- Ci sono due
specie di socialismo, il socialismo "buono" e il socialismo
"cattivo". […] Il socialismo cattivo "è la guerra del
lavoro contro
il capitale". […] Il socialismo buono è "l’accordo fra capitale e
lavoro". Al suo seguito si trovano l’abolizione dell’ignoranza,
l’allontanamento delle cause del pauperismo, lo stabilimento del
credito, la moltiplicazione della proprietà, la riforma delle
imposte, in una parola: "il regime che più si avvicina all’idea che
l’uomo si fa del regno di Dio in terra"(1).
-
- La critica –
non di rado venata di irrisione – che più frequentemente viene
scagliata addosso a chi, come noi, continua ostinatamente a battersi
per un mondo migliore utilizzando gli strumenti del marxismo, è
quella di essere inguaribili sognatori, persi dietro sogni e modelli
(?!) che la realtà avrebbe abbondantemente dimostrato appartenere,
quando va bene, al regno dell’utopia. I comunisti, o meglio, quella
specie rarissima e "anomala" di comunisti, a cui noi apparteniamo,
che non viene ospitata alle tavole rotonde in televisione o nelle
riviste della variegata "sinistra", che non ha mai trescato col
piccolo padre baffuto del fu "socialismo reale" e con la sua
prolifica discendenza, sono dunque considerati un po’ come i
rigattieri della storia, alla stregua di quei poveri vecchi
costretti a frugare nelle discariche per racimolare qualche
spicciolo. Saremmo, quindi, inutili nostalgici, gente poco pratica,
che aristocraticamente rifiuta di vedere quanto c’è di nuovo nel
mondo e che, con sufficienza altrettanto aristocratica sdegna di
abbracciare le ultime scoperte della teoria e della prassi sociale,
presentate come portentosi grimaldelli per scassinare la porta che
ci separa dall’armoniosa società del domani nata dalle menti dei
nuovi demiurghi sociali.
- Non c’è dubbio
che a rinforzare questo vero e proprio teorema abbia avuto un ruolo
importante l’implosione dell’impero sovietico con il suo seguito di
miseria, guerra e disperazione, accelerando il rigetto del marxismo
(cioè, di quello ritenuto tale) di tanti intellettuali e organizzatori
politici che un tempo non potevano concludere una frase qualsiasi se
non avevano pronunciato almeno una volta la parola "operaio" e,
magari, invocato il santo nome di Mao. Tra costoro, chi non è "tornato
a casa" sopraffatto dalla delusione riservatagli da una classe operaia
che non ha "voluto" fare la rivoluzione e da un "comunismo"
miseramente fallito, è andato freneticamente alla ricerca di nuovi
soggetti sociali che sostituissero il feticcio operaio, trovandoli
finalmente in quella galassia estremamente composita chiamata, più o
meno correttamente, movimento anti-globalizzazione. Ma dietro l’enfasi
che i suoi cantori e apologeti mettono sui caratteri di "primizia"
teorica che rivestirebbe questo movimento, si cela una realtà ben
diversa: se le spogliamo delle raffinate (?) confezioni in cui sono
avvolte, le presenti teorie del "nuovo" conflitto sociale mandano un
insopportabile odore di muffa, essendo nient’altro che un semplice
recupero di sistemi ideologici partoriti molto tempo fa dalla mente
fantasiosa della piccola borghesia, sgomenta di fronte all’avanzare
del modo di produzione capitalistico.
- Infatti, sono
almeno due secoli che questa composita ed eterogenea classe sociale
si arrabatta per trovare la soluzione di un problema che soluzione
non ha: umanizzare il capitalismo, eliminarne le asperità,
preservare le categorie fondamentali del capitale (merce, denaro,
salario, profitto, ecc.) e, allo stesso tempo, impedire con artifici
giuridici che il capitale stesso si comporti secondo quanto gli
impone la sua propria natura. In breve, si vuole il mercato senza la
concorrenza, il denaro senza la speculazione, il profitto senza la
concentrazione e il monopolio, il salario senza lo sfruttamento; e,
per di più, lo stesso concetto di sfruttamento è limitato solo alle
sue forme più brutali.
