EVANGELO E OMOSESSUALITÀ

(Maria Bonafede, in Riforma del 16 giugno 2000)


  Forse vale la pena di ritornare sulla vicenda del «Gay Pride», la manifestazione mondiale dell'«orgoglio» omosessuale che si terrà a Roma in luglio, anche perché ci sono state delle reazioni contrastanti anche in campo evangelico.
In particolare, l'Alleanza evangelica italiana (Aei) ha emesso un comunicato in cui prende le distanze dalle posizioni espresso nell'ambito della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e di cui Riforma ha dato conto.
L'Aei «non riesce a vedere proprio nessun orgoglio nella pratica della omosessualità. L'omosessuale praticante è sempre il benvenuto nella comunità evangelica, quando egli si propone di abbandonare quella pratica che la parola di Dio condanna».
Mi sembrano opportune due considerazioni.
La prima riguarda la tutela del diritto di esistere e di esprimersi di una minoranza, qualunque essa sia, in uno stato laico.
Salvemini, cinquant'anni fa ebbe a dire, riferendosi alle manifestazioni spirituali di tipo estatico delle minoranze pentecostali: «Io non tremolo, ma se non difendo il loro diritto di tremolare, dove finisce il mio diritto di non tremolare?».
Il primo problema è quindi quello di ribadire con forza che in uno stato laico la salvaguardia della libertà di ciascuno è salvaguardia della libertà di tutti.
La seconda considerazione riguarda il fatto che il problema è nato perché la manifestazione gay avviene a Roma durante il Giubileo cattolico e perché la Chiesa cattolica si è pesantemente espressa per vietare agli omosessuali di manifestare, interpretando la scelta di Roma nel 2000 come una provocazione.
Questo ci è parso grave anche dal punto di vista della fede cristiana: intanto perché si può dare di questa scelta almeno un'altra interpretazione, e cioè il desiderio di essere accolti nel proprio diritto di esistere in quanto persone omosessuali proprio nella città che molti considerano il simbolo della fede cristiana. Poi perché crediamo che si faccia un uso distorto della fede e della responsabilità che è data ai credenti dal Signore quando, in nome di Cristo e di una presunta fedeltà alla Scrittura, si pongono divieti generalizzati e si stigmatizza la vita degli altri, di chi è diverso dalla maggioranza, come peccaminosa.
Le persone omosessuali, come quelle eterosessuali, possono essere persone degne o indegne, persone che amano, credono, sperano, vivono con dignità la loro esistenza e la loro identità sessuale e con rispetto l'esistenza del loro prossimo; oppure persone che vivono una vita disordinata e nociva nei confronti di se stessi e del prossimo.
Ribadiamo con convinzione che, nella Scrittura, la discriminante è la fede e il vivere la vita con amore e nel servizio del prossimo, non l'identità sessuale. Non si tratta dunque di relativismo teologico, ma del massimo rispetto per l'azione dello Spirito Santo per il quale «chiunque [ma proprio chiunque] invoca il nome del Signore sarà salvato» (Gioele 2, 32; Romani 10,13). Tornare al Signore e cambiare vita significa vivere una vita libera responsabile e santificata, cosa che è possibile sia per le persone etero­sessuali che per quelle omosessuali.
Ma chi usa la Scrittura come il martello del giudice e si permette, in suo nome, di «condannare» la vita di qualcun altro dovrebbe interrogarsi circa la liceità ditale diritto e chiedersi se non stia prendendo il posto di Colui a cui soltanto spetta il giudizio.
Ancora, per fare chiarezza fino in fondo: la parola «orgoglio» non piace a nessuno, neanche a noi, ma è lampante che si tratta di un termine che reagisce a secoli di discriminazioni e sofferenze e, oggi, a chi vorrebbe l'identità omosessuale vissuta ancora nella vergogna e nel nascondimento.
In ultimo, ma non per importanza, emarginare, discriminare, condannare e bollare come peccatori e peccatrici uomini e donne in base alla loro identità sessuale e al fatto che aspirano a vivere la loro vita con pienezza è grave e, a mio avviso contrario al messaggio evangelico e alla verità del cristianesimo perché, appunto, «Dio ha tanto amato il mondo affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna. Infatti Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Giovanni 3, 16-17).