La questione degli spazi aperti: ambiente, paesaggio, pianificazione (a cura di Fabrizio Bottini)
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Estratti da: Silvia Arnolfi, Andrea Filpa, L’ambiente nel piano comunale. Guida all’éco-management nel PRG, Il Sole 24 ore, Milano 2000 (cap. 8, Sistema del verde; cap. 9, Paesaggio e reti ecologiche, pp. 161-182)

Indice: La trama verde o l’affermarsi del verde urbano come sistema; La cintura verde, o la campagna come argine all’espansione urbana; I cunei verdi, o l’insinuazione della campagna nel cuore della città; La collana di smeraldi, o l’ambiente naturale come generatore del fatto urbano; Il tappeto verde della città funzionalista; La città ecologica, o l’ambiente come strumento di riqualificazione urbana e territoriale; Paesaggio e reti ecologiche.

Le rappresentazioni metaforiche del sistema del verde come guida per la pianificazione territoriale
L’apparire della nozione di un sistema del verde da leggersi alla scala dell’area metropolitana favorisce la fuoriuscita da una visione di parchi e giardini come forme simboliche dotate di una capacità allusiva universale all’interno della dialettica “natura come modello da imitare - natura come materia prima da plasmare”, a vantaggio delle più attuali tematiche connesse al sistema del verde (e all’intero ambiente naturale) come fatto oggettivo; luogo dello svolgersi dei cicli biologici e della continuità fisica tra le “categorie tipologiche” di verde ereditate dalla storia moderna e contemporanea (giardini storici, parchi ottocenteschi, parchi archeologici, giardini di quartiere, giardini privati, verde agricolo, aree verdi dedicate alle attività sportive, cinture verdi periurbane, viali alberati, fasce di verde fluviale ecc.).

La trama verde o l’affermarsi del verde urbano come sistema
L’affermarsi del concetto di sistema del verde può essere fatto risalire alla metà dell’Ottocento, quando al parco come occasione di ulteriore abbellimento dei quartieri privilegiati o di parziale rimedio alle precarie condizioni igieniche e sociali dei quartieri popolari degradati si sostituisce l’idea di verde urbano come parte integrante (e spesso “strutturante”) delle città in rapida espansione. Questa nuova concezione si concretizza per la prima volta nel sistema del verde pubblico di Parigi, più tardi fatto coincidere (nello Schema directeur del 1976) con la “trama verde” dell’agglomerazione centrale; cuore di un sistema ben più vasto articolato in quattro anelli concentrici a comprendere tutta la regione dell’Île de France (Plan Vert).
La trama verde di Parigi viene realizzata a partire dal 1854, anno in cui l’ingegnere Adolphe Alphand viene posto alla guida del Service de Promenade et de Plantations de Paris. Affrancato da ogni occasionalità, il verde costituisce parte integrante della “macchina urbana moderna” e, in particolare, del programma di modernizzazione urbana concepito dal prefetto Haussmann con un approccio globale e sistematico. I problemi igienici, estetici, di ordine pubblico e di trasporto che affliggevano Parigi poco prima dell’ascesa al trono di Napoleone III vengono affrontati per la prima volta in modo coordinato, e vengono in buona parte risolti grazie alla realizzazione di un sistema reticolare diffuso fondato sulla coincidenza - nelle sue parti “strutturanti” - tra infrastrutture per la mobilità, infrastrutture tecnologiche (fognarie e di approvvigionamento idrico) e sistema del verde, pressoché fuso col primo; i giardini si integrano nell’impianto viario e nello stesso spazio stradale, proprio come le reti tecnologiche.
Sul piano dell’innovazione concettuale, si assiste all’apparire di nozioni quali “verde pubblico”, “verde come attrezzatura urbana”, “tipologia di verde”, “verde pianificato”:

  • - verde pubblico come parte integrante della più generale nozione di spazio pubblico, ossia di luogo che, proprio in quanto di uso collettivo, deve essere caratterizzato da un disegno unitario e razionale, emblematico della nuova epoca nella quale i principi dell’illuminismo, forti dei notevoli progressi della scienza e della tecnica, riformano finalmente lo spazio urbano;
  • - verde come attrezzatura urbana (pubblica) ossia spazio ricreativo cui si provvede non più a titolo filantropico ma per una precisa volontà politica;
  • - tipologie di verde, tendenti a soddisfare l’intera gamma dei vecchi e nuovi “bisogni” dei cittadini (boulevard, square, parco urbano, parco periurbano);
particolarmente innovativo risulta l’apparire dei primi esempi di verde a scala territoriale (il Bois de Boulogne e il Bois du Vincennes) come inevitabile estensione al grande spazio libero periurbano del disegno di piano unitario e razionale della Parigi moderna;
- verde pianificato in quanto derivante dall’attuazione sistematica di un piano realizzato e gestito secondo una logica programmatoria, favorita dalle particolari condizioni politico-amministrative dell’epoca.
Si tratta, dunque, di una costruzione del verde urbano sostenuta dall’efficienza municipale e improntata a una rigorosa matrice logica, originante spazi percorribili, regolari, luminosi e attrezzati a sostenere l’impatto dei legittimi utenti; in questo senso, notevolmente differenziata dalle contemporanee esperienze inglesi, tendenti al conservazionismo naturalistico e all’empirismo operativo di stampo romantico.

La cintura verde, o la campagna come argine all’espansione urbana (torna all'Indice)
Il concetto di green belt (cintura verde) nasce in Gran Bretagna agli albori del XX secolo come componente fondamentale del modello insediativo noto come garden-city, messo a punto da E. Howard.
Nella visione di Howard, il sistema del verde della città giardino doveva essere caratterizzato, oltre che da una notevole quantità di verde privato di pertinenza dei singoli alloggi, da un parco centrale, da grandi strade-parco e da una cintura verde di contenimento dell’espansione urbana, funzionale anche alla produzione agricola, alla ricreazione, all’estetica e al mantenimento di quell’equilibrio ambientale che inizia a essere - seppure ancora su basi intuitive - percepito come indispensabile.
