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Odi Nemee

di PINDARO

(Traduzione di G. B.)

Indice


Ode I

  A Cromio etneo vincitore col carro

  Ortigia, o tu d' Alfèo sacro ristoro,
Germe di Siracusa,
Di Cintia onor, di Delo alma sorella,
Da te partendo la sonante Musa
Risveglia inno canoro
Ai corridor che piede han di procella,
E a cui di Giove etnèo
L'implorato favor destro si feo.
  Di Cromio la quadriga vincitrice,
E il sacro agon di Neme
Sveglian d'aonie lodi aura cortese.
Fidato ai Numi e a sue virtù supreme
Il garzoncel felice
Giunse colà dalle primiere imprese,
U' d'ogni ben già lieti
Saluta Pindo i coronati atleti.
  Or per l'isola bella ergeva il volo,
Cor mio, pur mi consiglio,
La qual diè Giove a Proserpina in dono;
Ed assentiva coll'eterno ciglio,
Che nel trinacrio suolo,
Ove ride la copia, alzasse il trono,
E alle città fiorenti
Bei giorni ordisse di felice eventi.
  A lei pur cesse il fulminante padre
Equestre gente amica
Di ferrei brandi, e di guerrieri studi,
E non ignota all'agonal fatica
Là dove audaci squadre
La fronte anelan degli olimpii ludi.
Gran vanto alzar mi piace,
Ma so côr l'ora e favellar verace.
  Però di Cromio nell'augusto tetto
Sciolgo soavi accenti,
Mentre s'adorna l'ospital convito;
Chè amico suole ai peregrin frequenti
Schiuder costui ricetto.
Così, se labbro follemente ardito
A morder s'affatica,
Spargon sul fuoco i buoni onda nemica.
  Altri ad altro piegò; ma ognor si denno
Le tracce di natura
Premer, se dritta via correr ne piace.
Uopo è nei rischi di virtù sicura;
Giova ai consigli il senno
Ch'apre sui tardi casi occhio sagace.
Or questa doppia sorte,
Figlio d'Agesidàmo, è a te consorte:
  Non tu celi nell'arche ampio tesoro,
Negato a splendid'uso,
Ma sì lo spargi che per fausti eventi
Della gloria il cammin ti sia dischiuso:
Nè certo altro ristoro
Più dolce move a confortar le menti
Dei faticosi prodi
Che speranza d'onor viva e di lodi.
  Ma desioso a favellar d'Alcide,
Cromio, rapir mi sento,
Membrando in cor le gloriose prove,
Dell'età più felici alto portento,
Quando scender si vive
Dal materno alvo il gran figliuol di Giove:
Chè negli augurj suoi,
O illustre vincitor, contemplo i tuoi.
  Noto a Giuno superba il divin germe
Godea del ciel sereno,
E col fratel posava in crocei veli:
Ma la Saturnia, lacerata il seno
D'aspro geloso verme,
Duo volanti spedìa draghi crudeli,
Che ratti entrâr le soglie,
Ove del rege partoria la moglie.
  Avidamente in tortuose spire
Stringean l'eccelso figlio,
Quand'ei levossi alla tremenda guerra;
E fatal prova nel premier periglio
Dando d'immenso ardire,
Con mano inevitabile n'afferra
Gli orridi mostri insani,
E strangolati gli divelle in brani.
  D'Almena intanto le atterrite ancelle
Instupidir ne vedi;
Ad essa fuori del beato letto
Pallida, senza vel balzando in piedi,
Lanciarsi in mezzo a quelle:
D'amor piena la vedi e di sospetto
Sui figli suoi prostesa
Dell'empie belve allontanar l'offesa.
  Veniano a schiere i capitani armati
Del chiaro suol tebano:
Primo fra quelli Amfitrion, l'acciaro
Nudo scuotendo nell'invitta mano,
Piangea gli acerbi fati:
Chè domestico mal si giunge amaro,
Quando sull'altrui duolo
Suol estranea pietà strisciarsi a volo.
  Fra gaudio e fra stupor l'alto guerriero
Perdendo muto stette
Appena scorse la virtù del figlio,
E i segni orrendi delle sue vendette.
Ben vide in suo pensiero
Come dei Divi l'immortal consiglio
Converse in lieta sorte
L'udita risuonar nuova di morte.
  Poi Tiresia di Giove inclito vate
Chiamò fra quelle squadre,
E tutte il veglio del garzon le prove
Pubblicamente discoperse al padre;
E quante avrìa domate
Per mar, per boschi orride belve e nuove,
E quanti ai fati acerbi
Tratti avrebbe, dicea, spirti superbi.
  Ed aggiungea che quando gl'immortali
Co' figli della terra
Un giorno là nella flegrèa pianura
Scendesser vôlti a formidabil guerra,
Trafitta da' suoi strali
Vedrebbesi piegar la gente impura,
E rovesciata e doma
Bruttar nel limo la lucente chioma.
  E alfin quel Divo di perenne calma
L'ore goder serene,
E conseguir fra i santi Numi accolto
Delle sue lunghe gloriose pene
La meritata palma.
Là sposo ad Ebe dal fiorente volto,
Caro agli occhj paterni,
Farìa d'inni sonar gli spazj eterni.

Ode II

  A Timodemo di Atene Pancraziaste

  Gli Omeridi cantori
Muovon da Giove il suon degl'inni ascrèi:
Ne' famosi di Giove antri nemèi
Raccolse i primi allori
Il giovinetto prode
Signor di questa lode.
  Di Timonòo la prole
Sul paterno sentier dritta si tiene,
E grido aggiunge alla fiorente Atene;
Quinci onorar si vuole
Di frequente corona
Sull'Ismo, ed in Pitona.
  Stanza ha Orion vicina
Alle montane Plejadi consorti:
E guerrier sommo può nutrir tra i forti
L'invitta Salamina:
Ettor sel seppe, quando
Scontrò d'Ajace il brando.
  Le agonali fatiche
Te leveranno, o Timodemo al polo.
Chiaro è d'Acarne tra gli eroi lo stuolo
Sin dall'etadi antiche;
E sempre i tuoi maggiori
Ebbero i primi onori.
  Di Cirra al giogo appresso
Quattro volte per lor l'agon fu vinto;
D'otto trionfi gli arricchìa Corinto
Nel pelopèo recesso:
E sette lor porgèa
Fior la tenzon nemèa.
  Oh! quanti allor mietero
Di Giove ai ludi nella patria sede!
Giove pertanto celebrian, chè ride
Il vincitore altero;
E lieto voli all'etra
Suon di gioconda cetra.

