OPERE DI POESIA
L'intera produzione poetica
di Pasolini è raccolta in Bestemmía, 2 VOL., Garzanti, Milano 1993
che comprende anche una gran mole di poesie inedite e disperse.
Le prime edizioni delle singole raccolte sono le. seguenti: Poesie a
Casarsa, Libreria Antiquaria Mario Landi, Bologna 1942; Poesie,
Primon, San Vito al Tagliamento 1945; Diarit. Academiuta di lenga
furlana, Casarsa 1945; I píantí, Academiuta di lenga furlana, Casarsa
1946; Dov-è la mia patria, Accademia di lenga furlana, Casarsa 1949;
Dal diario, Sciascia, Caltanissetta 1954,- La meglio gioventù,
Sansoni, Firenze 1954; Le ceneri di Gramsci Garzanti, Milano 1957;
L'usignolo della Chiesa Cattolica, Longanesi, Milano 1958; Roma 1950,
All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1960; Sonetto primaverile,
All'Insegna del Pesce d'Oro, Mílano 1960; La religione del mio tempo,
Garzanti, Milano 196 1; Poesia informa di rosa, Garzanti, Milano 1964;
Poesie dimenticate, Società filologica friulana, Udine 1965; Poesie,
Garzantí, Milano 1970 (si tratta di una antologia); Trasumanar e
organizzar, Garzanti, Milano 1971; La nuova gioventù, Einaudi, Torino
1975.
da Le ceneri di Gramsci
I
- Non è di
maggio questa impura aria
- che il buio
giardino straniero
- fa ancora più buio,
o l'abbaglia
-
- con cieche
schiarite... questo cielo
- di bave sopra gli
attici giallini
- che in semicerchi
immensi fanno velo
-
- alle curve del
Tevere, ai turchini
- monti del Lazio...
Spande una mortale
- pace, disamorata
come i nostri destini,
-
- tra le vecchie
muraglie l'autunnale
- maggio. In esso c'è
il grigiore del mondo,
- la fine del
decennio in cui ci appare
-
- tra le macerie
finito il profondo
- e ingenuo sforzo di
rifare la vita;
- il silenzio,
fradicio e infecondo...
-
- Tu giovane, in quel
maggio in cui l'errore
- era ancora vita, in
quel maggio italiano
- che alla vita
aggiungeva almeno ardore,
-
- quanto meno
sventato e impuramente
- sano
- dei nostri padri -
non padre, ma umile
- fratello - già con
la tua magra mano
-
- delineavi l'ideale
che illumina
-
- (ma non per noi: tu
morto, e noi
- morti ugualmente,
con te, nell'umido
-
- giardino) questo
silenzio. Non puoi,
- lo vedi?, che
riposare in questo sito
- estraneo, ancora
confinato. Noia
-
- patrizia ti è
intorno. E, sbiadito,
- solo ti giunge
qualche colpo d'incudine
- dalle officine di
Testaccio, sopito
-
- nel vespro: tra
misere tettoie, nudi
- mucchi di latta,
ferrivecchi, dove
- cantando vizioso un
garzone già chiude
-
- la sua giornata,
mentre intorno spiove.
- II
- Tra i due mondi, la tregua, in cui
non
- siamo.
- Scelte, dedizioni... altro suono non
hanno
- ormai che questo del giardino
gramo
-
- e nobile, in cui caparbio
l'inganno
- che attutiva la vita resta nella
morte.
- Nei cerchi dei sarcofaghi non
fanno
-
- che mostrare la superstite
sorte
- di gente laica le laiche
iscrizioni
- in queste grigie pietre, corte
-
- e imponenti. Ancora di
passioni
- sfrenate senza scandalo son
arse
- le ossa dei miliardari di
nazioni
-
- più grandi; ronzano, quasi mai
- scomparse,
- le ironie dei principi, dei
pederasti,
- i cui corpi sono nell'urne
sparse
-
- inceneriti e non ancora casti.
