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EPILOGO

Mentre gli autori, in questa sezione esaminati, si professano, pur nelle grandi divergenze che li separano, monisti quanto all'esistenza di una sola sostanza: quella cerebrale, al contrario le convinzioni di Gödel inclinavano verso un dualismo, atipico tanto per la sua epoca quanto per la nostra. Egli condivideva l'opinione che il cervello umano funzionasse come un calcolatore, ma attendeva dalla scienza una confutazione di quello che giudicava come un pregiudizio del suo tempo: che non sussista alcuna mente separata dalla materia. Rispetto a questo punto, Gödel credeva che le argomentazioni, fino a quel momento prodotte, per stabilire il parallelismo di mente e macchina, fossero inconclusive. Quanto per esempio sostenuto da Turing, che i procedimenti mentali non portino più in là di quelli meccanici, si baserebbe per Gödel su di un'assunzione errata: quella di una mente statica, capace di presentarsi soltanto in un numero finito di stati distinguibili. Ma nel suo uso, la mente diviene invece dinamica e, mentre sempre nuove intuizioni le si affacciano, essa si sviluppa di continuo. "Benché ad ogni stadio di sviluppo della mente il numero dei suoi stati possibili sia finito, non c'è ragione per cui questo numero non debba convergere all'infinito nel corso dello sviluppo di essa"1.
Con la consueta lucidità, Gödel non mancava di distinguere tra le personali opinioni e quanto deducibile in modo legittimo dai teoremi di incompletezza. Come si è detto, egli non reputava sufficienti i suoi risultati, a escludere l'ipotesi di una affinità tra menti e macchine.
E forse l'unico sbocco per la disputa inconcludente, scatenata attorno ai libri di Hofstadter e Penrose, sta proprio nella constatazione che i teoremi di Gödel non offrano di per sé quell'elemento decisivo e probante, per stabilire, tra il modello computazionale della mente e il suo contrario, quale sia quello veritiero.
Per chi già crede, come Hofstadter, a una fondamentale somiglianza tra i processi mentali e l'istanziazione di un programma, i teoremi di Gödel indicano un limite costituzionale a ciò che all'uomo è dato sapere su se stesso. Per chi invece, come Penrose, rivendica una altrettanto basilare differenza, i medesimi teoremi vengono a significare che nell'uomo vive un'idea di verità irriducibile ai meccanismi di qualsiasi sistema formale.
Ma, in entrambi i casi, più che fornire una prova discriminante, i teoremi si interpretano in funzione di ciò che con essi si desidererebbe dimostrare. Come se l'essenza algoritmica o, all'opposto, non computazionale del pensiero fosse già stata provata per vera, si traggono dai teoremi, piegati a quelle convinzioni, conseguenze con le quali si pretende poi di sostenere, come se avessero respiro autonomo, proprio quel che le motiva. La querelle di questi autori contemporanei sfiora spesso la sterile polemica e, bramosa di strappare consensi, scambia le proprie speranze per scientifiche deduzioni. Il singolare, involontario abuso, che induce a traslare il risultato di incompletezza dai sistemi formali alle menti, accomuna Hofstadter e Penrose, i loro emuli e i loro detrattori. Ma, qualunque sia il punto di vista con cui si vogliono esaminare i processi cognitivi, se c'è una risposta ultima alla scelta di un modello per la mente, essa non sembra riposare nel teorema di Gödel.

NOTE

1. Citato in Wang, H., op. cit., p. 341.


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