- Ad ogni nuovo
ciclo di accumulazione, così come le due classi fondamentali della
società borghese – borghesia e proletariato – vengono rimodellate
dalle trasformazioni ad esso connesse, anche la piccola borghesia
muta con esse; e così come gli antagonismi di classe principali,
nella sostanza, rimangono i medesimi, allo stesso modo la piccola
borghesia è destinata a rimanere nella terra di nessuno del
conflitto sociale, sballottata ora da una parte ora dall’altra,
senza mai poter esercitare effettivamente un ruolo autonomo. Solo
quando il proletariato non è sufficientemente maturo (agli inizi
della sua storia) oppure non ha, per diverse ragioni, la forza di
ergersi a protagonista della lotta tra capitale e lavoro e tace,
privandosi in tal modo della possibilità di coagulare attorno a sé
anche settori di piccola borghesia, allora è quest’ultima che alza
la voce, che pretende di parlare a nome di tutta la società e,
specialmente nei momenti di crisi, quando la sua stessa esistenza è
minacciata dal grande capitale, pesca dal pozzo dei desideri le sue
utopie sociali di sempre. Infatti, pur assumendo connotazioni
politiche opposte, i movimenti politici espressione di questa classe
hanno, come abbiamo visto, la caratteristica di non centrare mai il
bersaglio, di non individuare mai la questione fondamentale nel suo
insieme (la progressione devastante del capitalismo), ma di
coglierne in modo confuso e contraddittorio solo alcuni aspetti
esteriori, i più immediatamente visibili, inibendosi dunque la
possibilità di offrire concrete prospettive di liberazione dal
capitale agli sfruttati del mondo intero. Anzi, quando per
determinate circostanze storiche sembra che possa finalmente
interpretare da protagonista il ruolo di arbitro e giudice nello
scontro fra proletariato e borghesia, in realtà è proprio allora
che, oggettivamente e spesso inconsapevolmente, dà un aiuto decisivo
al capitale per arginare, deviare e, infine, vanificare del tutto le
istanze anticapitalistiche del proletariato.
- "Il
capitale finanziario, identificato con quello bancario, è sempre
stato il bersaglio di tutti i movimenti pseudosocialisti, che non
hanno mai osato toccare i fondamenti della società capita-lista, ma
hanno mirato piuttosto a una forma volta ad eliminarne gli effetti
più scabrosi e a dirigere il profondo risentimento delle masse
contro lo sfruttamento verso alcuni simboli concreti. Che il simbolo
prescelto sia John Pierpont Morgan [grande finanziere
statunitense, n.d.r.] o un banchiere ebreo, la cosa non cambia"(2).
- Queste
considerazioni, scritte da un intellettuale anti-nazista – che
comunista non era – alla fine degli anni ’30 del secolo scorso,
ovviamente depurate da ogni riferimento razzista e fascista, possono
benissimo adattarsi a gran parte del cosiddetto popolo di Seattle,
che fa della lotta alla "globalizzazione neoliberista" la sua
ragione d’essere. Anche oggi, come settant’anni fa, viviamo il
tormentato e drammatico svolgersi della fine di un’epoca storica,
quella di un ciclo di accumulazione capitalista, dalla quale il
capitale cerca di uscire percorrendo le vie di sempre:
intensificazione dello sfruttamento e, a un tempo, espansione
abnorme della sfera finanziaria/speculativa. Finora il proletariato,
per mille motivi – tra cui, non ultimo, il crollo miserabile del
capitalismo di stato sovietico, di cui la borghesia si serve per
dimostrare l’impossibilità del comunismo – reagisce in maniera del
tutto inadeguata alla furibonda aggressione borghese. Invece, la
piccola borghesia (o una parte di essa), solo marginalmente toccata
dal mito sovietico, ma ugualmente investita dal ciclone della
"globalizzazione", oggi si fa portavoce della crescente rabbia
planetaria provocata dalle devastazioni del capitale, ma lo fa a
modo suo, indicando obiettivi di lotta che, quand’anche fossero
raggiunti, non ci avvicinerebbero di un millimetro alla questione
vera: l’abbattimento del modo di produzione capitalistico. I nemici,
così, diventano il neo-liberismo, i Mc Donald’s, le fabbriche Nike,
l’abolizione del debito pubblico dei paesi poveri, la speculazione
finanziaria o, per meglio dire, un suo settore ben particolare: la
transazione delle divise.
