Renato Rozzi - Corso di Urbanistica

 

 
 
 
 

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Urbanizzazione e città dalla Rivoluzione Industriale all'emergenza nei Paesi in via di sviluppo

Occorre innanzitutto chiarire cosa si intenda, esattamente, con il termine “rivoluzione industriale”. Chiamiamo rivoluzione industriale, l’accelerata trasformazione del mondo, in particolare dell’Europa, che inizia nel XVIII secolo a seguito di un aumento molto rapido della produttività individuale, in particolare nelle attività diverse dall’agricoltura, realizzato grazie alla fusione dei progressi della tecnologia (delle conoscenze scientifiche applicate a fini pratici su vasta scala), della nuova organizzazione e divisione del lavoro, di un impiego efficiente come mai prima della moneta e relativi scambi.
Va rilevato, di passaggio, che l’Europa dove si manifesta la “rivoluzione tecnologica” non è il luogo dove si concentrano le conoscenze scientifiche che ne sono alla base. Basta pensare, al fatto piuttosto noto, del primato cinese in alcuni campi rivelatisi poi strategici per lo sviluppo moderno, e di cui chissà come la civiltà che li aveva prodotti non aveva intuito il potenziale, o non ne aveva tratto le stesse conseguenze. Altro esempio, lo “zero” matematico, di origine araba e del tutto sconosciuto alla cultura romana alla base di quella europea, concetto importato quanto fondamentale per il calcolo e i suoi sviluppi nelle scienze, nella tecnologia, nell’economia. Resta il fatto che, per motivi non ancora del tutto spiegati, lo sviluppo tecnologico che porterà a quello industriale avviene in Europa, e a ben vedere non è nemmeno strettamente connesso alla città, dove pure ci sarà poi la massima concentrazione produttiva, demografica, di intelligenze e potenzialità economiche. Le tecnologie, quelle “fondative” dell’industrializzazione, legate alle innovazioni nel telaio da tessitura, o nella propulsione a vapore, avvengono con l’apporto intellettuale di uomini che lavorano da soli, nell’ambiente di campagna o di piccoli centri, slegati quindi dal contesto urbano che poi si identificherà quasi completamente con l’industria. La divisione del lavoro, invece, con la necessità di articolare mansioni e competenze, dipende in maggior quota dalla concentrazione demografica della città, e dalla maggior disponibilità conseguente di qualità e quantità di lavoro.
Ma prima della rivoluzione industriale, alla base del nuovo salto nello sviluppo economico e urbano sta una “seconda rivoluzione agricola”, che stravolge l’equilibrio raggiunto da quella precedente di migliaia di anni prima, e rimasto sostanzialmente invariato: la necessità di un rapporto di 1/10 fra chi non produce cibo e chi ne produce, e il connesso tasso di urbanizzazione oscillante attorno al 10%, indipendentemente dalle cifre assolute della popolazione mondiale e del numero dei centri urbani. Questa seconda rivoluzione agricola, interessa in primo luogo l’Inghilterra del XVIII, dove la produttività per unità di superficie aumenta di molto grazie ad alcune innovazioni nelle tecniche di coltura importate dall’Olanda, e ad una innovazione organizzativo-politica, e cioè il processo di enclosure, ovvero di “chiusura”, recinzione e privatizzazione dei terreni agricoli collettivi, con aumento progressivo di produttività, concentrazione degli investimenti in migliorie, e dall’altro lato espulsione di contadini poveri, o meglio resi artificialmente poveri dalla loro “esclusione” dall’uso di terreni un tempo collettivi. Questo processo, iniziato nel XV secolo, raggiunge durante il ‘700 lo straordinario risultato di un raddoppio di produttività: è superata, per la prima volta nella storia, la minaccia della carestia (almeno nel contesto britannico), e nello stesso tempo l’aumento di produttività connesso strettamente all’espulsione di contadini non più necessari alla produzione genera una disponibilità di braccia. Le stesse braccia che di lì a poco migreranno verso la città e l’industria.
Per riassumere l’evoluzione nel tempo dei processi accennati sinora, può essere utile la tabella riportata qui sotto, che descrive la crescita demografica europea dalla ripresa dopo la peste del XIV secolo, all’epoca in cui in tutti i paesi occidentali è avvenuta la rivoluzione industriale. Da notare che si tratta di cifre medie, che non tengono conto dei massimi (come ad esempio un tasso di urbanizzazione che in Inghilterra è già del 70% alla fine del XIX secolo), o del fatto che la crescita demografica è al netto delle copiosissime emigrazioni soprattutto verso le Americhe, che interessano le popolazioni europee per tutto il periodo e oltre.
 
