Il terzo e ultimo dei consessi di studio convocati in Vaticano da
Giovanni Paolo II a corredo del Giubileo è in arrivo per il 27 e 28
febbraio. Il primo il papa l'ha indetto sulle persecuzioni degli ebrei, e ha
chiesto perdono al mondo per le colpe della Chiesa. Il secondo sui roghi
dell'inquisizione, e anche qui con tanto di mea culpa. E il terzo? Sulle
crociate? Sulla tratta degli schiavi? Macché. Sul Concilio Vaticano II. Qui
almeno la Chiesa non dovrebbe avere proprio niente di cui chieder perdono.
Una bella assise celebrativa e via.
Invece è vero l'opposto. In Vaticano è vigilia tesissima. Le relazioni
maggiori le terranno i cardinali Joseph Ratzinger e Roger Etchegaray, i
vescovi teologi Rino Fisichella e Angelo Scola e il gesuita Albert Vanhoye.
Tutte a tema ben delimitato: una verifica dell'attuazione dei documenti
conciliari, che cosa è stato fatto e che cosa no. Stop. Vietato discutere
su che cosa è stato il Concilio come evento in sé, non solo come
produttore di testi. Vietatissimo contrapporre alla "lettera" dei
documenti lo "spirito" della grande assise convocata da Giovanni
XXIII. Quegli storici che proprio su questo hanno più studiato e scritto
non avranno la parola in congresso. Non uno solo, in particolare, della
scuola di Bologna guidata da Giuseppe Alberigo e Alberto Melloni, discepoli
di don Giuseppe Dossetti, che sta pubblicando l'imponente "Storia del
Concilio Vaticano II" edita in Italia dal Mulino.
Eppure all'apparire del primo volume dell'opera, nel 1995, Alberigo e
Melloni furono benignamente ricevuti dal papa. Il secondo volume lo
raccomandò in pubblico il cardinale Pio Laghi e l'ultimo l'arcivescovo
Walter Kasper. Ma tutto questo non vale più. L'aria gelata che tira oggi in
Vaticano l'ha fatta sentire "L'Osservatore Romano" all'inizio di
questo mese, con un paginone intero di implacabile stroncatura dell'opera,
firmata da un oscuro funzionario della segreteria di Stato, Agostino
Marchetto. E il giorno dopo con un corsivo al veleno dello stesso Marchetto
contro Melloni. Accusato di pretendere dalla Chiesa un nuovo Concilio.
Basta infatti la sola parola Concilio, oggi, a mettere in allarme massimo il
vertice della Chiesa, nella sua ala conservatrice. Da quando il cardinale
Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano e leader mondiale dei
progressisti, ha lanciato per primo l'idea di un nuovo Concilio e ne ha
fissato gli argomenti, per i conservatori non c'è più pace. Martini il suo
intervento bomba lo fece il 7 ottobre scorso nel mezzo del sinodo dei
vescovi d'Europa, presente Giovanni Paolo II. E tutti i presenti lo lessero
come un attacco al sistema monarchico che governa la Chiesa, concentrato nel
papa. A questo sistema Martini contrappose l'idea di un governo collegiale,
di papa e vescovi insieme. Capace di decidere anche sui «punti caldi» fin
qui avocati dal papa alla propria delibera solitaria.
E di punti caldi Martini ne elencò sette, con linguaggio tecnico ma
trasparentissimo: l'ordinazione al sacerdozio di uomini sposati;
l'ordinazione delle donne al diaconato, almeno; la guida delle comunità
senza sacerdote affidata ai laici; la revisione della condanna dei
contraccettivi e dell'amore omosessuale; la revisione della scomunica di
fatto inflitta ai divorziati risposati; il ripensamento del modo di
amministrare il sacramento della penitenza; il come far pace con le Chiese
non cattoliche e con le democrazie laiche. Sono i punti, i primi sei, su cui
Giovanni Paolo II ha personalmente deciso con altrettanti no. E anche sul
settimo punto egli ha proceduto di sua volontà, senza attivare alcuna
delibera collegiale.
Al termine del sinodo il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Genova
e primo dei papabili, garantì: «L'intervento del cardinal Martini non ha
avuto nessuna eco nell'aula». Esatto. Ma nei corridoi se n'era parlato
eccome. I conservatori sanno che la proposta di un nuovo Concilio, una volta
lanciata autorevolmente, prima o poi va a segno. Per questo il loro
obiettivo è che se ne parli il meno possibile. Anzi, niente del tutto.
Ma chi li fa tacere, i progressisti? Dopo Martini, altri ne sono entrati in
campo, e di gran peso. L'americano John Raphael Quinn, arcivescovo di San
Francisco dal 1977 al 1995 ed ex presidente dei vescovi degli Stati Uniti,
ha regalato a Giovanni Paolo II la prima copia d'un suo libro intitolato
proprio così: "La riforma del papato". Criticissimo del
centralismo papalino e curiale e fautore entusiasta del modello collegiale
di governo della Chiesa.
Il maestro generale dei domenicani, l'in-glese Timothy Radcliffe, ha anche
lui attaccato aspramente il centralismo dei poteri. «Perché la nostra
autorità sia convincente», ha detto, «dobbiamo piuttosto condividere il
cammino delle persone, a cominciare dalle donne, dai divorziati, da coloro
che hanno abortito, dagli omosessuali».
L'arcivescovo di Bordeaux, cardinale Pierre Eyt, ha contestato in pubblico
nientemeno che il cardinale Ratzinger, la testa più fine del fronte
conservatore. Gli ha obiettato che predicare la sola verità non basta. Le
istituzioni della Chiesa sono altrettanto importanti. E vanno riformate in
chiave non autoritaria.
E l'arcivescovo di Magonza, Karl Lehmann, presidente dell'episcopato
tedesco, s'è scagliato anche lui contro la curia accentratrice, che arriva
fino a tener prigioniero il papa. Non solo. Lehmann ha legato esplicitamente
la riforma della Chiesa in senso conciliare alla successione a Giovanni
Paolo II.
Di fronte a questa offensiva ben congegnata, i conservatori ricordano con
terrore che anche al Concilio Vaticano II andò così: i progressisti
partirono in minoranza, ma seppero fissare sin dall'inizio l'agenda
dell'assise, e grazie a questo ribaltare tutto e vincere. Anche oggi sono
pochi di numero. Martini sa di non essere papabile e ha ripetuto, domenica 6
febbraio, che il suo sogno di ritirarsi a Gerusalemme a studiare e pregare
«è ormai vicino a realizzarsi».
Lehmann e Quinn, non cardinali, neppure entreranno in conclave. Radcliffe ha
già perso la corsa per succedere al cardinale Basil Hume come arcivescovo
di Westminster. E Hume, un altro che la pensava come Martini sul modo di
riformare la Chiesa, è morto lo scorso giugno. Ma è difficile, anzi,
impossibile che i conservatori riescano a eludere la sfida. Papa Giovanni
Paolo II non li aiuta: è figura troppo irripetibile per essere presa a
modello. Ratzinger li disorienta: troppo alta è la sua visione. Il prossimo
papa sarà scel-to tra loro, i conservatori. Intanto, però, l'agenda futura
l'hanno già scritta i rivali.