Lo stesso rapporto tra natura e città muta radicalmente. L’area di verde non si configura più come spazio vuoto residuo all’interno della trama edilizia cittadina; coincide piuttosto con l’ambiente entro il quale si collocano gli edifici; un ambiente opportunamente articolato secondo una gamma di “gradazioni di naturalità”. Nella città-giardino era sufficiente interrompere la continuità urbana attraverso la definizione del bordo interno della cintura verde, lasciando che quello esterno si perdesse nella campagna circostante, a testimoniare la continuità ambientale del territorio urbano ed extraurbano; successivamente, quando si affermerà la tendenza a una replica indifferenziata e sistematica del modello insediativo a bassa densità e quando si renderà necessario contrastare i fenomeni di inurbamento massivo tipici del secondo dopoguerra, la green belt assume uno spessore e quindi un bordo esterno. Questo passaggio avviene in occasione della redazione del Piano per la Grande Londra da parte di Patrick Abercrombie nel 1944, grazie al quale una fascia anulare di aree agricole e boscate profonda 8 km - la Green Belt - viene vincolata all’inedificabilità. La Green Belt si configura come terzo anello di una serie concentrica che, a partire dal nucleo della città compatta (coincidente con il centro di Londra) procedeva con un secondo anello di suburbi per finire con la campagna più esterna (quarto anello), dove era prevista la realizzazione di città satelliti (new towns).
La metafora della cintura verde, pur subendo leggere diversificazioni del contenuto, si conferma come immagine forte in grado di sopravvivere, in virtù della sua pregnanza intrinseca, ai leggeri slittamenti di senso che le vengono imposti: dalla sua formulazione originale di “negativo” della città giardino, fino al suo affermarsi come punto di riferimento della terminologia e della modellistica urbanistica di livello internazionale in relazione allo sviluppo dell’idea di decentramento in città satelliti come soluzione ai problemi indotti dal gigantismo urbano (sostenuta da Unwin).

I cunei verdi, o l’insinuazione della campagna nel cuore della città (torna all'Indice)
La nozione di cuneo verde si sovrappone parzialmente a quella di “fasce” lineari di verde” cui, secondo progettisti quali Forestier e Stübben, era delegato il compito di assicurare la continuità tra paesaggio extraurbano e parchi cittadini. La differenza sta nell’assumere come esclusiva la dimensione radiale, caratterizzata da: una “punta” che si incunea nel cuore cittadino; un corpo lineare ma “svasato” cui corrispondono spessori gradualmente crescenti all’allontanarsi dal centro; una “coda” che si espande fino a identificarsi con la campagna circostante.
La prima formulazione teorica di un sistema del verde organizzato secondo il modello dei cunei verdi avviene, quasi contemporaneamente, nella Germania e nell’Inghilterra degli anni Dieci.
In Germania i diagrammi radiocentrici di Rud Eberstadt (1911) e di Martin Wagner (1919) illustrano rispettivamente “cunei verdi che interrompono l’espansione urbana” e “zone di influenza dei boschi urbani nella ristrutturazione di Berlino”. Non appena terminato il primo conflitto mondiale, tali schemi costituiranno il riferimento per il gigantesco programma di ristrutturazione della città di Berlino, basato sulla realizzazione di un sistema integrato di trasporto pubblico e di verde. Centinaia di ettari di volkspark (parchi del popolo) disposti a raggiera lungo l’anello periferico si aggiungono alla preesistente cintura verde e sono resi raggiungibili in tempi molto ridotti dalla grande maggioranza della popolazione. Gli stessi tracciati ferroviari del trasporto di massa costituiscono un’occasione per la creazione di cunei verdi, in quanto disposti “in trincea”, e quindi non interferenti con la fruizione trasversale della città.
Nel frattempo, in Gran Bretagna, Patrick Geddes - una formazione universitaria da biologo, arricchita da successivi studi nel campo socioeconomico - sta elaborando una visione organica dell’insediamento umano che prelude alla attuale sensibilità ecologista. Nel 1915 pubblica il volume Città in evoluzione, nel quale prefigura un capovolgimento del rapporto città/campagna efficacemente reso, in termini diagrammatici, dal celebre schema del 1917, dove quelli che sembravano spazi connettivi di un sistema reticolare proiettato all’esterno diventano forme “in positivo” convergenti al centro. Alla campagna è dunque affidato il ruolo attivo di condizionamento della città attraverso “cunei verdi” che si inseriscono nell’abitato.
All’evoluzione della linea di ricerca tendente a incuneare il verde nella città compatta per metterla in comunicazione col territorio aperto, afferisce uno dei piani urbanistici più avanzati del secondo dopoguerra: il Finger Plan o “Piano delle cinque dita”, redatto nel 1947 per la città di Copenaghen. Come per il Piano della Grande Londra, si intende salvaguardare la presenza del verde diffuso attraverso l’applicazione di standard e accorpare gli spazi naturali di maggiore dimensione in grandi sistemi; questa volta, però, utilizzando forme radiali e non anulari.
Ad analoghe configurazioni spaziali giungono anche i progettisti delle new towns inglesi, nelle quali i cunei di verde stabiliscono la continuità tra città e campagna interrompendo le sequenze edificate. In particolare, nella new town di Harlow, pianificata da un gruppo di cui fanno parte gli architetti paesaggisti Sylvia Crowe e Bodfan Gruffydd, adotta esplicitamente i tracciati delle strade e dei corsi d’acqua come assi lungo i quali il paesaggio agricolo e boscato circostante fluisce fin nel cuore della città, integrato da un sistema capillare di percorsi pedonali. Altro elemento di grande efficacia è la scelta delle essenze arboree, selezionate e disposte in modo tale da annullare praticamente la differenza tra verde urbano ed extraurbano.
Anche le villes nouvelles francesi, realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta (Firminy-Vert, Toulouse le Mirail), adotteranno come struttura portante il sistema ambientale fuso con quello della mobilità, del resto già di haussmanniana memoria.