- In effetti,
la compravendita delle monete è l’attività in cui la speculazione
pura celebra i suoi trionfi e può avere ripercussioni profonde
sull’economia di interi paesi, benché non necessariamente negative
per il capitale industriale, come insegnano le vicende legate alla
speculazione della lira nel 1992. Ora, per cercare di mettere un
freno alle scorribande di chi manovra immense masse monetarie, nel
1998, in Francia, gesuiti, "economisti, filantropi, umanitari,
miglioratori delle condizioni delle classi lavoratrici,
organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di
società di temperanza e tutta una variopinta genìa di oscuri
riformatori" (3) hanno dato vita all’associazione ATTAC
(Associazione per una tassazione delle transazioni finanziarie per
l’aiuto ai cittadini), il cui "organo" di stampa è il mensile Le
Monde diplomatique. ATTAC si rifà al progetto di James Tobin,
economista, premio Nobel nel 1981, il quale, riprendendo a sua volta
e sviluppando un’idea di Keynes del 1936, già nel 1972, ossia
all’indomani della fine degli accordi di Bretton Woods, aveva
cominciato a pensare a un intervento che colpisse le transazioni
sulle divise. Ma è solo nel 1978, quando è già partita la
liberalizzazione dei movimenti di capitale, che il suo progetto
assume una forma concettualmente definita, la Tobin Tax: colpire
ogni operazione di cambio a breve e brevissimo termine con una tassa
pari allo 0.5% del valore dell’operazione stessa. In questo modo, i
governi dei paesi in cui avviene la massima parte delle transazioni
finanziarie – quelli del G7 soprattutto – raccoglierebbero ogni anno
centinaia di miliardi di dollari, da destinare ai piani di aiuto e
di sostegno allo sviluppo dei paesi poveri. L’idea, benché partorita
da un premio Nobel e portata avanti da economisti tutt’altro che
sprovveduti, assomiglia più a quegli sfoghi da bar – più che
legittimi, per altro – in cui, tra un’imprecazione e l’altra al
governo di turno, si elaborano piani per rendere finalmente un po’
meno ingiusto questo mondo. Il punto, però, è che i governi e gli
stati, dai più democratici ai più autoritari, non sono organismi
neutrali posti al servizio dell’intera società, ma strumenti
esclusivi di una parte della società, quella minoritaria, per il
dominio dell’altra. Considerazioni elementari per il marxismo, ma
inaccessibili a chi è affetto dall’ideologia borghese, anche – e
forse soprattutto – nella sua variante di sinistra. Da oltre vent’anni
non c’è stato governo, in ogni angolo del pianeta, che (va da sé)
non si sia fatto interprete delle necessità del capitale, abbassando
anche drammaticamente le condizioni di vita della forza-lavoro, nel
mentre venivano e vengono progressivamente diminuite le imposte sui
redditi da capitale e sui patrimoni più elevati. Non solo, ma
ovunque è cresciuto il debito pubblico, cioè un’ipoteca sul
plusvalore futuro - causato anche dai massicci finanziamenti alla
ristrutturazione industriale degli anni ‘70/’80 – che viene pagato
tagliando il welfare (cioè il salario differito). E questi governi
dovrebbero mordere la mano del padrone? Forse governi più "di
sinistra" potrebbero applicare la Tobin Tax? Posto che, comunque,
questa misura lascerebbe assolutamente inalterati i rapporti sociali
capitalistici e, al massimo, potrebbe configurarsi come un classico
intervento keynesiano di sostegno alla domanda, governi diversi di
quelli attuali potrebbero prendere misure "di sinistra" solo se
queste non si scontrassero con le priorità del capitale: oggi sono
quelle di non lasciar cadere neppure una briciola di plusvalore, per
rianimare saggi del profitto sempre più in difficoltà. Già col
