CRISTO, LA CHIESA, LE CHIESE
(Paolo Ricca, RIFORMA, 15 settembre 2000
Il cardinale Ratzinger colpisce ancora. Lo ha
fatto con due documenti di cui s'è molto parlato nei giorni scorsi.
Il primo, datato 30 giugno 2000 ma reso noto solo il 2 settembre, è una «Nota
sull'espressione "Chiese sorelle"» che - precisa lo stesso
Ratzinger in una lettera d'accompagnamento indirizzata ai presidenti di tutte le
Conferenze episcopali cattoliche - è stata «approvata dal papa»
nell'udienza del 9 giugno 2000. Perciò le sue indicazioni e conclusioni «devono
essere considerate autorevoli e vincolanti», anche se la «Nota»
non sarà pubblicata negli Acta Apostolicae Sedis, che sono la «Gazzetta
ufficiale» del Vaticano.
Il secondo documento non è una
S'intitola Dominus Jesus e tratta dell'«unicità e universalità
salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa». É senza dubbio la «Dichiarazione»
il documento più importante: la «Nota» ne è semplicemente una logica
conseguenza.
Qual è la sostanza teologica della «Dichiarazione»? La si può
riassumere così: un'energica, categorica affermazione della centralità ed
esclusività di Gesù Cristo nell'opera di salvezza, e quindi della centralità
ed esclusività della chiesa che è il suo Corpo, e quindi della centralità ed
esclusività della Chiesa cattolica romana che, secondo la fede cattolica,
Quest'ultima affermazione è, ovviamente, il clou dell'intero discorso.
L'opinione pubblica (così come si esprime attraverso i grandi quotidiani
d'informazione) l'ha accolta freddamente, come una «nota» stonata
nell'anno del tanto declamato giubileo, delle richieste ostentate di perdono e
dei pubblici pentimenti per gli errori del passato: in sostanza un colpo di
freno al dialogo interreligioso e all'ecumenismo.
Le chiese cristiane diverse dalla cattolica hanno manifestato delusione, in
qualche
In un senso, lo è, eccome! In un altro senso, invece, non 10 è. Lo è,
sicuramente, nel senso che la Dichiarazione sembra mettere tra parentesi
quarant'anni di ecumenismo vissuto anche con la Chiesa cattolica ai più
svariati livelli:
La «Nota» del card. Ratzinger è completamente fuori dall'orizzonte
dischiuso da questo «come se» che descrive perfettamente l'esperienza
ecumenica nella quale si vive già, sia pure per momenti e frammenti quello che
non ancora vissuto dalle Chiese, ma che, secondo la promessa di Dio, lo sarà.
Si vive cioè in quel comune movimento verso Cristo che è il movimento
ecumenico, una fraternità e
C'è però un senso in cui la Dichiarazione del card. Ratzinger non è un passo
indietro. Non lo è perché non c'è mai stato da parte del magistero cattolico
quel passo avanti rispetto al quale la Dichiarazione costituirebbe un passo
indietro: il card. Ratzinger non cita se stesso né il Vaticano I ma il Vaticano
II. Ne cita la lettera, certo, non lo spirito, e tanto meno lo spirito
innovatore che vi soffiava. Ma la lettera è quella. È il Vaticano II, e non il
card. Ratzinger, che ha creato la distinzione tra «chiese» (utilizzato
per la comunità cattolica e quelle ortodosse) e «comunità ecclesiali»
(destinato alle comunità protestanti e a quella anglicana, di cui Roma non
riconosce l'episcopato). È il Vaticano II, e non il card. Ratzinger, che
dichiara, proprio nel documento sull'ecumenismo, che «solo nella cattolica
Chiesa di Cristo (...) si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di
salvezza» e «solo al Collegio apostolico con a capo Pietro, il Signore
ha affidato tutti i tesori della Nuova Alleanza» (n. 3). Dunque Ratzinger,
neppure si può dire che interpreti i testi
in senso restrittivo, semplicemente
li ripropone, accentuando (questo
sì, con forza) i tre sola presenti innegabilmente nei testi conciliari, in
singolare contrasto con quelli della Riforma: al posto del sola fide, sola
gratia, sola Scriptura, la Dichiarazione ribadisce il sola chiesa (cattolica
romana), solo episcopato (in comunione con il vescovo di Roma), sola eucaristia
(celebrata da ministeri ordinati da vescovi nella «successione apostolica»).
Non sono novità, ma vederle ripetute con tanta enfasi fa indubbiamente un certo
effetto.
Ci si chiede: perché proprio ora? La risposta è semplice. L'ecumenismo,
malgrado tutto, avanza in tutte le chiese e Roma teme che la «ecclesiologia
delle chiese sorelle» (come la chiama Ratzinger stesso), che tra l'altro è
quella fatta propria dal Sinodo valdese nel documento sull'«Ecumenismo e il
dialogo interreligioso» del 1998 (n. 42a), faccia scuola anche in casa
cattolica, e piano piano, intensificandosi i rapporti con altre chiese, si
faccia strada nell'animo di molti. E contro questa visione della chiesa che la
«Nota» è indirizzata. In sostanza, Roma teme che la chiesa cattolica
finisca per considerare se stessa «chiesa sorella» - quindi una chiesa
tra le altre e come le altre, un po' come accade nel Consiglio ecumenico delle
chiese - dimenticando che la sua vocazione è di essere «mater et caput
omnium ecclesiarum» (madre e capo di tutte le chiese), come sta scritto in
tutte lettere nella basilica di S. Giovanni in Laterano - la basilica papale -
in Roma.
