita come nuova chiave per un approccio
corretto alla città moderna: una città intesa ormai come
nuovo e complesso spazio da organizzare in funzione del rapido inurbamento
di uomini con bisogni nuovi e di attività con esigenze nuove.
Le Corbusier può essere considerato
il primo teorico del verde come piano di supporto continuo della città
moderna, come fosse un “tappeto verde”. Tale continuum ambientale
è inteso, nella migliore tradizione funzionalista, come mera attrezzatura
diffusa, espressiva solo di sé stessa e non più di un’idea
di natura e del rapporto di questa con l’uomo. La prima massiccia manifestazione
della concezione del verde urbano come sistema di attrezzature risale,
in realtà, al progetto (non realizzato) presentato da Patrick Geddes
per il concorso indetto, nel 1903, per la ristrutttlrazione del centro
urbano della città scozzese di Dumfermline. Geddes propone un parco
ricco di ogni genere di attrezzatura (giardini tematici, uno zoo, un teatro
all’aria aperta, un complesso di campi da gioco, quattro musei, un acquario,
una sala da musica ecc.). La parte del progetto più riuscita era
il collegamento del centro della città attraverso un sistema di
giardini, piazze, edifici pubblici, strade-parco ecc. allo spazio verde
cittadino (realizzato da Paxton) e a zone urbane diverse.
Le nuove condizioni culturali, oltre che
socio-economiche, nelle quali gli urbanisti si trovano a operare determinano
sovente la mancanza di identità della città di nuova costruzione
(o ricostruzione) che si vanno irrimediabilmente omogeneizzando a colpi
di zoning.
Tale perdita di identità si riflette
indubbiamente sulla concezione del verde urbano, ormai sottratto definitivamente
alle cure di quei “professionisti del verde” che avevano popolato, fino
alla prima guerra mondiale, gli uffici tecnici delle amministrazioni e
le istituzioni culturali di riferimento. Il verde, seppure teoricamente
posto tra i principali vantaggi offerti - insieme alla luce, all’aria e
alla distribuzione razionale - della Ville Verte o della Ville
Radieuse di Le Corbusier, subisce una tale perdita di qualità
(specie nelle città dell’Europa meridionale dove meno consolidata
è la sensibilità naturalistica) da perdere anche i connotati
di “attrezzatura urbana”, a vantaggio di quelli di “vuoto urbano”, privo
dunque non solo di identità ma anche di funzionalità.
Tuttavia, quando applicate coerentemente,
le proposte del Movimento Moderno consentono realizzazioni di grande successo,
come nel caso - generalmente acclamato come esemplare - dell’ Amsterdam
Bos (dal nome del direttore del dipartimento municipale dei lavori
pubblici della città olandese). A.W. Bos predispone, tra il 1924
e il 1926, uno “Schema di piano per la Grande Amsterdam” nel quale figura
la creazione di una foresta di 900 ettari su un’area sottratta alle acque
dei polder nella parte meridionale della città. Alla commissione
di studio del progetto partecipano ingegneri, architetti e paesaggisti,
ma anche biologi, botanici e sociologi.
Nella realizzazione dell’Amsterdam
Bos vengono introdotti diversi fattori innovativi; innanzitutto si
afferma la sensibilità all’ecologia, che ispira scelta e composizione
delle essenze vegetali e il disegno ambientale in genere; dal nascente
pensiero funzionalista discende l’attenta calibrazione di spazi ricreativi,
percorsi differenziati e attrezzature (presenti in grande quantità),
in previsione di accogliere tra le 70.000 e le 100.000 persone al giorno
nei mesi estivi. Dalla stessa matrice culturale deriva l’applicazione dei
principi della separazione dei traffici (in percorsi pedonali, itinerari
per equitazione, piste ciclabili, corsi d’acqua artificiali per le canoe)
e dello zoning in funzione dei diversi usi previsti; principi che venivano
contemporaneamente messi a punto nei piani urbanistici veri e propri (il
piano di Amsterdam di Van Eesteren, verrà elaborato contemporaneamente
e in piena sintonia col grande “parco pianificato”).
