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Urbanizzazione
e città.
Presupposti, origini, evoluzione
Il termine “urbanizzazione”
designa il
fenomeno secondo cui la popolazione si concentra in un dato territorio,
e svolge prevalentemente attività diverse dalla coltivazione dei
campi o dall’allevamento di animali. Con questo termine a ben vedere si
descrivono due gruppi diversi di questioni:
a) la concentrazione
di cui si
è già accennato;
b) le trasformazioni dello
spazio che
questa concentrazione e le connesse attività determinano, ovvero
gli edifici, le strade, i monumenti, ecc. che gli abitanti realizzano
per
svolgere le varie funzioni.
Chiamiamo questo insieme
“città” a
indicare, ancora, due distinti aspetti del fenomeno:
1) la concentrazione
demografica
(le persone);
2) lo spazio modificato
corrispondente
a quella concentrazione (edifici, strade ecc.).
Sono i due aspetti della
città che
convivono, e che ben si riassumono nei due termini latini civitas (la
società urbana, le sue forme associative e la cultura) e urbs
(i
monumenti, le infrastrutture, gli edifici pubblici e privati).
Nella storia umana, il fenomeno
dell’urbanizzazione
data da circa 10.000 anni, e dunque è piuttosto recente, se
pensiamo
che la comparsa dell’homo abilis, in grado di manipolare gli
oggetti
per i propri scopi, e quindi di modificare sensibilmente il proprio
ambiente,
è databile a circa 2 milioni di anni fa. L’epoca che ci precede
di 10.000 anni corrisponde al periodo neolitico, ovvero della
capacità
da parte dell’uomo di lavorare la pietra, e anche e soprattutto della
“rivoluzione
agricola”, quando sempre più numerosi i nostri progenitori
iniziano
ad abbandonare la caccia e la raccolta di vegetali spontanei per
procurarsi
del cibo, diventando contadini e allevatori. È un processo che
inizia
e avanza per primo, abbastanza ovviamente, nelle regioni con maggiore
fertilità
dei suoli (come la Mesopotamia, fra i fiumi Tigri ed Eufrate, nel
territorio
dell’attuale Iraq), e via via nel corso dei secoli e dei millenni si
presenta
in tutte le grandi regioni del mondo.
Un primo effetto di questa
“rivoluzione”,
e fondamentale per il processo di urbanizzazione, è la
stanzialità:
le popolazioni con l’agricoltura smettono di essere nomadi, di
spostarsi
continuamente per inseguire le migrazioni dei capi da cacciare, e/o la
maturazione (spesso connessa con queste migrazioni) di alcune specie
vegetali.
Ora, una parte importante degli abitanti di un territorio inizia a
stare
per un periodo prolungato nello spesso posto, e le trasformazioni
indotte
da questi abitanti iniziano ad assumere forma sempre più
incisiva
e permanente.
Altro elemento fondamentale per la
crescita
e lo sviluppo della città, è il fatto che l’agricoltura
già
in partenza produce più cibo, per unità di superficie, di
quanto non possano fare caccia e raccolta di vegetali, e che
rapidamente
le tecniche agricole migliorano questa produttività. Con
l’aumento
del cibo prodotto per unità di territorio, può anche
aumentare
la densità di popolazione, che nell’epoca nomade era
estremamente
bassa: dal minimo di 3 abitanti su 1000 chilometri quadrati dei
territori
a clima meno favorevole, ad un massimo di 9.000 persone sulla stessa
superficie
in quelli più ricchi, che è comunque pochissimo. Un altro
aspetto dell’aumentata produttività dell’agricoltura, è
la
possibilità per la prima volta nella storia dell’uomo di avere
una
quota di cibo leggermente superiore a quella necessaria per la
sopravvivenza.
Il che, in altre parole, significa che il tempo di alcune persone
può
essere impiegato in attività diverse dalla produzione di cibo, e
che queste persone possono stare in un luogo che non produce cibo,
ovvero
la città. Ma ciò significa anche che il numero di
abitanti
della città non può superare quello che l'eccedenza di
cibo,
prodotto entro la distanza da cui può essere trasportato alla
città,
consente di nutrire. Ciò spiega perché le città
più
popolose sis iano formate laddove più fertile era il territorio
e più agevole il trasporto.
