Questa intervista è
pubblicata in
Placida Staro (a cura
di) Le vie del violino. Scritti sul violino e la danza in memoria di
Melchiade Benni (1902 - 1992), edito da Valter Colle, NOTA, Udine 2002
Incontro con Roberto Bucci
di Gualtiero Gori ed Emanuela Di Cretico
Reda, Faenza (RA), 13.6.2002
Sollecitati da Dina Staro a produrre un
contributo per la realizzazione di questo libro, che fosse dedicato alla
Romagna, abbiamo scelto di occuparci di Roberto Bucci, un violinista che
vive a Faenza, dove è nato nel 1965. Innanzitutto perché con Roberto, che
è l’animatore del gruppo La Carampana, condividiamo da anni assieme
al nostro gruppo, L’Uva Grisa, l’attività di riproposta di un
repertorio di balli ancorato al territorio e che scaturisce pressoché
interamente da una ricerca diretta delle fonti. Ci è sembrato interessante
ripercorrere, pur nel breve tempo di una conversazione serale, le tappe
fondamentali della sua formazione di musicista che poi, alla fine, ci
hanno condotto ad alcune riflessioni generali sugli attuali modi della
riproposta. La singolarità di Roberto è che è divenuto suonatore di
violino circuendo del tutto i canali didattici convenzionali come scuole o
maestri di musica; il suo apprendimento si è fondato sui metodi empirici
della trasmissione orale e visiva, propri della cultura tradizionale; a
contatto diretto con informatori straordinari come Melchiade Benni, Livio
Rambelli e Giacomo Donati detto Bagareta. Infine, l’altra
specialità di Roberto è la sua passione per la musica unita a quella per
la terra, il suo vero mestiere; che lo fa accomunare ai suoi tre grandi
maestri, anch’essi violinisti-contadini, e sembra fare infondere al suo
modo di suonare il piacere dell’essenzialità e della concretezza.
G.G. - Raccontaci come sei arrivato ad
occuparti di musica popolare
R.B. - Ascoltavo i Genesis prima di arrivare
alla musica popolare. Ho ascoltato un po’ di tutto, soprattutto i gruppi
degli anni ‘70 del genere dei Pink Floyd e simili. La passione per la
musica "suonata" e non solo "ascoltata" mi è venuta proprio di lì. Mi
affascinava la sonorità dei loro strumenti specie l’uso che facevano della
chitarra acustica. Ho iniziato a suonare a diciott’anni, quando diedi la
maturità e mia sorella mi regalò una chitarra. Dopo, avendo la chitarra in
casa cercai di vedere cosa poter suonare; il repertorio dei Genesis non
era dei più facili, qualche brano, tuttavia, lo riuscii a fare
trascrivendone gli arpeggi ad orecchio. Poi conobbi la musica celtica, uno
dei primi generi di musica popolare che si ascoltava dalle mie parti, e
che penso sia tuttora uno dei più seguiti. Mi piacque da subito, aveva
qualcosa di particolare e desideravo potermici addentrare. Nel 1986-87 mi
iscrissi alla Scuola di Musica popolare di Forlimpopoli. Fino a quel
momento suonavo ogni cosa ad orecchio e volevo progredire sul piano
tecnico. La scuola di Forlimpopoli inaugurava la propria attività proprio
quell’anno e sembrava fare al caso mio. Lì studiai chitarra tre anni
sperimentando vari generi tra cui il finger-picking e il blues.
