L’aspetto sociologico dei processi per eresia
I processi per eresia e il Calvinismo
La condanna di Michel Servet

ANDRÉ BIÉLER



Gran parte dell’attività giudiziaria dei magistrati ginevrini, e teologica di Calvino, consistette, come è noto, nella lotta contro gli eretici.
Questa lotta presentava certamente, in primo luogo, un carattere religioso. Sia in campo romano sia in campo protestante si era egualmente convinti di due principi che dominano l’intero secolo XVI: c’è una sola verità religiosa per la quale ciascuno è tenuto a battersi, e per il trionfo di tale verità è lecito usare la forza.
Non intendiamo esporre qui dettagliatamente le discussioni teologiche che animarono i numerosi processi ginevrini al tempo di Calvino.
Ci sembra invece impossibile ignorare l’aspetto sociologico di quei processi, aspetto che ha influito forse nel modo più decisivo sulle loro conclusioni. Se infatti la Chiesa dibatteva un problema spirituale, la posta in gioco aveva certamente per lo Stato e per l’opinione pubblica un carattere anzitutto sociale e politico: da entrambe le parti l’eresia era perseguitata come un flagello sociale, come una minaccia di sovversione della società. Se il cristiano vivente nella fede lottava per una questione di fedeltà, il cittadino, l’uomo della strada e, soprattutto, il politico combatte vano per la propria sicurezza. La lotta teologica assumeva cosi, per la coscienza sociale del secolo XVI, vivente in un clima religioso, lo stesso carattere il che il moderno conflitto ideologico riveste per la coscienza politica profana e secolarizzata dell’uomo d’oggi.
Si è già visto la stretta parentela esistente, all’inizio della Riforma, tra i novatori religiosi e i rivoluzionari sociali, tra i conservatori teologici e i reazionari politici.
Vale la pena di ricordare la polemica insorta fra Calvino e Francesco I a proposito degli evangelici, accusati dal re come perturbatori dell’ordine sociale e difesi da Calvino dimostrando che solo colui che si allontana dall’ordine di Dio - il conservatore di allora - è il vero fautore di disordine, l’anarchico che distrugge la società.
Tutti i processi intentati a Ginevra contro gli avversari della teologia riformata hanno questo duplice carattere religioso e sociale. Calvino attacca gli eretici anzitutto perché essi disprezzano la Parola di Dio rivelata nelle sacre Scritture; ma è convinto - e i magistrati con lui, anche i magistrati accanitamente anticalvinisti, come dimostra, fra l’altro, la condanna di Michel Server - che il disprezzo della Parola di Dio è la più profonda radice del disordine politico e sociale. 
« La religione è considerata il fondamento su cui riposa direttamente e necessariamente l’ordine sociale ». E soltanto in considerazione del carattere politico e sociale di questi processi Calvino ottiene, nella sua lotta per la difesa della fede riformata, la solidarietà della magistratura.
Ricordiamo brevemente alcuni fatti.
Nel 1543 - due anni dopo il ritorno di Calvino a Ginevra - scoppia il primo dei grandi conflitti teologici calviniani, quello di Sébastien Castellion. Questo collega del riformatore mette in dubbio l’autorità della Parola di Dio. Ora, per la Riforma nascente, un tale attacco costituisce un pericolo mortale; non si tratta di divergenze fra teologi su questioni secondarie. Nessuna Chiesa può sussistere senza un’autorità spirituale. La Riforma, che ha sostituito quella del papa e dei concili con l’autorità delle Scritture, scompare se quest’ultima è a sua volta abbandonata. E con la Riforma è minacciata la libertà politica della città. La discussione dell’autorità della Parola di Dio è dunque anche un atto di natura politica.
Poiché il Castellion persevera nei suoi attacchi gli viene negato il ministero pastorale; egli si ritira allora a Basilea. 
Calvino, riconoscendo d’altra parte le eminenti qualità dell’uomo, gli rila scia un certificato, firmato di suo pugno, in cui si menzionano i motivi della sua revoca e si dichiara che questa non diminuisce affatto il valore personale dell’uomo. Il Castellion aveva infatti dato prova di grande coraggio in occasione dell’epidemia di peste che aveva funestato la città.