La città diventa
così luogo
di una attività di scambio: cibo in cambio di altre cose. La
città
diventa, anche, un terminale di trasporto (del cibo, dai luoghi in cui
viene prodotto), di scambio, di incrocio. Questo appare oggi piuttosto
scontato, ma non era certo così all’epoca della primissima
urbanizzazione,
quando le tecniche, e addirittura l’idea stessa di spostare cose da un
luogo all’altro, erano problemi del tutto nuovi.
La rivoluzione agricola,
iniziata come
si è detto nella fertile Mesopotamia, si estende al resto del
mondo
allora abitato nel corso di circa 2-3.000 anni, investendo tutti i
continenti,
a partire dall’Asia, Europa, e poi Africa. In alcuni casi, come nelle
civiltà
egizia e sumera, le città si formano in epoca piuttosto antica,
e pure abbastanza presto si inizia a intravedere il fenomeno della
“rete
di città”, ovvero di un certo numero di centri urbani connessi
fra
loro da un sistema di scambi.
Nelle prime città abitano
commercianti,
che si occupano degli scambi, e artigiani, che fabbricano tutto
ciò
che può servire alla vita e che l’agricoltura non produce: armi,
utensili per la coltivazione, suppellettili per la casa, oggetti per
l’abbigliamento
ecc. Inoltre la città “produce se stessa”, ovvero si evolvono le
tecniche e le conoscenze perché le trasformazioni dello spazio
diventino
sempre più importanti e permanenti: legno, pietra, mattoni cotti
al sole, si trasformano in manufatti durevoli e visibili. Un ruolo
importante
viene assunto in questo campo dalle fortificazioni, ovvero dalle mura
che
una città quasi sempre usa per delimitare il proprio spazio e
difendersi
dalle aggressioni esterne. Sono rari, i casi di città non
fortificate,
come ad esempio quelle della civiltà egizia, in cui il “confine”
non è rappresentato dalle mura, ma dai veri e propri confini
dello
Stato, difesi da un esercito. Nella maggior parte delle altre
città,
si ha appunto la Città/Stato, autonoma e che può contare
solo sulle proprie forze per la difesa: le mura, ed eventualmente un
corso
o distesa d’acqua, fiume, lago o mare, utile non solo a tenere a bada
gli
assalitori, ma anche come via di comunicazione per gli scambi
commerciali.
Bisogna pensare infatti che la capacità di trasporto di un uomo,
senza aiuti di macchine o animali, è calcolabile in circa 1.000
chili, spostati di 1.000 metri, in una giornata di lavoro. È
facile
comprendere come, in un mondo ancora privo di strade, anche
l’imbarcazione
più rudimentale su un corso d’acqua, aumenti di moltissimo la
possibilità
di spostare merci da un luogo all’altro.
In questa sede, consideriamo
“urbana” la
popolazione di centri con almeno 5.000 abitanti (in mancanza delle
informazioni
dettagliate disponibili per l'epoca contemporanea, questa è una
soglia accettabile). Con questo criterio, introduciamo il concetto di
“tasso
di urbanizzazione”, inteso come rapporto percentuale fra la popolazione
totale e quella urbana, ovvero concentrata in territori che contano
almeno
5.000 abitanti. La formula è per inciso: Popolazione
urbana-x100/Popolazione
totale. Il che significa conoscere sicuramente un rapporto, ma non
l'entità né il variare delle sue due componenti: abbiamo
un tasso di urbanizzazione medio, ad esempio, del 10% sia con una
popolazione
totale altissima che molto bassa (per carestie, epidemie ecc.),
purché
anche l’aumento o diminuzione di popolazione si sia verificato
proporzionalmente
in campagna e città. Comunque sia, nel corso dell’epoca
“tradizionale”,
che va dalle prime forme di urbanizzazione matura alla successiva
“rivoluzione”
(quella industriale, del XVIII secolo), il tasso di urbanizzazione a
livello
mondiale rimane pressoché invariato, attorno al 10%, per tutto
il
periodo di 1.600 anni, dal 100 dopo Cristo al 1700.
