Urbanizzazione e
città dalla
Rivoluzione Industriale all'emergenza nei Paesi in via di sviluppo
Occorre innanzitutto chiarire
cosa si intenda,
esattamente, con il termine “rivoluzione industriale”. Chiamiamo
rivoluzione
industriale, l’accelerata trasformazione del mondo, in particolare
dell’Europa,
che inizia nel XVIII secolo a seguito di un aumento molto rapido della
produttività individuale, in particolare nelle attività
diverse
dall’agricoltura, realizzato grazie alla fusione dei progressi della
tecnologia
(delle conoscenze scientifiche applicate a fini pratici su vasta
scala),
della nuova organizzazione e divisione del lavoro, di un impiego
efficiente
come mai prima della moneta e relativi scambi.
Va rilevato, di passaggio, che
l’Europa
dove si manifesta la “rivoluzione tecnologica” non è il luogo
dove
si concentrano le conoscenze scientifiche che ne sono alla base. Basta
pensare, al fatto piuttosto noto, del primato cinese in alcuni campi
rivelatisi
poi strategici per lo sviluppo moderno, e di cui chissà come la
civiltà che li aveva prodotti non aveva intuito il potenziale, o
non ne aveva tratto le stesse conseguenze. Altro esempio, lo “zero”
matematico,
di origine araba e del tutto sconosciuto alla cultura romana alla base
di quella europea, concetto importato quanto fondamentale per il
calcolo
e i suoi sviluppi nelle scienze, nella tecnologia, nell’economia. Resta
il fatto che, per motivi non ancora del tutto spiegati, lo sviluppo
tecnologico
che porterà a quello industriale avviene in Europa, e a ben
vedere
non è nemmeno strettamente connesso alla città, dove pure
ci sarà poi la massima concentrazione produttiva, demografica,
di
intelligenze e potenzialità economiche. Le tecnologie, quelle
“fondative”
dell’industrializzazione, legate alle innovazioni nel telaio da
tessitura,
o nella propulsione a vapore, avvengono con l’apporto intellettuale di
uomini che lavorano da soli, nell’ambiente di campagna o di piccoli
centri,
slegati quindi dal contesto urbano che poi si identificherà
quasi
completamente con l’industria. La divisione del lavoro, invece, con la
necessità di articolare mansioni e competenze, dipende in
maggior
quota dalla concentrazione demografica della città, e dalla
maggior
disponibilità conseguente di qualità e quantità di
lavoro.
Ma prima della rivoluzione
industriale,
alla base del nuovo salto nello sviluppo economico e urbano sta una
“seconda
rivoluzione agricola”, che stravolge l’equilibrio raggiunto da quella
precedente
di migliaia di anni prima, e rimasto sostanzialmente invariato: la
necessità
di un rapporto di 1/10 fra chi non produce cibo e chi ne produce, e il
connesso tasso di urbanizzazione oscillante attorno al 10%,
indipendentemente
dalle cifre assolute della popolazione mondiale e del numero dei centri
urbani. Questa seconda rivoluzione agricola, interessa in primo luogo
l’Inghilterra
del XVIII, dove la produttività per unità di superficie
aumenta
di molto grazie ad alcune innovazioni nelle tecniche di coltura
importate
dall’Olanda, e ad una innovazione organizzativo-politica, e cioè
il processo di enclosure, ovvero di “chiusura”, recinzione e
privatizzazione
dei terreni agricoli collettivi, con aumento progressivo di
produttività,
concentrazione degli investimenti in migliorie, e dall’altro lato
espulsione
di contadini poveri, o meglio resi artificialmente poveri dalla loro
“esclusione”
dall’uso di terreni un tempo collettivi. Questo processo, iniziato nel
XV secolo, raggiunge durante il ‘700 lo straordinario risultato di un
raddoppio
di produttività: è superata, per la prima volta nella
storia,
la minaccia della carestia (almeno nel contesto britannico), e nello
stesso
tempo l’aumento di produttività connesso strettamente
all’espulsione
di contadini non più necessari alla produzione genera una
disponibilità
di braccia. Le stesse braccia che di lì a poco migreranno verso
la città e l’industria.