Il successo di questo modello non deve però far dimenticare le aspre critiche di cui è stato oggetto. Camillo Sitte, convinto difensore dei valori della civiltà urbana mediterranea, parlò di “usanza ridicola di alberare i viali urbani”, inaugurando un atteggiamento destinato a essere condiviso da numerosi altri assertori della mancanza di configurazione urbana insita nella bassa densità abitativa e nell’eccessiva permanenza di spazi verdi nel panorama edilizio.

La collana di smeraldi, o l’ambiente naturale come generatore del fatto urbano (torna all'Indice)
Mentre in Europa, e segnatamente in Gran Bretagna, sopravviveva la concezione di parco urbano come adattamento del giardino paesaggistico inglese a rimedio per i nefasti riflessi che lo sviluppo dell’economia industriale stava i causando sulla salute degli abitanti della città, negli Stati Uniti si fa strada una concezione “produttiva” degli investimenti in attrezzature sociali urbane, in quanto direttamente connessi all’incremento della rendita fondiaria delle aree circostanti.
Il primo caso nel quale si manifesta chiaramente la validità di questa equazione dell’economia urbana è la realizzazione, verso la metà del 1800, del Central Park della città di New York, ad opera dell’agronomo e intellettuale riformista Frederick Law Olmsted in collaborazione con l’architetto Calvert Vaux. Olmsted, destinato a divenire, nel 1857, sovrintendente della Park Commission della città, rappresenta anche uno dei primi esponenti di una specializzazione professionale inedita - la landscape architecture - funzionale proprio alla altrettanto inedita visione del verde urbano come “strumento per lo sviluppo”. L’attualità della visione di Olmsted non spicca solo in relazione a quella dei suoi contemporanei: bisognerà aspettare a lungo, per esempio, perché in Italia si affermi l’idea di sottrarre il verde urbano al dominio esclusivo della “standardizzazione quantitativa” e di affidare ad esso una funzione strategica nei processi di riqualificazione urbana.
Un altro aspetto di estrema attualità concerne il carattere dell’idea stessa di pianificazione: rinunciando in partenza all’ipotesi di governare la crescita urbana con un solo strumento onnicomprensivo e atemporale, questa viene pensata come “una successione di interventi attuati realizzando porzioni compiute di città, frutto congiunto della azione privata e di quella pubblica, in funzione delle esigenze del momento e delle regole del mercato”.
In una realtà territoriale caratterizzata dai nascenti sistemi metropolitani, il “sistema ambientale/parco urbano” americano, integrato alla rete dei trasporti, si configura immediatamente come struttura portante del processo di formazione della città. Trattandosi di un ambiente ancora dotato dei caratteri originari (e non di spazi prevalentemente agricoli strappati al dilagare delle attività insediative e produttive urbane per fare ad esse da argine, come in fondo sarà ancora, novanta anni dopo, la Green Belt londinese), gli elementi fisici, morfologici e vegetazionali peculiari del territorio vengono conservati nella loro continuità e valorizzati proprio a partire dalla loro capacità di connotazione del luogo; sensibilità che le esperienze urbanistiche e territoriali  europee assimileranno con estrema lentezza, e spesso quando la continuità ambientale sarà ormai definitivamente compromessa.
La metafora della “collana verde” (emerald necklace) espressiva proprio della successione di luoghi naturali significativi collegati da una fascia di verde e infrastrutture lineari di trasporto nasce con il progetto che lo stesso Olmsted realizza compiutamente - per quanto si possa parlare di compiutezza in un sistema per sua natura “aperto” - a Boston nel ventennio 1873-1893.
L’Emerald Necklace di Boston, che interessava in realtà diciannove municipalità, si configura come un sistema continuo (park-system) di parchi, spazi verdi per il gioco, riserve naturali, strade-parco (parkways) che mette in comunicazione il centro della città con i quartieri meridionali e il territorio non urbanizzato, conferendo a Boston una struttura urbanistica estremamente moderna nonché una pregevole qualità ambientale.
La validità di questo modo di intendere il verde in città - o meglio, gli insediamenti umani nell’ambiente naturale - risiede principalmente nello schema continuo, flessibile e aperto di spazi verdi differenziati; la strutturazione della città futura a partire dal sistema ambientale e, in particolare, dalla conservazione delle emergenze naturali in tutta la loro diversità (nel caso di Boston: sponde fluviali, rilievi collinari, porzioni di campagna e isole della baia), contribuisce, come del resto anche la lezione del migliore paesaggismo inglese, alla formazione di identità culturale della comunità che in quei luoghi si va insediando, con risvolti positivi anche sul piano antropologico e sociologico.
La lezione di Olmsted assume ben presto la scala metropolitana-regionale come privilegiata e si diffonde rapidamente nelle grandi città degli Stati Uniti (nella stessa conurbazione bostoniana un allievo di Olmsted - Eliot - dilaterà il park-system fino a coinvolgere venticinque amministrazioni), andando a costituire la base del filone ideologico dell’American Park Movement, fautore di uno sviluppo urbano calato nella realtà naturale.
Tra i primi sostenitori europei dei park-systems americani troviamo, nella Parigi del ventennio precedente il primo conflitto mondiale, Jean-Claude Nicolas Forestier. Allievo e collaboratore di Alphand, Forestier amplifica a scala territoriale la gerarchizzazione del verde operata dal maestro e propone anche in Europa il passaggio alla scala regionale nella pianificazione delle aree verdi. Questo gli appare, infatti, l’unico espediente per neutralizzare le limitazioni che fittizi perimetri amministrativi impongono all’equilibrato espandersi delle città. Propugna infatti l’estensione del sistema del verde a più città, a più dipartimenti, alla nazione intera, fino a prefigurare l’ingresso di più nazioni nel sistema.
