La pluralità delle
confessioni non relativizza l'esigenza del vero
il Cardinale Joseph Ratzinger "molto annoiato"
replica alle critiche mosse alla «Dominus Iesus»
~ Frankfurter
Allgemeine Zeitung, 22 settembre 2000 ~
~ Intervista condotta da Christian Geyer ~
Signor
Cardinale,
Lei è a capo di una struttura nella quale «esistono tendenze all'ideologizzazione
e alla penetrazione eccessiva di elementi di fede stranieri e fondamentalisti?».
Il rimprovero è contenuto in una comunicazione diffusa la scorsa settimana
dalla sezione tedesca della Società Europea
Devo confessare di essere molto annoiato da questo
tipo di dichiarazioni. Conosco a memoria da molto tempo questo vocabolario,
nel quale i concetti di fondamentalismo, centralismo romano e assolutismo non
mancano mai. Certe dichiarazioni potrei formularle da solo senza neanche
aspettare di riceverle, perché si ripetono ogni volta indipendentemente
dall'argomento che si tratta.
Gesù è il Signore.
Con questa Dichiarazione, la cui redazione ha seguito fase per fase con molta
attenzione, il Papa ha voluto offrire al mondo un grande e solenne
riconoscimento di Gesù Cristo come Signore nel momento culminante dell'Anno
Santo, portando così con fermezza l'essenziale al centro di questa
occasione, sempre soggetta a esteriorizzazioni.
L'elemento
dirompente di carattere politico-ecclesiastico è contenuto nella sezione del
documento relativa all'ecumenismo. Per la parte evangelica si è pronunciato
Eberhard Jüngel, affermando che il documento tralascia il fatto che
tutte le Chiese «a loro proprio modo» vogliono essere ciò che di fatto sono:
«Chiesa una, santa, cattolica, apostolica». Dunque la Chiesa cattolica si
illude quando pretende di avere l'esclusiva dal momento che, secondo Jüngel,
condivide questi diritti con le altre Chiese?
Il
fatto è che ormai la parte evangelica considera la definizione «comunità
ecclesiale» un'offesa. Le dure reazioni al suo documento ne sono una chiara
dimostrazione.
Purtroppo ancora una volta non riesco a seguire il
ragionamento dello stimato collega Jüngel. Io ero presente quando durante il
Concilio Vaticano Il venne scelta l'espressione «subsistit» e posso dire di
conoscerla bene. Purtroppo in un'intervista non si può scendere nei dettagli.
Pio XII nella sua Enciclica aveva detto: la Chiesa cattolica romana «è»
l'unica Chiesa di Gesù Cristo. Ciò parve esprimere una identità totale,
per la quale al di fuori della comunità cattolica non c'era Chiesa. Tuttavia
non è così: secondo la dottrina cattolica, condivisa ovviamente anche da Pio
XII, le Chiese locali della Chiesa orientale separata da Roma sono autentiche
Chiese locali; le comunità scaturite dalla Riforma sono costituite
diversamente, come ho appena detto. In esse la Chiesa esiste nel momento in cui
si verifica l'evento.
Ma
allora non si dovrebbe dire: non esiste un'unica Chiesa. Essa si è disgregata
in numerosi frammenti?
Forse è proprio la libertà che spetta al cristiano a far interpretare un tale «patchwork» anche come soggettivismo o individualismo.
La Chiesa cattolica, come quella ortodossa, è convinta che
una definizione del genere sia inconciliabile con la promessa di Cristo e con la
fedeltà a Lui. La Chiesa di Cristo esiste veramente e non a brandelli. Essa non
è un 'utopia irraggiungibile, ma una realtà concreta. Il «subsistit» intende
proprio questo:
Le
argomentazioni
di Jüngel sono di carattere filologico e in questo senso egli ritiene che
l'interpretazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, che lei ha
appena esposto, sia «fuorviante». Infatti secondo la terminologia della
Vecchia Chiesa «sussiste» anche I'unico essere divino e non in una sola
Persona, ma in tre Persone. La domanda che sorge da questa riflessione è la
seguente: se dunque Dio stesso «sussiste» nella differenza fra Padre, Figlio e
Spirito Santo e tuttavia non si separa da se stesso, creando così tre
reciproche alterità, perché ciò non dovrebbe valere anche per
la Chiesa che rappresenta il «mysterium trinitatis» nel mondo?
