La formazione dell'urbanista nel Novecento

 
 

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INDICE

Frederick J. Adams, L’insegnamento dell’urbanistica al Massachusetts Institute of Technology (TPR luglio 1949)

William G. Holford, L’insegnamento dell’urbanistica all’University College di Londra (TPR ottobre 1949)
G. Holmes Perkins, L’insegnamento dell’urbanistica alla Harvard University (TPR gennaio 1950)

T. J. Kent Jr., L’insegnamento dell’urbanistica alla University of California, Berkeley (TPR aprile 1950)

John A. Parker, L’insegnamento dell’urbanistica alla University of North Carolina (TPR luglio 1950)
J. S. Allen, L’insegnamento dell’urbanistica alla Durham University (TPR ottobre 1950)
Gordon Stephenson, L’insegnamento dell’urbanistica alla University of Liverpool (TPR aprile 1951)
Howard K. Menhinick, L’insegnamento dell’urbanistica al Georgia Institute of Technology (TPR gennaio 1953)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 
 

Introduzione

Una rassegna sull’insegnamento dell’urbanistica (The Planning Schools), pubblicata da The Town Planning Review, fra il 1949 e il 1953

È significativo che proprio nel periodo in cui inizia il “rodaggio” del grande sistema pubblico di pianificazione urbanistica e decentramento definito dalla legge britannica del 1947, la più antica e prestigiosa rivista specializzata di settore inizi a porsi alcune domande di fondo: chi è l’urbanista? quali prospettive di sviluppo ha la professione nella società di oggi e di domani? sono pronte, la società e il sistema formativo, per dare risposte realistiche ai giovani che, attratti dal fascino di una nuova prospettiva di vita, si avvicinano ai vari percorsi formativi con le più svariate motivazioni personali?
Le vicende successive, interne ed esterne a quanto i vari interlocutori della Rivista identificavano come “planning field”, si incaricheranno di dare alcune risposte, e di lasciare totalmente aperte altre questioni. Restano (prendendo goffamente a prestito Joyce), questi "portraits of the planner as a young man", che ben si possono paragonare soprattutto per le differenze con i desiderata della scuola francese (che nel rapporto di qualche anno prima Gaston Bardet tacciava di eccessivo sbilanciamento verso le scienze amministrative), o la permanente confusione dell’approccio italiano: sensibile alle necessità di riforma e mutamento, ma ancora fortemente legato alle forme tradizionali di cooptazione, apprendistato, lavoro semiartigianale, che Silvio Ardy non era riuscito a scalfire con la sua proposta di riforma nel 1926, e che Giovanni Astengo nel 1951 sta solo iniziando a pensare nel percorso autonomo poi sfociato nella Scuola di Venezia.
Il mondo anglosassone si presenta, qui, declinando secondo varie sfumature un mondo ben diverso: tecnica, organizzazione, interdisciplinarità, rapporti con la politica e l’impresa, sguardo attento alla società, tutto questo nel segno dell’approccio complesso, in linea con quelli che (almeno si crede) siano i bisogni emergenti della città e del territorio post-war.
Lasciando al lettore la verifica diretta delle differenze (anche abbastanza profonde) sia nella struttura dei testi, sia in quelle delle realtà descritte, sia nei contesti socioeconomici, territoriali e culturali che via via vengono scelti come sfondo, vale forse la pena qui di soffermarsi rapidamente su almeno due aspetti: il rapporto pubblico/privato, e il ruolo delle discipline architettoniche.
Riguardo al rapporto pubblico/privato, occorre dire innanzitutto che è l’elemento principale di differenza fra la descrizione delle esperienze britanniche e quelle statunitensi. E non si tratta, come si potrebbe pensare in prima istanza, di una maggiore attenzione al mondo dell’impresa da parte degli americani, o di una decisa inclinazione delle università inglesi a proporsi come “braccio” privilegiato del grande sistema di pianificazione pubblica che con la promozione delle New Towns e del decentramento industriale si appresta a rimodellare il territorio a scala nazionale. No: quella del rapporto pubblico/privato, osservata col senno di poi, è una questione cruciale anche e soprattutto ai nostri giorni, e che alla metà del Novecento sembra essere colta appieno solo nel contesto americano. E si declina soprattutto nel rapporto fra aspirazioni sociali e risposte generali della cultura urbanistica, nell’inserimento massiccio nei programmi di studio di tecniche di lettura, interazione, implicitamente “impegno sociale programmato”, del planner. Non è il “privato” dell’interesse economico particolare, insomma, al