Fronte Popolare del 1936, la piccola borghesia radicale di Francia,
spinta al potere dalle entusiastiche speranze della classe operaia -
purtroppo ormai ideologicamente intossicata dallo stalinismo – aveva
timidamente accennato a qualche riforma finanziaria, ma davanti alla
rabbiosa reazione padronale (fuga di capitali, serrate, ecc.) si era
ritratta impaurita. L’alternativa sarebbe stata quella di chiamare
il proletariato alla lotta, ma riformisti e stalinisti non avevano
la minima intenzione di rompere con la borghesia. Non si capisce
dunque per quali motivi la cosiddetta sinistra plurale dei nostri
giorni dovrebbe essere più "coraggiosa" dei suoi padri del ’36,
visto che ATTAC esplicitamente non si propone affatto di mettere la
museruola al capitale in generale, ma solo a un settore di esso. Per
dirla con le parole di François Chesnais, membro del comitato
scientifico di ATTAC, "la tassa Tobin giocherebbe un utile ruolo
riducendo i profitti che possono sperare le operazioni speculative
giornaliere e settimanali, senza penalizzare le operazioni
finanziarie a lungo termine che sono le contropartite delle
operazioni legate al commercio internazionale e all’investimento
produttivo all’estero" (4). Anche Chesnais, per molti versi
economista più acuto dei suoi colleghi riformisti, cade dunque nel
miraggio secondo il quale è possibile, nell’epoca dell’imperialismo,
separare il capitale industriale da quello più strettamente
finanziario-speculativo. No, essi sono strettamente intrecciati e,
d’altra parte, ce lo conferma lo stesso Chesnais in un passo del suo
agile e interessante libretto. Chi sono, infatti, i grandi
speculatori internazionali? Grandi banche, fondi speculativi
specializzati, gli investitori istituzionali (fondi pensione,
assicurazioni, ecc.) e "al loro seguito le tesorerie dei gruppi
industriali" (5), per altro immersi negli organismi prima
elencati. Per esempio, "Il gestore di un fondo che investe,
ricerca per definizione il migliore rendimento. Passa dunque
sistematicamente da una divisa all’altra, da un titolo di un impresa
a un altro, dai buoni del tesoro di un paese a quelli di un altro
paese" (6); allora, anche volendo, come si fa, a punire il
capitale speculativo "cattivo" e premiare il capitale industriale
"buono"?. I guadagni ottenuti sul mercato delle divise possono
essere immessi di nuovo nel vortice della speculazione e della
rendita parassitaria o investiti in imprese industriali produttive
di plusvalore, in un movimento che coinvolge le borghesie di tutto
il mondo: "partecipando, per esempio, al finanziamento della
crescita di un paese come la Cina, i fondi pensione preleveranno
sulla produzione interna cinese" (7). Detto in altri termini,
allo sfruttamento della classe operaia cinese partecipano tutti
coloro che detengono quote di capitale dei fondi pensione medesimi.
E’ ovvio, però, che l’operaio italiano o statunitense, costretto a
versare parte del suo salario ai fondi pensione, non è
volontariamente corresponsabile della estorsione di plusvalore al
suo compagno cinese, visto che i suoi "risparmi" non possono nemmeno
lontanamente condizionare i grandi capitali, veri gestori dei fondi,
ma, al più, recitare la parte di terreno di caccia riservato alle
razzie dei magnati della finanza. Basterebbero allora le
osservazioni di un riformista come Chesnais per mostrare quanto sia
fuori bersaglio chi crede che l’imperialismo sia, in sostanza, una
politica di dominio fondata brutalmente sull’aggressione
militare esercitata dagli Stati Uniti e, in subordine, dall’Europa.
Secondo quest’ottica le nazioni, i "popoli" aggrediti sarebbero le
vittime cui allearsi contro "l’impero" americano.