Mi rattrista dovermi opporre ancora una volta a Jüngel.
Prima di tutto bisogna osservare che la Chiesa d'Occidente nella traduzione
della formula trinitaria in latino non ha accolto direttamente la formula
orientale, nella quale Dio è un essere in tre ipostasi («sussistenze»), ma ha
tradotto la parola ipostasi con il termine «persona» perché in latino la
parola sussistenza come tale non esisteva e quindi non sarebbe adeguato per
esprimere l'unità e la differenza fra Padre, Figlio e Spirito Santo.
Ma soprattutto sono molto
determinato
a lottare contro questa tendenza sempre più diffusa a trasferire il mistero
trinitario direttamente alla Chiesa. Non va bene. Così finiremo per credere in
tre divinità.
Insomma,
perché non si può paragonare «l'alterità» del Padre, del Figlio e
Fra le comunità ecclesiali esistono molti contrasti e che
contrasti! Le tre «Persone» costituiscono un solo Dio in un'unità autentica e
somma. Quando i Padri conciliari sostituirono la parola «è» con la parola «subsistit»
lo fecero con uno scopo ben preciso. Il concetto espresso da «è» (essere) è
più ampio di quello espresso da «sussistere». «Sussistere» è un modo ben
preciso di essere, ossia essere come soggetto che esiste in sé.
I Padri conciliari dunque intendevano dire che l'essere della Chiesa il, quanto
tale è un'entità più ampia della Chiesa cattolica romana, ma in quest'ultima
acquista, in maniera incomparabile, il carattere di soggetto vero e proprio.
Facciamo
un passo indietro. Colpisce la curiosa semantica a volte presente nei documenti
ecclesiali. Lei stesso ha evidenziato che l'espressione «elementi di Verità»,
che è centrale nello scontro attuale, non è proprio felice. L'espressione
elementi di verità non tradisce forse una sorta di concetto chimico di verità?
La verità come sistema periodico degli elementi? Ossia:
La costituzione ecclesiale del Concilio Vaticano Il parla di
«parecchi elementi di santificazione e di verità», che si trovano al di fuori
dell'organismo visibile della Chiesa (I n.8); il decreto sull'ecumenismo elenca
alcuni di questi elementi: «La parola di Dio scritta, la vita della grazia, la
fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed
elementi visibili» (I n. 3). Forse esiste un termine migliore di «elementi»,
ma il significato reale è chiaro: la vita della fede, al servizio della quale
è la Chiesa, è una struttura molteplice e vi si possono distinguere diversi
elementi che sono all'interno o anche all'esterno di essa.
Ciononostante,
non deve forse sorprendere che si voglia rendere intelligibile mediante teoremi
un fenomeno che si sottrae alla verificabilità empirica come quello della fede
religiosa?
Colgo
una certa ironia quando parla
Per la teologia aderire alla fede della Chiesa non è una
sottomissione a condizioni estranee alla teologia. La teologia
è per sua natura volta a comprendere la fede della Chiesa,
che è il presupposto della sua esistenza. Inoltre, in alcuni casi anche i
responsabili ecclesiali evangelici hanno dovuto togliere ad accademici la
missione di insegnare perché avevano abbandonato i fondamenti di questa loro
missione. Per quanto riguarda noi e il nihil obstat, dobbiamo
innanzitutto ricordare che una cattedra d'insegnamento non 'è un diritto per
nessuno. Le Facoltà di Teologia non sono obbligate a comunicare ai singoli
candidati il motivo per il quale non sono stati scelti e a motivare la loro
decisione. Comunichiamo ai nostri Vescovi per quale motivo, secondo noi,
non si può concedere il nìhil obstat a
un certo candidato. Spetta poi al Vescovo decidere come comunicarlo. In
un certo numero di casi si è iniziato uno scambio epistolare con i candidati le
cui spiegazioni hanno spesso reso possibile mutare la decisione da negativa a
positiva.