Il contributo più importante che
il progetto dell’Amsterdam Bos offre alla cultura del “verde urbano”
sembra consistere proprio nel suo essere parco pianificato, ovvero costruzione
dello spazio urbano inserita in una strategia territoriale ed economica
di lungo periodo sul quale, in quanto importantissima opera pubblica, converge
il meglio della cultura scientifica e della capacità tecnologica
del paese.
Tributario in parte della migliore cultura
funzionalista, in parte della lezione di Olmsted, appare il sistema del
verde previsto dal Piano di Stoccolma del 1952. Della prima è chiaramente
identificabile il principio del verde come presenza diffusa ed elemento
connettivo dell’ambiente urbano, col suo corollario di attrezzature integrate
a quelle della città (per esempio, prati per spettacoli all’aperto
attrezzati con strutture sceniche permanenti e luoghi di incontro attrezzati
vari); dalla seconda deriva un certo gusto paesistico per le emergenze
naturalistiche del territorio che vengono esaltate al massimo, pur con
soluzioni sempre improntate a un’estrema semplicità.
Il risultato è che il variegato
sistema di parchi, affioramenti granitici, boschi di pini e betulle, isole
e di bracci di mare (Stoccolma, si ricorda, sorge su un arcipelago frastagliatissimo)
razionalmente innervato dalle infrastrutture lineari e ricco di attrezzature,
diviene il vero tessuto connettivo dell’impianto urbano: spazio della vita
civile (accanto alle attrezzature per la socializzazione appaiono, per
la prima volta, musei naturali didattici all’aria aperta) ma anche spazio
della soddisfazione del bisogno individuale di contatto con la natura,
vissuto ormai anche come compensazione della rigidità che le forme
di produzione moderne impongono alla vita quotidiana.
La
città ecologica, o l’ambiente come strumento di riqualificazione
urbana e territoriale (torna
all'Indice)
I primi accenni di strutturazione in senso
ecologico della dialettica (tradizionalmente pervasa di estetismo) tra
naturalismo e urbanesimo compaiono nella Germania della metà dell’Ottocento,
stimolati dal manifestarsi dei primi nefasti effetti collaterali dell’indiscriminato
sfruttamento economico del territorio. Si deve, infatti, a un biologo tedesco
- Ernest Haeckel - la definizione, nel 1866, dell’ecologia come “disciplina
mirante a indagare le relazioni che si instaurano tra organismi viventi
e il loro ambiente vitale”.
L’ecologia introduce così una più
generale nozione di ambiente, cui corrisponde il riavvicinamento operativo
tra discipline diverse al fine di comprendere le complesse interrelazioni
da cui si intuisce dipendere la sopravvivenza di quelli che ormai si possono
definire ecosistemi. Il verde urbano appare ancora come elemento strutturante
della città, ma in quanto sostrato vivente dell’ecosistema urbano
e non più solo in quanto matrice formale o funzionale del disegno
della città.
Negli anni Trenta, il biologo olandese
Jacob P. Thijsse teorizza e promuove la creazione dei primi giardini ecologici
nel senso che attualmente si attribuisce a questo aggettivo. A lui sarà
intitolato il primo parco pubblico esplicitamente ecologico - il Thijsse
Park di Amstelveen - nel quale la scelta delle associazioni vegetali è
direttamente ispirata agli ambienti naturali della torba e della brughiera.
A partire dagli anni Cinquanta si utilizzano
direttamente le tecniche dell’ecologia naturalista ecosistemica per trattare
il “metabolismo dei sistemi urbani” con un approccio quantitativo (Paul
Duvigneaud). L’americano Eugene Odum estende questa direzione di ricerca
fino a comparare i flussi di una città con quelli di un lago; all’estremo,
la “ecologia fattoriale” privilegia l’analisi matematica dei diversi parametri
della città (Racine); ma il sostenitore dell’integrazione di parametri
ecologici nella gestione e pianificazione del territorio destinato ad avere
la maggiore eco resta l’americano Ian McHarg, col suo libro cult Design
with Nature.