 

Anno  Popolazione (in milioni)  Tasso urbanizzazione %



1500
75 
11 
1700
102 
12
1750
120
12
1800
154
12
1850
203
19
1910
310
41

Dunque, la rivoluzione agricola rende possibile che si spezzi il rapporto di circa 1/10 fra chi svolge attività diverse dall’agricoltura, e chi è costretto a coltivare o allevare bestiame per nutrire sé stesso e i pochi che fanno altro e possono vivere in città. Ma alla rivoluzione agricola, scientifico-tecnologica, urbana, se ne accompagnano altre: di diverso segno ma pur sempre legate al grande processo di cambiamento del periodo. Sono quelle politiche della rivoluzione francese e prima ancora americana, che stabiliscono le nuove regole della democrazia borghese, basata sulla capacità anziché sull’ereditarietà, e che aprono il campo alla competizione in campo economico. Sono le rivoluzioni “nazionali”, ovvero la fondazione di Stati nazionali, che rappresentano un radicale mutamento rispetto all’idea precedente, di “potenza che rivendica un territorio”. Ora, è un territorio che rivendica una sua “potenza”, in termini di autodeterminazione, per quanto imperfetta, del proprio futuro: territorio e nazione vengono così tendenzialmente a coincidere, mettendo fine ad esempio a “casi” del tutto normali nella società tradizionale, come la città di Orange, dentro il territorio del Regno francese, ma in tutto e per tutto appartenente all’omonima famiglia regnante olandese. Anche l’unificazione italiana, compiuta nel 1861 dopo un lungo processo politico e militare, fa parte di questo ciclo di formazione degli Stati nazionali, i quali rappresentano a loro volta la “dimensione ottima” per costituire un sistema economico moderno e industriale, con la rete delle città, dei trasporti, delle relazioni di scambio.
Tra gli effetti della rivoluzione industriale sulle città, uno dei più importanti (legato sia ai processi economici che a quelli tecnologici) è l’aumento di numero delle grandi città, e poi delle grandissime, “città milionarie” e oltre. Anche questo si manifesta con anticipo e più forza nella Gran Bretagna del XIX secolo dove relativamente piccoli centri come Birmingham, Liverpool, o Manchester, passano dalle poche migliaia di abitanti del XVIII secolo, da alcune decine di migliaia, nel primo Ottocento, alle centinaia di migliaia negli anni successivi dello stesso secolo, con ritmi e modalità caotiche, che provocano squilibri sanitari e sociali estremi, dai quali trarrà origine, proprio, l’urbanistica “istituzionale”, ovvero le prime regole moderne del vivere collettivo nella città, come risposta alla crisi (abitativa, delle condizioni di lavoro, dell’ambiente urbano) ben raccontata da Frederick Engels nel suo La condizione della classe operaia in Inghilterra.

Con la rivoluzione industriale inizia anche a cambiare il concetto stesso di tasso di urbanizzazione, che dapprima distinzione netta fra chi sta nei due ambienti distinti e separati della città e della campagna, diventa prima lentamente e poi sempre più rapidamente distinzione prevalentemente statistica, fino a quando il dato odierno del 70% a livello europeo ci descrive solo la quantità di popolazione residente in centri classificati come urbani, quando anche il rimanente 30% probabilmente svolge attività, e pratica stili di vita, che non si discostano per niente da quelli della popolazione “urbana” (reddito, aspettative, mobilità, istruzione ecc.). Fra gli elementi che si sono radicalmente trasformati nel rapporto città/campagna, dall’epoca tradizionale ai nostri giorni, ad esempio il tasso di mortalità soprattutto infantile, che tradizionalmente più alto in città a causa della concentrazione e della qualità abitativa media, negli anni ’20 del Novecento si è allineato a quello delle campagne (uno dei motivi dell’antica “battaglia contro le città” di molti governanti era appunto la scarsa propensione a far figli). È diminuito, prima nelle città, poi anche nelle campagne, il tasso di fertilità, ovvero la propensione ad avere figli, probabilmente anche a causa degli stili di vita differenti fra i due ambienti: struttura del mercato degli alloggi, e soprattutto del mercato del lavoro, laddove in campagna i figli sono stati sempre e comunque una “ricchezza”, da utilizzare nel lavoro dei campi in varie mansioni, senza problemi di collocamento, all’epoca in cui la maggior parte dei lavori era manuale e relativamente semplice.