- Ci si
dimentica, insomma, che anche in Iraq o in Serbia esistono borghesi
e proletari (i più martoriati dalle guerre) e che i primi,
investendo il loro denaro nei buoni del tesoro americano o nei fondi
pensione che detengono quote azionarie di industrie belliche,
concorrono tanto quanto gli "sporchi yankees" al bombardamento del
"proprio" popolo, oltre che allo sfruttamento della classe operaia
americana.
- Ma le
contraddizioni del riformismo, anche di quello più apparentemente
radicale, non finiscono qui, se lo stesso Chesnais mostra la
debolezza di una delle principali parole d’ordine di ATTAC e di
tutto il movimento che promana da esso – che deriva dalla negazione
della centralità del rapporto di sfruttamento della classe operaia
nella produzione di ricchezza - vale a dire la cancellazione del
debito pubblico dei paesi poveri. "I mercati dei titoli del
debito pubblico […] sono la ‘pietra angolare’ della
mondializzazione finanziaria. Tradotto in parole semplici, è […]
il meccanismo più solido messo in campo dalla liberalizzazione
finanziaria per il trasferimento di ricchezza da certe classi e
strati sociali e da certi paesi [dai proletari di quei paesi,
n.d.r.] verso altri. Minare la potenza della finanza alle
fondamenta presuppone lo smantellamento di quei meccanismi e dunque
l’annullamento del debito pubblico, non solo di quello dei paesi
poveri, ma di tutti i paesi" (8). Infatti, come vengono pagati
gli interessi sul debito se non attraverso le politiche di austerità
e le imposte ossia con ulteriori prelievi dalle tasche dei
proletari? E ancora, chi dovrebbe smantellare lo strapotere del
capitale finanziario? Va da sé che per una parte non piccola del
"popolo di ATTAC", la classe operaia, il moderno proletariato o non
è più, appunto, riconosciuto come tale oppure è annegato nella
borghesissima e onnicomprensiva nozione di cittadinanza a cui
spetterebbe il compito di trovare e praticare nuove alternative allo
stato di cose presente, dopo il fallimento del sedicente socialismo
reale. Ma è proprio qui, come dicevamo anche più su, che si rotola
indietro di secoli. La regressione a modelli teorico-politici di cui
tutto si può dire, meno che siano nuovi, è particolarmente vistosa
in chi – larga schiera! – una trentina di anni addietro chiamava le
piazze alla lotta contro il capitale e i suoi servi riformisti.
Siccome però col materialismo storico non ha mai fatto altro che
pasticciare, è assolutamente normale che anche adesso continui a
sbagliare prospettiva, prendendo cantonate tremende. Oggi tocca alla
sinistra brasiliana interpretare il ruolo di Stella Polare degli
antagonisti mondializzati. Secondo costoro la pratica sociale del PT
(partito dei lavoratori) brasiliano sarebbe il più avanzato, maturo
e interessante contributo per la fondazione di un nuovo "paradigma
anticapitalista" (9).
- In che cosa
consisterebbe quella pratica sociale così terribilmente
anticapitalista? Nel bilancio partecipativo attuato
dall’amministrazione di sinistra di Porto Alegre, capitale dello
stato di Rio Grande do Sul.