Ode III

 Ad Aristoclide di Egina Pancraziaste
  Madre de' cigni ascrèi, Musa divina,
Colà dei Dorj alle famose sponde,
All'ospitale Egina,
Volgi, ti prego, i generosi studi.
Oggi di Neme ai ludi
Ritornaron le sacre ore gioconde,
E dell'Asòpo all'onde
Fervon eletti cori,
I bramati aspettando inni canori.
  Altri si pasce d'altro voto il core,
Ma compagne ai trofèi splendide lodi
Desira il vincitore.
Dunque fuor del mio sen, figlia di Giove,
Larghe sorgenti e nuove
D'eccelsi derivando eterei modi,
Da Giove muover godi,
Ch'io sposerolli intanto
All'auree cetre de' fanciulli, e al canto.
  E grata sonerà la mia fatica
Alla regina del beato lido,
Ove l'etade antica
Dei Mirmidòni salutò le torme.
A questi eroi conforme
Non oscuronne Aistoclìde il grido,
Nè sull'opaco nido
Della belva nemèa
Stanco dai colpi, o dal lottar cedea.
  Quinci l'alme cogliea frondi gradite,
Che dolce son, poichè cessâr gli sdegni,
Ristoro alle ferite.
Me se risponde in lui l'alta baldanza
Alla gentil sembianza,
E famoso s'estolle infra i più degni,
Oltre gli erculei segni
Di torcere il naviglio
Per negato oceàn fora periglio.
  Testimoni colà dei flutti estremi
Il divo Alcide prescrivea le mete
Ai faticosi remi;
Poichè distrusse negli equorei chiostri
Ben mille orridi mostri,
E spontaneo tentò le vie segrete,
D'onde rostrato abete,
Ritorno aver secondo
Potesse alfin dal visitato mondo.
  Ma qual di conseguir lido straniero
Con temerario error, cor mio, t'illude
Insolito pensiero?
Ad Eaco devi, e alla regal sua prole
Gioconde ordir parole,
Se ognor ne' carmi d'esaltar virtude
Alta ragion si chiude:
Mai peregrin subbietto
Alle Camene non sonò diletto.
  Vaglian paterni vanti: all'inno ascrèo
Quinci materia n'offrirem divina.
Qual ebbe onor Pelèo
La fatale svellendo asta di morte?
Ei solo in sulle porte
D'Ioclo sparse l'ultima ruina,
E all'alma Oceanina
Dormì gradito accanto,
Dopo l'affanno sì diverso e tanto.
  Da Telamone, in marzìal conflitto
Presso all'auriga del possente Alcide,
Fu Laomedon trafitto.
Ei fulminò nell'iperboree foci
Le Amazzoni feroci,
Nè sbigottito pel timor si vide   
Che spesso altrui conquide;
Ma nelle dubbie cose
All'altezza del cor la man rispose.
  Ingenita virtù s'erge sublime:
Sol chi s'arma dell'arte e s'avvalora,
Incerte l'orme imprime,
E indarno volge a cento obbietti e cento
L'indocile talento.
Finchè presso Chiron facea dimora,
Sebben fanciullo ancora,
Mille cimenti e mille
Affrontava per gioco il divo Achille.
  E osò vibrar di corta punta un dardo
Pari nel volo agli aquiloni sonanti,
E nell'agon gagliardo
All'estreme spingendo ore fatali
Leoni aspri e cinghiali,
Di Saturno al figliuol recava innanti
Le membra palpitanti:
Pure il sest'anno appena
Sulla bionda ridea  fronte serena!
  Delia e Minerva per deserti lidi
Tenean sovr'esso il cupid'occhio intento,
Allor che senza fidi
Veltri, o di lacci tortuoso inganno,
Dava mortale affanno
Ai cervi che scotea freddo spavento;
Mentre sfidando il vento,
Agil volava e destro
Il degno alunno del divin maestro.
  Nell'alpestre ritiro ascese un giorno
Giason Superbo, e per Chiron si fea
Di bei precetti adorno:
Fuvvi Esculapio, e la fatal virtute
Scoprì dell'arti mute.
Pel santo veglio alla cerulea Dea
Pelèo la man porgea,
E il glorioso figlio
Fermo quindi ottenea braccio e consiglio.
  Sicchè all'alta Ilìon spinto dai venti,
L'aste, le torme, e il fremito guerriero
De' Licj combattenti,
E de' Frigi, e de' Dardani vincesse:
Poi l'orrid'armi e spesse
Sgombrando alfin dell'Etiòpe altero,
Al bruno condottiero
Squarciar godesse il petto,
E tornar gli negasse al patrio tetto.
  Quinci alto lume sfolgorar ne suole
Agli Eacidi eroi, Giove superno,
Ch'eglino son tua prole,
E tu di questo generoso agone,
Per cui dolce canzone
S'innalza tra i garzon, serbi il governo.
Grido s'acquista eterno
Il vincitor frattanto,
E cresce Egìna delle Muse al canto.
  Esperienza le grand'alme addita,
Cui ben sì denno i faticosi allori.
La fresca età fiorita
Di giovenile ardir prove richiede:
Viril fronte si vede
Per altri superbir degni sudori;
E a più maturi onori
Più tarda ora ne desta
Chi tuttor l'agonal polve calpesta.
  Ma incanutito eroe lieto s'affida
A tranquille virtudi, e ne' diversi
Sentieri ad altri è guida.
Tal crebbe Aristoclide, e tale attende
Le senili vicende.
Oh salve, e molli rugiadosi versi,
Di latte e mele aspersi,
Abbiti, amico, in dono,
E dolce ognor d'eolie tibie il suono!
  Tardi cantai; ma nondimen somiglio
Aquila illustre, ove il desio l'appelli
A insanguinar l'artiglio
Su nobil preda dall'eteree piagge;
Mentre vil brama tragge
Garruli corvi su palustri augelli.
Tu intanto, o prode, abbelli
Negl'inni ascrèi la gara
D'Epidauro, di Neme, e di Megàra.