Tra i contributi teorici più significativi di Forestier, l’idea di “introdurre la campagna in città” attraverso un’evoluzione del boulevard di haussmaniana memoria: strade-parco (o parchi-passeggiata ) percorse dal trasporto pubblico che collegano le diverse tipologie gerarchiche di spazi verdi urbani, sia tra loro sia con le località ricreative e di servizio della campagna periurbana (boschi, cimiteri, luoghi termali ecc.).
Come sopra accennato, la lezione di Olmsted contribuisce al rilancio e al rinnovamento della scuola paesaggistica inglese, grazie all’estensione del campo d’azione alla totalità dell’intera conurbazione metropolitana.
L’intenzione di conservare le caratteristiche originarie del sito (una volta divenuto città) porterà ben presto i landscape architects a costruire la città nuova direttamente a partire dalla ricerca di un legame organico con i caratteri e la preesistenza del luogo, avvalendosi, oltre che della tradizione paesaggistica, con le sue evoluzioni in termini di site planning, townscape ecc., della lezione di Patrick Geddes.
Ambiente e paesaggio assumono ormai il ruolo di elementi generatori del progetto urbano, garantendo ad esso una notevole originalità rispetto a schemi e modelli standard dell’epoca, nonché una spiccata specificità rispetto al verde indifferenziato (quando non incolto) che avrebbe a lungo caratterizzato la città funzionalista europea. La strada-parco, inoltre, in quanto garanzia di continuità dell’ambiente naturale urbano e di contatto di questo con i “serbatoi naturali” esterni, può essere considerata antesignana del moderno corridoio biologico, tema centrale dell’attuale ecologia urbana.

Il tappeto verde della città funzionalista (torna all'Indice)
Dall’affermarsi del Funzionalismo e, con esso, dell’urbanistica come disciplina autonoma, consegue il concetto polivalente di verde urbano come oggi lo intendiamo (sinonimo di parco ma anche di giardino, viale, campo sportivo, area giochi ecc.). Lo spazio verde non si qualifica più per la sua specifica identità, o per il tipo di estetica di cui si fa portatore, bensì per le funzioni che è in grado di svolgere. Le stesse espressioni “verde sportivo” o “verde di rispetto” riportate nelle legende dei moderni piani urbanistici risentono ancora direttamente di questo clima culturale.
Ricerche già molto avanzate sulla classificazione delle tipologie del verde e sulla determinazione di standard quantitativi, come quelle condotte da Joseph Stübben nella Germania di fine secolo e poi da Martin Wagner, vengono inglobate e sviluppate nell’ambito del corpus disciplinare dell’urbanistica, ed entrano a far parte del retroterra culturale degli architetti urbanisti del periodo interbellico. L’urbanistica stessa è percepita come nuova chiave per un approccio corretto alla città moderna: una città intesa ormai come nuovo e complesso spazio da organizzare in funzione del rapido inurbamento di uomini con bisogni nuovi e di attività con esigenze nuove.
Le Corbusier può essere considerato il primo teorico del verde come piano di supporto continuo della città moderna, come fosse un “tappeto verde”. Tale continuum ambientale è inteso, nella migliore tradizione funzionalista, come mera attrezzatura diffusa, espressiva solo di sé stessa e non più di un’idea di natura e del rapporto di questa con l’uomo. La prima massiccia manifestazione della concezione del verde urbano come sistema di attrezzature risale, in realtà, al progetto (non realizzato) presentato da Patrick Geddes per il concorso indetto, nel 1903, per la ristrutttlrazione del centro urbano della città scozzese di Dumfermline. Geddes propone un parco ricco di ogni genere di attrezzatura (giardini tematici, uno zoo, un teatro all’aria aperta, un complesso di campi da gioco, quattro musei, un acquario, una sala da musica ecc.). La parte del progetto più riuscita era il collegamento del centro della città attraverso un sistema di giardini, piazze, edifici pubblici, strade-parco ecc. allo spazio verde cittadino (realizzato da Paxton) e a zone urbane diverse.
Le nuove condizioni culturali, oltre che socio-economiche, nelle quali gli urbanisti si trovano a operare determinano sovente la mancanza di identità della città di nuova costruzione (o ricostruzione) che si vanno irrimediabilmente omogeneizzando a colpi di zoning.
Tale perdita di identità si riflette indubbiamente sulla concezione del verde urbano, ormai sottratto definitivamente alle cure di quei “professionisti del verde” che avevano popolato, fino alla prima guerra mondiale, gli uffici tecnici delle amministrazioni e le istituzioni culturali di riferimento. Il verde, seppure teoricamente posto tra i principali vantaggi offerti - insieme alla luce, all’aria e alla distribuzione razionale - della Ville Verte o della Ville Radieuse di Le Corbusier, subisce una tale perdita di qualità (specie nelle città dell’Europa meridionale dove meno consolidata è la sensibilità naturalistica) da perdere anche i connotati di “attrezzatura urbana”, a vantaggio di quelli di “vuoto urbano”, privo dunque non solo di identità ma anche di funzionalità.
Tuttavia, quando applicate coerentemente, le proposte del Movimento Moderno consentono realizzazioni di grande successo, come nel caso - generalmente acclamato come esemplare - dell’ Amsterdam Bos (dal nome del direttore del dipartimento municipale dei lavori pubblici della città olandese). A.W. Bos predispone, tra il 1924 e il 1926, uno “Schema di piano per la Grande Amsterdam” nel quale figura la creazione di una foresta di 900 ettari su un’area sottratta alle acque dei polder nella parte meridionale della città. Alla commissione di studio del progetto partecipano ingegneri, architetti e paesaggisti, ma anche biologi, botanici e sociologi.
Nella realizzazione dell’Amsterdam Bos vengono introdotti diversi fattori innovativi; innanzitutto si afferma la sensibilità all’ecologia, che ispira scelta e composizione delle essenze vegetali e il disegno ambientale in genere; dal nascente pensiero funzionalista discende l’attenta calibrazione di spazi ricreativi, percorsi differenziati e attrezzature (presenti in grande quantità), in previsione di accogliere tra le 70.000 e le 100.000 persone al giorno nei mesi estivi. Dalla stessa matrice culturale deriva l’applicazione dei principi della separazione dei traffici (in percorsi pedonali, itinerari per equitazione, piste ciclabili, corsi d’acqua artificiali per le canoe) e dello zoning in funzione dei diversi usi previsti; principi che venivano contemporaneamente messi a punto nei piani urbanistici veri e propri (il piano di Amsterdam di Van Eesteren, verrà elaborato contemporaneamente e in piena sintonia col grande “parco pianificato”).