- In breve,
perché ne abbiamo già parlato in altra sede (vedi BC 2/2001) i
cittadini di quella città sono chiamati a pronunciarsi – tramite
assemblee pubbliche – sull’utilizzo dei fondi comunali,
contribuendo, assieme alla giunta municipale, ad orientare la spesa
verso le esigenze emerse dalle assemblee. Case, scuole, ospedali
sono il risultato del bilancio partecipativo, chiave di volta
di un "nuovo" socialismo che ha gettato dietro le spalle il
marxismo, archiviato come un’esperienza ormai inutile. Come dice
Tarso Genro, sindaco di Porto Alegre e membro del PT, "penso che
per noi socialisti ci sia la necessità di una dimensione diversa da
quella esistita fin qui nel marxismo: la teoria delle classi sociali
originaria del marxismo tradizionale non è assolutamente sufficiente
per comprenderla" (10). Naturalmente, case, scuole, ospedali non
sono cose disprezzabili, specialmente in situazioni di drammatica
povertà come quella brasiliana, ma non sono nemmeno il socialismo,
cioè la vera e definitiva soluzione al problema della casa, delle
città invivibili e della povertà. Tanto più che anche a Rio de
Janeiro, amministrato da una giunta di destra, si stanno portando
avanti progetti di risanamento delle favelas basati sul
coinvolgimento in prima persona dei residenti. Il problema delle
abitazioni, in Brasile, coinvolge drammaticamente milioni di persone
e dà continuamente vita a vasti movimenti di occupazione guidati dai
Sem Teto (movimento dei lavoratori senza casa), i quali sono
riusciti a ottenere "una legge che fissa la destinazione del
dieci per cento dei fondi stanziati per i programmi di edilizia
popolare a progetti di autocostruzione" (11). Dunque, tutto
questo è possibile grazie all’apporto di capitale finanziario non
solo nazionale, ma anche internazionale, proveniente dall’UE e dalla
banca interamericana di sviluppo; così come, d’altra parte, il
riformismo di Porto Alegre si svolge in circostanze particolari: "il
Rio Grande do Sul è uno stato ‘ricco’ […] ed evidentemente
ciò è determinante per il successo del processo […] le
risorse da gestire sono rilevanti [dando luogo a]
un’oggettiva disponibilità finanziaria" (12). Di più, che il
bilancio partecipativo sia ben poco temibile per il capitale è
ulteriormente confermato dal fatto che ultimamente anche la destra
ha votato con la sinistra in consiglio comunale o che la Banca
Mondiale ha tradotto e diffuso a proprie spese il libro di Genro
sull’esperienza "partecipativa".
- Possiamo
dunque concedere che, stando alla documentazione da noi conosciuta,
a Porto Alegre gli amministratori non rubino e non saccheggino il
bilancio municipale per arricchirsi spudoratamente, come è di prassi
nelle istituzioni borghesi, ma da qui a qualificare il bilancio
partecipativo come socialista e, per di più, di un socialismo
mai visto prima, ce ne corre parecchio. Evidentemente la memoria fa
difetto ai nostri "antagonisti", i quali dimenticano altre
esperienze storiche del movimento operaio di portata ben più vasta
e, ci si perdoni il gioco di parole, più radicalmente riformista. Le
cooperative di lavoro e di consumo, le amministrazioni "rosse" di
villaggi e città, la rete di "luoghi" eassociazioni (camere del
lavoro, circoli culturali e ricreativi, ecc.) che aspiravano a
esercitare un vero e proprio contropotere dentro la società
borghese, fiorite in Europa tra ‘800 e ‘900 erano animate dalla
stessa filosofia di Porto Alegre, anzi, l’impostazione di fondo era
sicuramente più classista.