- Qui il silenzio della morte è
fede
- di un civile silenzio di uomini
rimasti
-
- uomini, di un tedio che nel
tedio
- del Parco, discreto muta: e la
città
- che, indifferente, lo confina in
mezzo
-
- a tuguri e a chiese, empia nella
pietà,
- vi perde il suo splendore. La sua
terra
- grassa di ortiche e di legumi
dà
-
- questi magri cipressi, questa
nera
- umidità che chiazza i muri
intorno
- a smotti ghirigori di bosso, che la
sera
-
- rasserenando spegne in
disadorni
- sentori d'alga... quest'erbetta
stenta
- e inodora, dove violetta si
sprofonda
-
- l'atmosfera, con un brivido di
menta,
- o fieno marcio, e quieta vi
prelude
- con diurna malinconia, la
spenta
-
- trepidazione della notte. Rude
- di clima, dolcissimo di storia,
è
- tra questi muri il suolo in cui
trasuda
-
- altro suolo; questo umido che
- ricorda altro umido; e
risuonano
- - familiari da latitudini e
-
- orizzonti dove inglesi selve
coronano
- laghi spersi nel cielo, tra
praterie
- verdi come fosforici biliardi o
come
-
- smeraldi: "And O ye Fountains..." - le
pie
- invocazioni...
III
- Uno straccetto rosso, come
quello
- arrotolato al collo ai
partigiani
- e, presso l'urna, sul terreno
cereo,
-
- diversamente rossi, due
gerani.
- Lì tu stai, bandito e con dura
eleganza
- non cattolica, elencato tra
estranei
-
- morti: Le ceneri di Gramsci...
Tra
- speranza
- e vecchia sfiducia, ti accosto,
capitato
- per caso in questa magra serra,
innanzi
-
- alla tua tomba, al tuo spirito
restato
- quaggiù tra questi liberi. (O è
qualcosa
- di diverso, forse, di più
estasiato
-
- e anche di più umile, ebbra
simbiosi
- d'adolescente di sesso con
morte...)
- E, da questo paese in cui non ebbe
posa
-
- la tua tensione, sento quale
torto
- - qui nella quiete delle tombe - e
insieme
- quale ragione - nell'inquieta
sorte
-
- nostra - tu avessi stilando le
supreme
- pagine nei giorni del tuo
assassinio.
- Ecco qui ad attestare il seme
-
- non ancora disperso dell'antico
dominio,
- questi morti attaccati a un
possesso
- che affonda nei secoli il suo
abominio
-
- e la sua grandezza: e insieme,
ossesso,
- quel vibrare d'incudini, in
sordina,
- soffocato e accorante - dal
dimesso
-
- rione - ad attestarne la fine.
- Ed ecco qui me stesso... povero,
vestito
- dei panni che i poveri adocchiano
in
- vetrine
-
- dal rozzo splendore, e che ha
smarrito
- la sporcizia delle più sperdute
strade,
- delle panche dei tram, da cui
stranito
-
- è il mio giorno: mentre sempre più
rade
- ho di queste vacanze, nel
tormento
- del mantenermi in vita; e se mi
accade
-
- di amare il mondo non è che per
violento
- e ingenuo amore sensuale
- così come, confuso adolescente, un
tempo
-
- l'odiai, se in esso mi feriva il
male
- borghese di me borghese: e ora,
scisso
- - con te - il mondo, oggetto non
appare
-
- di rancore e quasi di mistico
- disprezzo, la parte che ne ha il
potere?
- Eppure senza il tuo rigore,
sussisto
-
- perché non scelgo. Vivo nel non
volere
- del tramontato dopoguerra:
amando
- il mondo che odio - nella sua
miseria
-
- sprezzante e perso - per un
oscuro
- scandalo
- della coscienza...
