Renato Rozzi - Corso di Urbanistica

 

 
 
 
 

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Urbanizzazione e città. Presupposti, origini, evoluzione

Il termine “urbanizzazione” designa il fenomeno secondo cui la popolazione si concentra in un dato territorio, e svolge prevalentemente attività diverse dalla coltivazione dei campi o dall’allevamento di animali. Con questo termine a ben vedere si descrivono due gruppi diversi di questioni:

a) la concentrazione di cui si è già accennato;
b) le trasformazioni dello spazio che questa concentrazione e le connesse attività determinano, ovvero gli edifici, le strade, i monumenti, ecc. che gli abitanti realizzano per svolgere le varie funzioni.
Chiamiamo questo insieme “città” a indicare, ancora, due distinti aspetti del fenomeno:
1) la concentrazione demografica (le persone);
2) lo spazio modificato corrispondente a quella concentrazione (edifici, strade ecc.).
Sono i due aspetti della città che convivono, e che ben si riassumono nei due termini latini civitas (la società urbana, le sue forme associative e la cultura) e urbs (i monumenti, le infrastrutture, gli edifici pubblici e privati).

Nella storia umana, il fenomeno dell’urbanizzazione data da circa 10.000 anni, e dunque è piuttosto recente, se pensiamo che la comparsa dell’homo abilis, in grado di manipolare gli oggetti per i propri scopi, e quindi di modificare sensibilmente il proprio ambiente, è databile a circa 2 milioni di anni fa. L’epoca che ci precede di 10.000 anni corrisponde al periodo neolitico, ovvero della capacità da parte dell’uomo di lavorare la pietra, e anche e soprattutto della “rivoluzione agricola”, quando sempre più numerosi i nostri progenitori iniziano ad abbandonare la caccia e la raccolta di vegetali spontanei per procurarsi del cibo, diventando contadini e allevatori. È un processo che inizia e avanza per primo, abbastanza ovviamente, nelle regioni con maggiore fertilità dei suoli (come la Mesopotamia, fra i fiumi Tigri ed Eufrate, nel territorio dell’attuale Iraq), e via via nel corso dei secoli e dei millenni si presenta in tutte le grandi regioni del mondo.
Un primo effetto di questa “rivoluzione”, e fondamentale per il processo di urbanizzazione, è la stanzialità: le popolazioni con l’agricoltura smettono di essere nomadi, di spostarsi continuamente per inseguire le migrazioni dei capi da cacciare, e/o la maturazione (spesso connessa con queste migrazioni) di alcune specie vegetali. Ora, una parte importante degli abitanti di un territorio inizia a stare per un periodo prolungato nello spesso posto, e le trasformazioni indotte da questi abitanti iniziano ad assumere forma sempre più incisiva e permanente.
Altro elemento fondamentale per la crescita e lo sviluppo della città, è il fatto che l’agricoltura già in partenza produce più cibo, per unità di superficie, di quanto non possano fare caccia e raccolta di vegetali, e che rapidamente le tecniche agricole migliorano questa produttività. Con l’aumento del cibo prodotto per unità di territorio, può anche aumentare la densità di popolazione, che nell’epoca nomade era estremamente bassa: dal minimo di 3 abitanti su 1000 chilometri quadrati dei territori a clima meno favorevole, ad un massimo di 9.000 persone sulla stessa superficie in quelli più ricchi, che è comunque pochissimo. Un altro aspetto dell’aumentata produttività dell’agricoltura, è la possibilità per la prima volta nella storia dell’uomo di avere una quota di cibo leggermente superiore a quella necessaria per la sopravvivenza. Il che, in altre parole, significa che il tempo di alcune persone può essere impiegato in attività diverse dalla produzione di cibo, e che queste persone possono stare in un luogo che non produce cibo, ovvero la città. Ma ciò significa anche che il numero di abitanti della città non può superare quello che l'eccedenza di cibo, prodotto entro la distanza da cui può essere trasportato alla città, consente di nutrire. Ciò spiega perché le città più popolose sis iano formate laddove più fertile era il territorio e più agevole il trasporto.
La città diventa così luogo di una attività di scambio: cibo in cambio di altre cose. La città diventa, anche, un terminale di trasporto (del cibo, dai luoghi in cui viene prodotto), di scambio, di incrocio. Questo appare oggi piuttosto scontato, ma non era certo così all’epoca della primissima urbanizzazione, quando le tecniche, e addirittura l’idea stessa di spostare cose da un luogo all’altro, erano problemi del tutto nuovi.