- E che dire
della "Vienna Rossa" degli anni ’20, "gioiello" dell’Austromarxismo,
cioè della socialdemocrazia austriaca che, assieme a quella tedesca
(e internazionale), porta responsabilità primaria nel contenimento
prima e nel soffocamento poi della rivoluzione proletaria? I
socialdemocratici austriaci governarono la città di Vienna - allo
stesso tempo capitale dello stato federale e Land autonomo –
ininterrottamente dal 1920 al 1934. Durante quegli anni, applicando
una forte tassazione alla rendita immobiliare, costruirono decine di
migliaia di appartamenti corredati di servizi pubblici (asili,
scuole, lavanderie, cinema, teatri, trasporti, ecc.) che
alleviassero la "pena del lavoro" e, non certamente da ultimo, come
tutte le riforme abbassassero il valore della forza-lavoro (13); non
a caso, al fine di combattere il capitale finanziario parassitario –
chi si vede… - e sostenere il capitale industriale, la
socialdemocrazia austriaca impose costantemente una politica di
contenimento del costo del lavoro (come si dice oggi), ossia di
bassi salari (14). Resta il fatto che, quando il capitale, morso in
profondità dalla crisi, dovette sbarazzarsi di una politica
riformista ormai impraticabile passando al fascismo e alla guerra,
il riformismo, senza eccezione alcuna, consegnò vilmente la classe
operaia, del tutto impreparata allo scontro e narcotizzata, nelle
mani del suo boia in camicia bruna o la spinse a farsi massacrare
per uno dei fronti contrapposti della guerra imperialista. Il
riformismo, infatti, da una settantina d’anni a questa parte, ha
preferito schierarsi dalla parte dell’imperialismo apparentemente
più democratico e meno aggressivo. Non è un caso, dunque, che al
Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre del gennaio scorso si sia
stabilito un feeling particolare fra Tarso Genro e
Chevenement, ex ministro socialista dell’interno, noto per le sue
misure forcaiole contro i sans papiers, gli immigrati senza
permesso di soggiorno. La cosa è spiegabilissima; infatti, anche per
la totalità (o giù di lì) della sinistra latinoamericana l’antimperialismo
si identifica nella lotta contro la presenza asfissiante degli USA
per l’indipendenza nazionale; dunque, guarda con interesse alle
potenzialità antiamericane dell’Unione Europea, con la quale aspira
a costituire un fronte comune contro lo strapotere dei gringos.
Ma chi meglio della borghesia francese, da sempre insofferente verso
l’arroganza a stelle e strisce, può gettare un ponte (imperialista)
tra i "popoli"? E non è proprio il "contadino" José Bové uno dei
campioni del "popolo di Seattle" e, perciò stesso, del Forum
Sociale?
- Che sia la
piccola borghesia a riproporre in veste rinnovata il nazionalismo
democratico, condito di tutti i più insipidi luoghi comuni
dell’utopismo piccolo-borghese, è assolutamente normale; non lo è,
anzi, non dovrebbe esserlo, per chi ancora, in qualche modo,
pretende di farsi interprete del proletariato conservando un’ottica
anticapitalista, quali i sindacati "di base", i "rifondatori" del
comunismo o il variegato mondo del cosiddetto antagonismo di classe,
di cui alcuni noti esponenti hanno sottoscritto i documenti
fondativi di ATTAC e del Forum Sociale. Basta scorrere anche
superficialmente il Manifesto del Forum Sociale (15) per vedersi
sprofondare in quello che 150 anni fa Marx ed Engels chiamavano
"socialismo piccolo-borghese".
- Come si
diceva più indietro, la pretesa modernità è una ridicola bufala:
nazionalismo solidale – in puro stile mazziniano – rimpolpato dal
protezionismo economico per difendersi (sic) dal potere delle
multinazionali; autosufficienza alimentare dei popoli e freno
all’agricoltura industriale contro le transnazionali
dell’agro-alimentare; controllo, come si è visto, del capitale
finanziario; commercio equo e profitto etico, basati sulla "esistenza
legittima di una razionalità individuale mercantile" (16),
reddito di cittadinanza; ripristino della democrazia, usurpata dal
grande capitale e, avvicinandosi pericolosamente all’estrema destra,
rifiuto a che "i valori sociali, le culture, gli elementi
costitutivi dell’identità dei popoli vengano ridotti alla dimensione
di semplice valore mercantile" (17). Quali sono i valori sociali
di un popolo o gli elementi costitutivi della sua identità? Il
chador, il festival di San Remo, il campionato di calcio? A
prescindere dall’ovvia considerazione che i popoli sono divisi in
classi contrapposte e inconciliabili, i valori, le identità, le
culture, non sono immutabili, ma cambiano con il procedere della
storia umana, che da qualche millennio è storia della lotta di
classe. E ancora, se è doveroso battersi contro lo strapotere delle
transnazionali agro-alimentari, come parte della più generale lotta
contro il capitalismo, è invece quanto meno ridicolo opporsi in
assoluto all’applicazione della scienza e della tecnica in
agricoltura e alla coltivazione su grande scala, per la salvaguardia
della piccola/media proprietà e del piccolo commercio, da cui, per i
costi elevati, i proletari non potrebbero avere che svantaggi.