IV
- Lo scandalo del contraddirmi,
- dell'essere
- con te e contro te; con te nel
core,
- in luce, contro te nelle buie
viscere;
-
- del mio paterno stato
traditore
- - nel pensiero, in un'ombra di azione
-
- mi so ad esso attaccato nel
calore
-
- degli istinti, dell'estetica
passione;
- attratto da una vita
proletaria
- a te anteriore, è per me
religione
-
- la sua allegria, non la
millenaria
- sua lotta: la sua natura, non la
sua
- coscienza: è la forza
originaria
-
- dell'uomo, che nell'atto s'è
perduta,
- a darle l'ebbrezza della
nostalgia,
- una luce poetica: ed altro più
-
- io non so dirne, che non sia
- giusto ma non sincero,
astratto
- amore, non accorante
simpatia...
-
- Come i poveri povero, mi
attacco
- come loro a umilianti
speranze,
- come loro per vivere mi batto
-
- ogni giorno. Ma nella
desolante
- mia condizione di diseredato,
- io possiedo: ed è il più
esaltante
-
- dei possessi borghesi, lo
stato
- più assoluto. Ma come io possiedo
la
- storia,
- essa mi possiede; ne sono
illuminato:
-
- ma a che serve la luce?
[...]
[torna
su]
VI
- Me ne vado, ti lascio nella
sera
- che, benché triste, così dolce
scende
- per noi viventi, con la luce
cerea
-
- che al quartiere in penombra
si
- rapprende.
- E lo sommuove. Lo fa più grande,
vuoto,
- intorno, e, più lontano, lo
riaccende
-
- di una vita smaniosa che del
roco
- rotolio dei tram, dei gridi
umani,
- dialettali, fa un concerto
fioco
-
- e assoluto. E senti come in quei
lontani
- esseri che, in vita, gridano,
ridono,
- in quei loro veicoli, in quei
grami
-
- caseggiati dove si consuma
l'infido
- ed espansivo dono dell'esistenza
-
- quella vita non è che un
brivido;
-
- corporea, collettiva presenza;
- senti il mancare di ogni
religione
- vera; non vita, ma
sopravvivenza
-
- - forse più lieta della vita -
come
- d'un popolo di animali, nel cui
arcano
- orgasmo non ci sia altra
passione
-
- che per l'operare quotidiano:
- umile fervore cui dà un senso di
festa
- l'umile corruzione. Quanto più è
vano
-
- - in questo vuoto della storia, in
questa
- ronzante pausa in cui la vita tace
-
- ogni ideale, meglio è
manifesta
-
- la stupenda, adusta sensualità
- quasi alessandrina, che tutto
minia
- e impuramente accende, quando
qua
-
- nel mondo, qualcosa crolla, e si
trascina
- il mondo, nella penombra,
rientrando
- in vuote piazze, in scorate
officine...
-
- Già si accendono i lumi,
costellando
- Via Zabaglia, Via Franklin,
l'intero
- Testaccio, disadorno tra il suo
grande
-
- lurido monte, i lungoteveri, il
nero
- fondale, oltre il fiume, che
Monteverde
- ammassa o sfuma invisibile sul
cielo.
-
- Diademi di lumi che si
perdono,
- smaglianti, e freddi di
tristezza
- quasi marina... Manca poco alla
cena;
-
- brillano i rari autobus del
quartiere,
- con grappoli d'operai agli
sportelli,
- e gruppi di militari vanno, senza
fretta,
-
- verso il monte che cela in mezzo a
sterri
- fradici e mucchi secchi
d'immondizia
- nell'ombra, rintanate
zoccolette
-
- che aspettano irose sopra la
sporcizia
- afrodisiaca: e, non lontano, tra
casette
- abusive ai margini del monte, o in
mezzo
-
- a palazzi, quasi a mondi, dei
ragazzi
- leggeri come stracci giocano alla
brezza
- non più fredda, primaverile;
ardenti
-
- di sventatezza giovanile la
romanesca
- loro sera di maggio scuri
adolescenti
- fischiano pei marciapiedi, nella
festa
-
- vespertina; e scrosciano le
- saracinesche
- dei garages di schianto,
gioiosamente,
- se il buio ha resa serena la
sera,
-
- e in mezzo ai platani di Piazza
Testaccio
- il vento che cade in tremiti di
bufera,
- è ben dolce, benché radendo i
capellacci
-
- e i tufi del Macello, vi si
imbeva
- di sangue marcio, e per ogni
dove
- agiti rifiuti e odore di
miseria.
