IL SACERDOZIO DELLA DONNA
E LE SUE REALI POSSIBILITÀ
Tratto da "Ecclesiogenesi" di Leonardo Boff, teologo brasiliano, ex frate e sacerdote francescano.
Il sacerdozio della donna all'orizzonte della sua liberazione
Gesù: la voce di un uomo in difesa della donna
Nella nostra esposizione cercheremo di sottoporre a un'analisi critica le
argomentazioni classiche citate prima dal card. Flahiff, e infine di porre di nuovo il
problema in una prospettiva più ampia della missione della Chiesa e del significato dei
suoi ministeri. Conviene prima sottolineare l'atteggiamento di Gesù Cristo di fronte alla
donna del suo tempo. Questo ci servirà come motivo costante di critica alla Chiesa e alle
sue istituzioni che purtroppo sono ancora discriminatorie nel confronto della donna solo
per essere donna.
Se per femminista intendiamo tutti coloro che difendono l'uguaglianza fondamentale della
donna con l'uomo, considerandola come persona umana in opposizione alle istituzioni che la
trasformano in semplice oggetto, allora Gesù Cristo fu decisamente un femminista. Infatti
il tessuto di fondo delle sue argomentazioni etiche consisteva nel liberare gli uomini da
una morale legalista e discriminatoria, proponendo un atteggiamento morale di decisione,
di libertà e di fratellanza. Come Dio non discrimina nessuno e ama tutti (Mt
5:45), così l'uomo non deve far distinzione di persone. Amerà tutti
indistintamente e indiscriminatamente, perché tutti sono figli di Dio e perciò fratelli
tra loro. Questa rivoluzione etica creò un nuovo spazio per la liberazione della donna
come persona. Tale dimensione salta subito agli occhi se confrontiamo gli atteggiamenti di
Gesù con la posizione sociale della donna nella società giudaica.
La donna era in tutto inferiore all'uomo. Veniva considerata in stato di inferiorità
anche se era sposata o vedova. Non potendo essere ovviamente circoncisa, non entrava a far
parte dell'Alleanza abramica. Lo stesso decalogo pare sia indirizzato esclusivamente agli
uomini e considera la donna come un oggetto di proprietà dell'uomo (Es
20:8). Nelle sinagoghe le donne occupavano posti speciali dietro grate o sui
matronei. Non potevano leggere, parlare o interpretare la legge. Non potevano intervenire
come testimoni. Non potevano istruire i bambini e nemmeno dire le orazioni a mensa. Non
potevano imparare la legge santa. "Chi insegna la Torà alla figlia è come se le
insegnasse il libertinaggio... é meglio bruciare la Legge Santa piuttosto che consegnarla
a una donna". Secondo la teologia rabbinica il giudeo deve ogni giorno
ringraziare Dio per tre privilegi:
a) perché Dio non l'ha fatto nascere pagano;
b) per non essere nato donna;
c) per non far parte di coloro che ignorano la legge.
Inoltre la donna nel periodo delle mestruazioni diventava impura e impuro tutto ciò che
toccava. Non poteva apparire in pubblico, soprattutto seguire e ascoltare i rabbini
(maestri). Neppure suo marito le rivolgeva la parola in pubblico o davanti agli ospiti di
casa.
Come si comporta Gesù di fronte a questa tradizione contrassegnata dalla repressione e
dalla discriminazione? Con il suo comportamento libera l'uomo dal peso del suo passato.
Indica una via nuova di amore fraterno e di riconciliazione. Permette di essere seguito da
un gruppo di donne della Galilea (Lc 8,1-3 - 23,49 - 24,6-10 - Mt
17,55-56 - Mc 15,40 - Gv 19, 25) delle quali Luca conosce i nomi di alcune come
Maria Maddalena, Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, Susanna e altre (Lc 8,1-3). Anche se gli apostoli si scandalizzano, si intrattiene a
conversare con una nemica, la samaritana, una donna che aveva avuto cinque mariti (Gv 4, 27). Nella grande peccatrice, la Maddalena che con le sue
lacrime e i profumi aveva unto i piedi di Gesù, non vede prima la donna decaduta e la
prostituta, ma una creatura umana che merita accoglienza e perdono, andando così contro
tutto il buon senso farisaico e religioso dei vari "Simone" di ieri e di
oggi (Lc 7,36-50).
Con l'adultera (Gv 7:53-8, 11) avviene un incontro come
scrive S. Agostino (Omelia sul Vangelo di Giovanni: 33,5) tra la
degradazione e la misericordia, in cui vince quest'ultima perché il Signore invece di
considerare la donna come oggetto del sesso, scopre in essa la persona caduta che
dev'essere aiutata e non semplicemente giudicata e poi lapidata. Sono molte le donne che
Cristo aiutò e guarì: ciò mostra la sua superiorità nel rompere con i tabù sociali:
la suocera di Pietro (Mt 8,14-15 - Mc 1,29-3l - Lc 4,38-39);
la madre senza più speranza del giovane di Nain (Lc 7,11-l7);
la figlioletta morta di Giairo (Mt 9,l8-26; Mc 5,21-43; Lc 8,40-56);
la donna da otto anni incurvata (Lc 13,l0-17); la cananea
pagana a cui Gesù risponde pieno di ammirazione: donna, grande è la tua fede; la
donna che da dodici anni soffriva per una perdita di sangue, considerata impura e
socialmente rifiutata (Mt l9,20-22; Mc 5, 25-35; Lc 8,43-48).
A dispetto delle leggi della purificazione e del tabù della donna colpita da questa
malattia, Gesù la guarisce pubblicamente.
In molte parabole di Gesù, la donna entra a far parte come protagonista principale (Mt 25,l-13; Lc 15,8-l0; Lc 21,1-4; Lc 20, 27-40; Mt 22,23-33; Mt l2,4l-42; Lc
ll,31-32; Lc 4,25-27; Mt 24,40-41); mai essa è presentata secondo i cliché
discriminatori dell'epoca.
Sorprendente è poi l'atteggiamento di Gesù con Marta e Maria (Lc 10,
38-42; Gv 11,1-12). Ciò che un rabbino ortodosso mai farebbe, Gesù se lo
permette con la massima semplicità: cioè discutere di questioni teologiche con una donna
che come qualsiasi altro discepolo si siede ai piedi del maestro(Lc
10,39).
In tutti questi brani la donna appare come persona, come figlia di Dio e perciò degna di
identico rispetto e amore come gli uomini. Ciò è messo in luce quando qualcuno, pieno di
entusiasmo, esclama: "Felice il seno che ti ha generato e il petto che ti ha
nutrito". Tale frase viene pronunciata in una prospettiva che afferma la donna
nelle sue proprietà sessuali e in quanto madre. Nella risposta appare il clima in cui
Gesù si muove: l'affermazione della donna prima di tutto in quanto persona. "Felici
piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica". L'uomo
è persona in quanto ascolta la parola che viene detta dall'altro e dal Grande Altro nella
dimensione di dialogo esistenziale.
Dagli atteggiamenti di Gesù non si deduce per nulla una discriminazione nei confronti
della donna, ma l'affermazione della sua uguaglianza e dignità.
Non potrà forse la Chiesa mettersi a confronto col suo divino fondatore e prendere
proprio da lui la misura critica per farsi una giusta idea della donna?
In una società in cui la donna sta riscoprendo la sua identità, non potrà forse la
Chiesa essere un fattore di liberazione o vorrà ancora una volta essere strumento
ideologico per legittimare situazioni che portano alla spersonalizzazione della donna?
Alla luce di queste domande, torneremo ad analizzare gli argomenti tradizionali addotti
contro l'accesso della donna agli ordini sacri.
Non ci sono argomenti teologici determinanti contro l'ordinazione della
donna, ma solo disciplinari
Nella presentazione degli argomenti e dei testi della Scrittura, la teologia fu in
genere poco critica.
Si fondava sul fatto che c'erano solo uomini come sacerdoti con funzione ministeriale.
E questo fatto era ritenuto indiscutibile. Di conseguenza si verificò una interpretazione
ideologica della tradizione e una lettura tendenziosa dei testi della Scrittura. Tale
prassi è sostenuta ancor oggi, anche da teologi di un certo nome. Non è sufficiente
ricorrere semplicemente a ciò che affermano le Scritture e la Tradizione. Esiste a questo
riguardo una questione ermeneutica. Come dobbiamo leggere la Scrittura e la Tradizione?