Per riassumere l’evoluzione nel
tempo
dei processi accennati sinora, può essere utile la tabella
riportata
qui sotto, che descrive la crescita demografica europea dalla ripresa
dopo
la peste del XIV secolo, all’epoca in cui in tutti i paesi occidentali
è avvenuta la rivoluzione industriale. Da notare che si tratta
di
cifre medie, che non tengono conto dei massimi (come ad esempio un
tasso
di urbanizzazione che in Inghilterra è già del 70% alla
fine
del XIX secolo), o del fatto che la crescita demografica è al
netto
delle copiosissime emigrazioni soprattutto verso le Americhe, che
interessano
le popolazioni europee per tutto il periodo e oltre.
Anno |
Popolazione (in
milioni) |
Tasso urbanizzazione % |
|
|
|
1500 |
75
|
11
|
1700 |
102
|
12
|
1750 |
120
|
12
|
1800 |
154
|
12
|
1850 |
203
|
19
|
1910 |
310
|
41
|
Dunque, la rivoluzione agricola
rende possibile
che si spezzi il rapporto di circa 1/10 fra chi svolge attività
diverse dall’agricoltura, e chi è costretto a coltivare o
allevare
bestiame per nutrire sé stesso e i pochi che fanno altro e
possono
vivere in città. Ma alla rivoluzione agricola,
scientifico-tecnologica,
urbana, se ne accompagnano altre: di diverso segno ma pur sempre legate
al grande processo di cambiamento del periodo. Sono quelle politiche
della
rivoluzione francese e prima ancora americana, che stabiliscono le
nuove
regole della democrazia borghese, basata sulla capacità
anziché
sull’ereditarietà, e che aprono il campo alla competizione in
campo
economico. Sono le rivoluzioni “nazionali”, ovvero la fondazione di
Stati
nazionali, che rappresentano un radicale mutamento rispetto all’idea
precedente,
di “potenza che rivendica un territorio”. Ora, è un territorio
che
rivendica una sua “potenza”, in termini di autodeterminazione, per
quanto
imperfetta, del proprio futuro: territorio e nazione vengono
così
tendenzialmente a coincidere, mettendo fine ad esempio a “casi” del
tutto
normali nella società tradizionale, come la città di
Orange,
dentro il territorio del Regno francese, ma in tutto e per tutto
appartenente
all’omonima famiglia regnante olandese. Anche l’unificazione italiana,
compiuta nel 1861 dopo un lungo processo politico e militare, fa parte
di questo ciclo di formazione degli Stati nazionali, i quali
rappresentano
a loro volta la “dimensione ottima” per costituire un sistema economico
moderno e industriale, con la rete delle città, dei trasporti,
delle
relazioni di scambio.
Tra gli effetti della rivoluzione
industriale
sulle città, uno dei più importanti (legato sia ai
processi
economici che a quelli tecnologici) è l’aumento di numero delle
grandi città, e poi delle grandissime, “città milionarie”
e oltre. Anche questo si manifesta con anticipo e più forza
nella
Gran Bretagna del XIX secolo dove relativamente piccoli centri come
Birmingham,
Liverpool, o Manchester, passano dalle poche migliaia di abitanti del
XVIII
secolo, da alcune decine di migliaia, nel primo Ottocento, alle
centinaia
di migliaia negli anni successivi dello stesso secolo, con ritmi e
modalità
caotiche, che provocano squilibri sanitari e sociali estremi, dai quali
trarrà origine, proprio, l’urbanistica “istituzionale”, ovvero
le
prime regole moderne del vivere collettivo nella città, come
risposta
alla crisi (abitativa, delle condizioni di lavoro, dell’ambiente
urbano)
ben raccontata da Frederick Engels nel suo La condizione della classe
operaia
in Inghilterra.