-
- È un brusio la vita, e questi
persi
- in essa, la perdono
serenamente,
- se il cuore ne hanno pieno: a
godersi
-
- eccoli, miseri, la sera: e
potente
- in essi, inermi, per essi, il
mito
- rinasce... Ma io, con il cuore
cosciente
-
- di chi soltanto nella storia ha
vita,
- potrò mai più con pura passione
operare,
- se so che la nostra storia è
finita?
da L'usignolo della chiesa cattolica
/-/
Il fresco
sguardo
Tra i dolci muri
spenti
vedo dopo il rosario
correre i ragazzi
umili e violenti...
E ascolto tremare
sperduti strumenti
in fondo all'asfalto
nella pace lunare.
Ma non piango in segreto.
O, vincendo il pianto,
non mi rnostro tremante
di finte allegrezze.
Allegrezze che
ingenuo
effondevo un tempo
divorato da colpe
innocenti di vergine.
Nessuno mi sentiva
impazzire, all'alba,
desto da sogni
che un MAI malediva.
Ma l'odiata purezza
e i peccati sognati
erano il fresco sguardo
dei miei occhi bruciati.
Il Narciso e la
rosa
Non Narciso, lo specchio
brilla nel verdecupo
prato della mia morta
fanciullezza di lupo...
Buona sera, Demonio,
mi ascolti sorridendo?
Ma non aprire bocca,
ho capito, mi arrendo.
Parlavo dello specchio
che null'altro è che luce
pura, riflessa - nido
di poetici echi.
No, Narciso non c'entra,
s'è guardato abbastanza;
e, una volta tanto,
posso affrontarti intrepido.
Sogno o indífferenza.
o memoria, non so,
l'argenteo specchio splende
nel nero prato solo.
Mi soggíoga il suo raggio
vespertino che fruga
immoto nella mesta
ombra del paesaggio.
Vieni, caro Demonio,
e contempliamo insieme
l'assenza di Narciso
nell'argento del sogno.
Non imperversa il riso
nella tua bocca odiosa?
Ebbene, amico, cogli
nell'orto una rosa.
Moralità o poesia o
bellezza, non so,
protendo questa rosa
a rispecchiarsi sola.
Supplica
Sento la tua carezza,
capriccioso padrone,
inebbriarmi muta
la carne troppo avvezza.
Non sorridi nemmeno?
La tua crudeltà
ha dunque l'impudenza
d'un cielo sereno?
Sei così sicuro
della tua vinta vittima
che giungi ad annoiarti
del suo rimorso impuro
Lasciami, o Fatale,
sciogli la delicata
stretta della tua mano
che m'incanta di male.
Ben dolcemente sfiori
le note della carne
e quel fioco concerto
mi devasta il cuore.
Lasciami fuggire,
togli dalle mie viscere
la tua indiscreta mano.
Ho altre, caste, mire...
Amo (da giovinetto)
della tua primavera
anche ciò che non celo
nel mio cuore abietto.
[torna su]
da La religione del mio tempo
/-/
La
ricchezza
Tra orizzonti che il
tramortito blu
umbro copre di assolate fiumare
e crinali arati che si perdono su
nel cielo, così tersi da incrinare
la cornea, o in valli che aprono
lucidità di baíe, tu, ignara
macchina - per cui non sono che gravitante
peso nel cuoio - e tu, che la guidi,
e che in quel peso al tuo fianco
- mentre gli parli, intenditore e prodigo
vedi fin troppa vita-, c'è qualcosa
che, írrelato, misto di tenerezza e odio,
di sgomento entusiasmo e di smaniosa
noia, accade invisibile a voi.