Una volta alla scuola venne Melchiade Benni
con il figlio Franco a fare un piccolo spettacolo, non ricordo bene in
quale occasione, da allora per me niente è più stato lo stesso. Scoprii
per la prima volta come si poteva usare il violino nella musica popolare e
che tipo di suono ne potesse scaturire. Ne rimasi affascinato, come
folgorato. Fino a quel momento l’unico modo di suonare il violino che
conoscevo era quello delle orchestre di musica classica. Melchiade eseguì
alcuni brani da ballo, un genere di cui ignoravo completamente
l’esistenza, mi rendevo conto che avevano un enorme valore di
testimonianza anche per capire il nostro passato. Dalle mie parti, in
Romagna, eravamo un po’ tutti condizionati dal liscio; se qualcuno ci
chiedeva quale fosse la nostra musica popolare dovevamo rispondere che era
il liscio, avendo in mente soprattutto le cosiddette "orchestre
spettacolo" degli anni ’70, ché sono ancora quelle che nell’immaginario
dei romagnoli vengono identificate col folklore. A me questa
identificazione non convinceva, e più continuavo ad entrare nella musica
popolare più avevo forte la mia sensazione che il liscio non fosse
autentico folklore. Avevo soprattutto in mente l’Irlanda e la musica
celtica in generale dove è evidente il legame profondo che si è mantenuto
con una tradizione che deriva dai secoli passati, sia per gli aspetti
musicali, che per quelli coreutici, che per lo strumentario. Non riuscivo
a trovare termini di paragone con il nostro liscio dove, viceversa, si
percepisce uno stravolgimento, una discontinuità rispetto alle fasi
storiche precedenti; sentivo, insomma, che ne mancava un pezzo. Non so
molto dell’Irlanda, perché non ci sono mai stato, non so se là,
parallelamente alla musica celtica si sia sviluppato un genere più
moderno... Quella sera vedendo Melchiade questi dubbi cominciarono a
schiarirsi: le sue musiche così antiche forse rappresentavano la parte
mancante che cercavo; ebbi la sensazione di aver fatto una gran scoperta.
Alla fine parlammo assieme e mi invitò a partecipare ad una festa dove
avrebbe suonato di lì a dopo. Ci andai, rimasi molto colpito da quella
situazione, provai anche a ballare alcune di quelle danze; mi piacque
tutto. Non fu solo lui, Melchiade, ad attrarmi, né soltanto la musica, il
violino o i balli, fu tutto quell’insieme.
Volevo capire il più possibile di quel
genere, ma c’era l’ostacolo pratico del violino. Per come la sentivo io,
per come mi aveva colpito, quella musica poteva esser suonata solo col
violino, e a me il violino sembrava uno strumento irraggiungibile. Per
divertirmi a provare ad eseguire le melodie di Benni pensai che forse mi
sarebbe servito uno strumento più adatto al canto di quanto non fosse la
chitarra. Avevo un amico liutaio a Faenza e mi feci costruire una mandola.
Nel frattempo avevo cominciato a suonare musica popolare con un gruppo
della mia zona col quale si faceva un po’ di tutto, e iniziai ad eseguire
i primi brani di Melchiade. Ma era tutt’altra cosa… ci voleva l’arco,
sentivo proprio che mancava l’arco al mio strumento. In quel genere quelle
sfumature così caratteristiche erano date dal modo di Melchiade di usare
l’arco, e quindi era impossibile riprodurle col plettro sulla mandola. Mi
decisi a comprare il violino solo dopo che conobbi Livio Rambelli
(1908-1999), il violinista di Castelbolognese che divenne il mio grande
maestro. Fui spinto anche dal fatto che Livio abitava più vicino ed era
più comodo da raggiungere. Il violino lo acquistai da una signora che
vendeva ai mercatini e frequentava con me le lezioni di chitarra a
Forlimpopoli; ne aveva uno ad una cifra abbordabile. Appena ebbi il
violino in casa ebbi l’istinto di imitare le arcate di Melchiade, mi misi
a provare e riprovare "Il ballo del morto", il primo pezzo che avevo
imparato con la mandola. Le arcate le avevo memorizzate osservandole
attentamente da Melchiade alle feste con lo scopo riuscire a trasferirle
sul plettro. Quindi di quel brano conoscevo anche le posizioni sulla
tastiera, ché sono le stesse sul mandolino e sulla mandola.
Ma prima ancora di incontrare Livio conobbi
Giacomo Donati detto Bagareta (1898-1997), un amico di mio nonno
molto anziano di Faenza anche lui violinista. Quando vidi Melchiade Benni
mi venne subito in mente di andarlo a trovare; di Bagareta sapevo
solo che una volta aveva suonato in chiesa per una messa… Volevo
verificare se anche lui fosse stato un suonatore da ballo e se, data la
sua età, magari ricordasse qualcosa quel genere di balli che aveva suonato
Melchiade. Ne ebbi un riscontro positivo, quel tipo di musiche le
conosceva per averle suonate egli stesso in gioventù. Bagareta mi
diede un grande sollievo e mi fece sentire quel mondo subito più vicino.