Ricordiamo anche, di sfuggita, i processi contro Pierre Ameaux (1546) e Jéròme Bolsec, ex carmelitano. Entrambi contraddicono l’interpretazione data da Calvino della Sacra Scrittura e sono con dannati perché i loro attacchi minano la sicurezza interna dell’edificio sociale già così minacciato dall’esterno. Il primo, l’8 aprile 1546, è accusato di aver « parlato malignamente contro Dio, il magistrato e il signor Calvino, ministro »; deve compiere il giro della città in camicia e « chiedere perdono a Dio e alla giustizia »; il secondo, colpevole di aver parlato contro la « pura religione evangelica », è esiliato.
Anche il processo contro Troiliet, notaio e monaco, grande amico di Perrin e dei magistrati anticalvinisti, dimostra fino a che punto il governo, ostile al riformatore, consideri la dottrina di Calvino legata all’esistenza dello Stato; dopo lunghe discussioni sulla predestinazione, che Trolliet nega, il governo dichiara che la dottrina contenuta nell’Istituzione cristiana è la « santa dottrina di Dio »
Ma nessun esempio attesta in modo più perentorio che il processo di Michel Servet nel 1553, lo stretto legame istituito dal popolo e dal governo fra la santa dottrina e la conservazione dell’ordine sociale.
Originario di Villanova in Aragona, medico dell’arcivescovo di Vienne nel Delfinato, Servet è anche un appassionato teologo Ha scritto due opere contro il dogma della Trinità e ne compone una terza, la Christianismi Restitutio, in cui sviluppa idee più platoniche che evangeliche. Quest’opera, pubblicata clandestinamente a Vienne, non tarda ad essere segnalata alle autorità ed il suo autore è identificato. Servet viene arrestato e le autorità di Vienne ne istruiscono il processo. Egli riesce però a fuggire e, in mancanza del reo, il suo ritratto e i suoi libri vengono bruciati sulla piazza di Vienne. Passando da Ginevra vi è arrestato il 13 agosto 1553 dietro richiesta di Calvino. Istruito il processo il magistrato, anticalvinista e desideroso di scavalcare l’autorità di Calvino, chiede il parere dei cantoni svizzeri protestanti. Ma ancor prima che questo sia giunto, viene redatto l’atto d’accusa e a redigerlo è un noto avversario di Calvino. Servet querela a sua volta Calvino accusandolo di eresia e pretendendone la condanna: anch’egli vuole la morte dell’eretico. 
Nel frattempo il tribunale ecclesiastico cattolico di Vienne chiede l’estradizione di Servet che la magistratura ginevrina rifiuta volendo far eseguire essa stessa la condanna capitale che per prima ha pronunciato. 
Dopo un lungo processo, e in seguito alle risposte delle Chiese svizzere unanimi nel condannano, Servet deve subire il rogo. Calvino e i pastori intervengono per mitigare la pena, chiedono gli sia riservata una morte meno atroce, ma i magistrati anticalviniani desiderano dimostrare la propria indipendenza e respingono l’intervento di Calvino: Servet è arso vivo il 27 ottobre 1553.
É evidente che, accanto ai motivi teologici, la condanna di Servet ha un carattere politico-sociale estremamente accentuato. Lo prova il fatto che sia stata pronunciata dai più accaniti avversari di Calvino, la situazione del quale non fu mai più critica a Ginevra che nel periodo precedente l’apertura del processo. 
Se non vi fossero stati costretti da motivi di sicurezza e d’ordine, costoro non avrebbero avuto nessun interesse a rafforzare la posizione del loro avversario con la condanna clamorosa d’uno dei suoi pili brillanti oppositori. 
Il carattere politico-sociale della condanna emerge d’altronde chiaramente lungo tutto il processo. 
Il Consiglio, ostile a Calvino, non può tuttavia « trattare con indulgenza un personaggio che attacca una dottrina che esso stesso ha precedentemente dichiarata sacra » scrive lo Choisy, « né liberare un uomo che intende rovesciare le fondamenta stesse della cristianità ». 
Servet deve infatti difendersi dall’accusa di sedizione e su questo punto vertono le accuse delle città elvetiche e di Vienne: egli è un «distruttore di ogni ordine e di ogni religione ». 
Nel corso del processo le questioni teologiche non tardano del resto ad essere abbandonate per « occuparsi esclusivamente delle loro presunte conseguenze sociali e cercar di sapere se il loro carattere anarchico non comporti la condanna alla pena capitale ». 
Servet è condannato perché « tutta la sua influenza, si dice, tende a seminare l’anarchia distruggendo la norma della fede, la norma morale e l’ordine sociale ».


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