La
critica mossa da Peter Hünermann si incentra su quanto segue: attraverso il
rafforzamento dell'obbligo di giuramento di fedeltà si esige che i teologi e il
clero ritengano validi anche insegnamenti legati solo indirettamente alla verità
di fede rivelata, ma non esplicitamente rivelati.
Ho già affrontato in maniera particolareggiata le
informazioni false che esistono a questo riguardo in due miei interventi nella
«Stimmen der Zeit» nel 1999 e in un mio contributo contenuto nel libro di
Wolfgang Beinert, pubblicato in quello stesso anno, «Gott - ratlos vor dem Bösen?»
e per questo sarò breve. Hünermann rivolge la sua critica contro il cosiddetto
secondo livello della professione di fede, che distingue l'insegnamento valido e
legato indissolubilmente alla Rivelazione dalla Rivelazione vera e propria. E
assolutamente falso affermare che i Padri del primo e del secondo Concilio
Vaticano avrebbero rifiutato espressamente questa distinzione. E' invece vero
proprio il contrario. Il concetto di Rivelazione è stato rielaborato all'inizio
dell'età moderna con lo sviluppo del pensiero storico. Si cominciò a
distinguere fra ciò che era stato effettivamente rivelato e ciò che derivava
dalla Rivelazione, che non era
Il culmine della critica non riguarda tanto distinzioni come queste, ma piuttosto la rivendicazione della somma autorità magisteriale di insegnamenti che godono solo dello status di «teologicamente ben fondati», nei quali nonostante le buone basi esistono ancora obiezioni, che non sono state completamente eliminate.
Naturalmente con insegnamenti
a cui attenersi («tenenda») si intende qualcosa di più di «teologicamente
ben fondati»; questi in realtà sono mutevoli.
La letteratura annovera fra questi «tenenda» gli importanti insegnamenti
morali della Chiesa (per esempio il rifiuto dell'eutanasia, del suicidio
assistito), i cosiddetti fatti dogmatici (per esempio che i Vescovi di Roma sono
i Successori di San Pietro, la legittimità dei concili ecumenici e cosi via).
Torniamo
ancora una volta al discusso documento della sua Congregazione. Spesso si
rimprovera alla dichiarazione «Dominus Iesus», più che una mancanza
contenutistica, una forma poco diplomatica che irrita gli interlocutori delle
altre religioni e confessioni. Il Cardinale di Berlino Sterzinsky ha dichiarato
che nella formazione teologica si richiede di non dimenticare nei sermoni il «quando,
come e dove». Nei documenti romani pare che invece ciò sia stato dimenticato.
E il Vescovo di Magonza Lehmann ha affermato che avrebbe desiderato «un testo
redatto nello stile dei grandi testi conciliari» e si chiede fino a che punto
la Congregazione per la Dottrina della Fede abbia collaborato con le altre
autorità curiali nella formulazione del documento. A questo proposito fa
riferimento al Consiglio per il Dialogo con le Religioni non cristiane e al
Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani.
Per quanto riguarda la collaborazione con le altre autorità
curiali, il Presidente e il Segretario del Consiglio per l'Unità, il Cardinale
Cassidy e il Vescovo Kasper, sono membri della nostra Congregazione, così come
il Presidente
Hanno
trovato ascolto?