Trovai in lui lo stesso concetto di musica e di suonatore popolare che
avevo scoperto in Benni. Potevo finalmente dire che nel nostro folklore
non c’era soltanto Raoul Casadei! Bagareta mi diede qualche
spartito, quando lo conobbi era già verso i novanta e praticamente non
suonava più, tentò appena di eseguire il "bergamasco". Era senza figli e
viveva con la moglie, anche lei in gioventù per un certo periodo aveva
suonato il banjo con lui. Mi fece tantissimi racconti di vita, ne aveva
una marea, spesso divertenti, che mi aiutarono a comprendere la vita del
suonatore negli anni tra la prima e la seconda guerra, quando era stata
più intensa la sua carriera. Aveva iniziato a suonare l’ocarina, passando
poi all’organetto ed infine, all’età di vent’anni, al violino ed al
mandolino. Nel suo repertorio da ballo ricordava di aver suonato alcuni
saltati fra cui le manfrine, il saltarello la quadriglia; di altri, che
riteneva più antichi, ricordava il nome ma non più le musiche, fra questi
e’ triscòn, la furlana i minuet, e anche la "ciociara",
ricordava vagamente che veniva ballata in forma pantominica mascherati.
Fra questi balli il più diffuso era e’ bargamès bulgnis che era
conosciuto lungo tutte le vallate del Senio e del Lamone fino alla piana
ravennate. Raccontava che questo ballo era prerogativa solo alle coppie
più brave: i ballerini potevano esibirsi e farsi ammirare: attraverso il
ballo ci si sfidava e ci si corteggiava. Tuttavia il repertorio di
Bagareta comprendeva prevalentemente valzer, polke, mazurche; la
presenza dei balli saltati era nettamente inferiore rispetto a quanti ne
conteneva il repertorio di Benni. Per me fu il primo riscontro concreto
per capire che quella tradizione musicale apparteneva anche alla Romagna,
e più vicina a casa di così non la potevo trovare; da noi Bagareta
era stato praticamente di casa. Questo fondamentale riscontro mi spinse a
mettermi a ricercare di altri violinisti come lui; capivo anche che
eravamo ormai alla fine, ma qualsiasi altra cosa avessi trovato, anche
solo frammenti musicali, o dei semplici racconti sui musicisti, i balli e
le feste, sarebbero stati preziosi.
Livio Rambelli lo incontrai più tardi. Lo
conosceva mia cugina che abitava dalle sue parti a Castelbolognese. Me lo
descrisse come un tipo giovanile, un violinista ancora in gamba neanche
tanto anziano. Siccome io, lavorando in campagna, di tempo da dedicare a
questa passione ne ho sempre avuto poco, ero costretto a selezionare
privilegiando i contatti con i suonatori più anziani, dove c’era maggiore
possibilità di trovare i bel vécc, i vecchi balli (saltati o
staccati), come li chiamavano loro, che erano quelli che mi interessavano
di più. Perciò all’inizio, per l’idea che m’ero fatto, non lo presi in
considerazione. Ci arrivai per un’altra strada, attraverso un anziano
suonatore di organetto che mi disse di aver suonato con Livio. Mi disse
che in quel gruppo musicale l’unico che conoscesse i "vecchi balli" era
Livio; lui non li ricordava bene, provò a canticchiarne qualcuno ma senza
voler provare a suonarli, era un tipo particolare. A quel punto andai da
Livio che dimostrò immediatamente di avere buona memoria e una chiara
cognizione di quel repertorio. Fu subito in grado di eseguirmi alcuni
brani che non aveva suonato chissà da quanto tempo, ricordava la sciotis,
la roncastella. Altri brani vennero fuori strada facendo, grazie anche
alle informazioni ricevute da Bagareta che mi servivano da stimolo.