Il contributo più importante che il progetto dell’Amsterdam Bos offre alla cultura del “verde urbano” sembra consistere proprio nel suo essere parco pianificato, ovvero costruzione dello spazio urbano inserita in una strategia territoriale ed economica di lungo periodo sul quale, in quanto importantissima opera pubblica, converge il meglio della cultura scientifica e della capacità tecnologica del paese.
Tributario in parte della migliore cultura funzionalista, in parte della lezione di Olmsted, appare il sistema del verde previsto dal Piano di Stoccolma del 1952. Della prima è chiaramente identificabile il principio del verde come presenza diffusa ed elemento connettivo dell’ambiente urbano, col suo corollario di attrezzature integrate a quelle della città (per esempio, prati per spettacoli all’aperto attrezzati con strutture sceniche permanenti e luoghi di incontro attrezzati vari); dalla seconda deriva un certo gusto paesistico per le emergenze naturalistiche del territorio che vengono esaltate al massimo, pur con soluzioni sempre improntate a un’estrema semplicità.
Il risultato è che il variegato sistema di parchi, affioramenti granitici, boschi di pini e betulle, isole e di bracci di mare (Stoccolma, si ricorda, sorge su un arcipelago frastagliatissimo) razionalmente innervato dalle infrastrutture lineari e ricco di attrezzature, diviene il vero tessuto connettivo dell’impianto urbano: spazio della vita civile (accanto alle attrezzature per la socializzazione appaiono, per la prima volta, musei naturali didattici all’aria aperta) ma anche spazio della soddisfazione del bisogno individuale di contatto con la natura, vissuto ormai anche come compensazione della rigidità che le forme di produzione moderne impongono alla vita quotidiana.

La città ecologica, o l’ambiente come strumento di riqualificazione urbana e territoriale (torna all'Indice)
I primi accenni di strutturazione in senso ecologico della dialettica (tradizionalmente pervasa di estetismo) tra naturalismo e urbanesimo compaiono nella Germania della metà dell’Ottocento, stimolati dal manifestarsi dei primi nefasti effetti collaterali dell’indiscriminato sfruttamento economico del territorio. Si deve, infatti, a un biologo tedesco - Ernest Haeckel - la definizione, nel 1866, dell’ecologia come “disciplina mirante a indagare le relazioni che si instaurano tra organismi viventi e il loro ambiente vitale”.
L’ecologia introduce così una più generale nozione di ambiente, cui corrisponde il riavvicinamento operativo tra discipline diverse al fine di comprendere le complesse interrelazioni da cui si intuisce dipendere la sopravvivenza di quelli che ormai si possono definire ecosistemi. Il verde urbano appare ancora come elemento strutturante della città, ma in quanto sostrato vivente dell’ecosistema urbano e non più solo in quanto matrice formale o funzionale del disegno della città.
Negli anni Trenta, il biologo olandese Jacob P. Thijsse teorizza e promuove la creazione dei primi giardini ecologici nel senso che attualmente si attribuisce a questo aggettivo. A lui sarà intitolato il primo parco pubblico esplicitamente ecologico - il Thijsse Park di Amstelveen - nel quale la scelta delle associazioni vegetali è direttamente ispirata agli ambienti naturali della torba e della brughiera.
A partire dagli anni Cinquanta si utilizzano direttamente le tecniche dell’ecologia naturalista ecosistemica per trattare il “metabolismo dei sistemi urbani” con un approccio quantitativo (Paul Duvigneaud). L’americano Eugene Odum estende questa direzione di ricerca fino a comparare i flussi di una città con quelli di un lago; all’estremo, la “ecologia fattoriale” privilegia l’analisi matematica dei diversi parametri della città (Racine); ma il sostenitore dell’integrazione di parametri ecologici nella gestione e pianificazione del territorio destinato ad avere la maggiore eco resta l’americano Ian McHarg, col suo libro cult Design with Nature.
La figura centrale del filone ecologista puro, rinvigorito dai movimenti di contestazione degli anni Sessanta, è l’olandese Louis Le Roy, pittore e progettista ecologico self-made. A partire da una sfiducia profonda nell’urbanistica funzionalista, responsabile della spartizione del territorio in “monocolture agricole e monocolture urbane” e della perdita di naturalità del verde in esso contenuto, Le Roy propone un “paesaggio di verde urbano intermedio” fatto di percorsi e spazi sociali, ricreativi e sportivi alla piccola scala da auto-produrre socialmente recuperando i suoli di frangia e interstiziali. La sua proposta si concretizza, tra il 1962 e il 1968, in un esperimento di “ecologia autogestita” in una fascia di verde di rispetto stradale larga 20 metri e lunga un chilometro - la Kennedylaan - nel sobborgo residenziale di Heerenveen; vi si applicano i principi della “cultura dinamica”, della “conservazione dell’energia” e della “spontaneità naturale”, sperimentando diverse combinazioni di essenze indigene ed esotiche alla ricerca di nuovi equilibri tra metodi naturali e metodi artificiali. In questo senso, le sperimentazioni dell’ecologismo olandese si innestano nel più vasto filone di ricerca del paesaggismo tradizionale, nell’ambito del quale sviluppano, in particolare, gli aspetti connessi alla selezione delle associazioni vegetali più adatte a sopportare le difficili condizioni di vita in ambiente urbano, soprattutto in considerazione dei crescenti costi di manutenzione.