Ode IV

 A Timasarco di Egina lottatore

  A tollerati affanni
Ottima l'allegrezza offre ristoro,
E ne compensa i danni
Figlio alle sante Muse inno canoro:
Nè tal per caldo umore
Delle membra il rigore
Vien molle, come al prode
E' balsamo la lode.
  Vivon gli ascrei concenti
Più lungamente delle chiare imprese,
Qualor da eccelse menti
Li tragga delle Grazie aura cortese.
Deh tal deh! questo sia
Ch'apre al coro la via,
Giove cantando, e Neme,
E Timasarco insieme.
  Per Temi, onde s'onora,
Oda Egina ospital le mie parole:
Se poi godesse ancora
Timocrito tuo padre i rai del sole,
Di queste ingenue lodi
Pur ritentando i modi,
Sul delfico strumento
Sciorrìa novel concento.
  Monil d'aurea corona
Nell'Erettèo confin tolse quel forte,
E in valle di Cleona,
E presso Tebe dalle sette porte;
Quando i Cadmèi con pronte
Mani gli ornâr la fronte
Dove in eterna pace
Amfitrìon si giace.
  Nè peregrin tra quelli
Allor comparve l'eginese atleta,
Ma rincontrò fratelli,
Cui sorride amistade antica e lieta:
Ei di sue glorie il giorno
Nell'ospital soggiorno
Mirò contento, e vide
L'alta magion d'Acide.
  Colpîr l'Iliaca terra
Alcide e Telamon di fato acerbo,
Ai Meropi fêr guerra,
E steser vinto Alcìoneo superbo:
Pur seppe il fier gigante
Prostrar d'un sasso innante
Sei cocchj e sei, che avièno
Gemino duce in seno.
  Di belliche vicende
Chi non mi presta fè s'accusa ignaro:
Guerrier che mille offende
E' percosso talor di colpo amaro.
Ma pone il metro e l'ora
Freno alla Dea canora,
E voglioso m'appella
Cintia che appar novella.
  Dell'acque allettatrici
Se il bel favor, cor mio, non ti seduce,
Saettando i nemici
Cammineremo per sentier di luce:
Mediti pur consigli
D'orrida notte figli
Chi livid'occhio volve:
Andran per esso in polve:
  L'alta virtù che in seno
La regina fortuna un dì m'infuse
Non fia che venga meno
Per lunga età, se il ciel m'ami e le Muse.
Dunque, mia dolce lira,
Come il desio n'inspira,
Di lidio mele aspersi
Tempra sonanti versi.
  E volin grati a Egìna
E grati a Cipro, ov'ebbe Teucro impero;
Ma sorge in Salamina
L'eccelso trono del german guerriero:
Nella famosa sede,
Cui l'onda intorno fiede
Del risonante Eusino,
Stassi Achille divino;
  Di Ftia l'ermo ritiro
Si piacque a Teti, che i destin ne prese,
E sull'immenso Epiro
Lo scettro vincitor Pirro distese.
Sparsi di gregge i monti
Qui levan l'ardue fronti
Da Dodona  selvaggia
Sino all'ionia spiaggia.
  Del Pelio alle radici
Prostrò d'Acasto la superba sede,
E cattiva ai felici
D'Emona abitator Peleo la diede;
Nè valse contra il prode
D'Ippolita la frode,
Nè in man del reo consorte
L'insidiosa morte.
  Con dedaleo consiglio
Tentò di Pelia il germe arti crudeli:
Ma fugonne il periglio
Chiron servendo al regnator de' cieli:
Vinte Peleo le ardenti
Fiamme, gli artigli, e i denti
D'aspri leon, si giacque
Sposo alla Dea dell'acque.
  E in bel cerchio sederse
Dell'Olimpo e del mar vedeva i regi,
Quando ciascun gli offerse
Durevol possa e non caduchi fregi.
Ma quale ardir m'invade?
Oltre l'estrema Gade
Di conseguir non lice
L'occidental pendice.
  Ai regni dell'Aurora,
Finchè n'è dato, ritorciam le vele
Della scorrente prora,
E schiviamo, cor mio, l'onda infedele.
Degli Eacidi prodi
Le gloriose lodi
Tutte a ridir non vale
La lingua del mortale.
  Sull'Ismo, in Pisa, e in Neme
Ai Teandridi i' vengo illustre araldo
Delle gare supreme,
Onde traggon gli eroi vigor più saldo.
Mai senza i fior più lieti
Quei generosi atleti
Alla paterna sede
Non rivolgeano il piede.
  Di trionfali carmi
La tua gente si fe' ministra, e donna:
Ma se di parii marmi
Degg'io levar più candida colonna
O vincitor sovrano,
Al materno germano,
Al degno monumento
Callicle fia contento.
  Come per fiamme ardenti
Di novello fulgor s'accende l'oro,
Così gli ascrei concenti
A generoso ardir crescon decoro:
E uguali ai gran monarchi
Di ben, di gloria carchi,
Erge sonante cetra
I vincitori all'etra.
  Or Callicle diletto,
Abitator del pallido Acheronte,
Dal facondo mio petto
Tragga d'inni soavi etereo fonte:
Chè l'ismico soggiorno
D'apio lui vide adorno
Nelle famose gare
Sacre al signor del mare.
  Lui fior d'alti garzoni
Infra i nepoti suoi fe' chiaro Eufàne.
Son segno altri campioni
Ad altri vati nell'età lontane.
Ma chi di belle imprese
Esemplo altrui si rese,
In più felici note
Ei celebrar le puote.
  Ei sol d'inno rivale
Potrìa vincere il suon, narrando come
Nel cimento agonale
Melesia di sudor bagna le chiome,
E all'opre infiamma i petti
Di pronti giovinetti;
Blando co' buoni, e fero
Coll'inimico altero.