La figura centrale del filone ecologista
puro, rinvigorito dai movimenti di contestazione degli anni Sessanta, è
l’olandese Louis Le Roy, pittore e progettista ecologico self-made. A partire
da una sfiducia profonda nell’urbanistica funzionalista, responsabile della
spartizione del territorio in “monocolture agricole e monocolture urbane”
e della perdita di naturalità del verde in esso contenuto, Le Roy
propone un “paesaggio di verde urbano intermedio” fatto di percorsi e spazi
sociali, ricreativi e sportivi alla piccola scala da auto-produrre socialmente
recuperando i suoli di frangia e interstiziali. La sua proposta si concretizza,
tra il 1962 e il 1968, in un esperimento di “ecologia autogestita” in una
fascia di verde di rispetto stradale larga 20 metri e lunga un chilometro
- la Kennedylaan - nel sobborgo residenziale di Heerenveen; vi si applicano
i principi della “cultura dinamica”, della “conservazione dell’energia”
e della “spontaneità naturale”, sperimentando diverse combinazioni
di essenze indigene ed esotiche alla ricerca di nuovi equilibri tra metodi
naturali e metodi artificiali. In questo senso, le sperimentazioni dell’ecologismo
olandese si innestano nel più vasto filone di ricerca del paesaggismo
tradizionale, nell’ambito del quale sviluppano, in particolare, gli aspetti
connessi alla selezione delle associazioni vegetali più adatte a
sopportare le difficili condizioni di vita in ambiente urbano, soprattutto
in considerazione dei crescenti costi di manutenzione.
Negli anni Settanta e Ottanta, sull’onda
di una crescita costante dell’attenzione per le tematiche ecologiche, riflessa
anche sul piano della rappresentanza politica, il movimento ecologista
tedesco del Renaturierung (rinaturalizzazione della città) opera
la saldatura concettuale tra la difesa dell’ambiente naturale e il tema
del recupero delle aree di risulta o dismesse. Il verde e, in generale,
tutto quanto è connesso alla riqualificazione urbana e territoriale,
al risanamento ambientale e alla ricostituzione degli equilibri biologici
è oggetto di ricerca tecnologica e di investimento, ma anche strumento
di rilancio economico. Esemplare è l’esperienza dell’IBA Emscher
Park: un programma recentemente attivato dal Land Nordrhein-Westfalia
per contrastare i gravi processi di degrado ambientale sociale ed economico
di una delle maggiori concentrazioni di industrie dismesse della Ruhr,
lungo il fiume Emscher. Obiettivi generali dell’iniziativa erano il rilancio
dell’area come spazio per il tempo libero e l’avanzamento della ricerca
applicata sulle tecnologie di bonifica e salvaguardia ambientale, da realizzarsi
attraverso il recupero ambientale, la valorizzazione e il riuso delle preesistenze
archeologico-industriali nonché la riconversione in senso ecocompatibile
dei cicli produttivi delle attività industriali ancora attive; il
tutto suppprtato da laboratori di ricerca per l’innovazione tecnologica
appositamente concentrati sull’area del progetto.
Il concetto di parco cui rimanda la denominazione
del progetto sembra proprio coincidere con l’attualizzazione dell’idea
di riserva della biosfera del progetto UNESCO Man and Biosphere,
che individuava una serie di aree speciali, non tanto in quanto dotate
di particolare interesse naturalistico, quanto perché ideali al
fine di sperimentare forme di gestione ecocompatibili delle attività
umane. Si può anzi sostenere che l’Emscher Park va oltre,
nella misura in cui estremizza le condizioni di degrado ambientale di partenza
in senso tutto proattivo, ossia utilizzandolo come pretesto per l’avvio
di un circolo virtuoso di riqualificazione ambientale, economica e sociale
dell’area basato sullo sviluppo di un settore importante e ricco di prospettive
come l’industria “verde”. D’altra parte, la stessa scelta della denominazione
IBA (Internationale Bau Ausstellung), richiamando esplicitamente
il noto precedente che tanta importanza ebbe per la diffusione delle nuove
idee razionaliste, sottolinea l’importanza di questa esperienza sul piano
del confronto internazionale, anche in termini di scambio di servizi e
tecnologie ambientali specializzate.