Esse consentono ai stabilire un fatto dogmatico e di diritto divino oppure dipendono anche
da un contesto culturale e teologico? Esprimono in modo adeguato il contenuto del
messaggio cristiano per ogni sviluppo della storia oppure sono un'incarnazione temporanea
e circostanziale del grande avvenimento del messaggio cristiano di uguaglianza, di
fraternità e di superamento di tutte le barriere spersonalizzanti tra gli uomini,
affermate in nome di Dio?
Il messaggio cristiano non si esaurisce in un semplice decorrere della storia. Esso avrà
sempre i suoi limiti e perciò sarà sempre suscettibile di superamento, di miglioramento
e di correzione. La Chiesa stessa riconobbe come uno dei segni dei tempi moderni la
rivendicazione da parte delle donne di uguaglianza di diritto e di fatto con gli uomini (GS 9,227).
Ciò non potrà o anche dovrà essere un luogo ermeneutico che ci permetterà di esprimere
un giudizio critico sul passato ammettendo i suoi limiti? Con questo criterio ermeneutico
analizzeremo gli argomenti classici ancor oggi sostenuti in certi ambienti teologici.
a) Prima obiezione: la fedeltà storica: Gesù era uomo e non donna.
Conferendo il sacerdozio soltanto agli uomini, si dice, la Chiesa perpetua il ricordo che
il sacerdozio deriva da Cristo che fu storicamente un uomo concreto e sessuato. Il
sacerdote maschio agisce "in persona Christi", rappresenta nell'aspetto
visibile e sacramentale della Chiesa, Cristo-Capo, cioè la persona concreta di Gesù
Cristo, origine della nostra salvezza.
A queste affermazioni obiettiamo con le seguenti riflessioni:
è un fatto contingente che il Salvatore sia stato un uomo. Gesù stesso non avanzò
nessun principio teologico da questo fatto. E mai sottolineò questa differenza. Anzi,
contrariamente a ciò, quando si rivolgeva al pubblico, insisteva perché fossero superate
le divisioni tra gli uomini. Escludeva proprio il fattore biologico e sessuale
nell'annunciare l'uomo nuovo. "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?
Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella
e madre"(Mt 12,48-50).
San Giovanni ha intuito la novità del messaggio cristiano che fa gli uomini essere figli
di Dio: "A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio,
a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da
volere di uomo, ma da Dio sono stati generati" (Gv 1,12-13).
Con questa frase Gesù supera i limiti del giudaismo come religione fondata su fattori
razziali. Il cristianesimo certamente non potrà tollerare, come principio dogmatico, che
in esso si affermi, per quanto riguarda i ministeri, un fattore di ordine sessuale.
Con Gesù Cristo si inaugurò una nuova solidarietà tra gli uomini, per cui "non
c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né
donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28).
Fare appello alla mascolinità di Cristo per giustificare il privilegio del sacerdozio
ministeriale maschile non è altro che portare in campo una semplice dimensione fisica che
non ha nulla a vedere con la fedeltà storica verso Gesù. Non è a questo livello che
tale fedeltà deve essere collocata.
Se questa motivazione dovesse avere valore, allora non comprenderemmo perché i sacerdoti
non dovrebbero essere non soltanto maschi come Gesù, ma anche giudei come Gesù o meglio
galilei come Gesù. Perché il Nuovo Testamento che fu scritto nella 1ingua greca, perché
la Chiesa che parlava ufficialmente il greco e in seguito il latino e oggi le lingue
parlate di tutto il mondo non osservarono la fedeltà storica nel Gesù storico, ma
abbandonarono la lingua parlata da Gesù, l'aramaico, e si liberarono dai costumi, dalla
religione e dalla cultura del giudaismo? L'argomento della fedeltà storica complica la
questione più che chiarirla.
Ciò che fa sì che qualcuno rappresenti Cristo non sono fattori di carne e di sangue, ma
la dimensione della fede e l'adesione a Cristo e alla sua Chiesa. Che fino a oggi nella
Chiesa abbiano avuto accesso al sacerdozio ministeriale soltanto uomini è dovuto non al
fatto che Cristo era uomo, ma ad altri fattori di ordine storico e sociologico.
b) Seconda obiezione : Gesù Cristo scelse solo uomini come apostoli e non donne.
Può significare questo fatto che era volontà esplicita di Gesù Cristo - e perciò di
diritto divino - che nessuna donna potesse avere autorità apostolica e che pertanto fosse
un soggetto inabile per il ministero sacerdotale? Di tale supposizione non vi è nessun
indizio nel messaggio di Gesù e nella Chiesa primitiva. Il sacerdozio e l'apostolato di
ufficio nella Chiesa costituiscono (semplicemente) una funzione sociale.
L'attuazione di questa funzione varia secondo la società e l'ambiente culturale. Come
abbiamo prima considerato, al tempo di Gesù, nonostante tutte le libertà affermate come
principio a favore della donna, era semplicemente impossibile che una donna svolgesse una
funzione religioso-sacerdotale. Lo affermava anche l'Ambrosiaster (autore ignoto di un
commento alle tredici lettere di San Paolo nel secolo IV): "al tempo di Gesù non
vi era nessuna donna preparata a questo compito". Se non le era concesso di
conoscere la legge, come poteva spiegarla? Se nemmeno poteva apparire in pubblico ed
entrare con pieno diritto nella sinagoga, come poteva esercitare una funzione sociale e
religiosa?
In queste condizioni, ben comprendiamo come Gesù e gli apostoli non abbiano ammesso le
donne come testimoni del Risorto e di conseguenza non siano state incorporate nel collegio
apostolico. Certamente si deve a questo fatto che la prima testimonianza scritta sulla
risurrezione (1Cor 15,3) non nomini le donne come testimoni
delle apparizioni del Signore risorto come fanno posteriormente i Vangeli. Le loro prove,
per quell'epoca, non sarebbero state accettate perché non avevano valore giuridico.
Non vogliamo discutere qui della posizione sociale e religiosa della donna, ma, date le
condizioni ambientali, ci domandiamo: chi poteva rappresentare ufficialmente, in quella
situazione culturale, Gesù Cristo e la sua causa?
Soltanto gli uomini. Però questo non significa che Gesù e la Chiesa primitiva fin da
principio e per sempre così avessero stabilito in modo definitivo. Tirare tali
conclusioni con simili ragionamenti urterebbe contro la più elementare ermeneutica e si
metterebbero in rilievo, dando loro un valore assoluto, frasi o situazioni separate dal
loro contesto vitale che è dato dalla cultura socio-religiosa dell'epoca.
Se qualcuno volesse insistere affermando che Gesù disse soltanto agli apostoli
nell'ultima cena "Fate questo in memoria di me" e che con tale
affermazione non includeva le donne, allora dovremmo domandarci: Cristo intendeva soltanto
consacrare il pane e il vino oppure in senso più ampio, chiedeva di celebrare il
memoriale della sua morte come sacrificio comprendendo anche l'atto di mangiare e bere, la
preghiera comunitaria e la celebrazione della Cena dell'unità dei fratelli? Se la seconda
alternativa è quella vera, ciò vorrà dire che soltanto gli uomini possono celebrare la
Cena e che le donne quindi ne resterebbero escluse?
c) Terza obiezione. San Paolo affermò che le donne non possono parlare nella Chiesa.
Come potranno perciò presiedere alla parola e all'eucaristia?
Ci sono tre testi di San Paolo che entrano in questione: 1Cor 11,5: "Ogni donna
che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo (marito)".
1Cor 14,34-35. "Come in tutte le comunità dei fedeli le donne nelle assemblee
tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche
la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è
sconveniente per una donna parlare in assemblea".
1Tm 2,11-12: "La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a
nessuna donna di insegnare, ne di dettare legge all'uomo; piuttosto se ne stia in
atteggiamento tranquillo".
I testi citati sembrano talmente chiari da esimerci dal discutere sul problema
dell'accesso della donna al sacerdozio. La questione sarebbe risolta da San Paolo: se essa
non può insegnare, tantomeno consacrare.
Isolati dal loro contesto, i testi potrebbero arrivare a queste conclusioni, essi però
devono essere interpretati secondo i criteri di quella società in cui la donna non godeva
nessun diritto pubblico.