Ode V

 A Pitea, figlio di Lampone, Pancraziaste

  Scultor non son, nè sovra immobil piede
Muti sembianti a figurar m'inchino:
Ma ben di pino in pino
Va dall'enopia sede,
Vanne, castalia Diva,
E di' come rapiva
Il gagliardo Pitèa, figlio a Lampone,
Nel pancrazio nemèo degne corone.
  Certo non anco di bei frutti padre
Il tenerello fior gli ombra le gote.
Ed illustrar ne puote
Con fatiche leggiadre
L'alta prole divina,
Ch'ebbero in sen d'Egìna,
Larga d'ospizj non concessi altrove,
Colle figlie del mar Saturno e Giove.
  La fortunata sede a render chiara
Per rapidi navigli, e fervid'alme,
Ergendo al ciel le palme,
Del grand'Ellenio all'ara,
Voti facean sinceri
D'Endeide i figli alteri,
E Foco, alto signor, che Psamatèa
Sul vicin lido generato avea.
  Ma gran fatto a narrar che Temi offese,
Quando fuggian coloro il suol natale,
E demone fatale
Vendicator discese,
Mi tingo di vergogna:
Musa, tacer bisogna,
Chè ignuda verità non piace ognora
E un bel tacer tra i saggi anco s'onora.
  Degli Eacidi eroi l'inclita possa,
Gli ampi tesori, o delle pugne il vanto
Se a me dimandan canto;
Al salto immensa fossa
Qualcun mi schiuda innante:
Agilità di piante
Mostrar saprò maravigliosa e sola;
Oltre i confin del mar l'aquila vola.
  Erse propizio all'etra inno concorde
Nel Pelio monte delle Muse il coro,
E Febo in mezzo a loro
Sull'arpa setticorde
Ne regolava i modi:
Delle superne lodi
Gli omaggi primi il re del tuon godeo,
E parte n'ebber poi Teti e Pelèo.
  Elle dicean come tendesse al forte
Ippolita gentil lacci d'amore,
E come osasse in core
Del credulo consorte
Freddo versar sospetto
D'insidiato letto:
Dei Magneti frattanto era il tiranno
Debil pur troppo al tenebroso inganno.
  Ahi ben altro era il ver! Con molle ingegno
Colei tentò quel giusto al sozzo imene:
Ma le parole oscene
Lo riempîr di sdegno:
Ei della donna infame
Vuote rendea le brame,
E paventò la fulminante mano
Dell'ospital genitor sovrano.
  Fausto mirollo, ed assentì col ciglio
L'eterno Re cui terra e ciel s'inchina,
E vaga Oceanina
Nell'immortal consiglio
Fermava in nodo amico
Al garzoncel pudico,
E al cor parlava del marin fratello,
Che lieto affine si legasse a quello.
  L'udì Nettun, ch'Ega lasciando a tergo
Spesso all'ismico suol rivolge l'orme:
Qui giovenile torme
Grato gli danno albergo
Fra tibie e fra carole:
Qui combatter si suole;
E qui compagna all'uom sin dalla cuna
Arbitra del valor siede fortuna.
  E tu posando alfin, saggio Eutimène,
Della vittoria in braccio, al patrio suolo
Sollecitasti il volo
Delle sante Camene;
E grido aggiunger puote
L'illustre tuo nipote,
Pitea, che muove altier ne' passi tuoi,
Alla grandezza de' cognati eroi.
  Lui Neme scôrse alle bell'opre altere,
E il patrio mese, cui sorride Apollo;
La patria incoronollo
Infra le uguali schiere;
Nè rimanea conquiso
Sul bel colle di Niso.
Oh lieta Egìna, ove ogni cor s'accese
Dell'alta brama di sudate imprese!
  Or membra, o vincitor, ch'agile e destro
Avesti per Menandro almo trofeo.
Nei confin d'Erettèo
Sollecito maestro
Alle agonali prove
Fia pur che ognun ritrove.
Ma tu, mio core, ogni timor dispoglia,
Se Temistio a cantar l'estro t'invoglia.
  Ergi la voce, e dà le vele ai venti,
E grida sì che ogni angol ne risponda:
Sull'epidauria sponda
In gemini cimenti
Ei colse i primi onori;
E bei serti di fiori
Ad Eaco illustre di sacrar fe' vanto:
Chiamò le Muse, e le si vide accanto.

Ode VI

 Ad Alcimide di Egina giovane lottatore

  Dei Numi e dei mortali
Una è la stirpe, ed una
Madre ne porse origine:
Eppur di sorti eguali
La dissimil fortuna
Ne toglie allo splendor.
  Polve noi siamo ed ombra,
Mentre resiste il Cielo
Di tempra inalterabile;
Ma degli Dei s'adombra
Sotto quest'umil velo
Qualche scintilla ancor.
E mente abbiam divina,
O divo in seno il core,
Sebben cinto è di tenebre
Ciò che per noi destina
Nelle brevissim'ore
Fatal Necessità.
  Ben con segni veraci
Alcimide gentile
La chiara sua progenie
A campagne feraci
Ed emula e simile
Oggi mostrando va.
  D'alterne messi e liete
Elle talor fan dono
Ai faticosi popoli:
In placida quiete
Talor composte sono
Le forze a rinnuovar.
  Così dai ludi eletti,
Ove il favor godeo
Dell'immortal Saturnio,
Tornando ai patrii tetti
Il lottator nemèo
N'è dato salutar.
  Qual batte aspro sentiero
Il cacciatore errante,
Tal questo eroe magnanimo
Del fervid'avo altero,
Del gran Prassidamante
Le tracce seguitò.
  Di lui che apparve cinto
Dell'olimpiaca fronda,
E grido aggiunse ad Eaco;
Cui cinque fior Corinto,
E tre l'ombrosa sponda
Di Neme tributò.
  D'Agesimàco prode
Figlio primier si rese
Per lui pur noto Soclide.
Or suon d'eterna lode
Per le tentate imprese
Circonda i tre campion.
  Entro i recessi achèi
Non fur sì splendid'alme,
Cui tanto usasse rendere
Col favor degli Dei
Arbitre delle palme
Dei pugili l'agon.
  Benchè m'innalzo all'etra,
Rammento il segno ancora:
Scoti, gentil Calliope,
La gravida faretra,
E dell'armonic'ôra
Reggi propizia il vol.
  Per generoso vate
Gli spenti eroi son chiari,
Oper verace istoria;
Nè d'imprese onorate
Diè scarsi esempli o rari
Dei Bassidi lo stuol.
  Sin dall'etadi antiche
Di mille palme il vanto
Per essi ovunque ostentasi,
E delle Dee pudiche
Sorgon per essi al canto
I liberi cultor.
  Del cesto armò la destra
Callia, gentil rampollo
Di così fervid'anime,
E in delfica palestra
Con placid'occhio Apollo
Lo scôrse vincitor.
  Qui sulla sera i cori
Trasse al castalio fonte;
E triennali vittime
Cadendo i pingui tori,
Appo l'ismiaco ponte
Nettuno l'onorò.
  Fra l'alme generose
Ei vincitor poteo
Di Filunte discendere
Sotto le vette ombrose,
E del leon nemèo
La fronde meritò.
  Di lode ampj sentieri
L'isola a ornar dei forti
Per colte menti schiudonsi;
Chè gli Eacidi alteri
Poggiaro a eccelse sorti
Sull'ale di virtù.
  In mar ne vola e in terra
L'augusto nome intorno,
E poi che cadde Mennone
Nella dardania guerra,
Quel nome udito un giorno
Dagli Etiopi fu.
  Nuovo piombar si vide,
Su loro alto periglio,
Allor che dalla fervida
Biga scendea Pelide,
E dell'Aurora il figlio
D'asta immortal ferì.
  Ma dove sono? Ignote
Non furo alle Camene
Quest'ampie vie di cantici
Anco in età remote;
E sull'istesse arene
Corro pur io così.
  E benchè in mar profondo
Sol mova il cor quel flutto,
Che intorno al legno volvesi,
A deplicato pondo
Però non io rilutto
Il dorso oggi curvar.
  E vengo e grido come
L'alto Alcimide aggravi
Di cinque e venti lauri
Le giovanili chiome,
E nuovo onor degli avi
Ne' sacri ludi appar.
  Nè tacio come un giorno
A te nemica e al forte
Timida, o caro giovine,
Presso l'eleo soggiorno
La temeraria sorte
Gemini fior negò.
  Melesia, e te che uguagli
D'agil delfino i modi;
Che, qual nocchier le redini,
Reggi ne' bei travagli
La mano e il cor de' prodi,
Cantando esalterò.