Paesaggio
e reti ecologiche (torna
all'Indice)
Sotto il profilo istituzionale, il paesaggio
in Italia è stato una materia per lungo tempo di competenza dello
Stato (1939-1972/77), competenza esercitata tuttavia in maniera molto debole:
dal 1972, e soprattutto dopo la legge 431/1985 (la cosiddetta legge Galasso
), sono state chiamate in causa le regioni, che hanno dato vita - seppur
in maniera non omogenea - all’esperienza dei Piani paesistici di area vasta,
uno degli elementi più presenti nel dibattito urbanistico degli
ultimi anni Ottanta e dei primi anni Novanta.
Le modalità di gestione del paesaggio
italiano dal dopoguerra a oggi testimoniano con chiarezza gli effetti paralizzanti
di una errata distribuzione delle competenze tra i differenti livelli istituzionali:
né lo Stato né le regioni (i Piani paesistici regionali,
per fare un esempio, sono redatti in scala 1:100.000/ 1:50.000) erano infatti
in grado (ammesso che lo avessero voluto) di disciplinare compiutamente
le trasformazioni del paesaggio. Esse, infatti, sono in parte consistente
prodotte dalle microtrasformazioni (si pensi in effetti a quello che i
francesi chiamano mitage du territoire, ovvero la diffusione degli edifici
nel territorio aperto) la cui regolazione è tra i compiti tipici
del Piano Comunale, ma al livello di governo comunale non era richiesta
alcuna forma di attenzione delle ricadute paesistiche delle previsioni
di piano.
Sino all’affermazione (dal 1989 in poi)
delle procedure di valutazione di impatto ambientale (VIA), peraltro obbligatorie
per poche tipologie di opere, non vi è stata, di fatto, preoccupazione
alcuna circa le ricadute paesistiche delle trasformazioni pubbliche o private;
la situazione è di poco migliorata dopo l’affermazione dei piani
paesistici, la cui natura prettamente vincolistica, associata all’assenza
di qualsivoglia raccordo con risorse in grado di assicurare la manutenzione
del paesaggio, non ha prodotto orientamenti in direzione della gestione
del paesaggio stesso.
Le contraddizioni oggi riscontrabili non
appaiono destinate a trovare composizione in tempi brevi, in quanto le
tendenze più recenti non sono univoche: da un lato lo Stato manifesta
periodicamente la volontà di riappropriarsi nei fatti della materia
(come chiaramente emerso dalla Prima Conferenza Nazionale per il Paesaggio
dell’ottobre1999),
mentre dall’altro alcune regioni, con le proprie leggi-quadro in materia
urbanistica, estendono la filiera paesaggio ai tre livelli del governo
locale.
Questa seconda linea di tendenza appare
decisamente più promettente, per almeno tre ragioni concorrenti:
-
- la pianificazione paesistica provinciale
e quella comunale hanno dimostrato di operare a scale più appropriate
per il governo del paesaggio, ossia scale capaci di assicurare il grado
di dettaglio indispensabile per un disegno di governo del paesaggio;
-
- la provincia, e in misura più ridotta
il comune, si presenta come un soggetto potenzialmente in grado di implementare
politiche di spesa finalizzate alla manutenzione del paesaggio;
-
- il comune, con il Piano Comunale, è
di fatto il soggetto maggiormente abilitato a guidare i processi evolutivi
del paesaggio, anche attraverso la proposizione di specifici requisiti
delle trasformazioni (volumi, collocazione, colori, materiali) in sede
di rilascio della concessione edilizia, nonché attraverso l’orientamento
delle attività agricole.