Livio e Bagareta si conoscevano molto bene ed avevano suonato
repertori da ballo sostanzialmente coincidenti
Col tempo ho conosciuto altri violinisti
popolari e mi sono fatto la convinzione che ognuno, stilisitcamente,
costituisca un caso a sé. Ad esempio, di suonatori con le caratteristiche
di Melchiade nella sua zona non credo ce ne fossero stati tanti. Ho
sentito le registrazioni di un altro violinista della montagna ma è tutt’altro
che Benni. Quindi se anche un violinista può dare l’idea di essere
espressione di certa "scuola " riesce sempre a dare un’impronta
personalizzata allo strumento; il modo di tirarne fuori il suono è un
fatto talmente personale, soprattutto per quelli che non hanno studiato
musica, che ciascun suonatore è un mondo a sé. E’ questo che amo di più
nel violino. Può darsi che succeda per tutti gli strumenti musicali, io
conosco meglio il violino. In questo strumento la mano del suonatore si
sente soprattutto in chi ha esercitato a lungo il mestiere e ha dovuto
crearsi un suo modo, un suo stile per imporsi alle feste. In questi
suonatori ho colto la capacità di mettere nelle note un’intensità
particolare, uno slancio in più che sa cogliere ed ispirare le movenze e
l’interazione fra i ballerini. Questa è solo una impressione che non so
definire sul piano tecnico. Il violino l’ho studiato qualche mese alla
Scuola di Forlimpopoli, poi, sono andato a studiare da Melchiade e da
Livio.
E.D.C. - Con Melchiade Benni come
avvenivano le lezioni?
R.B. - Io gli chiedevo un passaggio che non
riuscivo a fare o che solo dall’ascolto non avevo capito; ad esempio,
tante sfumature date dall’effetto del bicordo. Spesso si trattava di
passaggi veloci che pur visti e rivisti non riuscivo a riprodurre; e
allora chiedevo e richiedevo, e lui con grande pazienza li rieseguiva,
fermandosi ogni volta. Si andava per imitazione; succedeva lo stesso anche
con Livio; non erano insegnanti e non avevano un metodo; la trasmissione
avveniva direttamente facendoti sentire quello che sapevano senza altra
mediazione. D’altra parte io non avrei saputo imparare diversamente. Dato
che da Melchiade non potevo andarci spesso, i brani li studiavo dapprima
ascoltandoli ripetutamente nelle cassette che avevo registrato alle feste.
Di alcuni però non mi riusciva neppure di intuirne le note; di altri mi
mancavano i particolari, gli abbellimenti, gli effetti prodotti da quel
particolare tipo di arcata. Poi mi resi anche conto che i brani che avevo
imparato a casa di Melchiade in un certo modo, eseguiti alle feste, quando
la gente ballava, potevano anche cambiare. La tendenza di Melchiede alle
feste era sempre di aggiungere qualcosa in più; le variazioni erano una
forma di abbellimento. A volte poteva variare la linea melodica, altre
volte venivano usate note più acute; più spesso variava l’effetto ritmico
prodotto dal tipo di arcata.
G.G. - Quante volte sei stato a lezione
da Benni?
R.B. Purtroppo non tantissime, l’ho
frequentato soprattutto alle feste dove ovviamente non mancavo di fargli
il filo, di stargli dietro. Mi divertivo anche a ballare, però mi
interessava soprattutto imparare a suonare, quindi mi piazzavo fisso ad
osservarlo.
G.G. - Anche a ballare hai imparato
direttamente dagli ‘informatori, andando alle feste?
R.B. - Sì, ma avevo anche frequentato un
paio di corsi di danze emiliane. Non ho mai potuto approfondire il lavoro
di ricerca sul ballo per mancanza di tempo. Mi piaceva osservare i
ballerini di Monzuno, che erano bravissimi. Nel modo di riproporre i balli
popolari agli stage si nota, in qualche caso, come si sia perso il gusto
di voler ballare bene. Melchiade diceva "i bala tott, un bal ben inciòn",
ballano tutti quanti ma non balla bene nessuno. Se si perde il
gusto di voler far bene un ballo, si perde moltissimo. I vecchi avevano
proprio la tensione a voler fare qualcosa di bello quando danzavano. Un
ballo non era una cosa tanto per fare; anche qui a Faenza i vecchi
ballerini mi dicevano: "quando si cominciava il balletto... i faseva e’
mond", facevano di tutto e di più. Magari nei racconti non si
ricordavano esattamente da quante parti era composto il ballo, ma si
ricordavano il pezzo del balletto: "i faseva di lavour,", facevano
vedere delle cose strabilianti. Nel danzare dovevano far vedere qualcosa
di speciale con i piedi, mostrare qualcosa di bello, esibirsi
per primeggiare, sedurre. Ricordiamoci che, ancora fra le due guerre,
fuori dai centri urbani l’unica modalità di contatto fisico fra ragazzi e
ragazze erano i balli e si potevano fare solo nel periodo di carnevale. In
alcuni corsi può darsi che questa tensione si sia persa per rendere più
accessibili le danze; magari per evitare di spaventare o demoralizzare
coloro che vi accedono per la prima volta. Ma in primo luogo dipende dal
fatto che i ballerini anziani ancora in grado di farti vedere le cose più
belle sono sempre più rari. A Monzuno vivono ancora i coniugi Ruggero e qualche altro bravo
ballerino. Sono anziani e tuttavia in grado di esprimere lo stile
peculiare di queste danze, un modo proprio di atteggiarsi che è tutta una
scuola e corrisponde esattamente alla musica che usciva dal violino di
Melchiade; si può ancora cogliere lo stretto legame tra il modo di
caratterizzare la suonata e il corrispondente modo di ballare.