Ode VII

 A Sogene di Egina giovane vincitore nel pentatlo

  O tu che assisa tra le Parche sei,
Figlia dell'alma Giuno,
E genitrice di ridente prole,
Odi, eccelsa Lucina, i voti miei.
Nè il vel di notte bruno,
Nè il luminoso sole
Avremmo senza te mai scorto al mondo;
Nè di vigor giocondo
Piena le membra ognora
Mai n'avrebbe raccolti Ebe tua suora.
  Null'uom con egual sorte al giorno è nato;
E quelli al suol deprime,
E questi leva più felici all'etra
L'eterna lance nella man del Fato.
Ma cantico suplime
Sulla percossa cetra
Si desti all'immortal Sogene, o Diva;
Chè sol per te rapiva
Il giovinetto altero
L'onor cui cinque gare oggi gli diero.
  In suolo amico degli aonii studi
Egli sortì sua stanza,
Ove d'Eàco i bellicosi figli
Crescon devoti allo splendor dei ludi.
Quindi se alcuno avanza
Chiaro ne' bei perigli,
Dolci acque aggiunge delle Muse ai fonti:
Ma fia che alfin tramonti,
Cinta di fosco velo,
Se carmi neghi alla virtude il cielo.
  Sol ove a celebrar le splendid'opre
Spargonsi ascrèi concenti,
Del sincero valor l'inclito raggio
Come in lucido speglio allor si scopre.
Della terz'alba i venti
Prevede il nocchier saggio,
E tanto pregia quel vicin tesoro
Che nol darìa per oro:
Passan con egual sorte
Ricco e mendico nell'avel di morte.
  Già più grandi cogliea l 'Itaco astuto
De' mali suoi le lodi,
Dacchè narrando lo Smirnèo cantore
Di mel soave gli rendea tributo:
E ancor gli eccelsi modi
Scendon sì dolci al core,
E tal le vaghe finzioni oneste
Sublime arte riveste,
Che qual men giusto vede
Gl'immaginati casi adora e crede.
  Ben cieco è il vulgo. Chè mirar più dritto
Se ognun sapesse in terra,
Forse irato per l'arme il divo Ajace
Con proprio ferro si sarìa trafitto?
Lui nell'iliaca guerra,
Campione su tutti audace,
E sol minore al gran figliuol di Teti,
Spingea sui lievi abeti
La dolce aura serena
A ricondur la contrastata Elena.
  O che l'attenda, o no, sovra ti cade
La pigra onda letèa ;
Ma quanti han grido dal vocal Permesso
Riconoscer sanno a più famosa etade,
Della magion cirrèa
Nel tacito recesso
Entro marmo feral chiuder si vide
Il germe di Pelìde,
Poichè Ilion distrutta
Per lui diè fine alla decenne lutta.
  Lunge da Sciro divagando i remi
Venne in Efira il forte:
Poi Molossia reggea con breve impero,
Ma nei figli lasciò gli onor supremi.
Alle delfiche porte
Di là giungea l'altero,
Recando al Nume le trojane spoglie;
E nelle sacre soglie
Per le mense divise
Nacque tumulto, ed ampia man l'uccise.
  Pianse Delfo ospital, ma empîrsi allora
Le arcane sorti ascose:
Degli Eacidi un re dovea posarse
Nell'ermo chiostro ove il gran Dio s'onora,
E alle pompe famose
De' prodi arbitro farse
Tra mille sugli altari ostie cadenti.
Bastin tre soli accenti:
Là testimon verace
Di vegliar gli alti riti egli si piace.
  Destanmi, Egina, in cor novelli ardori
Di Giove i figli e i tuoi;
Ma discreta misura ovunque è bella,
E il mel disgusta, e di Ciprigna i fiori.
Vario è l'ingegno in noi,
E vario ben n'appella:
Pur mai non è che alcun riporti vera
Felicitade intera.
A cui la Parca diede
Non caduca quaggiù piena mercede?
  Ma per te suol ridenti giorni ordire,
Tearion diletto;
Nè trattando tra i forti opre onorate,
Ti mancò tardo senno, e pronto ardire.
Quindi a fugar m'affretto
L'invidia, ingenuo vate,
E come in orticel purissim'onde
Guido lodi gioconde;
Chè ognor di questi fregi
Si denno ricambiar gli spirti egregi.
  Nè accuserammi il greco seme accolto
Oltre l'Ionio mare,
Se ad ospital virtù saldo m'attegno,
E lieto ai cittadin discopro il volto.
Odio le stolte gare
Di violento ingegno,
E sì ne spero d'aurea luce adorni
Veder gli estremi giorni;
Nè alcun dirà ch'io fui
Censor maligno, o adulatore altrui.
  Io giuro quindi, o fortunato atleta,
D'Eusseno alto rampollo,
Che vibrar non tentai qual eneo strale
La celere mia lingua oltre la meta.
Tu il sen traesti e il collo
Dalla polve agonale
Non molli di sudor, prima che oltraggio
Del sol ti fesse il raggio:
Ma ben ti scese in core,
Se fu duro il pugnar, gioja maggiore.
  Me non rampogni alcun, s'oggi del prode
Levando all'etra il nome,
D'immensa voce empio la selva intorno:
Facile io sono ad intrecciar la lode.
Ma cinger l'altrui chiome
Di verde serto adorno
E' lieve impresa. O garzoncel t'arresta:
E tu serena e presta
Musa t'inoltra, e dalli
Misto a candido avorio oro e coralli.
  Or di Giove a cantar dolce m'appella
L'illustre agon di Neme,
E ben dei Numi al sempiterno padre
Quivi si debbe la pimplèa favella.
Grave del divin seme
L'avventurata madre
Eàco partorì, che a vegliar prese
Il mio natal paese,
Ed ospite e germano
Superbisce d'averti, Ercol sovrano.
  Ma se l'uomo talor dell'uom si giova,
Quai benefiche voglie
Non saran tra vicini? E qual dipoi,
Se nosco è un Dio, sorte maggior si trova?
Or appo le tue soglie,
Nel suol degli avi suoi,
O domator di cento mostri e cento,
E' di posar contento
Sogene giovinetto,
Che per te serba un cor di figlio in petto.
  Anzi; qual usa fra superbe ruote
Starsi timon dorato,
Tal mertossi abitar l'alto campione
Infra le celle al nome tuo devote.
Così il dator del fato,
E Minerva, e Giunone,
Tu che i sudori altrui rendi felici,
Gl'impetra, o Divo, amici,
E grido in fresca etate,
E tarde accanto al padre ore onorate.
  Sorgan poi figli d'ogni pregio adorni,
E ceppo a miglior prole;
Talchè l'almo fulgor, ch'oggi s'onora
Cresca più vivo ne' remoti giorni.
Oda le mie parole
Chi Pirro disonora:
Non io così. Ma ritornar sul segno
E' povertà d'ingegno:
Sol garrula nutrice
Le conte fole al bambinel ridice.