mappa
1: centri di epoca romana in area
mediterranea
Nell’epoca tradizionale, il tasso
di urbanizzazione
rimane stabile, come si è detto. Al 100 d.C. la popolazione
mondiale
è di circa 250 milioni di abitanti, di cui i nove decimi
risiedono
in modo sparso nelle campagne, praticando attività agricole, e
solo
25 milioni, sparsi per tutto il pianeta, abitano in centri con
più
di 5.000 persone e praticano il commercio, l’artigianato e altre
occupazioni
urbane. Al 1800 la popolazione nel mondo è cresciuta fin quasi a
quadruplicarsi rispetto ai valori dell’epoca dell’Impero Romano, ma il
tasso di urbanizzazione rimane invariato: 970 milioni di abitanti, ma
è
ancora necessario che 9 persone lavorino nei campi, perché un
decimo
possa svolgere altre attività e risiedere in un centro con
più
di 5.000 abitanti. Ma, come si accennava prima, il tasso di
urbanizzazione
è solo un rapporto, che non ci dice tutto: alla fine del XVIII
secolo
il tasso del 10%, sul totale popolazione di 970 milioni, significa
oltre
70 milioni in più, in assoluto, di persone che vivono in
città.
Dato che le tecniche dell’epoca non consentono assolutamente lo
sviluppo
dei centri oltre una certa dimensione, questo ha significato il
moltiplicarsi
dei centri, delle città, e conseguentemente delle varie
modalità
di connessione fra l’una e l’altra, e fra loro e le campagne: vie di
commercio,
navigazione, piste, porti ecc. fino a configurare un grande sistema che
copre virtualmente tutto il pianeta, e che sarà poi la base per
lo sviluppo degli scambi in epoca industriale.
Una caratteristica peculiare
dello sviluppo
urbano, è quella di nutrirsi di immigrazione. In tutto il
periodo
tradizionale, le condizioni di vita nelle città sono,
mediamente,
peggiori di quelle delle campagne: ci sono livelli più alti di
mortalità
specie infantile, e c’è una durata media della vita minore di
quanto
non avvenga nelle varie epoche in campagna. Quindi, la crescita
assoluta
nel corso dei secoli della popolazione urbana, non si alimenta con
l’incremento
naturale, ma in ampia quota con persone che si muovono dalla condizione
di contadino abitante delle campagne a quella di cittadino, attratti da
“qualcosa” difficile da definire storicamente, ma che certo non
è
legato a valori tipici della vita rurale, come la disponibilità
di cibo.
Nel corso dell’epoca tradizionale,
oltre
al numero assoluto degli abitanti urbanizzati e a quello dei centri
urbani,
avvengono anche altri importanti mutamenti. Ad esempio in Europa, dopo
l’800 d.C. e fino al 1.300, il tasso di urbanizzazione cresce di molto,
e si afferma la civiltà urbana della città medioevale,
che
fino ai nostri giorni ha lasciato (anche e soprattutto nei centri
italiani)
testimonianze monumentali e culturali di grande importanza. Ma nel XIV
secolo un evento “esterno”, ma che interagisce con la concentrazione
urbana
e la rete di scambi, l’epidemia di peste, viene a sconvolgere questo
equilibrio.
Scompare un terzo della popolazione europea, in particolare quella
urbana
dove il contagio è più facile (il Decamerone di
Boccaccio,
ad esempio, è ambientato in campagna, dove giovani sfollati
dalla
città passano il tempo raccontandosi delle novelle). Quando la
civiltà
inizia a riprendersi, è una civiltà diversa e mutata:
è
scomparsa la centralità dei grandi valori diffusi nel segno
della
religione cristiana; è scomparsa la massa perlopiù
anonima
che si riconosceva in questi valori universali e in una stabile
tradizione.
Compaiono e si affermano sempre più nell’arte, nelle scienze,
nella
politica, e nella cultura in generale l’individuo, l’innovazione, la
particolarità
(anche quella urbana, del monumento, dell’architetto progettista).
È
una innovazione che tocca anche altri aspetti legati alla città,
come gli scambi commerciali con la diffusione della finanza e della
speculazione,
prima considerate peccato mortale e severamente punite, e lo sviluppo
tecnologico
legato all’affermazione individuale e al guadagno.
Altri elementi di innovazione di
questo
periodo sono le grandi scoperte geografiche, che dal punto di vista
delle
città da un lato spostano il “baricentro” dell’urbanizzazione
verso
i centri chiave delle nuove rotte (per l’America, per l’Asia
circumnavigando
l’Africa), dall’altro concentrano ulteriormente le risorse economiche e
le conoscenze nelle prime “grandi città”: capitali politiche, di
commercio, di scambio. Molte di queste saranno protagoniste della
rivoluzione
industriale.
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