centro dell’attenzione, ma il privato del cittadino, singolo o organizzato in comitati civici, a cui il progetto non può essere imposto, ma solo proposto e promosso. Da qui, la normalità di corsi sulle tecniche di divulgazione dei progetti, sia grafiche che testuali, sia con quello che al lettore italiano (sempre che ce ne siano stati) dell’epoca deve essere sembrata una vera stravaganza: il public speaking course, ovvero un vero e proprio ciclo di lezioni e laboratori sulla retorica e dialettica disciplinare. Da qui, la nota finale di uno dei commentatori degli Stati del Sud, che sottolinea come un gruppo di studenti visitatori specializzandi dalla Germania abbia come scopo soprattutto quello di imparare il planning in a democracy. È ovvio ed esplicito, in questo secondo dopoguerra, il riferimento in negativo dell’Americano alla pianificazione autoritaria del Terzo Reich, alle grandi piazze geometricamente affollate di Albert Speer, ma emerge anche e soprattutto la capacità e necessità di rivolgersi alla community, ai suoi cangianti e complessi desideri, anziché confidare sempre e solo nella legittimità e capacità di rappresentanza delle istituzioni. E basta pensare, per l’Italia, a quanta confusione si faccia nello stesso periodo riguardo alla medesima parola, “comunità” (e a cascata sul vicinato, il quartiere, la regione, e relative “ideologie”), per capire quanto attuali siano le suggestioni dei testi riportati di seguito.
L’altra nota, come accennato, riguarda il rapporto con gli architetti: il mondo professionale, le strutture universitarie, il contributo positivo o negativo che il mondo dell’Architettura ha dato e può dare al planner. E qui il confronto con il coevo dibattito italiano è, purtroppo, ancora più impietoso. Perché, stavolta senza differenze comuni ad accorpare e distinguere le riflessioni di tutti i corsi britannici, o U.S.A., ma con varie articolazioni, tutte le proposte individuano un solo, grande valore nella tradizione architettonica: saper esprimere una cultura di progetto. Sembra banale, ma è molto lontano dall’esserlo. Riconoscere un ascendente, per quanto forte, fondativo, ineludibile, vitale, non significa riconoscere una paternità, un rapporto privilegiato, esclusivo, una delega che può anche essere revocata. Il planner progetta, e comunque svolge ogni sfumatura possibile della propria multiforme attività in una prospettiva di progetto, permea di progettualità i contributi del sociologo, dell’economista, dell’ingegnere, che non a caso entrano con piena dignità nei percorsi di laurea di primo livello e specializzazione in urbanistica, uscendone a propria volta planners a tutti gli effetti: non certo ingegneri o scienziati sociali “prestati” al progetto territoriale. Una volta riconosciuto questo ruolo delle discipline architettoniche, è anche più agevole metabolizzarne alcune piccole o grandi frazioni, interagire alla pari con gli istituti e istituzioni che ne sostengono i punti di vista, nel pieno riconoscimento della reciproca autonomia, stima, potenziale complementarità, e comunque possibilità di conflitto non esiziale. Questo, naturalmente, in teoria e nelle dichiarazioni “politiche” di responsabili dipartimentali in missione di public relations: ma non credo manchino riscontri pratici.
Tutto questo, sullo sfondo di un contesto socioeconomico che appare allo stesso tempo sia lontano da quello attuale, sia ad esso molto vicino nell’anticipare temi e problemi. Abbiamo citato quello dei rapporti fra pianificazione, cittadini, istituzioni, che in Gran Bretagna inizierà ad emergere nel dibattito scientifico proprio grazie all’auspicata e praticata interdisciplinarità dell’urbanistica, che conformemente ai suggerimenti della Association for Planning and Regional Reconstruction sintetizzati nel Town and Country Planning Textbook, promuove l’uso massiccio di specialisti in ricerca sociale nei gruppi di pianificazione. Saranno proprio i sociologi e gli assistenti, impegnati nella riambientazione degli assegnatari nei nuovi grandi progetti di edilizia sovvenzionata, a praticare forse per primi in Europa forme di animazione sociale come quelle già inserite nei curricula degli studenti americani. E questo solo per citare un esempio.

Per un panorama più completo sulla formazione dell'urbanista nel periodo considerato, per il caso italiano e francese, faccio riferimento ai testi che ho inserito nella sezione "Urbanistica, Urbanisti, Città", ospitata dal sito di Edoardo Salzano  http://eddyburg.it

Fabrizio Bottini

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