Carissimo,
le sono grato perché ha voluto farmi partecipe della sua sofferenza, e non ci
vuole molta fantasia per capirla. Non avere lavoro, sopratutto poi se un uomo
ha una famiglia è davvero un non sentirsi più uomo. Ho provato anch'io la sofferenza
di avere papà disoccupato. Eravamo figli tutti in tenera età. Papà ha avuto un
grave incidente alle ferriere di Sesto S. Giovanni e fu brutalmente licenziato.
Quando chiese almeno la liquidazione, ottenne una buona dose di olio di ricino.
E ho ancora vivo nel ricordo la sua fatica giornaliera di girare per i paesi della
Brianza, ogni giorno per cercare lavoro anche per un giorno, in bicicletta, per
poter portare a casa il minimo per sostenere la famiglia. Ricordo che per noi
non c'era festa...o meglio la nostra festa era la domenica quando, dopo la Messa,
a tavola gustavamo carne di coniglio che noi fratellini mantenevamo per dare una
mano. E ricordo di avere teso la mano, io ora Vescovo, ai miei vicini per avere
un pezzo di pane o un pugno di farina per fare la polenta. Capivo la fatica...ma
non ho mai visto la disperazione. Il lavoro papà e miei fratelli lentamente se
1'hanno creato iniziando con le briciole che davano chi li accettava come apprendisti.
Poi ognuno ha fatto la sua strada. Non avevamo bisogno di gesti, clamorosi. Ci
bastava la preghiera e la buona volontà. Oggi è di moda ricorrere ai metodi che
dice lei...Sembrava che il nostro tempo fosse il tempo del benessere per tutti.
Ed è invece il tempo di chi "ha". Occorre fare sentire la propria voce perché
siano riconosciuti i propri diritti senza ricorrere a minacce inammissibili. La
giustizia nei diritti non deve avere bisogno di gente che si brucia od altro.
Deve avere orecchie pronte a recepire il grido dei più poveri. Lei sa che ho vissuto
una vita tra i poveri dal Belice a qui e mi sono sempre fatto voce dei senza voce.
Continuerò a farlo, a costo di spazientire i potenti, ossia coloro che possono
e devono fare giustizia. Ci sostenga Dio sempre Antonio,
Vescovo.