Con la rivoluzione industriale
inizia anche
a cambiare il concetto stesso di tasso di urbanizzazione, che dapprima
distinzione netta fra chi sta nei due ambienti distinti e separati
della
città e della campagna, diventa prima lentamente e poi sempre
più
rapidamente distinzione prevalentemente statistica, fino a quando il
dato
odierno del 70% a livello europeo ci descrive solo la quantità
di
popolazione residente in centri classificati come urbani, quando anche
il rimanente 30% probabilmente svolge attività, e pratica stili
di vita, che non si discostano per niente da quelli della popolazione
“urbana”
(reddito, aspettative, mobilità, istruzione ecc.). Fra gli
elementi
che si sono radicalmente trasformati nel rapporto
città/campagna,
dall’epoca tradizionale ai nostri giorni, ad esempio il tasso di
mortalità
soprattutto infantile, che tradizionalmente più alto in
città
a causa della concentrazione e della qualità abitativa media,
negli
anni ’20 del Novecento si è allineato a quello delle campagne
(uno
dei motivi dell’antica “battaglia contro le città” di molti
governanti
era appunto la scarsa propensione a far figli). È diminuito,
prima
nelle città, poi anche nelle campagne, il tasso di
fertilità,
ovvero la propensione ad avere figli, probabilmente anche a causa degli
stili di vita differenti fra i due ambienti: struttura del mercato
degli
alloggi, e soprattutto del mercato del lavoro, laddove in campagna i
figli
sono stati sempre e comunque una “ricchezza”, da utilizzare nel lavoro
dei campi in varie mansioni, senza problemi di collocamento, all’epoca
in cui la maggior parte dei lavori era manuale e relativamente semplice.
Come già accennato, ci
sono molte
“rivoluzioni” tecnologiche che concorrono in vario modo a comporre il
processo
della rivoluzione industriale. Quelle legate alle costruzioni, come il
ferro, il cemento armato, o più tardi l’uso di ascensori
(Chicago,
1850 circa). O quella dei trasporti, che nello sviluppo delle
città
e dei sistemi urbani avevano contato quasi esclusivamente sulla
navigazione
e il trasporto animale su strade scarse e tortuose. All’inizio
dell’Ottocento
Parigi vede apparire il primo servizio di trasporto interno
(indispensabile
in una città che cresceva oltre i limiti di ragionevoli distanze
pedonali) su Omnibus a trazione animale. Qualche anno dopo, lo stesso
mezzo
sarà proposto oltre Atlantico, a New York, con l’importante
innovazione
delle rotaie, che a loro volta introducono la questione della sede
propria,
del percorso fisso, che saranno all’origine delle linee tranviarie
urbane
e metropolitane dei decenni successivi. Ancora nei primi decenni
dell’Ottocento
in Inghilterra di inaugurano i primi importanti collegamenti ferroviari
fra le principali città, a sostenere la rete sempre più
fitta
degli scambi commerciali e del flusso di materie prime e prodotti
finiti.
Non a caso, il primo grande progetto di “unificazione fisica”
nazionale,
nell’Italia unificata politicamente dal 1861, sarà la
costruzione
di una rete ferroviaria a collegare tutti i maggiori centri della
penisola
(non a caso i viali delle stazioni portano quasi sempre il nome dei
protagonisti
del Risorgimento o della prima epoca di unità nazionale).
I due grafici riportati sotto,
rappresentano
sinteticamente il rapporto tra popolazione urbana, popolazione rurale,
popolazione totale europea (Russia esclusa) dal 1700 al 1990. Il primo
presenta una scala aritmetica, che consente di apprezzare i valori
assoluti;
il secondo una scala logaritmica, che consente di apprezzare la
velocità
di evoluzione dei fenomeni.
Entrambi i grafici sono
scaricabili in
formato PDF cliccando sull'immagine, e più sotto si mettono a
disposizione,
scaricabili, grafici "metodologici" che spiegano meglio l'uso delle due
scale di lettura.
