•  Indietro  •  Home  •  Autori  •  Titoli  •


Odi Pitie

di PINDARO

(Traduzione di G. B.)

Indice


Ode I

  A Gerone etneo siracusano, vincitore del carro

  Cetra, comun tesoro
Del pitio Nume, e delle bionde Suore,
Di gioja eccitatore
Te segue il passo, onde la danza è mossa,
Al dolce invito di tue corde d'oro
Obbedienti levansi i cantori,
Quando ai festosi cori
Tu gli accordi primier formi percossa.
D'eterne fiamme fumiganti e rossa
La folgore divina
Tu spegni, e s'addormenta
Del gregge alato l'aquila regina
Sullo scettro del Nume,
E lievemente d'ambo i lati allenta
Le impetuose piume.
  Tu nubi atre le addensi
Sul rostro adunco, e si compon tranquilla
La vigile pupilla;
Onde assorta colei nel divo incanto
A poco a poco va perdendo i sensi
E palpitando il curvo dorso estolle.
Al blando suono e molle
Pone le sanguinose aste da canto,
E pur del sonno si conforta intanto
L'istesso Dio dell'armi;
Chè placide son use
L'eteree menti a udir vezzi di carmi,
Se parli di Latona
L'industre figlio, e le canore Muse
Dalla succinta zona.
  Uom che a Giove è discaro
Odia la voce del pierio stuolo
Nell'ampio mar, nel suolo:
E rilegato nel tartareo fondo
Quella voce superna odia del paro
Tifèo, per cento teste orrido mostro,
Che nel cilicio chiostro
Crebbe nemico ai reggitor del mondo;
Ma sovra l'irto petto immenso pondo
L'ampio lido che frena
Di Cuma il flutto ondoso,
E Sicilia l'aggrava, e l'incatena
La cozzante col cielo
Altissima colonna, Etna nevoso,
Padre d'eterno gelo.
  Dall'ime sue caverne
D'inaccessibil foco escono ardenti
Vivissime sorgenti,
E vorticoso fumo infra i dirupi
Al ciel, finchè v'è giorno, andar si scerne.
Ma come l'ombra ricoperse i campi,
Tra spessi tuoni e lampi
Dell'agitato mar nei sen più cupi
Piomban ruotando le divelte rupi.
Tal volve di Vulcano
Quel mostro i gorghi orrendi,
Fero prodigio a riguardarsi e strano;
Pur novello ti fia
Portento ancor, se il peregrino intendi,
Che vien dall'erma via.
  Dirà tra le catene
Come inchiodato quel fellon s'adima
Dalla selvosa cima
Alle radici dell'eccelso monte,
E lacerando le incurvate schiene
Come ognor lo trafigga il duro letto!
Deh sempre a te diletto,
Deh sempre io t'abbia di letizia fonte,
O Dio che reggi la superba fronte
Del fecondo paese,
Dalla qual oggi chiama
La sua cittade il fondator cortese;
E lei nel pitio agone
Suonava il banditor, recando fama
Al cocchio di Gerone.
  Gusta il primo contento
Chi comincia a solcar l'equoreo regno
Sovra l'ardito legno,
Se come sorge del partir l'aurora
Il soffio ascolti il propizio vento;
Mentre al ritorno preveder ne lice
Aura ancor più felice:
Così quest'inno i bei principii onora,
E l'alte lodi più famose ancora
Saran ne' tardi giorni
Per volanti destrieri,
Per vaghi serti, e per conviti adorni.
Deh a questo suol di prodi,
Tu ch'ami d'Ascra il fonte, e in Delo imperi,
Pon mente, e a questi modi!
  Nascon dai sommi Dei
Del terreno valor le prove accorte,
E i saggi, e chi per forte
Man poderosa, e chi per lingua vale.
Ed io che di Geron cantar vorrei,
Non vibrerò con inesperta destra
Nella gentil palestra
Fuor dello scopo il glorioso strale;
Ma scagliando lontan, braccio rivale
Mi fia di vincer dato.
Deh sugli affanni acerbi
Perenne oblio diffonda il Tempo alato,
E sorte ognor più lieta
Coi donati tesor governi e serbi
Al fortunato Atleta!
  Ei risvegliar nel core
Ben gli potria scorsi pensieri ed alti,
Narrando in quali assalti
Con fermo petto superò contese,
Quando raccolse co' Pelasgi onore,
Cui nullo ancor si preparò: l'altezza