Ode VIII

 A Dinia, figlio di Mega, corritore dello stadio

  Dell'alma equorea figlia
Nunzia soave, e dei leggiadri affetti,
Che siedi sulle ciglia
D'amorose donzelle e giovinetti,
Diva Beltà pudica,
Altri tu serbi amica
Sul grembo verginal,
Altri con man fatal
Sospigner godi.
  Ma grato è allor che lice
Sorprender la volante in torti errori
Occasion felice,
E nutrir l'alma d'innocenti amori.
Per cenno d'Ericìna
Al talamo d'Egìna
Già questi un dì volâr,
E a' bei piacer vegliâr
Dolci custodi.
  Quinci fiorì germoglio
Nell'opre invitto, e ne' consigli acuto.
Ch'ebbe d'Enona il soglio,
E da mille bramose alme tributo.
Dalle vicine genti
Venner duci potenti,
E dell'eroe sovran
piegâr sotto la man
L'alte cervice.
  Al nome suo devoti
Scendeano i prenci dell'alpestre Atene;
Di Pelope i nepoti
Abbandonavan le spartane arene:
Però d'Eàco innante
Alle onorate piante
Pregar per sè m'udrà
La diletta città,
M'udran gli amici:
  Mentre alla lidia cetra
Diverse sposerò note canore.
Pel corso stadio all'etra
E Dinia sollevando, e il genitore;
Ch'ambo il nemèo cimento
Trasse a divin contento;
Nè cade lo splendor,
Cui tessono al valor
Gli eterni Dei.
  Così di Cipro in seno
Cinira lieto di tesori apparse.
Ma benchè pronte sièno,
Musa, le penne, fia mestier posarse,
E respirare alquanto
Pria di seguire il canto.
Ebbe l'invitto re
Già splendida mercè
Dai cigni ascrèi;
  E ordir novelle lodi,
Segno a torvo censor, duro è periglio.
Piomba invidia sui prodi,
Nè suol contra i minori aprir l'artiglio.
Per lei sdegnando il sole
Di Telamon la prole
S'armò del suo pugnal,
E premio ebbe fatal
Di lunga guerra.
  In trista gara il forte,
Se fecondo non è, pospor si vede,
E alle menzogne accorte
Vien concessa talor bella mercede.
Così l'argivo stuolo
Di Laerte al figliuolo
Più ligio si mostrò;
Privo dell'arme andò
L'altro sotterra.
  Eppur lor braccio aperse,
La sovrana lanciando asta guerriera,
Ferite ben diverse
Sui primi eroi della nemica schiera,
Quando mill'armi e mille
Pugnâr pel morto Achille,
O quando in altro dì
A nuova strage uscì
Marte omicida.
  Ma cuor d'inganni fabro
Sul volgo in ogni tempo ebbe governo,
Nè invan trasmette al labro
Dolce sermon con vitupero eterno:
Ei menzogner deprime
Verace onor sublime;
E mentita virtù,
Che spettro inutil fu,
Sugli astri ei guida.
  Deh per me non si cada
In questi, o sommo Giove, empi costumi.
Ma poi che ingenua strada
Abbia quaggiù fornita, e chiuda i lumi,
Oscuri esempli e rei
Non lasci ai figli miei!
Altri racchiude in sen
Brama d'ampi terren,
Di fulgid'oro.
  Ma lodar solo io possa
Chi lode merta, e aver co' tristi guerra,
E caro a' miei, quest'ossa
Coprir m'avvenga della patria terra!
Per sagge alme sincere
Virtù sorge alle sfere,
Qual molle il tronco e il crin
Del pianto mattutin
Cresce l'alloro.
  Vario è il favor d'amico;
Ma grande è sempre ne' trionfi, e suole
Fede al valore antico
Spesso mertar colle febee parole:
Pur richiamarti, o Mega,
Dall'orco a me si nega,
E fia vano mirar
Dove si stende un mar
Torbido e vasto.
  Ai forti Cariàdi
Ben marmo illustre d'innalzar mi vanto,
E alle più tarde etadi
Premio di quattro serti ergere il canto.
Soglion le dee pudiche
Far dolci le fatiche,
E gl'inni pria s'udîr
Che contra Tebe uscir
Osasse Adrasto.