G.G. - Qui potrebbe aprirsi il discorso
sulle attuali forme di riproposta: da una parte la tendenza, che va sempre
più allargandosi, di recepire la danza come momento di socializzazione, di
movimento-divertimento puro, si va alle feste, o ai grandi raduni, per
ballare qualunque cosa capiti… con un sempre più evidente effetto
omologante, incuranti delle differenti grammatiche; dall’altra, il
tentativo di salvaguardare la ricerca e la riproposta dei patrimoni
coreutici locali, cercando di mantenerli, per quanto possibile, ancorati
ai rispettivi contesti culturali di appartenenza.
R.B. - Nell’imolese sono capitato ad alcune
feste in cui, ad esempio, le contigue danze dell’Appennino non venivano
neppure proposte, la stessa cosa succedeva a Faenza, nonostante da tempo
esistesse un consistente giro di appassionati di danze etniche.
Probabilmente perché non si è riusciti a cogliere quell’aspetto "del
bello" che c’era nei nostri balli. Se manca la voglia o la capacità di
eseguire un bel balletto, quella parte saltata che era il fulcro del
ballo, si elimina il momento più importante. Se nelle nostre danze non si
coglie questo sicuramente ci si diverte di più a ballare qualcos’altro. Se
si deve organizzare una festa con tanti balli, in effetti, è più facile
attingere da altre tradizioni che forse hanno balli coreograficamente più
ricchi, più accattivanti; si può variare e spaziare indifferentemente tra
l’America e l’Irlanda, il Medio Oriente ecc. Personalmente trovo
interessante poter ballare alle feste danze di tradizioni diverse, perché
allargano gli orizzonti, offrono stimoli per fare confronti, arricchiscono
il bagaglio, mi piacerebbe però che non arrivassero mai a sostituire i
balli tradizionali locali.
G.G. - E quindi a partire da queste
problematiche, che restano necessariamente aperte e sulle quale è sempre
bene continuare ad interrogarsi, qual è stata la tua scelta, come persona
e come musicista che, dopo essersi formato "sul campo" decide di
immettersi nel circuito della riproposta?
R.B. - In seguito col gruppo cominciammo ad
esibirci con qualche ballo emiliano. A poco a poco il repertorio del
gruppo comprese quasi esclusivamente danze strumentali, avevamo conservato
qualche canto e qualche brano di altre tradizioni solo per poter variare.
Non era semplice portare avanti la nostra riproposta a Faenza, verso il
bolognese funzionava meglio, perché era più facile trovare qualcuno che
avesse frequentato dei corsi di balli montanari. Mostravamo qualche ballo
poi cercavamo di coinvolgere il pubblico. Mano a mano che la ricerca
andava avanti con le musiche, di pari passo introducevo i balli perché
capivo che erano interdipendenti. A Faenza come ho detto esisteva già un
gruppo di ballerini, qualcuno aveva già iniziato a frequentare corsi sui
balli emiliani, qualcun altro era stato catturato al volo, perché
interessato al lavoro di ricerca che stavamo facendo in Romagna. Quindi si
creò un gruppo specifico che all’occorrenza si esibiva con noi. Mi trovai
completamente calato nei panni del suonatore da ballo, era quello che
volevo e che mi aveva affascinato in figure come Melchiade, Livio e
Bagareta.
G.G - Hai detto che dai racconti di
Bagareta hai capito cosa voleva dire essere un "suonatore da ballo",
cosa ti aveva colpito in particolare?