Correndo il rischio di semplificare una materia
tra le più complesse, si può affermare che dal punto di vista
analitico/ricognitivo lo studio del paesaggio ha seguito approcci molto
variegati, ma riconducibili a tre tipologie fondamentali:
-
- l’approccio che pone al centro dell’attenzione
il paesaggio urbano, i suoi segni e le modalità della loro percezione:
si tratta di una linea di lavoro mutuata da esperienze nord-americane,
sistematizzate da K Lynch nel suo testo più conosciuto: L ‘immagine
della città;
-
- l’approccio storico, che ha il suo testo
di riferimento nella Storia del paesaggio agrario italiano di E. Sereni
e che privilegia lo studio del territorio aperto, sia sotto il profilo
delle sistemazioni agrarie sia sotto quello delle relazioni tra beni storico-architettonici
(centri storici, edifici specialistici, ville, poderi) e contesto figurativo;
-
- l’ecologia del paesaggio, che assume il
paesaggio come “totalità dell’ambiente nella sua complessità
visuale e spaziale, nella quale si realizza l’integrazione tra geosfera,
biosfera e manufatti costruiti dall’uomo” (definizione di Z. Naveh); l’ecologia
del paesaggio nasce di conseguenza come disciplina volta a “individuare,
rappresentare, analizzare e cartografare i caratteri fisici e biologici
di un territorio per riconoscere i modelli funzionali e strutturali dei
sistemi ambientali, finalizzando tali conoscenze alla pianificazione e
alla gestione delle risorse e dei processi naturali che determinano gli
alti livelli di qualità ambientale”, secondo là definizione
di C. BlaSi.
Le esperienze di inclusione di contenuti paesistici
nei PRG sono ancora molto poche, e non è dunque possibile derivarne
valutazioni inerenti la maggiore o minore validità delle tre linee
di lavoro. Va comunque sottolineato che l’ecologia del paesaggio ricomprende
di fatto l’approccio storico, correlandolo e integrandolo con aspetti ambientali,
e che l’attenzione al paesaggio urbano ha prodotto anche esiti pianificatori
(per esempio i disegni di suolo contenuti in alcuni PRG recenti), ma soprattutto
progetti di riqualificazione/arredo urbano.
L’ecologia del paesaggio, inoltre, appare
come la più adatta a coniugare la materia paesaggio a un tema di
recente emersione e che potenzialmente presenta risvolti operativi e concettuali
di grande interesse, ossia quello delle reti ecologiche.
La nascita dell’ecologia del paesaggio
viene attribuita a una intuizione del biogeografo tedesco Troll, che nel
1971 propose di integrare l’ecologia e la geografia in un’unica scienza,
chiamandola ecologia del paesaggio. Questo messaggio fu raccolto soprattutto
dai botanici che avevano già maturato i passaggi dallo studio fisionomico
della vegetazione allo studio fitosociologico (descrizione delle comunità
vegetali) e successivamente allo studio sinfitosociologico delle dinamiche
della vegetazione.( o studio della vegetazione naturale e potenziale e
delle dinamiche in atto) orientandosi al riconoscimento dei processi.
Le esperienze applicative dell’ecologia
del paesaggio hanno consentito la sedimentazione di un approccio operativo
così riassumibile:
-
- partendo da valutazioni sul clima, viene
riconosciuta e cartografata la divisione in termini di termotipo e ombrotipo,
definendo dunque in base a caratteristiche macro climatiche le Regioni
di paesaggio (la scala di rappresentazione idonea va da 1:500.000 a 1:100.000);
-
- integrando le informazioni climatiche con
le caratteristiche litologiche, si perviene alla individuazione dei Sistemi
di paesaggio (scale di rappresentazione da 1:100.000 a 1:25.000);
-
- integrando ulteriori elementi inerenti la
geomorfologia (considerando non tanto i fattori geomorfici, quanto evidenziando
le forme nella complessità determinata dalle quote e dalle esposizioni,
nonché da situazioni di eventuale rischio) si perviene ai Sottosistemi
di paesaggio, che rappresentano una eterogeneità strutturale e funzionale
dinamicamente riconducibile a più aspetti di vegetazione naturale
potenziale (scala ottimale di rappresentazione da 1:50.000 a 1:25.000);
-
- il processo si conclude introducendo informazioni
inerenti la biologia (flora, vegetazione, fauna) e aspetti antropici quali
gli usi del suolo, l’armatura urbana, i beni storico-architettonici, gli
assetti agricoli, le reti infrastrutturali ecc., pervenendo all’individuazione
delle Unità ambientali.