Quasi tutte le proposte delle due persone in questione sono
state accolte, perché naturalmente nella trattazione di questa materia per noi
era molto importante l'opinione del Consiglio per l'Unità. Inoltre, posso ben
comprendere che i Vescovi tedeschi siano particolarmente sensibili alle
difficoltà che emergono dal contesto del nostro Paese. Tuttavia, esiste anche
un'altra faccia della medaglia. Per esempio proprio in questi giorni, mentre
tornavo a casa, ho incontrato due uomini nel fiore degli anni che, venuti verso
di me, mi hanno detto: «Siamo missionari in Africa. Per quanto tempo abbiamo
atteso queste parole! Incontriamo costanti difficoltà e
Nel
dibattito sul Documento della sua Congregazione si è posta di nuovo la
questione delle possibilità e dei limiti dell'ecumenismo. I problemi legati al
progetto ecumenico non riguardano solo l'esistenza di una tendenza a sfumare ciò
che divide e a non prendere più sul serio le esigenze irrinunciabili di
predominare di entrambe le parti. Già 15 anni fa, in un contributo contenuto
nella «Theologische Quartalschrift»
Lei aveva ammonito contro il considerare «l'ecumenismo come un compito
diplomatico di natura politica» e in questo senso aveva criticato «l'ecumenismo
di trattativa» del primo periodo post-conciliare. Che cosa intendeva dire?
Innanzitutto distinguerei il dialogo teologico dalla
trattativa di tipo politico o economico. Nel dialogo teologico non si tratta di
trovare l'accettabile e alla fine il conveniente per entrambe le parti, ma di
scoprire profonde convergenze dietro distinte forme linguistiche e di imparare a
distinguere fra quanto è legato a un determinato periodo storico e quanto
invece è fondamentale. Ciò è possibile soprattutto quando il contesto
dell'esperienza di Dio e di sé è cambiato e quindi la lingua può essere
affrontata con un certo distacco e dalle passioni che dividono possono scaturire
intuizioni fondamentali.
Nella dottrina della giustificazione ciò è evidente:
l'esperienza religiosa di Lutero era essenzialmente condizionata dal difficile
aspetto della collera di Dio e dal desiderio della certezza del perdono e della
salvezza. Tuttavia, l'esperienza della collera di Dio si è perduta del tutto
nella nostra epoca e che Dio non possa condannare nessuno è diventata un'idea
generale fra i cristiani. In un contesto ormai così diverso si potevano
ricercare i punti comuni alle due parti partendo dalla Bibbia, che è il nostro
fondamento comune. Perciò non posso trovare alcuna contraddizione fra «Dominus
lesus» che ripete soltanto le idee centrali del Concilio e il consenso della
giustificazione. E' importante che il dialogo si svolga con molta pazienza, con
molto rispetto e soprattutto in totale onestà. La sfida agnostica, rivolta a
tutti noi, consiste nell'abbandonare i preconcetti di tipo storico e giungere a
ciò che è centrale. Per esempio, tornando a un momento precedente del nostro
colloquio, onesto è non pretendere di applicare lo stesso concetto di Chiesa
alla Chiesa cattolica e ad una delle Chiese formate secondo i confini dei
principati del passato.
Allora,
dopo la pubblicazione del suo Documento la formula ecumenica della «Diversità
riconciliata» è ancora valida?
Occasionalmente
si leggono passaggi del Papa e anche suoi che relativizzano la divisione della
cristianità in una trattazione della storia della salvezza dialettica. Il Papa
allora parla di «cause metastoriche» della divisione e nel suo libro «Varcare
la soglia della speranza» si chiede: «Non potrebbe essere, dunque, che le
divisioni siano state anche una via che ha condotto e conduce la
Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel Vangelo di Cristo e
nella redenzione da Lui operata? Forse tali ricchezze non sarebbero potute
venire alla luce diversamente». Così la divisione dei cristiani sembra un
compito didattico dello Spirito Santo, poiché, come dice il Papa, per la
conoscenza e l'azione umane è significativa anche una «certa dialettica». Lei
stesso scrive: «Anche se le divisioni sono opere umane e colpe umane, esiste in
esse una dimensione propria della compagine divina». Se le cose stanno così;
ci si chiede con quale diritto si contrasta la didattica divina identificando la
Chiesa di Cristo con la Chiesa romana cattolica. Le indeterminatezze concettuali
che si deplorano nel dialogo ecumenico non esistono anche nelle speculazioni
della storia della salvezza sulla didattica di Dio?