R.B. - In primo luogo la popolarità di cui
godevano dovuta al ruolo fondamentale che avevano per la riuscita delle
feste da ballo. A Faenza e dintorni tutti hanno conosciuto Bagareta,
anche le generazioni più giovani. In tutte le case se n’è parlato
tantissimo, anche perché col suo lavoro – faceva l’imbianchino – ha girato
tutta la campagna faentina. Ancora adesso si dice: ‘’taca Bagareta’
per dire a qualcuno di incominciare a suonare; era divenuto il suonatore
simbolo di tutta la zona. Il suonatore da ballo, come ho detto, era quello
che poteva determinare la riuscita di una festa, ed era perciò sempre al
centro dell’attenzione; avere Bagareta a suonare voleva dire avere
sicuramente una bella festa, insomma non si scherzava su questo. Fare
musica per il suonatore da ballo era una forma di semiprofessionismo, che
doveva avere ovviamente anche un altro lavoro, perché solo col suonare non
si poteva mangiare. Melchiade era agricoltore; Livio ha fatto vari lavori:
è stato bracciante, poi è andato in ferrovia, continuando a suonare da
ballo fino alla fine. Andava in giro a suonare il liscio, anche in posti
lontani, quando già il violino in quel genere era caduto in disuso.
Melchiade invece ha suonato le sue musiche finché ha vissuto lassù, poi ha
dato un taglio, è venuto giù in pianura ed ha smesso di suonare.
Bagareta invece è nato contadino, è stato mezzadro. Ad un certo punto
ha cominciato a dipingere i carri agricoli; in seguito gli è venuta la
passione del pennello ed è diventato imbianchino; infine, da vecchio ha
cominciato a dipingere quadri; ne conservo un paio in casa.
E.D.C. - Il violino era uno strumento
diffuso in pianura?
Parlando con i suonatori più anziani ho
scoperto che, contrariamente a quanto pensassi, di violini nelle case se
ne trovavano un po’ dappertutto; probabilmente era più comune di quanto
non sia la chitarra per noi oggi. Livio sosteneva che nelle orchestrine,
quando era giovane, era lo strumento solista principale, nelle feste da
ballo veniva quasi sempre accompagnato dal violoncello o dalla chitarra.
Nell’area compresa tra Faenza, Solarolo, Castelbolognese, Imola e le
colline circostanti ho sentito parlare di tantissimi violinisti. Molti di
questi, che non avevano avuto la possibilità di studiarlo, nei trebbi
arrivavano ad eseguire due o tre pezzi; facevano da radio della
situazione, non c’era niente altro, e riuscire a suonare anche un solo
valzer era fare una gran cosa. A esercitare il "mestiere" erano
soprattutto quelli che avevano avuto la possibilità prendere qualche
lezione, oppure quelli che avevano un parente in casa che suonava. Gli
altri, con pochi pezzi, usavano il violino come nella nostra giovinezza ci
si divertiva in compagnia a suonare due, tre canzoni di Battisti. Un altro
fattore di diffusione del violino era la facilità con cui dalle nostre
parti lo si poteva trovare, perché a costruirlo spesso erano semplici
falegnami per i quali arrivare a farne uno era motivo di orgoglio
professionale. Il più grande liutaio della zona era Nicola Utili di
Castelbolognese, considerato un vero pezzo da novanta.
E.D.C. - Come si possono descrivere le
differenze fra il modo di suonare di Melchiade e quello di Livio e
Bagareta?
R.B. - La tecnica predominante di Livio
risentiva del vecchio liscio, era infatti piena di glissati. Il suo stile
era più cantabile, e questo si rifletteva anche nei balli saltati. La mia
impressione era che ciò non dipendesse solo dal modo di suonare ma dalle
caratteristiche melodiche degli stessi brani saltati, che spesso erano in
minore. Sarebbe stato interessante aver potuto ascoltare come il babbo di
Livio, anche lui violinista, eseguisse quei balli; Livio aveva infatti
iniziato a suonare nella formazione del babbo accompagnandolo col
violoncello. Lo stile di Melchiade nei saltati era certamente diverso, più
aggressivo, più staccato, con un maggiore effetto ritmico. Bagareta
purtroppo non l’ho sentito... Ho avuto però la sensazione che i suoi brani
fossero dello stesso genere di quelli di Livio; lui mi fece sentire solo
il Bergamasco, mi fece notare l’uso delle doppie corde, però era già
troppo vecchio… Però la cosa più importante che mi è rimasta di Melchiade,
Livio e Bagareta, al di là della trasmissione della tecnica
violinistica, è stata la loro grande amicizia, l’attenzione particolare
che ciascuno metteva nel rapporto con me. Debbo molto a ciascuno per il
bel tempo che abbiamo trascorso assieme.