E qui veniamo al punto cruciale che è questo: nei quarant'anni successivi al
Vaticano II molte cose sono cambiate nella chiesa di Roma e
di conseguenza nei suoi rapporti con le altre chiese e viceversa,
ma la sua autocoscienza, almeno a livello di magistero, e quindi la sua
posizione nei confronti delle altre chiese non è cambiato neppure di un
millimetro. Potremmo dire: tutto è cambiato e nulla è cambiato.
Sembra impossibile, ma è così.
Oggi come ieri e avant'ieri la chiesa di Roma continua a considerarsi la chiesa,
non una chiesa, la chiesa di Cristo nel senso vero e pieno
del termine. Le
altre sono o «chiese particolari» (è il caso delle chiese ortodosse) oppure non sono veramente chiese ma «comunità
ecclesiali», semi-chiese potremmo dire, chiese a metà o anche meno (è il
caso delle chiese protestanti o evangeliche).
Secondo la «Nota» infatti possono essere
L'autocoscienza della chiesa di Roma e la sua pretesa di essere «madre e
capo di tutte le chiese» non si sono modificate. Essa non vuole diventare
«chiesa sorella».
L'unico, piccolo spiraglio aperto nel 1995 dalla proposta di Giovanni Paolo II
di rivedere le forme di esercizio del primato papale è rimasta sinora lettera
morta, anzi si direbbe che stia accadendo il contrario: il papa è, per così
dire, sempre più papa e la chiesa di Roma è sempre più papale.
E allora? Che dire? Che fare? Nulla di particolare, dato che in fondo non c'è
nulla di nuovo. Quando il Sinodo valdese decise, fin dal 1962, di dialogare con
la chiesa cattolica se questa avesse desiderato dialogare con noi, era ben
consapevole dell'inevitabile asimmetria che Roma porta con sé nel dialogo, a
motivo delle pretese che accampa nei confronti delle altre chiese e del mondo
intero. Finché queste pretese
Il dialogo non è fine
a se stesso e deve portare
1. La prima è che Roma ha paura della
sororità (tra chiese). Teme che lo spirito ecumenico, continuando a soffiare,
finisca per svuotare l'idea stessa del primato. Perciò lo riafferma con forza
ostinata, come sentendolo minacciato. Roma vuole avere il primato, oggi come
ieri. Questo nodo, intimamente legato all'istituzione papale, dovrà essere
sciolto, considerando il fatto che il primato romano, così come continua a
essere proposto e quasi propagandato, non ha futuro ecumenico.
2. Il fatto che Roma non ci consideri «chiesa
sorella» e neppure «chiesa» ci dispiace ovviamente ma non ci
turba. Ci dispiace perché rivela
3. Ma che senso ha - si chiederà
qualcuno, legittimamente - dialogare con Roma? Non è tempo perso? Fatica
sprecata? I due documenti di cui abbiamo parlato non dimostrano forse per
l'ennesima volta che alla fine Roma è sempre uguale a se stessa, con la sua
presunzione e le sue inaccettabili rivendicazioni? Il sottoscritto ritiene che
valga la pena, per due ragioni. La prima è che la maturazione di una coscienza
ecumenica è lentissima in ogni chiesa. Anche noi, alla prova dei fatti, siamo
meno ecumenici di quanto ci illudiamo di essere. Nelle chiese c'è molta
retorica ecumenica ma il vero ecumenismo è merce rara, sia come mentalità, sia
come comportamenti. Si progredisce con grande fatica. Non bisogna quindi
stupirsi dei grandi passi avanti che non si fanno, ma piuttosto stupirsi dei
piccoli passi avanti che si fanno. In tutte le chiese l'ecumenismo è oggi
ancora un fenomeno minoritario. Molti segnali (tra questi la «Nota» e
la «Dichiarazione» di Ralzinger) non sono incoraggianti. Ma
il coraggio dell'ecumenismo non dipende dai «sì» o dai «no»
degli uomini di chiesa, dipende dal «sì» della promessa
P.S.
In un'intervista rilasciata a Silvia Giacomoni (La Repubblica del 9
settembre) il card. Martini afferma che il card. Ratzinger, accostando il
dialogo ecumenico a quello con le altre religioni, usa per entrambi «un tono
un po' forte contro il relativismo, mette i puntini sulle i. Ma il dialogo non
si fa con i puntini...».
Sante parole (queste ultime). Il fatto è però che quelli del card. Ratzinger
non sono «puntini sulle i».
Sono alcuni pilastri dell'ecclesiologia cattolica romana, sui quali lo stesso
Vaticano II ha costruito il suo discorso sulla chiesa.