Di scettrata ricchezza
Pel benigno favor del ciel cortese.
Nè men fra l'arme il gran campion discese,
Qual Filottete antico,
E scosso dal periglio
Anco il superbo lo si fece amico.
Narran di Lenno a noi,
Ch' ivi cercando di Peante il figlio
Venner divini eroi.
  D'acerba piaga e rea
Languia consunto l'invocato arciero,
Che rovesciò l'Impero
D'Ilio, tergendo alfin gli achei sudori.
Con affannose membra egro movea.
Ma fatal giunse, e ritrovò salute.
Così pio Nume ajute
Geron nei dì futuri, e lo ristori.
E n'empia i voti coi destin migliori!
Or segui meco il canto,
O Dea, mentre risono
Delle quadrighe a Dinomène il vanto;
Che straniero diletto
Del paterno trionfo il lieto suono
Non è del figlio in petto.
  Poi ritrovar procura
Begl' inni al giovin re ch'Etna corregge,
Poichè nell'aura legge
D'Illo gli eresse con divini auspici
L'augusto genitor libere mura.
Tai leggi ai Dorj il prisco Egimio diede,
E la prosapia erede
Di Panfilo, e gli Eraclidi felici
Son per lor del Taigeto alle radici:
Lieto popol che scese
Da Pindo, e Amicla ottenne,
E, famoso vicin, sua stanza prese
Appo i Ledèi che in campo
Bianchi spronâr destrieri, e onor perenne
Colser dell'asta al lampo.
  A cittadini e regi
Deh questa sorte ognor Giove tu dona,
Sicchè d'ogni persona
Dove le liete spiagge Amena morde
I consigli agitando il ver si pregi!
All'alto figlio esemplo, al vulgo luce
Per te l'inclito duce
Tutto guidi a spirar pace concorde.
Tu fa, gran Dio, che alfin sue voglie ingorde
Nel patrio suol raffreni
Queto il Fenicio, e cessi
Lo strepitar dei torbidi Tirreni,
Vedendo a Cuma in faccia
D'infrante navi e di nocchieri oppressi
La lacrimosa traccia.
  Qual ebber grave oltraggio
Dal siracusio capitan domati
Coi pini al corso usati!
Ei spense i figli lor nel mar sonante,
Grecia togliendo dal crudel servaggio.
Dirò vanto d'Atena in Salamina
Dei Persi la ruina;
Di Sparta a onor ricorderò le tante
Schiere pugnaci al Citerone innante,
Quel dì che a' Medi arcieri
Cadder gli sdegni e l'arme;
Ma dirò quai prostrati eran guerrieri
Là presso Imera, ai prodi
Figli del vecchio Dinomène un carme
Levando al ciel di lodi.
  Non più. Se accorte voci
Sciorrem, tutto stringendo in brevi accenti,
Le invidiose menti
Quinci più scarso accoglieran livore:
Chè stanca l'ale dei pensieri veloci
Dicace labbro, e il suon dell'altrui lode
Occultamente rode
Degli orgogliosi cittadini il cuore.
Però tu sprona là dove l'onore,
Prode Geron, ti chiama;
Meno a bella virtude
L'altrui pietade che il livor dà fama.
Siedi al governo, e sempre
Con timon giusto, nè a bugiarda incude
Tua lingua, o re, si tempre.
  Picciolo esemplo è grande
Se da te vien. Tu molti reggi, e sono
Molti dinanzi al trono
Testimoni di lode o di querela.
Ma fermo nel tentar l'opre ammirande,
Se di te dolce fama udir t'aggrada,
La generosa strada
Segui dei doni, e qual piloto, anela
Di sciorre agli aquilon tutta la vela.
Perda conte sue prove
L'adulatore indegno.
Sol quella lode che spontanea muove
Quando l'avel ne prema,
Sol quella mostra che quassù fu degno
Di storia e di poema.
  Giammai non venne meno
La benigna virtù del saggio Creso:
Ma ovunque in odio è preso
Di Falaride il nome, alma spietata,
Che ardea le genti all'eneo toro in seno;
Nè domestica cetra accôr lui suole
Fra le dolci parole
Di fanciullesca turba al canto usata.
Chi giunse a meritar palma beata
Ebbe il tesor primiero;
Ma pur quaggiù si tenne
Per seconda fortuna un nome intero.
Chi poi si vide offerto
Quel doppio bene, e lo raggiunse, ottenne
Impareggiabil serto.