Come già accennato, ci sono molte “rivoluzioni” tecnologiche che concorrono in vario modo a comporre il processo della rivoluzione industriale. Quelle legate alle costruzioni, come il ferro, il cemento armato, o più tardi l’uso di ascensori (Chicago, 1850 circa). O quella dei trasporti, che nello sviluppo delle città e dei sistemi urbani avevano contato quasi esclusivamente sulla navigazione e il trasporto animale su strade scarse e tortuose. All’inizio dell’Ottocento Parigi vede apparire il primo servizio di trasporto interno (indispensabile in una città che cresceva oltre i limiti di ragionevoli distanze pedonali) su Omnibus a trazione animale. Qualche anno dopo, lo stesso mezzo sarà proposto oltre Atlantico, a New York, con l’importante innovazione delle rotaie, che a loro volta introducono la questione della sede propria, del percorso fisso, che saranno all’origine delle linee tranviarie urbane e metropolitane dei decenni successivi. Ancora nei primi decenni dell’Ottocento in Inghilterra di inaugurano i primi importanti collegamenti ferroviari fra le principali città, a sostenere la rete sempre più fitta degli scambi commerciali e del flusso di materie prime e prodotti finiti. Non a caso, il primo grande progetto di “unificazione fisica” nazionale, nell’Italia unificata politicamente dal 1861, sarà la costruzione di una rete ferroviaria a collegare tutti i maggiori centri della penisola (non a caso i viali delle stazioni portano quasi sempre il nome dei protagonisti del Risorgimento o della prima epoca di unità nazionale).

I due grafici riportati sotto, rappresentano sinteticamente il rapporto tra popolazione urbana, popolazione rurale, popolazione totale europea (Russia esclusa) dal 1700 al 1990. Il primo presenta una scala aritmetica, che consente di apprezzare i valori assoluti; il secondo una scala logaritmica, che consente di apprezzare la velocità di evoluzione dei fenomeni.
Entrambi i grafici sono scaricabili in formato PDF cliccando sull'immagine, e più sotto si mettono a disposizione, scaricabili, grafici "metodologici" che spiegano meglio l'uso delle due scale di lettura.

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Popolazione urbana e non in Europa 1700-1990 (scala aritmetica)
 

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Popolazione urbana e non in Europa 1700-1990 (scala logaritmica)

grafici "metodologici" scaricabili
download PDF-1 *** download PDF-2 *** download PDF-3