San Paolo viveva in tale cultura; egli rispecchia la situazione del suo tempo, e non
poteva essere diversamente. Derivare da tale cultura una norma valida per ogni tempo,
sarebbe bloccare la storia, il che significa distruggerla o negarla.
La fede cristiana trascende il tempo. Essa però è sempre inserita nelle particolarità
di un'epoca, con le sue coordinate di significato storico, con i suoi costumi, con le sue
leggi e i ruoli dei vari gruppi umani. La fede non interviene a sacralizzare tali
espressioni, essa si inserisce in esse, senza però confondersi con esse. Per questo
bisognerà sempre fare distinzione fra fede e teologia, tra messaggio cristiano e la sua
espressione sociale, tra cristianesimo e la sua incarnazione dentro un determinato e
limitato universo linguistico e culturale. Queste distinzioni, nel caso della posizione
della donna nella Chiesa, hanno un loro peso e carattere indispensabile di necessità, se
vogliamo capire le finalità fondamentali del cristianesimo che non sono affatto quelle di
sacralizzare determinate espressioni culturali.
Passiamo ora all'analisi dei passi citati:
Il primo testo di 1Cor 11,5 non comporta difficoltà. In esso Paolo concede alla donna
contrariamente alla tradizione giudaica, il diritto di profetizzare nella comunità. Però
dovrà farlo secondo le norme che allora dovevano essere dettate dal decoro e dal buon
senso. Oggi esse non avrebbero alcun significato perché nessuna donna usa più il velo
per il culto.
E ancora. Paolo svolge il suo discorso in maniera che per noi oggi non ha nessun carattere
costringente: "Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per
l'uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli
crescere?" (1Cor 11,14). Tale asserzione, come pure altre
che si riferiscono alla donna, dipende da un modo di pensare che non deve e non può
essere più valido per noi, soprattutto in un mondo, come l'attuale, in cui gli uomini
portano con vanto i capelli lunghi. E ciò non è proprio un'offesa alla natura umana.
Il secondo testo di 1Cor 14,34-35 presenta due possibilità di interpretazione esegetica.
La prima, che oggi pare abbia più peso, afferma che i versetti che si riferiscono alla
donna sono un'interpolazione di un giudeo-cristiano. Gli argomenti sono tenuti in molta
considerazione. L'avvertimento interrompe il discorso di Paolo che sta trattando
dell'ordine nella comunità, cioè quando si deve parlare e quando si deve tacere nella
comunità. Avverte particolarmente i profeti. Lasciando da parte il testo riferito alle
donne, giacché la sua posizione fu risolta nel capitolo 11, troviamo una sequenza logica
e normale con il testo successivo: (v. 31) Tutti infatti potete profetare, uno alla
volta, perché tutti possono imparare ed essere esortati. (v. 32) Ma le ispirazioni dei
profeti devono essere sottomesse ai profeti. (v. 33) Perché Dio non è un Dio di
disordine ma di pace. ( Si omette il testo riferentesi alle donne:
versi 34-35). Forse la Parola di Dio è partita da voi? O è giunta soltanto al
voi? Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito deve riconoscere che
quanto scrivo è comando del Signore.
Come si può notare, l'ordine logico è rigorosamente osservato, se ammettiamo
l'interpolazione.
Essa pare plausibile per un ordine testuale. L'espressione "Chiesa dei Santi
" è un'espressione tecnica delle comunità giudeo-cristiane, in cui la donna secondo
la legge mosaica, doveva rimanere in silenzio durante le riunioni cultuali.
Di fronte a ciò, non si può attribuire a Paolo questo avvertimento proibitivo, perché
non dobbiamo supporre che l'apostolo nella stessa lettera si contraddica con se stesso:
prima dà ordine di parlare (1Cor 11,5) e poi di tacere (1Cor 14,34).
Il secondo tipo di esegesi non si presta per una discussione sull'autenticità paolina del
testo del cap.14, che porta il titolo: Norme pratiche: che tutto si faccia per edificare (v.26. cfr. v. 3.4.5.12.17). In questo contesto non si afferma soltanto che
le donne devono tacere in chiesa (1Cor 14,34: taceant in Ecclesia),
ma pure che colui che ha il dono delle lingue ugualmente se ne deve stare in silenzio (taceat
in Ecclesia) a meno che non sia presente un interprete (v. 28). Quando qualcuno in una
comunità riceve una rivelazione, parli pure, ma il profeta taccia (v.30: taceat).
Ora in questo contesto di ordine e disciplina anche la donna deve restare in silenzio, a
meno che il suo intervento non serva per l'edificazione di tutti. Senza dubbio non
dobbiamo ammettere che Paolo voleva che sempre le donne tacessero nelle comunità, perché
non possiamo onestamente supporre che un discorso delle donne in una comunità sia sempre
negativo per l'edificazione.
In questo senso non risulta sia intenzione di Paolo determinare una proibizione come
principio.
Rimane il terzo testo di 1Tm 2,11-12: ...La donna deve restare in silenzio ...Non
concedo a nessuna donna di insegnare. Le parole sono di per sé molto chiare.
Ma proprio per questo motivo tali parole possono ricevere un'interpretazione ideologica
per giustificare una situazione protrattasi fino ai giorni nostri. Se oggi le donne
potessero parlare come loro spetterebbe (già lo possono fare, e ancor più di quanto lo
fanno), questo testo non sarebbe visto come impedimento e disobbedienza all'avvertimento
di Paolo.
Aggiungiamo semplicemente: dobbiamo cercare di capire Paolo, o uno dei suoi discepoli,
autore della lettera, nel contesto di discriminazione generalizzata nei confronti della
donna. Infatti è proprio questo che si verifica nel testo successivo a quello che ordina
il silenzio delle donne. In esso si dice tassativamente: Alla stessa maniera voglio che
facciano le donne, con abiti decenti, adornandosi di pudore e riservatezza, non di trecce
e ornamenti d'oro, di perle o di vesti sontuose, ma di opere buone, come conviene a donne
che fanno professione di pietà. (1Tm 2,9-10) Oggi lasciamo
perdere questo "voglio" tassativo di Paolo perché comprendiamo che le
sue parole non possono essere usate per finalità di convenienze cosmetiche inventate
dalla rivelazione e dall'ispirazione.
Perché la teologia insiste tanto sul silenzio delle donne e non si preoccupa del loro
decoro esterno?
Non è perché il passo di 1 Tm 2, 11-12 si presta a giustificare ideologicamente uno
status religioso a cui solo uomini possono avere accesso? E ancora più. Questa stessa
lettera ordina che per la consacrazione di un vescovo deve essere scelto un uomo che abbia
una sola donna (1Tm 3,2) ... e che mantenga i suoi figli
sottomessi e in grande onestà (3,4).
Dove esiste ciò nella Chiesa? Se oggi un uomo sposato, come avviene nella Chiesa
Brasiliana, per ipotesi fosse consacrato vescovo secondo i riti e le intenzioni canoniche,
la Chiesa considererebbe valida questa consacrazione. Se fosse una donna la riterrebbe
invalida forse proprio in riferimento al testo di 1Tm 2,11-12.
Per quale ragione la Chiesa non segue anche oggi le prescrizioni molto chiare a riguardo
delle vedove contenute in 1Tm 5,3-16?
La risposta è semplice e universalmente accettata: perché nella nostra società le
vedove occupano una funzione religiosa e sociale diversa da quella del tempo degli
apostoli. Quali vescovi oggi potrebbero ripetere ciò che si afferma in 1Tm 6,1: "Quelli
che si trovano sotto il giogo della schiavitù, trattino con ogni rispetto i loro padroni,
perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina". Agli oppressori
moderni la Chiesa non ripeterà questo testo, perché essa sa che il messaggio in esso
contenuto è condizionato dall'ambiente dell'epoca in cui la schiavitù costituiva un dato
di fatto intoccabile. Come cerchiamo di interpretare questi brani nel significato
ermeneutico di allora, nello stesso modo dobbiamo interpretare il testo che si riferisce
alla posizione della donna, a meno di voler alimentare l'ideologia dello status
ecclesiale. Si tratta quindi non di un jus divinum, ma semplicemente di un jus
ecclesiasticum suscettibile di riforme.
Quarta obiezione: nella tradizione della Chiesa mai esistettero sacerdotesse e neppure
la madre di Cristo lo fu.