Ode II

  Allo stesso Gerone vincitore col carro

  O bella figlia di cittadi altere,
Possente Siracusa,
Tempio al signor di bellicose schiere;
O divina nutrice
Di generose menti,
E d'alati destrier nel campo ardenti,
A te con l'aurea Musa
Fedele annunziatrice
Della quadriga, onde si scote il suolo,
Dalla fertile Tebe oggi men volo.
  Oggi per quella vincitor Gerone
Nell'inclita palestra,
Fa lieta di magnanime corone
Ortigia, ov'ha sua stanza
La fluvial Diana,
Che grazia sull'eroe sparse non vana,
Mentr'ei con agil destra
A regolar s'avanza
Nel procelloso corso i palafreni,
Vaghi a mirarsi per dedalei freni.
  Se, invocando Nettun, l'inclito auriga
Di rannodar si studi
A terso carro o a docile quadriga
La virtù folgorante
Dei corridor gagliardi,
Tosto la vergin dai possenti dardi,
E reggitor de' ludi
Il nipote d'Atlante,
Pei volator d'emulo foco accesi
Gli ministrano a prova i ricchi arnesi.
  Altri per altro re tentò la cetra,
Premio a sudate imprese.
E spesso i Cipri ergon bei carmi all'etra
Per Cinira diletto
A Febo auricrinito,
E sacerdote a Citerea gradito:
Chè debbe altrui cortese
Mostrarse ingenuo petto
Pel dolce rimembrar che corge in core
Poichè gustammo di gentil favore.
  Te dunque, o figlio Dinomenio, esalta
Nello zefirio lido,
Dopo fatica bellicosa ed alta,
La locrese Donzella,
Che in begli ozj secura
Per te sorda l'affanno e la paura.
Mentre, qual suona il grido,
Mesto Issìon facella
Per superno voler sempre ai mortali,
Della ruota crudel volto sull'ali.
  Al generoso donator si renda
Da chi favor riporte
D'onesto guiderdon grata vicenda.
Ahi troppo instrutto ei venne
Quando appo i figli amici
Di Saturno traendo ore felici,
La fortunata sorte
Lunga stagion non tenne,
Poichè d'insano amore arse per quella,
Cui Giove ai riti maritali appella.
  Ma come al fallo il trasse empio ardimento,
Sciolse vendetta il volo,
E strano preparogli aspro tormento,
Degno recando affanno
Al doppio suo peccato;
Ch'ei primo di fedel sangue cognato
Contaminava il suolo,
Tessendo iniquo inganno;
E del talamo augusto entro le soglie
Tentò di Giove la superba moglie.
  Se stesso il saggio moderar procuri,
Nemico al folle orgoglio,
E ognor pacato i suoi desider misuri.
Suole i tristi aggressori
A luttuose pene
Dannar sovente il profanato imène.
Tal si mertò cordoglio,
Mentre gli'incesti ardori
Sfogar quell'empio colla nube agogna,
E segue ignaro una gentil menzogna.
  Simil ben parve alla celeste figlia
Di Saturno possente
Nel bel volto la nube e nelle ciglia.
Per lui le man di Giove,
Bella cagion di danno,
La fabbricâr con meditato inganno:
Ma intanto quel dolente
Con forsennate prove
A se stesso compose, orrida pena,
Di quattro raggi la fatal catena.
  Ivi costretto le prostese membra,
Disperato sospira,
E inevitabil legge altrui rimembra.
Frattanto, strana madre,
L'immagine bugiarda
Più strano mostro a concepir non tarda.
Perchè a' mortali in ira,
E alle superne squadre,
Senza le grazie si lanciò nel mondo,
E Centauro si disse il parto immondo.
  Egli del Pelio nell'ombrosa valle
Lo snaturato affetto
Sfogava con le tessale cavalle;
E quinci, orrida gente!
Stuolo nascea che piglia