Tutto quanto descritto sopra, riguardo ai vari temi e modi della Rivoluzione industriale, interessa solo e soltanto l’Europa, dove il fenomeno si allarga dalle origini in Inghilterra via via sul resto del continente, fino alla Russia. L’industrializzazione e urbanizzazione riguardano più o meno nello stesso arco di tempo anche il Nord America, con gli USA e il Canada, e poi l’Australia, o il Giappone, in anni più recenti altre nazioni come la Corea. Ma non si tratta, a differenza di quanto avvenuto con la rivoluzione agricola e la connessa urbanizzazione, di un processo esteso a tutto il pianeta. Quello che avviene nei paesi poi chiamati “in via di sviluppo”, è molto diverso.
Nel cosiddetto Terzo Mondo (un termine coniato a suo tempo per distinguere questi Paesi sia dagli stati dell’Occidente capitalistico, sia da quelli di orientamento socialista più o meno legati alla Unione Sovietica), il processo di sviluppo inizia a divergere da quello europeo già dall’epoca immediatamente susseguente la “crisi” demografica e civile seguita alla peste del XIV secolo, ovvero quando le scoperte geografiche e l’apertura delle nuove rotte per le Americhe e l’Asia circumnavigando l’Africa rivoluzionano la politica europea e il sistema delle città. Si apre il periodo della colonizzazione, che dapprima interessa nella maggior parte dei casi solo i capisaldi di alcuni piccoli essenziali centri sulla costa, in qualche modo di servizio alla navigazione. La colonizzazione vera e propria dell’entroterra continentale è limitata all’esperienza (spagnola, portoghese, e più tardi e limitatamente di altri) nell'America centro-meridionale, dove esisteva originariamente una popolazione complessiva di 40.000.000 di abitanti, con una civiltà urbana abbastanza sviluppata e complessa. Questa popolazione e queste civiltà sono azzerate dalla colonizzazione, con la scomparsa o quasi della popolazione indigena: in parte sterminata per le conquiste militari, in parte decimata dalle malattie trasmesse dai colonizzatori, poi e molto più tardi assimilata dai processi di migrazione verso queste terre di una gran massa di lavoratori europei, durata fino al Novecento. Anche il sistema urbano è sostituito da una rete nuova, finalizzata ai nuovi scopi dei colonizzatori, che sono prima la ricerca delle ricchezze minerarie (oro, argento), e poi lo sfruttamento agricolo di risorse alimentari (caffé, zucchero) mentre coltture prima sconosciute, come le patate i pomodori o il mais, che lentamente saranno introdotte anche in Europa.
Negli altri continenti, la colonizzazione arriva molto più tardi, in epoca europea già industriale, quando alla semplice gestione degli avamposti sulla costa si aggiunge la conquista vera e proprie dell’entroterra, come nell’India britannica, o nelle varie colonie africane di Francia, Belgio, Gran Bretagna, e poi anche Germania, Italia, o nelle colonie portoghesi che saranno anche le ultime a scomparire in un processo che va dall’indipendenza dei vari Stati sudamericani nel corso dell’Ottocento, a quella dell’India subito dopo la seconda guerra mondiale (1948/50) e di gran parte dei paesi coloniali, a quella di Angola e Mozambico a seguito di una “rivoluzione” in Portogallo, quella democratica cosiddetta “dei garofani”, nel 1976, che porta tra l’altro appunto all’abbandono definitivo della politica coloniale.
Oltre allo scarto temporale, fra i processi di colonizzazione originari dell'America Latina e quelli successivi africani e asiatici, un elemento fondamentale di distinzione è l’assenza di emigrazione di massa dai paesi europei verso le “terre d’oltremare”. Anche l’Italia, che pure in qualche modo mira ad una colonizzazione da parte di contadini emigrati delle campagne di Somalia, Eritrea, Libia, non si avvicinerà minimamente ai livelli di reciproca assimilazione tipici del continente sudamericano. Il processo sociale quindi è quello di una colonizzazione fatta da pochissimi rappresentanti del paese colonizzatore, e che produce una economia e un sistema insediativo di città e campagna funzionale solo al sistema coloniale. Quando questi stati raggiungono l’indipendenza, il sistema socioeconomico per molti versi collassa. Le città-porto che in molti casi si erano sostituite ai centri originali come cardini del sistema urbano, non servono più né come terminali dei rapporti commerciali con la “madrepatria”, né come centri di comando politico connesso a questo ruolo commerciale. Si modifica anche bruscamente il rapporto città/campagna, nonostante che la popolazione complessiva prenda a crescere assai velocemente proprio a partire dagli anni '50 (grazie alle pratiche sanitarie introdotte dall'Occidente), la popolazione suburbana cresce ancora più velocemente perché grandi masse di popolazione non urbana si riversano nelle città, le cui di mensioni non sono più fortemente controllate come in epoca coloniale.
All'origine di questi spostamenti stanno da un lato la repulsione esercitata dalle campagne a causa dell'insufficiente aumento della produttività agricola e dall'altro l'attrazione esercitata dalle molteplici attività proprie della città.
La differenza rispetto a quanto avvenuto in Occidente dopo l'avvio della rivoluzione industriale, è che le città non sono, come a suo tempo in Inghilterra, i centri motori dello sviluppo economico, ma solo centri che con la fine delle colonie hanno perso l’antico ruolo, e non ne hanno un altro in sostituzione. La città dei paesi terzi diventa così, quasi di colpo, una grande città che è solo luogo di consumo, immagine di una inedita urbanizzazione senza sviluppo, dove alla crescita demografica non corrisponde un relativo aumento di ricchezza. E si tratta di un fenomeno che, quantitativamente, non ha precedenti: sono proprio le città dei paesi in via di sviluppo a raggiungere i nuovi record di abitanti, con i 20 milioni di Città del Messico, e i molti centri che superano e di molto i 10 milioni, mentre le città dei paesi sviluppati sembrano in qualche modo aver trovato (con le politiche territoriali e urbanistiche, o attraverso altri processi) un limite alla crescita.
Questo, in breve e al momento attuale, il quadro mondiale dell’urbanizzazione, con un processo che nei Paesi in via di sviluppo è stato definito di "inflazione urbana" a descrivere il distacco da qualunque processo di sviluppo socioeconomico, a differenza di quanto avvenuto con l'urbanizzazione industriale europea. I  due grafici allegati di seguito (scaricabili in formato PDF cliccando sull'immagine) rappresentano lo sviluppo dei fenomeni di urbanizzazione a scala mondiale dall'inizio del XIX secolo, con proiezioni fino al 2025, divisi fra paesi industrializzati e paesi poveri, e mettono in risalto la tendenza ad acutizzarsi di alcuni problemi, che rappresentano le sfide principali del futuro, anche per "operatori dello spazio" come gli architetti, il cui compito professionale è appunto quello di migliorare le condizioni generali abitative.

Dinamica di popolazione a livello mondiale (urbana, rurale), 1800-2025 (I)
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Dinamica di popolazione a livello mondiale (urbana, rurale), 1800-2025 (II)
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