G.G. - Vorrei tornare sulle
considerazioni che facevi circa 1l modo di sentire la danza nella cultura
tradizionale; sul fatto che quando la gente ballava lo faceva con l’animo
di fare qualcosa di bello anche sul piano estetico, non era una cosa tanto
per fare. E’ possibile recuperare oggi questo tipo di sensibilità? Come
traduci concretamente quest’attenzione nel tuo modo di fare riproposta?
R.B. - A me piacerebbe riuscire a fare
questo per ciò che riguarda il modo di suonare il violino. Quando eseguo
un ballo cerco sempre di aggiungervi qualcos’altro; il mio atteggiamento
non è, quindi, di rifarlo uguale a chi me lo ha insegnato, perché proprio
quel violinista, nel farmelo sentire ogni volta diverso, mi ha insegnato
che il bello di quel brano è averlo nelle dita per poterlo gestire e
variare. Ovviamente la base per impararlo è tentare di imitarlo il più
possibile. Però penso, anche se non ci sono ancora arrivato, che il bello
di questa musica sia la capacità saperla variare, di far "brillare" la
suonata. Era questo che mi entusiasmava vedendo suonare Melchiade e Livio;
quindi come suonatore tendo a questo. Se fossi un ballerino farei la
stessa cosa.
G.G. - Solo che per il ballo tradizionale
in Romagna mancano sufficienti riferimenti, allora i ballerini come
possono fare?
E’ durissimo. Io, infatti, mi riferivo
soprattutto alle danze emiliane perché lì c’è ancora la possibilità di
apprendere direttamente dagli informatori. Da noi è tutto un altro
discorso.
G.G. - Eppure, secondo me, anche noi non
dovremmo accontentarci, dovremmo trovare il modo di capire, o carpire nel
modo di riproporre le nostre vecchie danze, quel gusto estetico che faceva
la differenza e anche divertire di più. Magari partendo proprio dal
tentativo di ritrovare quell’energia che può scaturire dallo stretto
legame fra chi suona e chi balla. Le nostre ricerche e le vostre, ci hanno
permesso di ricostruire un repertorio di musiche e danze di tutto
rispetto, che ci ha consentito di ricostruire gli elementi di base
(postura e dinamica) di circa una trentina di balli, incluse le varianti.
Metà di questo repertorio è stato messo a punto ricomponendo i singoli
frammenti, sezione per sezione, quando già i balli erano stati smessi da
30-50 anni. In alcuni casi potrebbero esservi parti lacunose che non è più
possibile documentare. In questo cammino di ricostruzione siamo arrivati a
metà strada; ed è già un risultato discreto, considerato che dodici anni
fa si pensava che di quei balli non ci fosse più nulla. Purtroppo non
siamo riusciti a vedere queste danze in funzione, durante le feste, quando
a esibirsi erano i ballerini riconosciuti come i più bravi. Per fare
questo occorreva arrivare almeno cinquant’anni prima. Il nostro è un
lavoro di ricucitura, "rattoppo", nel senso migliore del termine, per
tentare di ristabilire alcune linee di continuità. Le risposte che ci
possiamo dare in questa situazione sono necessariamente contraddittorie.