Negli anni Settanta e Ottanta, sull’onda di una crescita costante dell’attenzione per le tematiche ecologiche, riflessa anche sul piano della rappresentanza politica, il movimento ecologista tedesco del Renaturierung (rinaturalizzazione della città) opera la saldatura concettuale tra la difesa dell’ambiente naturale e il tema del recupero delle aree di risulta o dismesse. Il verde e, in generale, tutto quanto è connesso alla riqualificazione urbana e territoriale, al risanamento ambientale e alla ricostituzione degli equilibri biologici è oggetto di ricerca tecnologica e di investimento, ma anche strumento di rilancio economico. Esemplare è l’esperienza dell’IBA Emscher Park: un programma recentemente attivato dal Land Nordrhein-Westfalia per contrastare i gravi processi di degrado ambientale sociale ed economico di una delle maggiori concentrazioni di industrie dismesse della Ruhr, lungo il fiume Emscher. Obiettivi generali dell’iniziativa erano il rilancio dell’area come spazio per il tempo libero e l’avanzamento della ricerca applicata sulle tecnologie di bonifica e salvaguardia ambientale, da realizzarsi attraverso il recupero ambientale, la valorizzazione e il riuso delle preesistenze archeologico-industriali nonché la riconversione in senso ecocompatibile dei cicli produttivi delle attività industriali ancora attive; il tutto suppprtato da laboratori di ricerca per l’innovazione tecnologica appositamente concentrati sull’area del progetto.
Il concetto di parco cui rimanda la denominazione del progetto sembra proprio coincidere con l’attualizzazione dell’idea di riserva della biosfera del progetto UNESCO Man and Biosphere, che individuava una serie di aree speciali, non tanto in quanto dotate di particolare interesse naturalistico, quanto perché ideali al fine di sperimentare forme di gestione ecocompatibili delle attività umane. Si può anzi sostenere che l’Emscher Park va oltre, nella misura in cui estremizza le condizioni di degrado ambientale di partenza in senso tutto proattivo, ossia utilizzandolo come pretesto per l’avvio di un circolo virtuoso di riqualificazione ambientale, economica e sociale dell’area basato sullo sviluppo di un settore importante e ricco di prospettive come l’industria “verde”. D’altra parte, la stessa scelta della denominazione IBA (Internationale Bau Ausstellung), richiamando esplicitamente il noto precedente che tanta importanza ebbe per la diffusione delle nuove idee razionaliste, sottolinea l’importanza di questa esperienza sul piano del confronto internazionale, anche in termini di scambio di servizi e tecnologie ambientali specializzate.

Paesaggio e reti ecologiche (torna all'Indice)
Sotto il profilo istituzionale, il paesaggio in Italia è stato una materia per lungo tempo di competenza dello Stato (1939-1972/77), competenza esercitata tuttavia in maniera molto debole: dal 1972, e soprattutto dopo la legge 431/1985 (la cosiddetta legge Galasso ), sono state chiamate in causa le regioni, che hanno dato vita - seppur in maniera non omogenea - all’esperienza dei Piani paesistici di area vasta, uno degli elementi più presenti nel dibattito urbanistico degli ultimi anni Ottanta e dei primi anni Novanta.
Le modalità di gestione del paesaggio italiano dal dopoguerra a oggi testimoniano con chiarezza gli effetti paralizzanti di una errata distribuzione delle competenze tra i differenti livelli istituzionali: né lo Stato né le regioni (i Piani paesistici regionali, per fare un esempio, sono redatti in scala 1:100.000/ 1:50.000) erano infatti in grado (ammesso che lo avessero voluto) di disciplinare compiutamente le trasformazioni del paesaggio. Esse, infatti, sono in parte consistente prodotte dalle microtrasformazioni (si pensi in effetti a quello che i francesi chiamano mitage du territoire, ovvero la diffusione degli edifici nel territorio aperto) la cui regolazione è tra i compiti tipici del Piano Comunale, ma al livello di governo comunale non era richiesta alcuna forma di attenzione delle ricadute paesistiche delle previsioni di piano.
Sino all’affermazione (dal 1989 in poi) delle procedure di valutazione di impatto ambientale (VIA), peraltro obbligatorie per poche tipologie di opere, non vi è stata, di fatto, preoccupazione alcuna circa le ricadute paesistiche delle trasformazioni pubbliche o private; la situazione è di poco migliorata dopo l’affermazione dei piani paesistici, la cui natura prettamente vincolistica, associata all’assenza di qualsivoglia raccordo con risorse in grado di assicurare la manutenzione del paesaggio, non ha prodotto orientamenti in direzione della gestione del paesaggio stesso.
Le contraddizioni oggi riscontrabili non appaiono destinate a trovare composizione in tempi brevi, in quanto le tendenze più recenti non sono univoche: da un lato lo Stato manifesta periodicamente la volontà di riappropriarsi nei fatti della materia (come chiaramente emerso dalla Prima Conferenza Nazionale per il Paesaggio dell’ottobre1999), mentre dall’altro alcune regioni, con le proprie leggi-quadro in materia urbanistica, estendono la filiera paesaggio ai tre livelli del governo locale.
Questa seconda linea di tendenza appare decisamente più promettente, per almeno tre ragioni concorrenti:

  • - la pianificazione paesistica provinciale e quella comunale hanno dimostrato di operare a scale più appropriate per il governo del paesaggio, ossia scale capaci di assicurare il grado di dettaglio indispensabile per un disegno di governo del paesaggio;
  • - la provincia, e in misura più ridotta il comune, si presenta come un soggetto potenzialmente in grado di implementare politiche di spesa finalizzate alla manutenzione del paesaggio;
  • - il comune, con il Piano Comunale, è di fatto il soggetto maggiormente abilitato a guidare i processi evolutivi del paesaggio, anche attraverso la proposizione di specifici requisiti delle trasformazioni (volumi, collocazione, colori, materiali) in sede di rilascio della concessione edilizia, nonché attraverso l’orientamento delle attività agricole.