La rivoluzione agricola, iniziata come si è detto nella fertile Mesopotamia, si estende al resto del mondo allora abitato nel corso di circa 2-3.000 anni, investendo tutti i continenti, a partire dall’Asia, Europa, e poi Africa. In alcuni casi, come nelle civiltà egizia e sumera, le città si formano in epoca piuttosto antica, e pure abbastanza presto si inizia a intravedere il fenomeno della “rete di città”, ovvero di un certo numero di centri urbani connessi fra loro da un sistema di scambi.
Nelle prime città abitano commercianti, che si occupano degli scambi, e artigiani, che fabbricano tutto ciò che può servire alla vita e che l’agricoltura non produce: armi, utensili per la coltivazione, suppellettili per la casa, oggetti per l’abbigliamento ecc. Inoltre la città “produce se stessa”, ovvero si evolvono le tecniche e le conoscenze perché le trasformazioni dello spazio diventino sempre più importanti e permanenti: legno, pietra, mattoni cotti al sole, si trasformano in manufatti durevoli e visibili. Un ruolo importante viene assunto in questo campo dalle fortificazioni, ovvero dalle mura che una città quasi sempre usa per delimitare il proprio spazio e difendersi dalle aggressioni esterne. Sono rari, i casi di città non fortificate, come ad esempio quelle della civiltà egizia, in cui il “confine” non è rappresentato dalle mura, ma dai veri e propri confini dello Stato, difesi da un esercito. Nella maggior parte delle altre città, si ha appunto la Città/Stato, autonoma e che può contare solo sulle proprie forze per la difesa: le mura, ed eventualmente un corso o distesa d’acqua, fiume, lago o mare, utile non solo a tenere a bada gli assalitori, ma anche come via di comunicazione per gli scambi commerciali. Bisogna pensare infatti che la capacità di trasporto di un uomo, senza aiuti di macchine o animali, è calcolabile in circa 1.000 chili, spostati di 1.000 metri, in una giornata di lavoro. È facile comprendere come, in un mondo ancora privo di strade, anche l’imbarcazione più rudimentale su un corso d’acqua, aumenti di moltissimo la possibilità di spostare merci da un luogo all’altro.

In questa sede, consideriamo “urbana” la popolazione di centri con almeno 5.000 abitanti (in mancanza delle informazioni dettagliate disponibili per l'epoca contemporanea, questa è una soglia accettabile). Con questo criterio, introduciamo il concetto di “tasso di urbanizzazione”, inteso come rapporto percentuale fra la popolazione totale e quella urbana, ovvero concentrata in territori che contano almeno 5.000 abitanti. La formula è per inciso: Popolazione urbana-x100/Popolazione totale. Il che significa conoscere sicuramente un rapporto, ma non l'entità né il variare delle sue due componenti: abbiamo un tasso di urbanizzazione medio, ad esempio, del 10% sia con una popolazione totale altissima che molto bassa (per carestie, epidemie ecc.), purché anche l’aumento o diminuzione di popolazione si sia verificato proporzionalmente in campagna e città. Comunque sia, nel corso dell’epoca “tradizionale”, che va dalle prime forme di urbanizzazione matura alla successiva “rivoluzione” (quella industriale, del XVIII secolo), il tasso di urbanizzazione a livello mondiale rimane pressoché invariato, attorno al 10%, per tutto il periodo di 1.600 anni, dal 100 dopo Cristo al 1700.