È un dato concreto che la tradizione non parla mai di sacerdotesse. Ci sono accenni a
diaconesse che ricevevano il ministero, soprattutto a partire dal secolo IV, per mezzo di
un'ordinazione fatta con l'imposizione delle mani e che appartenevano alla gerarchia
ecclesiastica. Non soltanto si occupavano della pastorale del battesimo delle donne, ma
era loro concesso anche di leggere l'Epistola e il Vangelo, portare la stola, distribuire
la comunione. Il rito dell'ordinazione corrispondeva, nel secolo XI, esattamente
all'ordinazione dei diaconi 23. Ci sono accenni a sacerdotesse cristiane tra i
Priscilliani, però questo è espressamente contestato dal Sinodo di Nimes (394). Il papa
Gelasio in una lettera ai vescovi dell'Italia Meridionale nell'anno 494 condanna gli abusi
da parte di certe donne "che prestano servizio all'altare e che compiono tutto
ciò che è strettamente riservato agli uomini".
Qui non si tratta di diaconesse, bensì di veri ordini maggiori. Tuttavia questa prassi
non fu mai accettata. La tradizione della Chiesa riservò alla donna tale trattamento che
risale fin dalle origini. Non si facevano altre discussioni al riguardo, ne da parte delle
donne era portato avanti nessun tipo di rivendicazione.
Haye van der Meer che studiò dettagliatamente la dottrina della tradizione su questo tema
concludeva: "In nessun luogo in tutta la letteratura della patristica a riguardo
del sacerdozio della donna troviamo riflessioni che per motivi essenziali negano il
sacerdozio alle donne. Troviamo espressioni del genere: gli apostoli non inviarono in
missione nessuna donna. Maria non battezzò Gesù; la donna fu sedotta; la donna istruì
una sola volta l'uomo (nel Paradiso) e ciò fu causa di perdizione; Paolo lo vietava...".
Neppure Maria era sacerdote ...; non ricevette il sacramento dell'Ordine né esso avrebbe
senso per lei perché possiede un sacerdozio superiore a quello dei sacerdoti ordinati.
Come corredentrice e mediatrice essa fu sempre considerata e venerata come sacerdote
" eminentiori modo". Poiché Maria era portatrice di un sacerdozio ben
superiore a quello dei ministri della Chiesa, non può essere addotto tale fatto come
argomento per escludere le donne dal sacramento dell'ordine. Per Maria non è una
diminuzione il fatto di non aver celebrato l'eucaristia. Essa fece molto di più di
questo: era la Madre di Dio; educò e offrì il suo Figlio e insieme a lui divenne causa
della nostra salvezza.
Conclusioni: ciò che rimane è un costume e non una tradizione dottrinale.
Dalle riflessioni fatte fin qui possiamo dedurre le seguenti affermazioni:
a) Dal punto di vista dell'ermeneutica e dell'esegesi non ci sono argomenti scritturistici
determinanti che escludano la donna dall'ordine sacerdotale.
b) La tradizione non porta nessun principio teologico fondamentale che giustifichi la
prassi attuale di conferire il sacerdozio solo agli uomini. Si può affermare con
sufficiente chiarezza che tale prassi è dovuta a uno sviluppo storico sociologico. La
donna però un po' alla volta prese coscienza della sua parità di diritti con l'uomo,
distruggendo le barriere discriminatorie che furono erette anche nel cristianesimo.
L'esclusione della donna dal sacerdozio rifletteva la sua condizione di inferiorità nella
società stessa.
c) Si tratta quindi non di una tradizione dottrinale, ma del sopravvivere di un costume
millenario, costume che può essere suscettibile di trasformazioni in seguito alla nuova
coscienza della dignità della donna e della collaborazione che essa può dare nella
Chiesa.
Così concludeva il card. Daniélou: "Nulla di decisivo fu contrapposto a
un'eventuale ordinazione delle donne; lo studio della questione può quindi proseguire...".
d) In base a questa nuova riflessione sulla condizione della donna, la Chiesa luterana
ormai da più di quindici anni conferisce l'ordine ministeriale alle donne.
Nello stesso modo anche la Chiesa anglicana, anche se con maggiori riserve. Nel 1971 Sally
Jane Priesand, superando una tradizione millenaria, fu consacrata rabbino a Cincinnati.
Nella Chiesa cattolica vi sono religiose che assunsero in alcune regioni tutte le funzioni
sacerdotali tranne quella di consacrare e confessare. È già un grande passo in avanti.
Fin dove potremo arrivare?
Il sacerdozio della donna non può essere il sacerdozio attuale degli uomini
Non è sufficiente pronunciarsi a favore della possibilità dell'ordinazione della donna
al sacerdozio.
A quale tipo di sacerdozio potrà dunque essere ordinata?
Il sacerdozio attuale che esiste nella Chiesa è segnato profondamente dall'immagine
dell'uomo maschio e celibe. La Chiesa nel suo significato gerarchico è molte volte
chiamata col nome di madre premurosa; tale immagine però sembra assai strana quando si
nota che questa sollecitudine materna è esclusivamente affidata agli uomini, i quali
segnano con caratteri maschili tutte le istituzioni ufficiali della fede. Sarebbe
un'aberrazione se la donna-sacerdote volesse imitare il modello concreto di sacerdozio
vissuto storicamente dagli uomini. A questo punto si devono sottolineare tutte le
differenziazioni che decorrono dalla diversità specifica della donna con tutto il valore
che la femminilità porta con se a livello ontologico, psicologico, sociologico, biologico
ecc. e che deve segnare la realizzazione storica di un possibile sacerdozio della donna.
Essa non dovrà essere semplicemente colei che sostituisce il sacerdote, ma dovrà avere
una espressione specifica del proprio sacerdozio.
L'esperienza portata avanti in Brasile da religiose che sono a capo di parrocchie può
essere doppiamente significativa. Prima di tutto come testimonianza di una Chiesa che
aprì la via a un processo di liberazione ecclesiale per la donna e comprese la sua
maturità cristiana nell'affidarle la direzione di molte chiese locali. In secondo luogo
tale esperienza sta a indicare uno strumento di criticità per le attuali istituzioni
sacerdotali. Si adegueranno alla specificità della donna? Permetteranno che la religiosa
esprima tutta la ricchezza della sua femminilità, valore imprescindibile anche per la
stessa Chiesa? Oppure non si correrà il rischio di un'operazione di innesto non ben
riuscita, con pregiudizio di tutte le parti, dell'uomo, della donna e della Chiesa?
L'esperienza brasiliana indica qualche reale progresso.
È significativa infatti l'opinione di una teologa specializzata su questo tema: "Bisogna
riconoscere che la donna non si adatta ai ruoli ecclesiali derivatici da un lungo processo
storico e che ancor oggi sussistono. Solo quando queste funzioni saranno riformulate a
partire dalla comunità e in relazione a essa, avrà senso conferirle alle donne. Con ciò
risulta chiara la conclusione che il sacerdozio particolare della donna non è ancora
adeguato alla fase dello sviluppo attuale (storico-salvifico) della Chiesa".
Prospettive teologiche per un sacerdozio della donna
Le riflessioni fin qui sviluppate fanno capire che parlare del sacerdozio della donna
non significa semplicemente rivendicarle un posto che per secoli le fu negato. Si tratta
invece di analizzare se, nella fase di sviluppo della nostra società in cui la donna
assume una parità con l'uomo, le spetta pure un ruolo sacerdotale.
Tra i molti compiti che la donna sta svolgendo nella società e nella Chiesa le spetta
pure il sacerdozio? Oppure questo è un limite invalicabile? Abbiamo notato che dal punto
di vista dogmatico non ci sono barriere dottrinali. Le discriminazioni contro la donna
nella società civile stanno a poco a poco ma naturalmente scomparendo. La Chiesa
cattolica, come corpo sociale, nell'organizzazione del suo potere e nell'esercizio delle
sue responsabilità pastorali, cambierà oppure resterà una trincea di conservatorismo e
un ristretto ambiente poggiato su strutture di un mondo definitivamente passato?
Gli uomini di oggi comprendono molto bene, e non senza il contributo degli ideali
cristiani, che il bene dell'uomo e della donna sono interdipendenti, che ambedue
resteranno pregiudicati se, in una qualsiasi comunità, uno di essi non potrà portare il
contributo di tutta la ricchezza delle sue potenzialità.