D'ambo le membra, e i genitor somiglia,
A lui diè volto e petto
L'abborrito parente,
E di sue forme con nefando innesto
La turpe madre gli congiunse il resto.
  Servon del Nume al cenno e terra e polo.
Ei nell'eteree cime
Raggiunse dell'altera aquila il volo:
Ei per l'onde frementi
Del veloce delfino
Percorre l'agilissimo cammino:
Ei severo deprime
Le rigogliose menti,
E alle modeste fronti egli compone
Di perenne fulgor belle corone.
  Ma cessiam d'Ission. Lingua mordace
Al par d'ingorda fera,
In metri acerbi esercitar mi spiace.
Ebbro di sdegno e pieno
Di velenoso tosco
Archiloco vetusto anch'io conosco:
So bene a lui qual nera
Tristezza piovve in seno
Sebben godesse le malnate brame
Empir col prezzo della cetra infame.
  Ottimo allor delle dovizie il raggio
Sfolgoreggiar si vede
Quando fortuna s'accompagni al saggio;
E ben tu largo in petto
Chiudi senno verace,
Che per bell'opre a noi chiaro si face.
A te la sorte diede
Fulgido soglio eletto,
E a te son, caro prence, obbedienti.
Città turrite e cittadin possenti.
  Folle saria narrar ch'altri maggiore
Nella trascorsa etade
Pompa d'auro facesse e di splendore.
Su trionfal naviglio
Or ecco ascendo e canto
De' tuoi prim'anni la baldanza e il vanto;
Quando tra mille spade
Scontrasti alto periglio,
E tal pugnasti cavaliero e fante,
Che fra i più degni eroi fosti gigante.
  Ma se lungi dai rischi ora e canuto
Nutri pensier divini,
Non io per farti di bei fior tributo
Copia maggiore impetro.
Oh salve, e il carme accetta,
Che qual fenicia vien  dovizia eletta
Dai regni oltramarini!
Egli è il Castoreo metro,
Che dono della cetra setticorde,
Oggi scuote per te l'eolie corde.
  Te sempre vago del costume antico,
Onde sì amabil sei,
Provin gl'iniqui adulator nimico.
Il fanciullin soltanto
Fia che la belva apprezzi
Imitatrice degli umani vezzi;
Ma fero i sommi Dei
Già lieto Radamanto,
Ch'ebbe incolpata sapienza in petto,
Nè delle frodi altrui prese diletto.
  Eppur di questa spesso altri s'appaga!
Che dir poi del nefando
Calunniator che due d'un colpo impiaga?
O volpi, o trista prole!
Lucro sperate? Invano.
Come ne' cupi sen dell'oceano
Ir sempre galleggiando
L'indice legno suole,
Sebben tutta nel mar la rete affonda,
Tal me non cuopre il tempestar dell'onda.
  Mai fradolenta lingua infra i più casti
Non verserà parola
Che certa fede a meritar ne basti:
Pur ogni danno, intese
Al suon de' blandi accenti,
Non fuggiranno le pudiche menti.
Di tanto infame scuola
Non mai desir mi prese:
Amo chi m'ama, e torto calle e cupo
I nemici a ferir m'insegna il lupo.
  Sempre onorato fia spirto sincero,
O prence unico regni,
O il popol rozzo, o i saggi abbiano impero.
Non si pugna col Nume:
Ei solo a cui più brama
Stabil censo promuove, a cui dà fama.
Ma i cuor d'invidia pregni
Seguono il lor costume,
Nè tregua danno ai miseri desiri
Ove la lance altrui colma si miri.
  E finchè l'atra sete abbian sopita
Lor s'incrudisce in mente
La grave immedicabile ferita.
Pieghevole cervice
Quindi per l'uom si deve
Sopporre al giogo, e sel farà più lieve.
Contra stimol pungente
Ricalcitrar non lice.
Oh d'ogni colpa mondo a me co' buoni
Placidamente conversar si doni!