Correndo il rischio di semplificare una materia tra le più complesse, si può affermare che dal punto di vista analitico/ricognitivo lo studio del paesaggio ha seguito approcci molto variegati, ma riconducibili a tre tipologie fondamentali:
  • - l’approccio che pone al centro dell’attenzione il paesaggio urbano, i suoi segni e le modalità della loro percezione: si tratta di una linea di lavoro mutuata da esperienze nord-americane, sistematizzate da K Lynch nel suo testo più conosciuto: L ‘immagine della città;
  • - l’approccio storico, che ha il suo testo di riferimento nella Storia del paesaggio agrario italiano di E. Sereni e che privilegia lo studio del territorio aperto, sia sotto il profilo delle sistemazioni agrarie sia sotto quello delle relazioni tra beni storico-architettonici (centri storici, edifici specialistici, ville, poderi) e contesto figurativo;
  • - l’ecologia del paesaggio, che assume il paesaggio come “totalità dell’ambiente nella sua complessità visuale e spaziale, nella quale si realizza l’integrazione tra geosfera, biosfera e manufatti costruiti dall’uomo” (definizione di Z. Naveh); l’ecologia del paesaggio nasce di conseguenza come disciplina volta a “individuare, rappresentare, analizzare e cartografare i caratteri fisici e biologici di un territorio per riconoscere i modelli funzionali e strutturali dei sistemi ambientali, finalizzando tali conoscenze alla pianificazione e alla gestione delle risorse e dei processi naturali che determinano gli alti livelli di qualità ambientale”, secondo là definizione di C. BlaSi.
Le esperienze di inclusione di contenuti paesistici nei PRG sono ancora molto poche, e non è dunque possibile derivarne valutazioni inerenti la maggiore o minore validità delle tre linee di lavoro. Va comunque sottolineato che l’ecologia del paesaggio ricomprende di fatto l’approccio storico, correlandolo e integrandolo con aspetti ambientali, e che l’attenzione al paesaggio urbano ha prodotto anche esiti pianificatori (per esempio i disegni di suolo contenuti in alcuni PRG recenti), ma soprattutto progetti di riqualificazione/arredo urbano.
L’ecologia del paesaggio, inoltre, appare come la più adatta a coniugare la materia paesaggio a un tema di recente emersione e che potenzialmente presenta risvolti operativi e concettuali di grande interesse, ossia quello delle reti ecologiche.

La nascita dell’ecologia del paesaggio viene attribuita a una intuizione del biogeografo tedesco Troll, che nel 1971 propose di integrare l’ecologia e la geografia in un’unica scienza, chiamandola ecologia del paesaggio. Questo messaggio fu raccolto soprattutto dai botanici che avevano già maturato i passaggi dallo studio fisionomico della vegetazione allo studio fitosociologico (descrizione delle comunità vegetali) e successivamente allo studio sinfitosociologico delle dinamiche della vegetazione.( o studio della vegetazione naturale e potenziale e delle dinamiche in atto) orientandosi al riconoscimento dei processi.
Le esperienze applicative dell’ecologia del paesaggio hanno consentito la sedimentazione di un approccio operativo così riassumibile:

  • - partendo da valutazioni sul clima, viene riconosciuta e cartografata la divisione in termini di termotipo e ombrotipo, definendo dunque in base a caratteristiche macro climatiche le Regioni di paesaggio (la scala di rappresentazione idonea va da 1:500.000 a 1:100.000);
  • - integrando le informazioni climatiche con le caratteristiche litologiche, si perviene alla individuazione dei Sistemi di paesaggio (scale di rappresentazione da 1:100.000 a 1:25.000);
  • - integrando ulteriori elementi inerenti la geomorfologia (considerando non tanto i fattori geomorfici, quanto evidenziando le forme nella complessità determinata dalle quote e dalle esposizioni, nonché da situazioni di eventuale rischio) si perviene ai Sottosistemi di paesaggio, che rappresentano una eterogeneità strutturale e funzionale dinamicamente riconducibile a più aspetti di vegetazione naturale potenziale (scala ottimale di rappresentazione da 1:50.000 a 1:25.000);
  • - il processo si conclude introducendo informazioni inerenti la biologia (flora, vegetazione, fauna) e aspetti antropici quali gli usi del suolo, l’armatura urbana, i beni storico-architettonici, gli assetti agricoli, le reti infrastrutturali ecc., pervenendo all’individuazione delle Unità ambientali.
L’Unità ambientale identifica un ambito territoriale potenzialmente idoneo per un solo tipo di vegetazione seriale matura, ma ciò non significa che al suo interno si riscontri un solo tipo di vegetazione o una sola tipologia di uso dei suolo; all’interno di un’Unità ambientale possono coesistere (e in genere coesistono in ispecie nei territori antropizzati) diversi aspetti legati alla eterogeneità indotta dalla presenza dell’uomo (differenti tipi di coltivazioni e di pattern insediativo e infrastrutturale). La scala di rappresentazione delle Unità ambientali può variare da 1:25.000 a 1:5.000.
A livello di Unità ambientale, in sostanza, si percepisce il significato del paesaggio come risultato di integrazioni funzionali tra elementi eterogenei, ovvero come sintesi ambientale, culturale e socio-economica del territorio.
Al di là della sua riconosciuta capacità di interpretazione olistica del territorio, l’ecologia del paesaggio - con la sua strutturazione gerarchica, ovvero con la successione dalle Regioni di paesaggio alle Unità ambientali - offre al governo del territorio la possibilità di articolare le sue indicazioni specificandole dal generale al particolare.
L’ecologia del paesaggio, che, come si è detto, integra il più tradizionale approccio storico-percettivo con informazioni di carattere ambientale, presenta inoltre interessanti potenzialità di raccordo con le tematiche inerenti le reti ecologiche.
Il termine corridoio ecologico fu utilizzato da Preston nel 1960 per indicare zone importanti per le dinamiche distributive di specie animali, in quanto suscettibili di indurre un incremento quantitativo e di ampliare le possibilità di sopravvivenza di piccole popolazioni confinate in aree protette. I corridoi ecologici vengono oggi definiti (R. Jongman) come “strutture di paesaggio di varia dimensione, forma e tipologia di habitat in grado di mantenere, stabilizzare o ristabilire i livelli naturali di connettività, supportando un buon livello di conservazione di specie e di habitat”.