La chiesa stessa resterebbe sminuita nel suo corpo organico se nelle sue istituzioni non
concedesse spazio alla ricchezza della donna con la sua maturazione nella fede. Anche se
vi fosse un numero sufficiente di sacerdoti e se nella chiesa rifiorisse un laicato
adulto, il quale in ragione della propria fede non per della gerarchia portasse avanti la
causa di Cristo nel mondo, avrebbe senso porre la domanda per uno status della
donna di fronte al sacerdozio. Senza la donna ci sarebbe un vuoto nella chiesa, ossia la
mancanza di una ricchezza che solo lei può offrire e nessun altro.
Non si tratta evidentemente di descrivere la funzione della donna nella Chiesa. Sarebbe un
fatto esterno e perciò oppressivo perché verrebbe stabilito un ruolo predeterminato in
cui si vorrebbe trovasse posto la donna. La strada da percorrere deve essere esattamente
l'inverso, perché tutti rifiutano con giusta ragione, una funzione prestabilita. Bisogna
aprire gli occhi sulla nuova autocoscienza che le donne si conquistano e sul processo
sociale esteso a tutti i settori che tende a non privilegiare più uno dei due sessi.
Perciò bisogna far attenzione alla nuova funzione dei sessi e non alla funzione dell'uomo
e della donna. Il compito è quello di creare una società diversa. Se non sarà
modificata la funzione dell'uomo non sarà modificata neppure quella della donna e
viceversa. Si dovrà inoltre far prendere coscienza della funzione propria e specifica dei
sessi nella loro particolarità, e da questo potranno essere desunte le nuove funzioni
anche nella Chiesa.
Questo compito è affidato alle donne stesse. Non riceveranno più come imposto quello che
loro stesse devono compiere.
Oggi tutti noi, uomini e donne, stiamo cercando la nostra identità in un processo sociale
che risulta sempre più accelerato.
Bisogna essere pazienti per non dare risposte affrettate e inadeguate.
Compito della teologia non è quello anzitutto di stabilire il cammino da percorrere, ma
di permettere che le nuove esperienze, condotte avanti nell'amore silenzioso di Dio, si
sviluppino da se stesse, facendo capire il senso di direzione intrapreso. La teologia
accetterà il mutamento della coscienza umana come una sfida e come una possibilità di
nuove incarnazioni del messaggio cristiano. Il cristianesimo non si sceglie un mondo per
sé, è invece il mondo intero che diviene possibilità concreta di realizzazione storica.
La trasformazione avviene non solo all'interno della cultura, per la donna, ma anche
nell'ambito della chiesa di fronte ai suoi ministeri. Senza dubbio un ripensamento su i
servizi e le diaconie nella chiesa potrà allargare l'orizzonte in modo poter comprendere
anche il valore di partecipazione della donna per il bene di tutta la comunità
ecclesiale.
Il sacerdozio universale delle donne
C'è una certa teologia sul sacerdozio che prende i caratteri dell'ideologia: è una
riflessione che si basa su un tipo unico di sacerdozio, come attualmente esiste nella
Chiesa, considerandolo come l'unico possibile. Tale teologia non si domanda se alla luce
della ipsissima intentio Jesu e sul valore positivo della fede cristiana, la
Chiesa, di fronte a nuovi condizionamenti culturali, non possa permettere altri modelli e
anche altri significati della missione sacerdotale. Il Concilio Vaticano II gettò una
base ben sicura, carica di conseguenze strutturali, nel momento in cui suggeriva l'idea
della Chiesa popolo di Dio e l'affermazione del sacerdozio universale dei fedeli.
Anteponendo il capitolo della Chiesa popolo di Dio a quello della Chiesa gerarchica, esso
ci insegna che ogni potere nella Chiesa deve essere espresso all'interno e a servizio del
popolo di Dio.
Riproponendo il tema del sacerdozio universale dei fedeli, sollevò una questione
teologica oggi non ancora sufficientemente interpretata: quale relazione esiste tra il
sacerdozio universale e il sacerdozio ministeriale?
Se vogliamo dare un senso più giusto e adeguato al sacerdozio, dobbiamo avvicinarci con
criteri più aperti di quanto comunemente si faccia. Solo allora apparirà possibile anche
per la donna.
Sacerdote è quella persona che si propone di essere strumento di mediazione e di
riconciliazione tra realtà diverse. Percepiamo che l'esistenza è vissuta come un
mistero: di fronte a Dio, agli altri, alla realtà che ci circonda e di fronte a se
stessi. Vi sono divisioni e menzogne che rendono drammatica la vita umana. Questa aspira
all'unità, alla pace e alla riconciliazione di tutte le cose nel significato più
profondo.
Il sacerdote cerca di proporre un'esperienza comune a tutti gli uomini e di vivere in
funzione di essa. Per questo egli si separa dal mondo, non perché lo disprezzi, ma per
compiere, a beneficio del mondo, una missione di unità e di mediazione.
Gesù Cristo che era un laico (cfr.Eb 7:13-14) assunse questo
compito di riconciliazione. Visse la sua esistenza in modo così profondo che riconciliò
gli uomini con Dio. Le sue parole erano parole di amore, di rinuncia allo spirito di
vendetta e di odio, e li riconciliazione universale perfino con i nemici (Mt
5,45). Egli era un essere-per-gli-altri fino alla fine (Gv
13,1). La novità del suo servizio di riconciliazione sta nel fatto di non aver
agito unicamente nell'ambito del culto, ma in tutta la vita: nello stare con le masse,
nella predicazione, nell'incontro con le persone, nella preghiera, nella vita e nella
morte.
La sua morte sulla croce come conclusione della sua fedeltà alla causa di Dio ispirata
dall'amore e dal perdono, è il più bell'esempio di donazione e di sacrificio per gli
altri, compresi i nemici. Risorgendo si fa presente nel tempo per sempre con la sua azione
riconciliatrice tra gli uomini.
La comunità primitiva ha capito subito. In lui Dio ha riconciliato tutte le cose (Col 1,20), unificò il mondo distruggendo tutte le barriere che erano
state elevate (Ef 2,14). Egli realizzò la speranza contenuta in
ogni atto sacerdotale: riconciliare l'uomo con Dio e con gli altri uomini.
Vi riuscì in modo totale e perfetto (Eb 9,26 s; 1Pt 3, 18).
Per questa sua azione Lo chiamarono, lui che era nella società un laico, sommo
Sacerdote (Eb 10,21) e Unico Mediatore (1Tm 2,5).
Il sacerdozio inoltre non è uno stato, ma un modo di esistere che propone la
riconciliazione. Poiché Gesù visse nella sua vita, morte e risurrezione in modo
esaustivo e in senso escatologico il tema della riconciliazione, dell'unità e dell'amore,
può essere chiamato sommo ed eterno sacerdote (Eb 6,20).
Cristiano è colui che cerca di orientare la sua vita sulle tracce e secondo lo spirito
che in Gesù Cristo si manifestava.
In questo senso tutta la vita cristiana è vita sacerdotale.
Nella fede e nei sacramenti siamo fatti partecipi del sacerdozio di Cristo (Lumen
Gentium 10,28). Non soltanto, ma anche partecipi di tutta la sua ricchezza di
servizio, di annuncio e di santificazione (LG 10,12; AA 3/l335).
In altre parole il cristiano è responsabile della missione di tutta la Chiesa di portare
l'annuncio di salvezza con la parola e l'esempio, ai santificare il mondo, di servire ed
essere responsabile dell'ordine e della concordia nella comunità.
Nella Chiesa inoltre riscontriamo, in un primo momento, un'uguaglianza fondamentale: tutti
sono in Cristo e formano il suo popolo santo, tutti partecipano del suo sacerdozio di
riconciliazione. Se col termine laico intendiamo, secondo la parola greca, colui che fa
parte del popolo (laos) allora tutti sono nella Chiesa necessariamente laici: papi,
vescovi, sacerdoti e semplici fedeli perché tutti sono membra del popolo di Dio.
Da ciò possiamo dedurre che la differenza tra gerarchia e laicato non è primaria, ma
secondaria.
Essa solo può esistere sul piano dell'uguaglianza radicale degli uomini a servizio e in
funzione di questa e non sopra e indipendentemente da essa.