L’Unità ambientale identifica un ambito
territoriale potenzialmente idoneo per un solo tipo di vegetazione seriale
matura, ma ciò non significa che al suo interno si riscontri un
solo tipo di vegetazione o una sola tipologia di uso dei suolo; all’interno
di un’Unità ambientale possono coesistere (e in genere coesistono
in ispecie nei territori antropizzati) diversi aspetti legati alla eterogeneità
indotta dalla presenza dell’uomo (differenti tipi di coltivazioni e di
pattern
insediativo
e infrastrutturale). La scala di rappresentazione delle
Unità
ambientali può variare da 1:25.000 a 1:5.000.
A livello di Unità ambientale,
in sostanza, si percepisce il significato del paesaggio come risultato
di integrazioni funzionali tra elementi eterogenei, ovvero come sintesi
ambientale, culturale e socio-economica del territorio.
Al di là della sua riconosciuta
capacità di interpretazione olistica del territorio, l’ecologia
del paesaggio - con la sua strutturazione gerarchica, ovvero con la successione
dalle Regioni di paesaggio alle Unità ambientali - offre
al governo del territorio la possibilità di articolare le sue indicazioni
specificandole dal generale al particolare.
L’ecologia del paesaggio, che, come si
è detto, integra il più tradizionale approccio storico-percettivo
con informazioni di carattere ambientale, presenta inoltre interessanti
potenzialità di raccordo con le tematiche inerenti le reti ecologiche.
Il termine corridoio ecologico fu
utilizzato da Preston nel 1960 per indicare zone importanti per le dinamiche
distributive di specie animali, in quanto suscettibili di indurre un incremento
quantitativo e di ampliare le possibilità di sopravvivenza di piccole
popolazioni confinate in aree protette. I corridoi ecologici vengono
oggi definiti (R. Jongman) come “strutture di paesaggio di varia dimensione,
forma e tipologia di habitat in grado di mantenere, stabilizzare o ristabilire
i livelli naturali di connettività, supportando un buon livello
di conservazione di specie e di habitat”.
I corridoi ecologici - e la loro estensione
reticolare, rete ecologica (ecological network) - sono concetti
emersi ai fini della conservazione della natura ma coinvolgono discipline
che vanno dal governo del territorio, alla biogeografia, all’ecologia del
paesaggio. Una rete ecologica ha come obiettivo, infatti, quello di sostenere
la biodiversità in contesti ove la frammentazione e l’isolamento
degli habitat, nonché la diminuzione della loro estensione e qualità,
produce la riduzione o la scomparsa di specie animali e vegetali.
La permeabilità biologica (o
connettività)
viene in tal senso assunta come un valore in sé, come capacità
di un dato territorio di ospitare animali e piante e di assicurarne la
mobilità; un ruolo particolare delle reti ecologiche è inoltre
quello di attenuare la insularità di parchi e riserve, indipendentemente
dalle loro dimensioni.
Una rete ecologica può essere costituita
da elementi molto diversificati, come per esempio:
-
- da aree protette (o moderatamente protette)
lineari (corsi d’acqua con vegetazione ripariale di una certa consistenza,
che colleghino tra loro parchi e riserve o comunque aree di elevata naturalità);
-
- dalla tessitura (siepi, frangivento, vegetazione
camporile e ripariale, canali di bonifica, solcature tra campi) del paesaggio
agrario tradizionale;
-
- da aree boscate o comunque da aree caratterizzate
da usi del suolo estensivi (prati permanenti, pascoli, aree temporaneamente
in set-aside, incolti);
-
- dalle cinture verdi (green-belts)
e dai sistemi del verde urbano, soprattutto se inclusivi di aree con una
certa naturalità residua;
-
- da formazioni lineari finalizzate a utilizzi
diversi (protezione del paesaggio, canali navigabili, ricreazione) comunque
corredate anche parzialmente da spazi naturali o seminaturali;
-
-da stepping stones, ovvero ambiti
anche di ridotte dimensioni che consentono, pure in contesti fortemente
antropizzati, la sosta e l’alimentazione di determinate specie (un caso
tipico sono le aree umide costiere poste lungo le rotte di migrazione degli
uccelli);
-
- da accorgimenti atti al superamento di infrastrutture
lineari (sovrappassi o sottopassi) oppure di sbarramenti lungo i corsi
d’acqua (“scale” per i pesci).