Ode III

  Allo stesso Gerone vincitore col celete

  Vorrei, se voto pubblico
Al plettro mio conviene,
Vorrei che il gran Filliride
Chiron tornasse dalle stigie arene,
E stanza offrisse e imperio
La Pelia valle antica
A lui seme d'Uranide,
Che fera altrui sembrò,
Ma un'alma all'uom servò - nel petto amica.
  Serenator benefico
Nutria de' giorni torbi,
E di salute artefice
L'almo Esculapio fugator di morbi;
Cui non ancor di Flegia
La sventurata figlia
Alto invocando l'arbitra
Lucina partorì,
Ch'ella per sempre al dì - chiuse le ciglia.
  Poichè ne' regi talami
Dall'auree frecce doma
Lasciolla irata Delia,
Servendo al Nume dalla bionda chioma.
Può invan lo sdegno accendersi
Nei figli alti di Giove?
Colei, spregiando Apolline
Per forsennato error,
Serbava in petto amor - di nozze nuove.
  Stolta! Gli amplessi teneri
Gustò con Febo insieme
Al genitor celandosi,
E portava nel grembo il divin seme;
Eppur le mese attendere
D'Imene non sopporta,
Non delle uguali vergini
Il bel coro vocal,
Che al letto marital - cantando scorta;
  Quando invocato d'Espero
Sorge tra l'ombre il lume,
E i giovinetti scuotono
I begli scherzi, e gli amor libere piume.
Stolta! Bramò rivolgere
Ad altro amante il core,
Come pungendo l'anime
Ben molti a naufragar
In sì funesto mar - conduce Amore.
  Proterve menti pasconsi
Di vago idol lontano,
E quel che è presso sdegnano,
Alle speranze lor fidando invano.
Dell'audace Coronide
Quinci l'error pur nacque,
Ch'ella accogliea d'Arcadia
L'ospital garzoncel,
E consorte infedel - con lui si giacque.
  Ma invan tentò nascondersi
Al Dio che tutto vede.
Colà, dove le vittime
Cadon frequenti nella pitia sede,
Ei come in onda limpida
Leggea l'empio mistero
Nell'alma consapevole:
Chè celeste o mortal
A ingannarlo non val - fatto o pensiero.
  Allor del figlio d'Elato
L'estraneo furto intese;
Mirò l'indegna fraude,
E la sorella del suo sdegno accese.
Costei volse a Laceria
Le fugacissim'ale,
Poichè lungo il Bebiade
La druda soggiornò,
E quivi l'ingombrò - demon fatale.
  Quivi maligno trassela
A miserando fine,
E nell'alto infortunio
Le infelici avvolgea genti vicine.
Così per gioghi altissimi
Di picciol' esca uscito
Vasto miriam trascorrere
Il furor di Vulcan,
E la selva riman - deserto lito.
  Ma quando alfin sull'avido
Rogo i mesti parenti
Locàr la donna esanime,
E intorno si destâr le vampe ardenti,
Gridò riscosso Apolline:
Ah no, non soffra il padre,
Ch'abbia la sua progenie
Un fato sì crudel,
Se preme eterno gel - l'indegna madre
  Tacque, e d'un passo stettesi
Presso l'ignita pira:
Securo varco aprendogli
La riverente fiamma si ritira.
Ei, tratto il figlio amabile
Dalle già fredde spoglie,
Fidollo al buon Centauro,
Che seppelo educar
D'ogni morbo a fugar - le varie doglie.
  Or quanti afflitti volsero
Al grande alunno il passo,
Vinti da piaga ingenita,
Ovver da ferro, o da scagliato sasso,
E quanti raggio fervido,
O acuto gel percosse,
Ei tutti dal moltiplice
Sciogliea crudo malor,
E lunge ogni dolor - quinci rimosse.
  A tal con note magiche
Porgea dolci ristori,
Ad altri seppe mescere
Di segreta virtù pieni licori.
Talor le membra strignere
Solea con placid' erbe,
Talor col ferro docile
Pronta recò mercè,
E rintegrar potè - ferite acerbe.
  Ma nella rete avvolgersi
Pur suol del lucro il saggio.
Così l'eroe benefico
Del fulgid'oro pervertissi al raggio,
E osò ritorre all'Erebo