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Popolazione urbana e non in
Europa
1700-1990 (scala aritmetica)
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Popolazione urbana e non in
Europa
1700-1990 (scala logaritmica)
grafici "metodologici"
scaricabili
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PDF-3
Tutto quanto descritto sopra,
riguardo
ai vari temi e modi della Rivoluzione industriale, interessa solo e
soltanto
l’Europa, dove il fenomeno si allarga dalle origini in Inghilterra via
via sul resto del continente, fino alla Russia. L’industrializzazione e
urbanizzazione riguardano più o meno nello stesso arco di tempo
anche il Nord America, con gli USA e il Canada, e poi l’Australia, o il
Giappone, in anni più recenti altre nazioni come la Corea. Ma
non
si tratta, a differenza di quanto avvenuto con la rivoluzione agricola
e la connessa urbanizzazione, di un processo esteso a tutto il pianeta.
Quello che avviene nei paesi poi chiamati “in via di sviluppo”,
è
molto diverso.
Nel cosiddetto Terzo Mondo (un
termine
coniato a suo tempo per distinguere questi Paesi sia dagli stati
dell’Occidente
capitalistico, sia da quelli di orientamento socialista più o
meno
legati alla Unione Sovietica), il processo di sviluppo inizia a
divergere
da quello europeo già dall’epoca immediatamente susseguente la
“crisi”
demografica e civile seguita alla peste del XIV secolo, ovvero quando
le
scoperte geografiche e l’apertura delle nuove rotte per le Americhe e
l’Asia
circumnavigando l’Africa rivoluzionano la politica europea e il sistema
delle città. Si apre il periodo della colonizzazione, che
dapprima
interessa nella maggior parte dei casi solo i capisaldi di alcuni
piccoli
essenziali centri sulla costa, in qualche modo di servizio alla
navigazione.
La colonizzazione vera e propria dell’entroterra continentale è
limitata all’esperienza (spagnola, portoghese, e più tardi e
limitatamente
di altri) nell'America centro-meridionale, dove esisteva
originariamente
una popolazione complessiva di 40.000.000 di abitanti, con una
civiltà
urbana abbastanza sviluppata e complessa. Questa popolazione e queste
civiltà
sono azzerate dalla colonizzazione, con la scomparsa o quasi della
popolazione
indigena: in parte sterminata per le conquiste militari, in parte
decimata
dalle malattie trasmesse dai colonizzatori, poi e molto più
tardi
assimilata dai processi di migrazione verso queste terre di una gran
massa
di lavoratori europei, durata fino al Novecento. Anche il sistema
urbano
è sostituito da una rete nuova, finalizzata ai nuovi scopi dei
colonizzatori,
che sono prima la ricerca delle ricchezze minerarie (oro, argento), e
poi
lo sfruttamento agricolo di risorse alimentari (caffé, zucchero)
mentre coltture prima sconosciute, come le patate i pomodori o il mais,
che lentamente saranno introdotte anche in Europa.
Negli altri continenti, la
colonizzazione
arriva molto più tardi, in epoca europea già industriale,
quando alla semplice gestione degli avamposti sulla costa si aggiunge
la
conquista vera e proprie dell’entroterra, come nell’India britannica, o
nelle varie colonie africane di Francia, Belgio, Gran Bretagna, e poi
anche
Germania, Italia, o nelle colonie portoghesi che saranno anche le
ultime
a scomparire in un processo che va dall’indipendenza dei vari Stati
sudamericani
nel corso dell’Ottocento, a quella dell’India subito dopo la seconda
guerra
mondiale (1948/50) e di gran parte dei paesi coloniali, a quella di
Angola
e Mozambico a seguito di una “rivoluzione” in Portogallo, quella
democratica
cosiddetta “dei garofani”, nel 1976, che porta tra l’altro appunto
all’abbandono
definitivo della politica coloniale.