E in questo accadere una mostruosa
distruzione si compie, pur splendendo di gioia.
E' l'io che brucia. E, poiché è ìmpotente,
cieco, prigione dell'eccesso
della visione, chi il suo incendio sente
come da un'altra vita, ne avesse
solo pietà o simpatia! E non l'orrore
per l'uomo perduto nel regresso
che gli costa la sua vecchia, puerile passione!
E fosse solo, a bruciare, sotto queste
vesti sciupate, questa fronte che introna
la corsa, la smania - manifesta
a testimoniare La religiosa, pazza
coscienza che fa immota la festa
della vita incosciente, della razza
bambina, i cui volti, fuggendo,
ridono caldi contro le terrazze
delle colline, sul vuoto dei torrenti
tra millenarie vigne e casolari...
Si che questi chiari momenti
d'oscuro amore, abbandonati,
non si perdano, nel mondo, in cui rimane
persa nella sua purezza l
a luce delle gesta quotidiane.
O fosse, insieme, a bruciare - ardente
legna di questa antica ansia
di testimoniare - la carne, che sente
in ogni voce di questi festanti
paesaggi, una voce d'amore,
che vede in ogni atto - con cui avanzi
o resti indietro un nuovo corpo, bello
di giovinezza - un atto d'amore...
Ed è amore - voglia disperata
dei sensi, lucido isterismo - questo
che cola oro e marrone sui declivi,
dietro i cespugli e i fossi, nel modesto
splendore del meriggio e il vivo
buio della sera.
Questo che accende
una gota, con le tinte dell'ulivo
o del garofano, che al sole radente
brilla - imberbe o appena ombrata
dalla prima peluria - gaiamente
fischiettando... o il ciuffo d'una testa
ben tosata, che balza alto e dolcemente sghembo
su due allegri occhi- o la mano posata
negligente e ironica su un grembo...
Questo che vede la morte in ogni proda
che scompare, per sempre, nel lembo
di ogni strada che tra soglie si snoda,
corre tra liete gioventù, per sempre
è perduta...
*
Ché qualcos'altro, ancora, brucia il cuore:
fuoco, anche questo, di cui io, vile,
non vorrei parlare: come di un dolore
troppo interiore e misero, per dire
l'interiore e misera grandezza
che pure ha in sé ogni nostro dolore.
Il desiderio di poter contare
sul pane, almeno, e- un po' di povera lietezza.
Ma preme senza vita l'ansia che più serve
a stare in vita... Quanta vita mi ha tolto
l'essere stato per anni un triste
disoccupato, una smarrita vittima
di ossesse speranze. Quanta vita
l'essere corso ogni mattina tra resse
affamate, da una povera casa, perduta
nella periferia, a una povera scuola
perduta in altra periferia: fatica
che accetta solo chi è preso alla gola,
e ogni forma dell'esistenza gli è nemica.
Ah, il vecchio autobus delle sette, fermo
al capolinea di Rebibbia, tra due
baracche, un piccolo grattacielo, solo
nel sapore del gelo o dell'afa...
Quelle facce dei passeggeri
quotidiani, come in libera uscita
da tristi caserme, dignitosi è seri
nella finta vivacità di borghesi
che mascherava la dura, l'antica
loro paura dì poveri onesti.
Era loro la mattina
che bruciava,
sul verde dei campi di legumi intorno
all'Aniene, l'oro del giorno,
risvegliando l'odore dei rifiuti,
spargendo una luce pura come uno sguardo
divino, sulle file delle mozze casette,
assopite insieme nel cielo già caldo...
Quella corsa sfiatata tra le strette
aree da costruzione, le prodaie bruciate,
la lunga Tiburtina... Quelle file di operai,
disoccupati, ladri, che scendevano
ancora unti del grigio sudore
dei letti - dove dormivano da piedi
coi nipoti - in camerette sporche
di polvere come carrozzoni, biechi e gai...