mappa 1: centri di epoca romana in area mediterranea

Nell’epoca tradizionale, il tasso di urbanizzazione rimane stabile, come si è detto. Al 100 d.C. la popolazione mondiale è di circa 250 milioni di abitanti, di cui i nove decimi risiedono in modo sparso nelle campagne, praticando attività agricole, e solo 25 milioni, sparsi per tutto il pianeta, abitano in centri con più di 5.000 persone e praticano il commercio, l’artigianato e altre occupazioni urbane. Al 1800 la popolazione nel mondo è cresciuta fin quasi a quadruplicarsi rispetto ai valori dell’epoca dell’Impero Romano, ma il tasso di urbanizzazione rimane invariato: 970 milioni di abitanti, ma è ancora necessario che 9 persone lavorino nei campi, perché un decimo possa svolgere altre attività e risiedere in un centro con più di 5.000 abitanti. Ma, come si accennava prima, il tasso di urbanizzazione è solo un rapporto, che non ci dice tutto: alla fine del XVIII secolo il tasso del 10%, sul totale popolazione di 970 milioni, significa oltre 70 milioni in più, in assoluto, di persone che vivono in città. Dato che le tecniche dell’epoca non consentono assolutamente lo sviluppo dei centri oltre una certa dimensione, questo ha significato il moltiplicarsi dei centri, delle città, e conseguentemente delle varie modalità di connessione fra l’una e l’altra, e fra loro e le campagne: vie di commercio, navigazione, piste, porti ecc. fino a configurare un grande sistema che copre virtualmente tutto il pianeta, e che sarà poi la base per lo sviluppo degli scambi in epoca industriale.

Una caratteristica peculiare dello sviluppo urbano, è quella di nutrirsi di immigrazione. In tutto il periodo tradizionale, le condizioni di vita nelle città sono, mediamente, peggiori di quelle delle campagne: ci sono livelli più alti di mortalità specie infantile, e c’è una durata media della vita minore di quanto non avvenga nelle varie epoche in campagna. Quindi, la crescita assoluta nel corso dei secoli della popolazione urbana, non si alimenta con l’incremento naturale, ma in ampia quota con persone che si muovono dalla condizione di contadino abitante delle campagne a quella di cittadino, attratti da “qualcosa” difficile da definire storicamente, ma che certo non è legato a valori tipici della vita rurale, come la disponibilità di cibo.
Nel corso dell’epoca tradizionale, oltre al numero assoluto degli abitanti urbanizzati e a quello dei centri urbani, avvengono anche altri importanti mutamenti. Ad esempio in Europa, dopo l’800 d.C. e fino al 1.300, il tasso di urbanizzazione cresce di molto, e si afferma la civiltà urbana della città medioevale, che fino ai nostri giorni ha lasciato (anche e soprattutto nei centri italiani) testimonianze monumentali e culturali di grande importanza. Ma nel XIV secolo un evento “esterno”, ma che interagisce con la concentrazione urbana e la rete di scambi, l’epidemia di peste, viene a sconvolgere questo equilibrio. Scompare un terzo della popolazione europea, in particolare quella urbana dove il contagio è più facile (il Decamerone di Boccaccio, ad esempio, è ambientato in campagna, dove giovani sfollati dalla città passano il tempo raccontandosi delle novelle). Quando la civiltà inizia a riprendersi, è una civiltà diversa e mutata: è scomparsa la centralità dei grandi valori diffusi nel segno della religione cristiana; è scomparsa la massa perlopiù anonima che si riconosceva in questi valori universali e in una stabile tradizione. Compaiono e si affermano sempre più nell’arte, nelle scienze, nella politica, e nella cultura in generale l’individuo, l’innovazione, la particolarità (anche quella urbana, del monumento, dell’architetto progettista). È una innovazione che tocca anche altri aspetti legati alla città, come gli scambi commerciali con la diffusione della finanza e della speculazione, prima considerate peccato mortale e severamente punite, e lo sviluppo tecnologico legato all’affermazione individuale e al guadagno.
Altri elementi di innovazione di questo periodo sono le grandi scoperte geografiche, che dal punto di vista delle città da un lato spostano il “baricentro” dell’urbanizzazione verso i centri chiave delle nuove rotte (per l’America, per l’Asia circumnavigando l’Africa), dall’altro concentrano ulteriormente le risorse economiche e le conoscenze nelle prime “grandi città”: capitali politiche, di commercio, di scambio. Molte di queste saranno protagoniste della rivoluzione industriale.
 
 

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