I corridoi ecologici - e la loro estensione reticolare, rete ecologica (ecological network) - sono concetti emersi ai fini della conservazione della natura ma coinvolgono discipline che vanno dal governo del territorio, alla biogeografia, all’ecologia del paesaggio. Una rete ecologica ha come obiettivo, infatti, quello di sostenere la biodiversità in contesti ove la frammentazione e l’isolamento degli habitat, nonché la diminuzione della loro estensione e qualità, produce la riduzione o la scomparsa di specie animali e vegetali.
La permeabilità biologica (o connettività) viene in tal senso assunta come un valore in sé, come capacità di un dato territorio di ospitare animali e piante e di assicurarne la mobilità; un ruolo particolare delle reti ecologiche è inoltre quello di attenuare la insularità di parchi e riserve, indipendentemente dalle loro dimensioni.
Una rete ecologica può essere costituita da elementi molto diversificati, come per esempio:
  • - da aree protette (o moderatamente protette) lineari (corsi d’acqua con vegetazione ripariale di una certa consistenza, che colleghino tra loro parchi e riserve o comunque aree di elevata naturalità);
  • - dalla tessitura (siepi, frangivento, vegetazione camporile e ripariale, canali di bonifica, solcature tra campi) del paesaggio agrario tradizionale;
  • - da aree boscate o comunque da aree caratterizzate da usi del suolo estensivi (prati permanenti, pascoli, aree temporaneamente in set-aside, incolti);
  • - dalle cinture verdi (green-belts) e dai sistemi del verde urbano, soprattutto se inclusivi di aree con una certa naturalità residua;
  • - da formazioni lineari finalizzate a utilizzi diversi (protezione del paesaggio, canali navigabili, ricreazione) comunque corredate anche parzialmente da spazi naturali o seminaturali;
  • -da stepping stones, ovvero ambiti anche di ridotte dimensioni che consentono, pure in contesti fortemente antropizzati, la sosta e l’alimentazione di determinate specie (un caso tipico sono le aree umide costiere poste lungo le rotte di migrazione degli uccelli);
  • - da accorgimenti atti al superamento di infrastrutture lineari (sovrappassi o sottopassi) oppure di sbarramenti lungo i corsi d’acqua (“scale” per i pesci).
Si è accennato in precedenza alle relazioni intercorrenti tra il tema del paesaggio e quello delle reti ecologiche, relazioni rinvenibili soprattutto nelle modalità di gestione dei paesaggio agrario tradizionale, che consente in genere il mantenimento di un livello di biodiversità superiore a quello delle forme intensive e industrializzate di coltivazione. Le connessioni con il paesaggio non esauriscono tuttavia le interazioni funzionali delle reti ecologiche, che si estendono ai temi del verde urbano, delle aree protette, della gestione faunistica e, per alcuni versi, del rischio idraulico e della tutela degli acquiferi.
Un altro aspetto cui si è accennato è quello che rende difficile la implementazione di politiche di gestione del paesaggio, ossia l’assenza di soggetti cui è posta in capo la gestione attiva del paesaggio stesso. Allo stato attuale tali politiche possono essere sostenute attraverso la coniugazione di attività disparate, ma non c’è dubbio che si è ben lontani da quei programmi di paesaggio auspicati - ma senza suscitare eccessivo entusiasmo - da alcuni partecipanti alla “I° Conferenza Nazionale per il paesaggio” dell’ottobre 1999.
In questo contesto poco entusiasmante, una novità potenzialmente di rilievo è costituita dai Programmi di miglioramento agricolo-ambientale (PMM) disciplinati da recenti leggi regionali in materia di aree agricole, come per esempio la L.R. 64/1995 della Toscana.
La logica chè informa tale legge è riassumibile come segue. Una volta individuate le zone con esclusiva o prevalente funzione agricola (compito del PRG, guidato da criteri suggeriti dal PTCP) si rinuncia ad applicare loro il tradizionale indice di edificabilità, operando bensì una distinzione tra aziende agricole abilitate a realizzare nuove costruzioni rurali e aziende non abilitate. Le prime sono ovviamente quelle più consistenti, e la distinzione viene operata sulla base di criteri fissati dalla legge regionale e declinati dal PTCP, inerenti le superfici mantenute in produzione, la mano d’opera impiegata, la produzione lorda vendibile.
Le aziende abilitate che possono realizzare nuove costruzioni rurali non hanno vincoli discendenti dalla edificabilità fondiaria, ma sono tenute a commisurarne la dimensione alle capacità produttive del fondo, dimostrando tali necessità attraverso un PMM che contiene:
  • a) una descrizione della situazione attuale dell’azienda;
  • b) una descrizione degli interventi programmati per lo svolgimento delle attività agricole e/o delle attività connesse, nonché degli altri interventi previsti per la tutela e la valorizzazione ambientale;
  • c) una descrizione dettagliata degli interventi edilizi necessari a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dell’imprenditore agricolo nonché al potenziamento delle strutture produttive;
  • d) l’individuazione degli edifici esistenti e da realizzare e delle relative superfici fondiarie collegate;
  • e) l’individuazione degli edifici presenti nell’azienda ritenuti non più necessari e coerenti con le finalità economiche e strutturali descritte dal PMM;
  • f) l’indicazione dei tempi e delle fasi di realizzazione del PMM stesso.
Pur essendo evidentemente uno strumento avente finalità produttive, il PMM presenta importanti ricadute ai fini della gestione del paesaggio.
Una ricaduta di carattere generale consiste nella riconduzione della edificazione in area agricola alle necessità che le sono proprie, e dunque alla compressione delle distorsioni indotte dal tradizionale approccio urbanistico, che di fatto trasforma tutto lo spazio aperto in area edificabile; le ricadute sulla qualità percettiva dei paesaggi agrari sono evidenti.