Uom già concesso a morte;
Sicchè di Giove il fulmine
Tolse ad ambo il respir,
E vidersi perir - con ugual sorte.
  Quando conviensi ad uomini
Chieder n'è d'uopo al Cielo,
Membrando qual rivestane
Figlio del limo corruttibil velo.
Quindi amor d'immutabile
Vita che a' Numi uguaglia,
Cor mio, deh non seducati,
E batti quel cammin,
Di cui giungereal fin - sempre tu vaglia.
  Oh se gli antri chiudessero
Tuttora il buon Chirone,
E dolce in sen piovessegli
Il mel soave della mia canzone,
Ben io la destra medica
Gli chiederei d'un figlio
D'Apolline o d'Egioco,
Mentre a spirto gentil
Cocente ardor febril - reca periglio.
  Poscia fidando al pelago
L'altere navi e pronte,
Andrei pel flutto Ionio
Là dove scorre d'Aretusa il fonte.
L'amico etnèo qui modera
I siculi destini;
Qui dolce padre agli ospiti,
E' sprone alla virtù;
Qui l'idol sempre fu - dei cittadini.
  E qui, se ratto a porgergli
Doppio tesor giugnessi,
L'aurea salute, e l'inclito
Carme, bel fregio de' cirrei successi,
Onde cogliea Ferenico
Pur or la pitia fronde,
D'ogni astro assai più nobile
Raggio, cred'io, seren
Gli recherei dal sen - delle sals'onde.
  Ma ben saprò dall'animo
Calda versar preghiera,
E alla temuta volgermi
De' venerati Dei madre primiera,
Cui presso i miei vestiboli
Ad onorar discende,
E ad essa e a Pane atterrasi
Di vergini un drappel
Quando pel fosco ciel - l'ombra si stende.
  Or tu cui si rischiarano
D'alta scienza i raggi,
Geron, ch'ami d'immergerti
Nelle memorie degli antichi saggi;
Sai come gli Dei congiungano
A un bel doppj tormenti,
Cui mal gli stolti soffrono,
Ma il possono i miglior,
Che mostrano al di fuor - solo i contenti.
  Sul capo tuo benefica
Felicità s'aduna,
Poichè lieta sorridere
Se ad uom pur suole, ai regi usa è fortuna:
Ma non bei giorni a Peleo,
Non al gran re di Tebe
Sempre costanti volsero,
E lor giunti al confin
D'ogni più bel destin - narra la plebe.
  Già sull'ombroso Pelio
Carmi sciogliean per loro,
E sulla terra Ismenia
Le caste Muse dalle bende d'oro,
Allor che questi univasi
Ad Armonia cortese,
Quegli all'alma Nereide,
E lieto al nuzial
Convito l'immortal - coro discese.
  Gli amici Dei sedendosi
Ne' preziosi scanni,
Doni a que' prodi offrivano,
E ricambiò lor Giove i prischi affanni.
Talchè innalzare osarono
A nuova speme il core:
Ma turbar Ino e Agave
Côlte da reo martir
Il rapido gioir - del genitore.
  E contemplò quel misero
La candida Tiona
Percossa dalla folgore,
Che intorno al letto genial rintrona.
D'immortal madre l'unico
Frutto, il sovran Pelìde
Versò pugnando l'anima,
E degli Achei lo stuol,
Volta la gioja in duol, - sul rogo il vide.
  Chi brama il vero, e seguelo,
Grato agli Dei clementi,
D'amico fato allegrisi;
Ma vario è il soffio de' protervi venti.
Lieti favor non durano
Benchè ad alcun ne mandi
Gran copia il Ciel propizio:
Nei piccioli però
Picciolo anch'io sarò - grande ne' grandi.
  Così qual sorte facciasi
Presente alle mie soglie,
M'avrà cultor magnanimo
Che sa con essa misurar le voglie.
Se poi Nume benefico
Mi doni ampj tesori,
Viva speranza nutremi
Che il nome mio n'andrà
Cinto per ogni età - di bei splendori.
  Va Sarpedon, va Nestore
Della fama sull'ali
Pei carmi onde li onorano
Con generoso stil cetre immortali.
Virtù sincera eternasi
D'alti concenti al suono;
Ma conseguir tra gli uomini
Sì splendido favor
Dai liberi cantor - di pochi è dono.