Oltre allo scarto temporale, fra i
processi
di colonizzazione originari dell'America Latina e quelli successivi
africani
e asiatici, un elemento fondamentale di distinzione è l’assenza
di emigrazione di massa dai paesi europei verso le “terre d’oltremare”.
Anche l’Italia, che pure in qualche modo mira ad una colonizzazione da
parte di contadini emigrati delle campagne di Somalia, Eritrea, Libia,
non si avvicinerà minimamente ai livelli di reciproca
assimilazione
tipici del continente sudamericano. Il processo sociale quindi è
quello di una colonizzazione fatta da pochissimi rappresentanti del
paese
colonizzatore, e che produce una economia e un sistema insediativo di
città
e campagna funzionale solo al sistema coloniale. Quando questi stati
raggiungono
l’indipendenza, il sistema socioeconomico per molti versi collassa. Le
città-porto che in molti casi si erano sostituite ai centri
originali
come cardini del sistema urbano, non servono più né come
terminali dei rapporti commerciali con la “madrepatria”, né come
centri di comando politico connesso a questo ruolo commerciale. Si
modifica
anche bruscamente il rapporto città/campagna, nonostante che la
popolazione complessiva prenda a crescere assai velocemente proprio a
partire
dagli anni '50 (grazie alle pratiche sanitarie introdotte
dall'Occidente),
la popolazione suburbana cresce ancora più velocemente
perché
grandi masse di popolazione non urbana si riversano nelle città,
le cui di mensioni non sono più fortemente controllate come in
epoca
coloniale.
All'origine di questi spostamenti
stanno
da un lato la repulsione esercitata dalle campagne a causa
dell'insufficiente
aumento della produttività agricola e dall'altro l'attrazione
esercitata
dalle molteplici attività proprie della città.
La differenza rispetto a quanto
avvenuto
in Occidente dopo l'avvio della rivoluzione industriale, è che
le
città non sono, come a suo tempo in Inghilterra, i centri motori
dello sviluppo economico, ma solo centri che con la fine delle colonie
hanno perso l’antico ruolo, e non ne hanno un altro in sostituzione. La
città dei paesi terzi diventa così, quasi di colpo, una
grande
città che è solo luogo di consumo, immagine di una
inedita
urbanizzazione senza sviluppo, dove alla crescita demografica non
corrisponde
un relativo aumento di ricchezza. E si tratta di un fenomeno che,
quantitativamente,
non ha precedenti: sono proprio le città dei paesi in via di
sviluppo
a raggiungere i nuovi record di abitanti, con i 20 milioni di
Città
del Messico, e i molti centri che superano e di molto i 10 milioni,
mentre
le città dei paesi sviluppati sembrano in qualche modo aver
trovato
(con le politiche territoriali e urbanistiche, o attraverso altri
processi)
un limite alla crescita.
Questo, in breve e al momento
attuale,
il quadro mondiale dell’urbanizzazione, con un processo che nei Paesi
in
via di sviluppo è stato definito di "inflazione urbana" a
descrivere
il distacco da qualunque processo di sviluppo socioeconomico, a
differenza
di quanto avvenuto con l'urbanizzazione industriale europea. I
due
grafici allegati di seguito (scaricabili in formato PDF cliccando
sull'immagine)
rappresentano lo sviluppo dei fenomeni di urbanizzazione a scala
mondiale
dall'inizio del XIX secolo, con proiezioni fino al 2025, divisi fra
paesi
industrializzati e paesi poveri, e mettono in risalto la tendenza ad
acutizzarsi
di alcuni problemi, che rappresentano le sfide principali del futuro,
anche
per "operatori dello spazio" come gli architetti, il cui compito
professionale
è appunto quello di migliorare le condizioni generali abitative.
Dinamica di popolazione a
livello mondiale
(urbana, rurale), 1800-2025 (I)
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Dinamica di popolazione a
livello mondiale
(urbana, rurale), 1800-2025 (II)
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