Il sacerdozio universale dei fedeli non si articola soltanto a livello culturale. Esso
trova precisamente nel culto la sua più alta espressione. Però deve essere vissuto nel
vasto orizzonte della vita, come lo visse Gesù Cristo. Non soltanto la sua morte sulla
croce fu causa di redenzione: tutta la sua esistenza, nei momenti di culto e nella "profanità"
della vita, quando parlava al popolo e nella realtà di ogni giorno fu strumento di
riconciliazione e perciò sacerdotale. Ecco perché Paolo avvertiva i romani a "offrire
la loro vita come olocausto vivo, santo e gradito a Dio" (Rm 12,1).
Nel caso specifico delle donne che hanno fede in Cristo ogni momento della vita può avere
una funzione sacerdotale e riconciliatrice: la loro attenzione ai figli, il loro servizio
nell'edificare in buona armonia la famiglia, la loro professione che le pone a contatto
con altre persone sia come insegnanti, infermiere, dottoresse, segretarie, commesse ecc.
Per la donna cristiana la professione non ha soltanto il fine di guadagnare il pane; può
diventare il mezzo attraverso il quale essa rende effettivo il servizio agli altri, la
concordia, la riconciliazione tra gli uomini e diventare lo strumento col quale avvicinare
gli uomini, superando divisioni e accettando con dignità e silenzio situazioni alle volte
penose e apparentemente insuperabili.
Il servizio che si esprime nella riconciliazione deve essere compiuto da tutti i
cristiani. Tale impegno li rende sacerdoti, tanto gli uomini quanto le donne. In questo
modo essi prolungano nel tempo e nello spazio la funzione unificatrice di Cristo sommo
sacerdote per sempre.
Lo specifico del sacerdozio ministeriale non è la facoltà di consacrare, ma
di essere principio di unità nella comunità.
Questo modo di intendere il sacerdozio come abbiamo sottolineato sopra non crea problemi
per la donna. La difficoltà sorge quando si affronta il sacerdozio ministeriale, cioè
quello che è proprio degli uomini che hanno ricevuto il sacramento dell'ordine. Qual è
la loro specificità che li distingue da tutti gli altri sacerdoti-del-popolo-di-Dio?
Potranno le donne accedere a esso?
Esiste una definizione classica espressa già nel Documento del Sinodo dei Vescovi del
1971, a riguardo del sacerdozio ministeriale, che definisce la condizione specifica del
sacerdote, considerato in se stesso, senza relazione diretta con il popolo di Dio.
Attraverso l'ordinazione sacerdotale, esso è abilitato a essere il rappresentante
ufficiale di Cristo: "I presbiteri sono consacrati da Dio, mediante il Vescovo, in
modo che, resi partecipi in modo speciale del Sacerdozio di Cristo nelle sacre
celebrazioni agiscano come ministri di colui che ininterrottamente esercita la sua
funzione sacerdotale in favore nostro nella liturgia per mezzo del suo Spirito" (Presbyterorum Ordinis,5).
Ciò che è specifico del sacerdote è la facoltà di consacrare. Lo spazio in cui il
sacerdozio è limitato è il settore cultuale e sacramentale.
Ora ciò non significa affatto una riduzione del grande significato che aveva il
sacerdozio di Gesù Cristo. Questo non si limita soltanto al culto, ma deve essere vissuto
nel contesto di tutta la vita, che deve portare i segni della unità, della pace e della
riconciliazione. Si noti bene inoltre che l'ordinazione non conferisce propriamente un potere
in funzione del culto e della consacrazione. Non è infatti il sacerdote che consacra,
battezza e perdona. È Cristo che perdona, battezza e consacra. I presbiteri mettono a
disposizione la loro persona perché il Cristo invisibile si faccia sacramentalmente
visibile. Il potere non è quello di consacrare, ma quello di rappresentare
ufficialmente il sacerdozio unico ed eterno di Gesù Cristo. Il sacramento dell'ordine
innalza la persona a questa funzione.
Qual è la relazione del presbitero con il popolo di Dio?
Non lo dobbiamo pensare al di fuori, al di sopra o indipendente dal popolo di Dio. Il suo
ruolo non deve essere determinato in base ai suoi poteri sacramentali, posto davanti ad un
popolo che è privato di questi poteri. Il punto di partenza deve essere ecclesiologico e
comunitario: è infatti per il servizio della Chiesa che esiste il presbitero e non
indipendente da essa.
La Chiesa-comunità nasce come sacramento universale di salvezza. Attraverso le sue
istituzioni, con la parola e i sacramenti, con i ministeri essa deve rendere attuale la
riconciliazione portata da Gesù Cristo.
Tutti i fedeli sono corresponsabili in questa missione e non soltanto quelli che hanno
ricevuto l'ordine. In questa comunità radunata nel nome di Cristo le differenze di
nazione, di intelligenza e di sesso non hanno alcun valore (Gal 3, 28).
Tutti indistintamente sono inviati. In base a questo concetto acquista significato
l'uguaglianza e la fratellanza di tutti in Cristo.
Se vi è una uguaglianza così fondata, non significa però che tutti debbano fare le
stesse cose.
La Chiesa è infatti una comunità di uguali e organizzata, ma dove i compiti sono posti
in un certo ordine gerarchico.
Vi è in essa diversità di carismi che per Paolo sono sinonimo di funzioni. "Ciascuno
ha il proprio dono (carisma) da Dio, chi in un modo, chi in un altro" (1Cor 7,7), ma tutti questi carismi sono per il bene comune (1Cor 12,7). Questi carismi (funzioni) appartengono alla struttura della
Chiesa, in modo tale che senza di essi non sarebbe la Chiesa di Cristo. Esiste poi una
simultaneità di carismi nella Chiesa.
È a questo punto che bisogna porsi la domanda: a chi spetta il compito di esprimere dei
carismi? Il carisma dell'unità deve essere a servizio di tutti i carismi affinché tutto
concorra per il buon ordine, l'armonia e il bene comune. Il Nuovo Testamento parla di
carismi di guida e di governo e di quelli che presiedono alla comunità (1Ts
5,12; Rom 12,8; 1Tm 5,17).
I presbiteri (anziani), i Vescovi (episkopen) e i diaconi sono i portatori del
carisma dell'unità in seno alla comunità.
Lo specifico del presbitero-sacerdote consiste in questo carisma: coordinare le varie
funzioni nella comunità (carismi), orientarle tutte a beneficio della Chiesa,
promuovendone alcune e incoraggiandone altre, svelare i carismi già presenti ma non
ancora sorti a livello di coscienza nella comunità e ammonire chi mette in pericolo
l'unità della comunità.
Il sacerdote non convoglia verso se stesso tutte le funzioni, ma deve far convergere
nell'unità tutti i servizi.
Il presbitero diventa così il responsabile principale dell'unità della Chiesa locale,
sia nella diaconia dell'amore fattivo attraverso l'assistenza ai fratelli più poveri e
nel contesto dei servizi nella comunità, sia nell'annunciare il Vangelo con la catechesi,
la predicazione, i corsi di aggiornamento sia, infine, nel servizio del culto e dei
sacramenti.
In ogni settore egli deve promuovere l'unità e la armonia affinché la comunità sia un
solo corpo nel Cristo Gesù.
In conformità a questa interpretazione, lo specifico del sacerdote non è di consacrare e
insegnare, ma di essere segno di unità nel culto e nell'annuncio del messaggio. In
ragione di questo suo carisma spetta a lui presiedere la celebrazione e annunciare con
autorità.
I compiti che il presbitero compie nella Chiesa locale spettano al Vescovo nella Chiesa di
una regione e al Papa nella Chiesa Universale: a tutti spetta essere principium
unitatis visibile.
Ci domandiamo se questo compito di radunare nell'unità può essere affidato
esclusivamente agli uomini.
La storia attuale e la verità dei fatti ci indicano che la donna può avere le stesse
capacità dell'uomo, sia nel governo della società civile come nelle esperienze già in
atto nella Chiesa, nelle quali delle religiose assunsero la direzione della Chiesa locale.
La donna svolge il ruolo di unità secondo la sua specificità femminile, diversa da
quella dell'uomo, lo stesso risultato di concordia, progresso e unità nella comunità dei
fedeli.