Forse si potrebbe partire da un lavoro di analisi e comparazione fra tutto
ciò è stato che è stato fissato "sul campo" nella nostra "fascia"; e dopo
un’acquisizione più puntuale delle regole della grammatica di base,
arrischiarsi a sperimentare, rielaborare, re-inventare… tenendo conto
degli attuali ambiti, affatto diversi, in cui la danza si rivitalizza e si
rifunzionalizza. Occorrerebbe anche saper trasmettere con più efficacia,
nei circuiti del folk nazionale, sempre più trafficati, maggiore
consapevolezza e sensibilità circa il valore culturale di ciascun
repertorio, regionale o internazionale. In questi contesti, che ci
riguardano più o meno tutti, si osserva l’ossessione a voler imparare
continuamente balli nuovi ad ogni stagione; l’effetto inevitabile è la
semplificazione e l’appiattimento delle differenze a cui tutti teniamo
tanto. Ogni ballo, ogni repertorio, sono intrisi segni culturali;
esprimono un microcosmo di valori e visioni della vita che, se li sappiamo
riconoscere, possono esserci ancora utili. Credo che prendendo a cuore
anche una solo di questi universi culturali potrebbe non basterebbe una
vita per entrarci in profondità. Ritrovare il "gusto del bello" nel modo
di suonare, di cantare e di ballare, richiede molta umiltà; è un percorso
che si accompagna ad una tensione continua a "stare dentro" i luoghi e le
culture, per mettere in relazione la musica con tutto il resto. Penso che
continuare a provarci ne valga la pena, arricchisca il senso di fare
riproposta nell’epoca "globale"; è un lavoro che richiede un affinamento
continuo dei metodi e delle strategie, in parte ancora da inventare; per
fortuna in giro ce qualche buon esempio.
R.B. - Sì, però non so nemmeno se
effettivamente interessi poi molto. Se questa tensione non c’è puoi
scegliere anche altre strade. Pensando al futuro del nostro ballo popolare
non so dire francamente quale sia il modo migliore per salvarlo. Credo
anch’io che sia fondamentale avere la capacità di trasmettere quella
voglia di "farlo bello" che c’era un tempo, ma posso sostenerlo
soprattutto perché ho avuto la fortuna di veder ballare quei vecchietti
nelle feste della montagna bolognese. Nella nostra situazione, invece,
dove comunque non ci sono più riferimenti concreti, non so se
effettivamente sia possibile far sopravvivere i balli popolari quando, non
potendo più imitare, puoi solo "inventare". A livello pratico ti scontri
troppo col gusto personale di ciascuno. Ridare alle danze quel qualcosa
che manca non è cosa da poco. Ci vogliono altri 50 anni di questa pratica
per ricreare un qualcosa di vivo. Quando e se abbiamo "rattoppato" è stato
perché non si poteva far altro, il nostro è stato un lavoro iniziale;
continueremo a fare tutto quello che è ancora possibile per salvare la
nostra tradizione musicale, documentando tutto quello che ancora c’è; il
nostro non è un lavoro compiuto, si compirà soltanto se queste danze
continueranno ad essere ballate, se altri riprenderanno quello che noi
siamo riusciti a ricostruire, se ci sarà una continuità che noi, per ora,
non riusciamo ad immaginare. D’altronde mi rendo conto dei limiti che
abbiamo, per questo fa arrabbiare l’essere arrivati così tardi in questo
lavoro di recupero; se qualcun altro avesse fatto qualcosa prima di noi ci
avrebbe aiutato molto.
A questo proposito mi sono sempre chiesto
come mai la Romagna che si è sempre riempita la bocca di folklore non si è
mai guardata le scarpe. Siamo arrivati tante volte nei paesi scoprendo che
era morto l’anno prima colui che era stato il suonatore simbolo del paese,
con delle perdite immense! E’ incredibile come a nessuno sia venuto in
mente che, al di là del liscio, c’era dell’altra musica da salvare.
Effettivamente è stato un peccato. Trent’anni fa c’era Bagareta in
forma che suonava, c’erano i ballerini che saltavano come dei capretti,
c’era ancora tutto un mondo che si poteva salvare. Può darsi anche che ci
sia ancora qualche cosa da trovare, ad esempio so di registrazioni che
sono state fatte negli ultimi trenta o quarant’anni a livello amatoriale,
magari potremmo ancora scovarle nelle case della gente. Mi hanno detto che
negli anni ’70, in un circolo a Pieve Cesato, qualcuno a una festa ha
ripreso una coppia di ballerini della vecchia guardia, veri pezzi da
novanta, che ballava il bergamasco; se saltasse fuori sarebbe un documento
importante! E’ una cosa limitata, confronto ad esempio alla scoperta di un
suonatore o un ballerino con cui puoi vivere assieme; qui avresti solo
delle immagini, però anche le immagini che ci permettono di vedere una
bella esecuzione possono trasmetterci molto. Dobbiamo fare tesoro di tutto
quello che si è riusciti a documentare, per quanto raro resta prezioso
perché racchiude e concentra il nostro passato. Sappiamo tutti molto bene
quanto ci sarebbe ancora da scoprire e da imparare solo se ci mettessimo a
riguardarlo.