Ode IV

  Ad Arcesilao di Cirene vincitore col carro

  Dell'equestre Cirene appo la reggia,
O Musa vieni, e diffondiamo intorno
L'ora felice che degl'inni eccheggia
Dovuti a Febo, e al delfico soggiorno:
Colà danzando Arcesilào festeggia,
E qui fra le dorate aquile un giorno
Vaticinava la cirrèa donzella,
E il signor delle sorti era con quella.
  Promise a Batto, e alle falangi astrette
Con esso a uscir dalla natal riviera,
Di Libia i campi, e su feraci vette
Nuova città per aurei cocchj altera:
Ov'ei, trascorse dieci etadi e sette,
Le sorti empisse profetate in Tera,
Quando ai compagni di Giason s'offerse
La figlia d'Eta, e il divin labbro aperse.
  Prestate, o voi, prestate ingenua fede,
D'eroi figli e di Numi, ai nostri accenti:
Da questa terra, cui d'intorno fiede
Nettun colle marine onde frementi,
D'Epàfo inalzerà la figlia erede
Famose torri, amor d'inclite genti,
E germe illustre di città felici
Del cornigero Ammon ne' campi amici.
  In briglie i remi, e in agili destrieri
Vôlti i delfin dalle brevissim'ali,
Ivi il popol terèo cocchj leggieri
Regolerà del turbine rivali;
E Tera sorgerà donna d'Imperi,
S'Eufemo n'ottenea segni fatali,
Allor che il vide dalla prora uscito
La Tritonia palude errar sul lito.
  Nume ricinto di corporea veste
La terra in ospital dono gli offriva,
E propizio il signor delle tempeste
Sovra il capo all'eroe tuonar s'udiva.
  Così muovea l'incognito Celeste
Incontro a noi per la solinga riva,
Mentre sospedevamo alla carena
L'eneo dente che il vol d' Argo raffrena.
  Nascea la dodicesim'alba nel polo,
E dal profondo mar tratto il naviglio,
Per l'ampio dorso del deserto suolo
Lo portavamo, e nostro era consiglio,
Quando scontrammo il vago Genio e solo,
Sparso d'onesta maestade il ciglio,
E favellò siccome ospite invita
Primiero ai tetti suoi turba gradita.
  Ma chiamandoci all'onde il tempo e l'ora,
Dunqu'Euripilo, grida, io son che vegno
(Poichè troncar vi piace ogni dimora)
Io figlio al rege dell'ondoso regno;
E dal suolo raccolta ei porse allora
La gleba al prode d'amicizia in pegno:
Misterioso dono inaspettato,
Cui primo offerse alla sua destra il Fato.
  Nè resistere al Ciel l'eroe presume,
Ma quando in mezzo all'arenoso piano,
Per afferrar la zolla unìa del Nume
Alla mano fatal l'inclita mano:
Poi sciolse il dono nelle salse spume
Dell'esperio cadea molle oceano;
Chè inutilmente ricordato ognora
Lo trascuraro i servi entro la prora.
  E tale in questo suol venne a raccorse
Immaturo di Libia il seme eterno:
O progenie d'Europa, o tu cui scorse
Il bel Cefiso uscir dal sen materno,
Perchè dopo le immense onde trascorse
Nol gettavi appo il negro antro d'Averno
Quando tornasti nel regal tuo suolo,
Tenario Eufemo di Nettun figliuolo?
  Chè reso allor nell'età quarta omaggio
Avriano al sangue tuo l'illustri arene,
E congiunte falangi al gran passaggio
Sarian d'Argo venute e di Micene.
Or lieto ti faran d'alto lignaggio
Consorti amanti di straniero imene,
E quinci nascerà tardo germoglio
A ornar di Libia nubilosa il soglio.
  Lui Febo ammonirà nel pitio asilo
Appiè della vocal ricca cortina,
Che guidi al tempio del saturnio Nilo
La navigante turba peregrina.
Svolgea così dell'avvenire il filo
Dei Colchi la fatidica regina,