Questo è un argomento difficile che riguarda la libertà
umana e il governo divino. Non esistono riposte valide in maniera assoluta perché
noi non oltrepassiamo il nostro orizzonte umano e quindi non possiamo svelarci
il mistero che lega questi due elementi. Ciò che lei ha citato del Santo Padre
e di me, si potrebbe applicare grossolanamente alla nota formula secondo la
quale Dio scrive anche con righe storte. Le righe restano storte e ciò
significa che le divisioni hanno a che fare con la colpa umana. La colpa non
diventa qualcosa di positivo per il fatto che da essa può derivare un processo
di maturazione quando la si interpreta come qualcosa che si può superare con la
conversione e eliminare con il perdono.
Già Paolo aveva dovuto spiegare ai Romani l'equivoco scaturito dal suo
insegnamento sulla grazia, secondo il quale dal momento che il peccato produce
grazia, allora nel peccato si può stare tranquilli (Rm 6,19). Il fatto che Dio possa
trasformare in bene anche i nostri peccati non significa
certo che il peccato sia una cosa buona.
E il fatto che Dio possa trarre frutti positivi dalla divisione, non la
trasforma in una cosa di
per sé positiva. Le indeterminatezze concettuali che di fatto esistono sono
dovute all'inquietante insondabilità del rapporto fra la libertà di peccare e
la libertà della grazia. La libertà della grazia si mostra anche nel fatto che
da una parte la Chiesa non affonda e non si disgrega in frammenti ecclesiali
antitetici all'interno di un sogno irrealizzabile. Il soggetto Chiesa per la
grazia di Dio esiste e sussiste realmente nella Chiesa cattolica; la promessa di
Cristo è la garanzia che questo soggetto non sarà mai distrutto. Ma dall'altra
parte è vero che questo soggetto è ferito, - in quanto realtà ecclesiali
esistono ed operano al di fuori di esso. In ciò si delinea al massimo il dramma
della colpa e l'ampiezza paradossale della promessa di Dio. Se si rimuove questa
tensione, per addivenire a formule chiare e si afferma che tutte le comunità
ecclesiali sono Chiesa e tutte sono pur con i loro contrasti
quella Chiesa una e santa, l'ecumenismo viene meno perché non esiste più alcun
motivo per ricercare l'unità autentica.
La
stessa questione si ripropone sotto un altro aspetto: se la questione della
professione religiosa sia in rapporto con quella della salvezza personale. Perché
missione, perché lo scontro sulla «verità» e documenti vaticani, se l'uomo
alla fine può giungere a Dio attraverso tutte le vie?
Il Documento non riprende
assolutamente la tesi soggettivistica e relativistica, secondo la quale ognuno
può divenire santo a suo modo. Questa è un'interpretazione cinica, nella quale
io percepisco disprezzo per la questione della verità e della giusta etica. Il
Documento afferma con il Concilio che Dio dona luce ad ognuno. Chi cerca la
verità si trova obiettivamente sulla strada che porta a Cristo e con ciò anche
sulla via verso la comunità, nella quale egli rimane presente alla storia, cioè
alla Chiesa. Cercare la verità, ascoltare la coscienza, purificare il proprio
ascolto interiore, queste sono condizioni di salvezza per tutti. In esse esiste
un legame intimo e obiettivo con Cristo e con la Chiesa.