Ode IX

 A Cromio Etneo vincitore col carro

  E Febo e Sicìon lasciando a tergo,
Portiam di bei sudor lieta mercede
U' sorger di recente Etna si vede
Di Cromio all'aureo albergo.
Ivi ai frequenti peregrin dischiuse
Varchiam le soglie, o Muse,
Ed ivi ergiam sull'ale
Ardimentoso carme trionfale.
  Sulle vittrici ruote asceso il prode,
Alla gemina prole ed a Latona,
Che fausti veglian la vocal Pitona
Ama intuonar la lode.
Raffermato per lui ne viene intanto
Antico detto e santo;
Ch'opra a bel termin volta
Giacer non debbe nell'oblio sepolta.
  Però, se divin metro i forti onora,
D'arguta tibia il suon volger n'è d'uopo,
E il fremito di dolce arpa sonora
Alle rive d'Asopo.
Sacrò già quivi, al biondo Nume, Adrasto
Dei destrieri il contrasto;
Ed onorata e viva
Gloria all'alto campion quinci deriva.
  Ei dell'alma città reggendo i fati,
Splendide le apprestò pompe recenti
E Magnanimi atleti, e bei cimenti
Svegliò di cocchj aurati,
Allor che d'Argo lo vedea fugace
Amfiarao sagace,
E il civil odio interno,
E il torbido lasciar tetto paterno.
  Tolse di Talao ai figli e scettro e regno
La discordia feral, ma ricompose
Più saggio Adrasto l'anime sdegnose;
Costui cedendo in pegno
Al germe d'Oiclèo l'alta germana,
Che fu per oro insana,
Coll'emulo a gran nome
Salì tra i Greci dalle bionde chiome.
  Ed ambo a Tebe dalla sette porte
Guidaron poi malaugurate squadre,
Nè tuonando facea l'eterno Padre
Lieta sperar la sorte,
Ma contrario al partir dava consiglio;
Chè certo era il periglio
Ai cavalieri, e ai fanti
Nelle brune raccolti arme sonanti.
  Però, lor tolto il ritornar soave
Dall'onde Ismenie alle paterne soglie,
Al ciel mandavan dall'esangui spoglie
Fumo albeggiante e grave,
Mentre, sorgendo pei guerrier già spenti
Le sette pire ardenti,
In ampia bocca scissi
Dall'igneo telo si fendean gli abissi.
  E tal co' suoi destrieri al muto albergo
Dell'ombre il divo Amfiarào discese,
Pria che giungendol di mortali offese
Periclimène a tergo,
Gli empisse di rossor l'alma sicura:
Chè cede alla paura,
Qualor la sveglia il cielo,
Chi pur anco fiorì d'etereo stelo.
  Deh, se possibil fia, l'arduo cimento,
Cui l'avversa destò Tiria coorte,
Arbitro della vita e della morte,
Sperdi, gran Padre, al vento;
E perenni agli Etnèi fregi supremi
Tessendo insiem con Temi,
Rendi l'eletta schiera
Pubblica norma di virtù sincera!
  Là mostrar sanno di regal tesoro
Famosi cavalier più grande il core.
Ma fè chi dammi? Nel cammin d'onore
Cede Vergogna all'oro.
Pur chi d'equestre, o di naval conflitto
Ir vide Cromio invitto,
Com'ei fugò ne dica,
Tutto pien della Dea, l'ira nemica.
  Pochi han senno e valor, perchè sia vôlto
Di Marte il nembo sull'avverso stuolo:
Ma Ettòr levato a sì gagliardo volo
Presso Scamandro ascolto;
E là dove ruina Elòro al basso,
Della minaccia al passo,
Nel fior degli anni suoi
Questo a Cromio brillò vanto d'eroi.
  In altro dì farai, Musa gentile,
Dell'illustre guerrier le palme conte:
Or se giusto sudor si terse in fronte
Nell'età giovanile,
Gli ordiran lieti, e d'aurea sorte adorni
Le Parche i tardi giorni.
Chi fama ottenne ed oro,
Gli onor non cerchi dell'etereo coro.
  Ma qual di bei conviti esser custode
Suol dolce gioja che ti scende all'alma,
Tal cresce il fiore di recente palma
Pe generosa lode,
E fassi audace appo le tazze il canto.
Garzon, mescete intanto
D'eletta vita il figlio,
Ai fervidi cantor forza, e consiglio.
  E gorgogli ne' vasi folgoranti,
Che uniti alle febee degne corone
A Cromio ne recâr da Sicione
Le quadrighe volanti.
Oh se alle Grazie non ricorro invano,
Fa, genitor sovrano,
Ch'erga tai vanti al cielo,
E vibri al segno delle Muse il telo!