Quella periferia tagliata in lotti
tutti uguali, assorbiti dal sole
troppo caldo, tra cave abbandonate,
rotti argini, tuguri, fabbrichette...
Ma in questo mondo che non
possiede
nemmeno la coscienza della
miseria,
allegro. duro, senza nessuna
fede,
io ero ricco, possedevo!
Non solo perché una dignità
borghese
era nei miei vestiti e nei miei
gesti
di vivace noia, di repressa
passione:
ma perché non avevo la
coscienza
della mia ricchezza!
L'essere povero era solo un
accidente
mio (o un sogno, forse,
un'inconscia
rinuncia di chi protesta in nome di
Dio...)
Mi appartenevano, invece,
biblioteche,
gallerie, strumenti d'ogni studio:
c'era
dentro la mia anima nata alle
passioni,
già, intero, San Francesco, in
lucenti
riproduzioni, e l'affresco di San
Sepolcro,
e quello di Monterchi: tutto
Piero,
quasi simbolo dell'ideale
possesso,
se oggetto dell'amore di
maestri,
Longhi o Contini, privilegio
d'uno scolaro ingenuo, e,
quindi,
squisito... Tutto, è vero,
questo capitale era già quasi
speso,
questo stato esaurito: ma io
ero
come il ricco che, se ha perso la
casa
o i campi, ne è, dentro,
abituato:
e continua a esserne padrone...
Giungeva l'autobus al
Portonaccío,
sotto il muraglione del
Verano:
bisognava scendere, correre
attraverso
un piazzale brulicante di
anime,
lottare per prendere il tram,
che non arrivava mai o partiva sotto gli
occhi,
ricominciare a pensare sulla
pensilina
piena di vecchie donne e sporchi
giovanotti,
vedere le strade dei quartieri
tranquilli,
Via Morgagni, Piazza Bologna, con gli
alberi
gialli di luce senza vita, pezzi di
mura,
vecchie Alette, palazzine
nuove,
il caos della città, nel
bianco
sole mattutino, stanca e
oscura...
*
Ah, raccogliersi in sé, e
pensare!
Dirsi, ecco, ora penso - seduti
sul sedile, presso ],amico
finestrino.
Posso Pensare! Brucia gli occhi, il
viso,
dalle marcite dì Piazza
Víttorio,
il mattino, e, misero,
adesivo,
mortifica l'odore del carbone
l'avidità dei sensi: un dolore
terribile
pesa nel cuore, così di nuovo
vivo.
Bestia vestita da uomo -
bambino
mandato in giro solo per il
mondo,
col suo cappotto e le sue cento
lire,
eroico e ridicolo me ne vado al
lavoro,
anch'io per vivere... Poeta, è
vero,
ma intanto eccomi su questo
treno
carico tristemente di
impiegati,
come per scherzo, bianco di
stanchezza,
eccomi a sudare il mio
stipendio,
dignità della mia falsa
giovinezza,
miseria da cui con interna
umiltà
e ostentata asprezza mi
difendo...
Ma penso! Penso nell'amico
angoletto,
immerso ]'intera mezzora del
percorso,
da San Lorenzo alle
Capannelle,
dalle Capannelle
all'aeroporto,
a pensare, cercando infinite
lezioni
a un solo verso, a un pezzetto di
verso.
Che stupendo mattino! A nessun
altro
uguale! Ora fili di magra
nebbiolina, ignara tra i
muraglioni
dell'acquedotto, ricoperto
da casette Piccole come canili
e strade buttate là,
abbandonate,
al solo uso di quella povera
gente.
Ora sfuriate di sole, su praterie di
grotte
e cave, naturale barocco, con
verdi
stesi da un pitocco Corot; ora soffi
d'oro
sulle piste dove con deliziose groppe
marrone
corrono i cavalli, cavalcati da
ragazzi
che sembrano ancor più giovani, e non
sanno
che luce è nel mondo intorno a
loro.
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