In
questo senso si dice allora che nelle religioni esistono riti e preghiere, che
possono assumerei un ruolo di preparazione evangelica, occasioni o pedagogie in
cui i cuori degli uomini sono stimolati ad aprirsi all'azione di Dio. Ma si dice anche che ciò non
vale per tutti i riti. Ne esistono infatti alcuni (chiunque conosce un po' di
storia delle religioni non può che essere d'accordo), che allontanano l'uomo
dalla luce. Così la vigilanza e la purificazione interiori si ottengono
mediante una vita che segue la coscienza, che aiuta a individuare le differenze,
un apertura che alla fine significa appartenenza interiore a Cristo.
Per questo il Documento può affermare che la missione resta importante
in quanto offre quella luce di cui gli uomini hanno bisogno
nella loro ricerca della verità e del bene.
Io non ho detto che la salvezza si
può ottenere mediante tutte le vie. La via della coscienza, il tenere lo
sguardo fisso sulla verità e sul bene obiettivo, é una strada
unica, anche se assume molte forme a motivo del gran numero di persone e di
situazioni. Tuttavia il bene è uno e la verità non si contraddice. Il fatto
che l'uomo non raggiunga l'uno o l'altra, non relativizza l'esigenza di verità
e di bene. Per questo non è sufficiente persistere nella religione ereditata,
ma è necessario rimanere attenti al vero bene e così essere capaci anche di
superare i confini della propria religione. Ciò ha un senso soltanto se
esistono veramente la verità e il bene.
Non si potrebbe essere sulla via di Cristo se egli non esistesse. Vivere con gli
occhi del cuore aperti, purificarsi interiormente, cercare la luce sono
condizioni indispensabili per la salvezza dell'uomo. Annunciare la verità,
ossia lasciar risplendere la luce («non sotto il moggio, ma sul candelabro»)
è assolutamente necessario.
A irritare il protestante non è il concetto di Chiesa, ma l'interpretazione biblica di «Dominus Iesus», in cui si afferma che «bisogna opporsi alla tendenza a leggere e ad interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione dal Magistero della Chiesa» e a «presupposti che ostacolano l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata». Dice Jüngel: «La rivalutazione inopportuna dell'autorità del Magistero ecclesiale corrisponde a una svalutazione altrettanto inopportuna dell'Autorità delle Sacre Scritture».
Forte
di 500 anni di esperienza, l'esegesi moderna ha riconosciuto chiaramente,
insieme alla moderna letteratura e filosofia del linguaggio, che la semplice
autointerpretazione delle Scritture e la chiarezza che ne derivano semplicemente
esistono. Nel 1928 Adolf
Quale
criterio decisivo per la definizione di «Chiesa sorella» della Chiesa
cattolica romana, la Dichiarazione della sua Congregazione indica l'accettazione
della «Successione apostolica». Un protestante come Jüngel rifiuta questo
principio come non biblico. Per lui successore degli apostoli non
è
il
Vescovo, ma il Canone biblico. Secondo lui chi vive secondo le Scritture è
successore degli apostoli.
L'affermazione che il canone
sarebbe
il successore degli apostoli è un'esagerazione e mescola cose troppo diverse fra loro. Il canone della
scrittura è stato trovato dalla Chiesa in un processo che sarebbe durato fino
al quinto secolo. Il canone quindi non esiste senza il
Quando si afferma che chi vive secondo le scritture è successore degli
Apostoli, non si risponde alla seguente domanda: chi decide che cosa
significa vivere secondo le Scritture e chi giudica se si viva effettivamente
secondo le Scritture? La tesi secondo la quale il Successore degli Apostoli non
è il Vescovo, bensì il canone biblico è un chiaro rifiuto del concetto di
Chiesa cattolica. Al contempo però si pretende che noi applichiamo questo
stesso concetto per definire le Chiese della riforma. Francamente è una logica
che non capisco.