Ode X

 A Tieo, figlio d'Ulio, vincitore nella lotta

  L'alma città di Danao,
E delle figlie dalle sedi aurate,
Degno a Giunone ospizio,
O vergini sorelle, oggi cantate;
Chè ovunque Argo distese
L'immensa luce d'onorate imprese.
  Lungo sarìa di Perseo
Mostrar contro Medusa il senno invitto.
Frequenti al cenno d'Epafo
Torri levarsi contemplò l'Egitto:
E fama ebbe Ipermestra,
Che il cor seguiva, e trattenea la destra.
  La bionda Occhicerulea
Te, Dìomede, un dì rese immortale:
Te, caro al sommo Egioco,
La fulminata dall'eterno strale
Accolse Ismenia terra,
O vate Amfiarao, nembo di guerra.
  Anco di vaghe femine
Dai lucidi capelli Argo è ripiena;
E quando scese a Danae,
E quando al letto s'accostò d'Almena
L'onnipossente Giove,
Porgea di sì bel vanto inclite prove.
  Egli a Lincèo diè provido
Consiglio integro, e al genitor d'Adrasto:
Nutrì l'ire magnanime
D'Amfitrione in marzial contrasto,
E, ascoso il divin raggio,
Con lui fu padre di terren lignaggio.
  Sperdea li empj Teleboi,
L'alto guerrier, quando l'Eterno in Tebe
Scese, il volto imitandone,
E Alcide suscitò consorte ad Ebe,
Che nell'eterea sede
Della pronuba madre al fianco incede.
  Lingua non ho per tessere
Dell'argolico suol tutte le  lodi;
Nè ognor l'ingrata evitasi
Sazietà d'inopportuni modi:
Pur l'arpa agl'inni tendi,
E della lutta, o Dea, cura ti prendi.
  Dell'immortal Saturnia
Ne invita all'are l'agonal periglio,
E delle palme agli arbitri,
Poichè due volte combattendo il figlio
D'Ulio i bronzi rapìo,
E dolce il tenne di sue pene oblio.
  L'amica sorte scôrselo
Infra le greche squadre anco in Pitona,
E tolser le Pièridi
L'ismica in guardia, e la nemèa corona:
Tre volte appo Corinto
Fu primo, e tre nell'adrastèo recinto.
  Sul labbro, o Giove, un fervido
Voto ei raffrena, ma compir tu 'l puoi;
Tu che gli eventi moderi,
Qualor di belle gare ardon gli eroi.
Ben pari al gran favore
Chiudi l'alto garzon nel petto il core.
  Non io già muovo incognite
Voci all'olimpo regnator sublime,
E a quanti prodi anelano
Di sudata mercè toccar le cime:
Alle bell'alme invito
Fa Pisa lieta dell'Erculeo rito.
  Frattanto vicendevole
Concento altier per doppio serto al forte
Gli Attici cori ordirono,
Quand'ei, tornando alle Giunonie porte,
D'oliva l'auree stille
Quivi portò nell'operose argille.
  E le Grazie, e i Tindaridi
Gli eccelsi tuoi fregiando avi materni,
Ai crini lor tessevano
Di più vittorie, o prode, i fiori eterni;
Poichè d'onore ardenti,
Per mille gli guidaro aspri cimenti.
  Oh s'io d'Anzia e di Trasiclo
Dal genere divin traessi fonte,
Oh come in Argo impavida
Fra le turbe mostrar vorrei la fronte;
Qual superbo decoro
Di Preto la città non porse a loro?
  Già quattro allôr mieterono
Nell'ismie valli e nel nemèo ritiro:
Co' pieni dogli argentei
Dalla superba Sicìon partiro,
E dal pellenio albergo
Dell'onorato manto adorni il tergo.
  Taccio gli scudi e i tripodi
Di Clitòra, e Tegèa; taccio le prove
Nelle cittadi acaiche,
O presso le parrasie are di Giove,
Quando ottenean mercede
Per braccio invitto, o per fulmineo piede.
  Ma se gli almi Tindaridi
Fur lieti un giorno d'ospital ricetto
Nella magion di Pamfae,
Più meraviglia non accolgo in petto,
Che questi eroi sì destra
Provin natura in agonal palestra.
  Compagni all'Atlantìade,
E al grande Alcide gl'incliti fratelli,
La forte Sparta vegliano
E degli splendidi ludi i fior più belli:
E non fallaci Numi
Agli onesti campion volgono i lumi.
  Alternamente guidano
Col divo genitor sull'etra un giorno;
L'altro nascosti giacciono
Nel queto di Terapne imo soggiorno;
Nè sciolser mai lamenti,
Del conforme destino ambo contenti.
  Anzi che Nume il nettare
Ber sull'Olimpo con gl'Iddii Polluce,
Tal fato un dì sceglievasi,
Poichè il germano alla diurna luce
Mancò, giungendol'Ida,
Il ratto a vendicar, d'asta omicida.
  Sul piè d'annosa rovere
Di Tindaro il figliuol godea sederse,
E lui coll'occhio vigile,
Ch'ogni sguardo avanzò, Lincèo scoperse,
Mentre l'erma foresta
Dal Taigèto ad esplorar s'appresta.
  Là tosto gli Afaretidi
Giunser fremendo, e profanâr la mano
Di strage abbominevole;
Ma vendicolla il genitor sovrano:
Ecco al mortal conflitto
I passi accelerar Polluce invitto.
  Vedi al paterno tumulo
Quelli ritrarsi, e all'inimico in petto
Vasto scagliar marmoreo
Busto al signor dell'ime sedi eretto.
Pure il figliuol di Leda
Non è che pesto ne trabocchi o ceda.
  Ma innanzi alto lanciandosi,
Col  dardo il  fianco di Lincèo percosse.
Giove all'eterna folgore
L'ali disciolse fumiganti e rosse,
E n'ebber gli empj morte:
Tanto è duro il pugnar contro il più forte!
  Al valoroso Castore
Quinci affrettosse il pio german, nè spento
Trovollo ancor, ma l'anima
Con profondo sospir traendo a stento:
Ristette, e sul crudele
Destino fe' sonar pianti e querele.
  Di tante pene a sciogliermi,
Padre, chi muove? Ah me con esso uccidi!
Campion d'amici vedovo
Orbo è d'onore; e pochi sono i  fidi
Che sappian fra i mortali
Il comun peso tollerar dei mali.
  Tacque, e scendendo Egioco
Visibil fatto, a te, dicea, son padre;
E nato al giovin Tindaro
Sol teco egli sortì l'istessa madre:
Ma pur, se sceglier vuoi,
Diletto figlio mio, sceglier tu puoi.
  Ch'ove fuggir la squallida
Canizie agogni, e i cupi antri d'averno,
E a me sull'etra, e a Pallade,
E al sir che delle pugne ebbe il governo
T'aggradi esser consorte,
Ne pongo io già nelle tue man la sorte.
  Ma quando insister gioviti
Pel morente germano, e ugual vicenda
Brami con lui dividere,
Un dì fia d'uopo che sugli astri ascenda;
L'altro, del sole a' rai
Nascosto, tra le quete ombre vivrai.
  Sì disse il Dio, nè l'animo
Ad agitar del lagrimoso figlio
Surser dubbiosi palpiti;
Sicchè ne fece del german sul ciglio
Vita brillar novella,
E gli sciolse le labbra alla favella.

Ode XI

 Ad Aristagora figlio d'Arcesilao, e preside di Tenedo

  O Vesta, o tu di Rea
Leggiadra figlia, a' Pritanèi regina,
O suora a Giove, e alla Saturnia Dea,
La intemerata schiudi aula divina.
Quivi a raccor t'inchina
Aristagora tuo; quivi con esso
Al Simulacro appresso,
Ove adorata sei,
Guida gl'illustri Achei,
Che vegliano consorti
Di Tenedo le sorti.
  Te fra le Dee primiera
Coi doni onoran di feconda vite,
E sugli altari numerosa schiera
Svenan talor per te d'ostie gradite.
Per essi riverite
Son le suore di Pindo, e l'ospitale
Genitore immortale:
Perché li traggi, o Diva,
Dell'annuo corso a riva;
Nè lacrimosi eventi
Turbin l'eccelse menti!
  Arcesilào diletto,
Ben io ti chiamo avventuroso padre,
Che figlio avesti d'ammirando aspetto,
E rivestito di virtù leggiadre.
Ma se tra forti squadre
Mai ricco prence alle decenti forme
Valor mostrò conforme,
Ei rimembrar si voglia
Della mortal sua spoglia,
E come ognun si solve
Nella primiera polve.
  Sebben civica lode,
E dolce suon di numeri canori
Non dee negarsi all'animoso prode,
Che mietè fra i vicin sedici allori,
E onor co' suoi sudori
Per ardua lutta, o per pancrazio diede
Alla paterna sede.
Perché la lenta speme
Di patrio cor che teme
Negògli ambir corona
In Pisa, od in Pitona?
  Ch'appo il castalio fonte
Se apparso fosse il valoroso atleta,
O colà dove il Cronio erge la fronte
D'altere piante, e di bell'ombre lieta,
Non menzogner profeta
I' giuro, che primier l'avrian d'Alcide
Le quinquenni disfide
Levato al ciel sull'ali
Degl'inni trionfali:
Gli avrebbe Cirra offerto
Della vittoria il serto.
  Ma per superbia insana
Altri scende talor da somma altezza,
Altri sorte miglior tiensi lontana,
Poco fidando nella sua fortezza;
Chè di bell'alterezza
L'anima vuota, e di magnanim'ira
Indietro lo ritira.
Pur di Pisandro il sangue,
Che in quest'eroe non langue,
Dovea per poco in lui
Scoprirsi al guardo altrui.
  Di Tenedo nel suolo
Dalle rive Amiclee Pisandro scese
Col fido Oreste, e coll'eolio stuolo,
E quinci nasce il vincitor cortese.
Nel mio natal paese
Poscia per Menalippo onor perenne
Scegli il miglior cammino.
Chi verso un bene aspira,
Che aver non può, delira.

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