- In tutto il
mondo cresce la giusta rabbia contro la progressione devastante e
drammatica della crisi capitalista, che affonda interi continenti
nella miseria e nella guerra, che attacca la forza-lavoro con
un’intensità mai vista da cinquant’anni a questa parte, che mira a
impadronirsi e a mercificare le basi biologiche della vita,
avvelenando l’intero pianeta, che impone un consumismo cieco,
spersonalizzante e massificante. Ma nel coro degli "antimondialisti"
è ancora troppo flebile la voce della classe operaia, dei proletari,
degli sfruttati del mondo intero. Solo se il proletariato entrerà
nella lotta con tutta la sua forza, lo slogan del Forum che "un
altro mondo è possibile" potrà concretamente essere posto
all’ordine del giorno, a patto di non rimanere impigliato in
inutili, pericolose e reazionarie utopie: se l’umanità avrà un
futuro, questo sarà del comunismo, non del "paradiso in terra" della
piccola borghesia.
- Celso
Beltrami
- Note
- 1. K. Marx,
recensione al libro di Emile Girardin, Le socialisme et l’impot,
in K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, TO,
Einaudi, 1974, pag. 208.
- 2. Franz
Neumann, BEHEMOTH. Struttura e pratica del nazionalsocialismo,
MI, Feltrinelli, 1977, pag. 291.
- 3. K. Marx –
F. Engels, Manifesto…, cit., pag. 216.
- 4. François
Chesnais, Tobin or not Tobin? Une taxe internationale contre le
capital, Paris, Ed. L’esprit frappeur, 1999, pag. 54.
- 5. Chesnais,
cit., pag. 35.
- 6. Chesnais,
cit., pag. 78.
- 7. Chesnais,
cit., pag. 76.
- 8. Chesnais,
cit., pag. 11.
- 9. Vinci,
Porto Alegre, o di alcune questioni cruciali dell’anticapitalismo
europeo del 2000, in www.carta.org
- 10.
Intervista a Tarso Genro in Carta, gennaio 2001.
- 11. Carta,
cit., pagg. 30 – 31.
- 12. Quaderno
n. 5 di Rifondazione Comunista, febbraio 2001, da Seattle a Porto
Alegre, si, se puede, pag. 127.
- 13. In questo
caso la classe operaia di quella regione abita gratuitamente;
del valore della sua forza lavoro non fanno più parte le spese per
l’abitazione. Ma ogni riduzione dei costi di produzione della forza
lavoro, cioè ogni durevole deprezzamento dei bisogni vitali del
lavoratore, ‘in forza delle ferree leggi dell’economia politica’ si
risolve nel ridurre il valore della forza lavoro e finisce quindi
con l’avere come conseguenza una corrispondente caduta del salario.
Quest’ultimo, quindi, verrebbe decurtato in media del valore medio
della pigione risparmiata, vale a dire che il lavoratore pagherebbe
l’affitto della sua propria casa non più, come prima, in denaro al
padrone, ma in lavoro non retribuito all’industriale per cui lavora.
In tal modo i risparmi dell’operaio investiti nella casetta
diventerebbero bensì, in certo qual modo, capitale, ma non per lui,
bensì per il capitalista che gli dà lavoro. […] Tra parentesi,
quanto si è detto sopra vale per tutte le cosiddette riforme sociali
che mirano al risparmio o al buon mercato dei mezzi di sussistenza
dell’operaio", F. Engels, La questione delle abitazioni,
Roma, Newton Compton, 1977, pagg. 46 – 47.
- 14. M. Tafuri,
Austromarxismo e città. "Das Rote Wien", Contropiano n. 2, 1971.
- 15. Il
manifesto dell’"altra" economia,
in Le Monde diplomatique/il Manifesto, febbraio 2001.
- 16. Le Monde
diplomatique…, cit.
- 17. Le Monde
diplomatique…, cit.