Il sacramento dell'ordine designa nella comunità la persona che coordinerà, nel segno
dell'unità e della riconciliazione, i vari servizi inerenti alla vita comunitaria.
Tutti hanno il compito di preoccuparsi dell'unità.
Però il sacerdote, sia uomo che donna, è preposto ufficialmente in nome di Gesù Cristo
a presiedere la diaconia della riconciliazione e della coesione della comunità.
Il sacramento non conferisce un qualcosa di esclusivo, raggiungibile soltanto
attraverso il sacramento e senza il quale tale sacramento non potrebbe essere dato nella
Chiesa. Invece il sacramento conferisce una visibilità più nitida a ciò che deve essere
ricercato da tutti nella comunità e cioè l'unione e l'amore.
Per questo, come negli altri sacramenti, anche in quello dell'ordine c'è una stretta
relazione tra la funzione di tutti i fedeli e quella del sacerdote.
È compito del sacerdote presiedere l'assemblea che si raduna per ascoltare la parola e
celebrare l'eucaristia. Perciò spetta a lui, in modo ufficiale, il potere di
rappresentare Cristo principio e fonte di unità. Di conseguenza spetterà a lui, a
maggior diritto, consacrare e celebrare l'eucaristia.
Se la donna può essere, come lo è già di fatto in molte parrocchie, principio di
unità, allora teologicamente non troviamo nulla che possa opporsi a che lei possa, per
mezzo dell'ordinazione, consacrare e rendere Cristo sacramentalmente presente quando la
comunità è radunata per compiere un atto di culto.
Non è questo il momento di esplicare come lo potrà fare. Non potrà certamente essere
spiegato attraverso la teoria; la risposta potrà venire solo dall'esperienza concreta e
dalla realtà di un determinato contesto.
Conclusione: l'umano e il religioso sono "animus" e "anima".
Le prospettive che abbiamo fin qui sviluppate inseriscono il sacerdote, sia uomo che
donna, nell'ambito della comunità umana ed ecclesiale. Ciò fa parte della più antica
tradizione neotestamentaria.
Lo stesso canone VI del Concilio di Calcedonia (451) dice espressamente: "Nessuno
deve essere ordinato nel modo più assoluto ne presbitero, ne diacono, ne chierico in
genere, se non gli viene assegnata soprattutto una Chiesa urbana o rurale o un martyrion o
una Chiesa monastica. Per quanto riguarda coloro che sono ordinati senza qualcuna di
queste funzioni, il Santo Concilio decide che la sua ordinazione è nulla e inesistente e
che, ad onta di chi conferì loro l'ordine, non potranno esercitare le loro
funzioni in nessun luogo".
Il risultato della nostra esposizione vuol indicare, in sintesi, che non
ci sono argomenti determinanti per impedire che la donna possa accedere al sacerdozio
ministeriale. Aggiungiamo anche che una giusta collocazione di esso, alla
luce del sacerdozio di Cristo, non pone la specificità del sacerdozio nel potere di
consacrare, ma nell'essere principio di unità nella comunità. Ora la donna può compiere
questa diaconia altrettanto bene quanto l'uomo.
La posizione della donna nella Chiesa deve accompagnare l'evoluzione della donna nella
società civile. Quest'ultima ha oggi la tendenza di concedere la stessa parità di
diritti alla donna come all'uomo, per cui risulta sempre più inconcepibile
qualsiasi discriminazione fondata sulla differenziazione biologica e culturale. La Chiesa
che vuole essere, a ragione, cattolica, non dovrebbe per nessun motivo in base a tali
fattori, mantenere la sua restrizione tradizionale.
Una riflessione più dilungata del compito di rappresentare la salvezza in Gesù Cristo
dovrebbe far capire agli ecclesiastici l'umiltà di riconoscere che "la pienezza
della divinità e dell'umanità di Cristo" non può esaurirsi nella
rappresentanza di soli uomini. L'antropologia moderna avverte con sufficienti ragioni che
non si può più semplicemente parlare di qualità esclusivamente femminili e qualità
maschili.
L'umano è sempre composto di caratteri maschili e caratteri femminili che si trovano
articolati, con intensità diversa, in ogni esistenza umana individuale.
Un normale processo di personalizzazione e di maturazione umana esige e suppone che l'uomo
esprima, in grado sempre superiore, il suo aspetto di anima (l'aspetto femminile
nel maschio) e la donna il suo aspetto di animus (l'aspetto maschile nella donna).
Secondo questa distinzione, gli uomini per la propria realizzazione agirebbero bene se
creassero più spazio di libertà e di liberazione per la donna, così lei a sua volta
avrà più possibilità di rappresentare Gesù Cristo uomo, che come tutti gli uomini
possedeva nella sua umanità le dimensioni maschili e femminili. Solo così si potrà
esprimere con la vita, nella nostra storia, la parola profetica di Paolo:
Non c'è più uomo ne donna, poiché
tutti noi siamo
uno in Gesù Cristo
(Gal 3,28).
Nota
In data 15 ottobre 1976 la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò
una Dichiarazione sulla questione dell'ammissione delle donne al Sacerdozio. Tale
documento riafferma la dottrina tradizionale, in opposizione alla tendenza di
quell'orientamento teologico che si esprime a favore dell'ammissione delle donne al
ministero sacerdotale. Il documento è emesso da un'autorità ufficiale ed è autentico.
Possiede un'autorità speciale che trascende quella di qualsiasi teologo. Però, secondo
il giudizio teologico sul valore di un documento ufficiale, non è infallibile. Perciò
non può essere estraneo da errori, come già avvenne nel passato. Però tale affermazione
non toglie e non sminuisce l'autorità della Dichiarazione.
Con tutto il rispetto la teologia può e inoltre è suo compito specifico, valutare il
peso degli argomenti presentati in essa. Così fece con grande destrezza Karl Rahner in un
recente commento e giudizio critico sulla Dichiarazione della Sacra Congregazione (cfr. Priestertum der Frau? In Stimmen der Zeit, maggio 1977, 291-301).
Rahner conclude che l'argomentazione addotta non lascia teologicamente convinti, e neppure
sbarra del tutto la strada. La questione è posta sul tappeto e rimane aperta e così il
dibattito deve proseguire. L'argomento di base addotto nella Dichiarazione è
l'affermazione che la donna non può aver accesso al sacramento del sacerdozio perché
Cristo non ha introdotto nessuna donna nel collegio apostolico e neppure gli apostoli lo
fecero. Il documento afferma che tale gesto non appartiene ai condizionamenti
socio-storici dell'epoca, ma che esso traduce la volontà di Gesù. La tradizione blocca
così la fede e la prassi della Chiesa attuale. È proprio questo punto che deve essere
provato e non già accettato come un presupposto. La Dichiarazione lascia l'onere di dare
una prova a quelli che ammettono tale condizionamento, invece di tentare, come
converrebbe, di fornire tale prova lei stessa. Per di più il concetto di sacerdote rimase
vincolato praticamente all'aspetto cultuale e liturgico, quando ormai nella riflessione
teologica e anche a certi livelli ufficiali come abbiamo sopra indicato il sacerdozio
viene considerato in una prospettiva più ampia come servizio all'unità della Chiesa a
tutti i livelli. Il documento perciò segna il passo in questa discussione, ma non chiude
del tutto il discorso. Forse ottiene il risultato di procrastinare la venuta di una
soluzione.
La teologia tenendo in grande considerazione e rispettando la Dichiarazione, avrà spazio
per continuare a discutere sulle ragioni favorevoli e contrarie.
Gli scritti di Leonardo Boff, in particolare il libro Chiesa: carisma e potere,
risultarono poco graditi alla Congregazione per la Dottrina della Fede.
Il teologo, dopo aver cercato di dimostrare la non contrarietà dei propri assunti alla
lettera evangelica, indirizzò queste parole alla sacra Congregazione:
"
Nella casa del Padre ci sono molti posti (Gv 14:2). Questa casa si trova in Cielo. Così nella teologia ci sono molti sentieri che conducono all'incontro dello stesso Dio e molti posti per il linguaggio della fede.Il Vaticano, nella "notificazione" emessa il successivo 11 marzo 1985
- approvata da Giovanni Paolo II che ne ordinò la pubblicazione - definì le posizioni
dottrinali assunte da Leonardo Boff "pericolose per la sana dottrina della fede".