Si è accennato in precedenza alle relazioni
intercorrenti tra il tema del paesaggio e quello delle reti ecologiche,
relazioni rinvenibili soprattutto nelle modalità di gestione dei
paesaggio agrario tradizionale, che consente in genere il mantenimento
di un livello di biodiversità superiore a quello delle forme intensive
e industrializzate di coltivazione. Le connessioni con il paesaggio non
esauriscono tuttavia le interazioni funzionali delle reti ecologiche, che
si estendono ai temi del verde urbano, delle aree protette, della gestione
faunistica e, per alcuni versi, del rischio idraulico e della tutela degli
acquiferi.
Un altro aspetto cui si è accennato
è quello che rende difficile la implementazione di politiche di
gestione del paesaggio, ossia l’assenza di soggetti cui è posta
in capo la gestione attiva del paesaggio stesso. Allo stato attuale tali
politiche possono essere sostenute attraverso la coniugazione di attività
disparate, ma non c’è dubbio che si è ben lontani da quei
programmi di paesaggio auspicati - ma senza suscitare eccessivo entusiasmo
- da alcuni partecipanti alla “I° Conferenza Nazionale per il paesaggio”
dell’ottobre 1999.
In questo contesto poco entusiasmante,
una novità potenzialmente di rilievo è costituita dai Programmi
di miglioramento agricolo-ambientale (PMM) disciplinati da recenti leggi
regionali in materia di aree agricole, come per esempio la L.R. 64/1995
della Toscana.
La logica chè informa tale legge
è riassumibile come segue. Una volta individuate le zone con esclusiva
o prevalente funzione agricola (compito del PRG, guidato da criteri suggeriti
dal PTCP) si rinuncia ad applicare loro il tradizionale indice di edificabilità,
operando bensì una distinzione tra aziende agricole abilitate a
realizzare nuove costruzioni rurali e aziende non abilitate. Le prime sono
ovviamente quelle più consistenti, e la distinzione viene operata
sulla base di criteri fissati dalla legge regionale e declinati dal PTCP,
inerenti le superfici mantenute in produzione, la mano d’opera impiegata,
la produzione lorda vendibile.
Le aziende abilitate che possono realizzare
nuove costruzioni rurali non hanno vincoli discendenti dalla edificabilità
fondiaria, ma sono tenute a commisurarne la dimensione alle capacità
produttive del fondo, dimostrando tali necessità attraverso un PMM
che contiene:
-
a) una descrizione della situazione
attuale dell’azienda;
-
b) una descrizione degli interventi
programmati per lo svolgimento delle attività agricole e/o delle
attività connesse, nonché degli altri interventi previsti
per la tutela e la valorizzazione ambientale;
-
c) una descrizione dettagliata degli
interventi edilizi necessari a migliorare le condizioni di vita e di lavoro
dell’imprenditore agricolo nonché al potenziamento delle strutture
produttive;
-
d) l’individuazione degli edifici esistenti
e da realizzare e delle relative superfici fondiarie collegate;
-
e) l’individuazione degli edifici presenti
nell’azienda ritenuti non più necessari e coerenti con le finalità
economiche e strutturali descritte dal PMM;
-
f) l’indicazione dei tempi e delle
fasi di realizzazione del PMM stesso.
Pur essendo evidentemente uno strumento avente
finalità produttive, il PMM presenta importanti ricadute ai fini
della gestione del paesaggio.
Una ricaduta di carattere generale consiste
nella riconduzione della edificazione in area agricola alle necessità
che le sono proprie, e dunque alla compressione delle distorsioni indotte
dal tradizionale approccio urbanistico, che di fatto trasforma tutto lo
spazio aperto in area edificabile; le ricadute sulla qualità percettiva
dei paesaggi agrari sono evidenti.
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