Il 26 aprile 1985, umilmente sottomessosi ai superiori gerarchici, il teologo fu oggetto
di un provvedimento disciplinare consistente nell' osservanza di un periodo di
ossequioso silenzio che consenta al padre Boff una sana riflessione e nella astensione
dalle sue responsabilità nella redazione della REB (Revista Eclesiastica Brasileira) e
dalle attività di conferenziere e di scrittore.
L'Osservatore Romano del 12 maggio 1985 riferì che tali decisioni erano state accolte
con spirito religioso...
Il successivo 31 maggio 1985, la scrittrice Luise Rinser indirizzava la seguente
lettera aperta a Giovanni Paolo II...
OGGI, GESÙ STAREBBE DALLA PARTE DI BOFF
Lettera aperta a papa Giovanni Paolo II,
dopo i provvedimenti disciplinari contro Leonardo
Boff.
(Luise RINSER)
Mio caro papa,
sono cerca che Lei non leggerà mai queste righe.
Il Suo esercito di funzionari La protegge accuratamente da questi discorsi, e La priva
quindi del contatto vitale con coloro che Lei vuole guidare come pastore.
Un pastore separato dalle sue pecore, da guardie del corpo teologiche, da un vetro
antiproiettile e poliziotti armati fino ai denti. Un pastore che deve essere protetto
dalle sue pecore. Un pastore che giudica le sue fedeli pecore dei lupi, e si sceglie come
alleati dei veri lupi. Che scomoda posizione, nella quale Lei si è venuto a trovare, mal
consigliato da uomini ai quali importa molto più la conservazione del vecchio edificio
che le persone viventi che vi abitano. Nessuno dei Suoi predecessori nel nostro secolo ha
richiesto un tale dispiegamento di forze di sicurezza. E la colpa non deriva soltanto, e
non in primo luogo, dalla situazione politica mondiale più tesa. Quella colpa ricade
anche su di Lei, con il Suo viscerale anticomunismo, nato dal vecchio rancore polacco nei
confronti della Russia, questo residuo, comprensibilmente resistente, della Sua giovinezza
polacca, che Le impedisce un vero dialogo con i paesi dell'Est e la sinistra, dopo
l'apertura da parte del Suo grande predecessore papa Giovanni XXIII - con la visione
profetica di quel che era necessario: la demolizione dell'immagine ostile del "cattivo
comunista", dell'assoluta incompatibilità fra cristianesimo e marxismo. Lui
avrebbe compreso e amato il francescano padre Leonardo Boff, così come stimò tanto Karl
Rahner (che Lei non apprezza) fino a nominarlo consulente del Concilio.
Chi Le sta parlando in questo modo anche se Lei non udrà questa voce - è una donna della
Sua generazione, più anziana di Lei, che durante il nazismo, come Lei, ha resistito a
Hitler, e i cui libri sono anche stati stampati nella Sua patria, letti e apprezzati nella
Sua madre lingua polacca, e che, a differenza di molti colleghi che hanno abbandonato la
Chiesa, si ostina a rimanervi, anche se è ormai giunta quasi ai limiti della
sopportazione; anche perché, vivendo vicino a Roma, può osservare direttamente tutti gli
scandali vaticani, come quello della bancarotta fraudolenta del presidente del "Banco
Ambrosiano", coinvolto in faccende di mafia e in traffico d'armi, e il cui
banchiere, un sacerdote, non è stato da Lei consegnato alla giustizia, ma nominato
arcivescovo. Mio caro papa, Lei ci sta rendendo molto difficile la permanenza in questa
Chiesa, sempre più carica di colpe.
Ma perché resto membra di questa Chiesa, pur avendone riconosciuto e anche oltrepassato i
confini? Perché molti altri come me restano, pur essendo incerti fra il rimanere e
l'uscirne? Non perché esiste un papa Giovanni Paolo Il, ma perché esiste un padre
francescano Leonardo Boff. Perché esiste la teologia della liberazione, questa teologia
della speranza per tutti. Perché non esiste soltanto la Chiesa romana ufficiale, con la
sua pretesa di potere universale e i suoi mezzi di pressione, come l'emarginazione di
coloro che sono aperti verso il futuro, come il divieto di parola, o di svolgere la
propria professione. Perché esistono le comunità carismatiche di base, con uomini come
Boff. Perché delle persone, come Boff, da Lei "disciplinato" con
durezza e con ingiustizia cosi incredibilmente grandi, entrano nei quartieri poveri, non
dentro auto blindate e con giubbotto antiproiettile, ma a piedi, e ci restano, e non li
attraversano rapidamente in un auto munita di cristalli di sicurezza, senza neppure vedere
i poveri perché, come è successo a Lei in Spagna, erano state eliminate rapidamente, in
precedenza, le povere baracche di quei disgraziati. Perché uomini come Boff non fanno
soltanto delle belle prediche, ma annunciano l'Evangelo con i loro semplici e concreti
atti d'amore, Perché uomini come Boff vogliono aiutare i poveri dell'immenso continente
sudamericano a raggiungere quella libertà che Lei richiede per i Suoi connazionali
polacchi: una vita dignitosa, nella libertà da qualsiasi tipo di oppressione. Perché, se
Gesù comparisse oggi in forma visibile, sarebbe anche lui dalla parte di Boff, come
sarebbe anche dalla parte dei Suoi poveri polacchi, come dalla parte di tutti gli oppressi
e diseredati, e mai dalla parte di coloro che hanno con sé la legge e il potere, dei
dogmatici e degli ideologi di ogni specie, mai dalla parte di coloro che hanno paura del
soffio dello Spirito Santo, cosi scomodo per tutti conservatori. Che altro, se non il
soffio dello Spirito Santo, spinge gli uomini ad aprire la Chiesa sul futuro e a diventare
una Chiesa di fedeli, invece che una Chiesa del clero?
La prego, mio caro papa si rilegga l'enciclica "Pacem in terris" nella
quale Giovanni XXIII diceva "Non posso separarmi dall'esempio del Signore, che ha
diffuso intorno a sé pensieri di pace, puntando più sul SI' che sul NO". Per
dirla con Friederich Schiller: "Conceda la libertà di pensiero (e di parola)
Sire!" Vedrà allora quanto diventa superflua la Sua protezione da parte delle
forze di polizia e come Lei potrà nuovamente avvicinarsi alle Sue pecore, così come il
Maestro, senza alcuna protezione, entrava nella Gerusalemme in festa.
Una parola anche a te, caro fratello Boff, sospettato di marxismo:
Anche se tu, per obbedienza, taci, grideranno le pietre. E noi, che siamo al tuo fianco,
parleremo per te!
(Fonte: "PubliK-Forum" del 31 maggio 1985)
--> Decreto di scomunica di sette donne ordinate prete
SE GESÙ NON LO HA FATTO...
Considerazioni del teologo Hermann
Häring,
professore di teologia dogmatica all'Università cattolica
di Nimega (Olanda)
Che cosa c'é di più facile del
dire: Se Gesù non lo ha fatto, nemmeno oggi sarà consentito?
Ma questo modo di ragionare è astorico e assolutamente arbitrario,
se non altro per coloro ai quali il divieto di ordinare donne non ha più alcun senso nè
plausibilità.
Il problema non sta nel sapere - volendo argomentare in modo storico e quindi
anacronistico - che cosa Gesù ha fatto a suo tempo, ma che cosa egli farebbe ai nostri
giorni.
L'amico dei pubblicani e dei peccatori (Mt 11:19) probabilmente non adotterebbe la veneranda
prassi delle sacre ordinazioni.
(...) Non si tratta soltanto di sapere se pure le donne possano "insegnare,
santificare e governare", ma se sia finalmente giunto il tempo che segna il
superamento della bipartizione kiriocratica della realtà ecclesiale.
La chiesa deve alla fine essere - senza riserve di alcun genere - comunione di
credenti.
Finché le donne resteranno invisibili in seno
alla Chiesa e alla società avremo un mondo che vede con un occhio solo, che
ascolta con un solo orecchio, che si tiene in piedi su una sola gamba.
(Joan Chittister, teologa benedettina americana)
Sullo stesso tema:
Cristo ha escluso le donne dal sacerdozio? [John
Wijngaards]
Il decreto di scomunica
nei confronti di sette donne ordinate prete
La donna e il sacerdozio [Leonardo Boff]