E immoti e queti si restâr quei prodi
Al suono arcano degli eterni modi.
  O beato figliuol di Polinnesto
Te salutò della febèa donzella
Tre volte il carme, e presagì non chiesto
Sacra in Cirene a te reggia novella,
Quando aita chiedevi onde il molesto
Scioglier legame della tua favella,
E innanzi all'ara timoroso e prono
Sollecitavi dell'Olimpo il dono.
  Or, come pianta nel vigor d'aprile,
Fiorisce ottavo fra l'eccelo coro
D'eroi sì degni Arcesilao gentile,
Che dell'equestre corsa ebbe l'alloro.
Quindi ei fia segno all'onorato stile,
Come dell'ariete il vello d'oro,
Cui mentre conquistâr le minie antenne
Divin seme d'onor Cirene ottenne.
  Perchè s'aperse l'ocean temuto;
Qual fato ai rischi incatenò quei forti?
Gli Eolidi mandar doveano a Pluto
Pelia col brando, o coi consigli accorti.
Egli serbava nel pensier canuto
Le cantate in Pitona orride sorti:
Cauto ti guarda, e ogni destrezza impiega,
Se tal vedrai che un sol calzar si lega;
E cittadino o forestier discende
D'Iolco ai lidi da selvaggia stanza:
Quand'ecco l'uom delle minacce orrende
Gemine aste scuotendo alfin s'avanza.
Doppia veste il coprìa; l'una che prende,
Stringendo i membri, dagli Emonj usanza;
L'altra è di pardo maculata pelle,
Riparo alle piovose atre procelle.
  In bionde anella gli scendea sul dorso
Il crin, nè ferro mai sel tolse in cura:
Tal comparve l 'Ignoto, e ratto il corso
Drizzò d'Iolco alle superbe mura:
Tal nel Foro maggior tra 'l vulgo accorso
Bella pompa facea d'alma sicura;
Mentre pieno ciascun d'alto stupore
Incerto diffondea sordo rumore.
  Febo non è: ma s'egli è pur Gradivo,
Perchè non regge alla quadriga il passo?
Oto forse il direm, diremlo il divo
Sire Efìalta, se periro in Nasso?
Tizio invece sarà; ma fuggitivo
Dardo traendo dal feral turcasso,
Cintia ferillo ed insegnò quai sieno
Più casti amori da nutrire in seno.
  Diceano, e Pelia su volanti ruote
Tratto da mule comparir si vede,
E mira tosto, e rio timor lo scuote,
Solo un calzar dello straniero al piede;
Però non cambia di color le gote,
E dimmi, ospite grida, ov'hai tua sede?
Qual madre illustre, genitor qual vanti?
Fido rispondi, e non mentirmi innanti.
  Placido e franco allor quegli dicea:
Schietta favella da Chirone appresi;
Filira abbandonava e Cariclèa
Nella spelonca ove fanciul discesi:
Quivi a nutrir d'alti pensier l'idea
Le figlie del Centauro ebbi cortesi:
Quattro lustri là vissi, e lor non diedi
Con detti od opre mai triste mercedi.
  Or torno a ricovrar l'antico regno,
Ch'altri mal regge usurpator feroce,
E cui prima ottenean, premio ben degno,
Eòlo e i figli per l'eterna voce;
Indi fatto l'udii retaggio indegno
Di certo Pelia ne' consigli atroce,
Il quale ardiva col terror del brando
Ai giusti padri miei torne il comando.
  La dolce appena io bevvi aura vitale,
Che quelli instrutti del crudel talento,
Onde tremar li fea l'empio rivale,
Mi lacrimavan come nato e spento.
La mesta s'innalzò pompa ferale,
Suonò d'intorno il femminil lamento;
Poi recando la notte ombra e consiglio,
Mi diero in fasce di Saturno al figlio.
  Ma basti, o cittadin: l'alta magione
Or n'additate, onde rapito i' fui:
Fratel tra voi mi son, figli d'Esone,
Nè calco peregrin le terre altrui.
Il divin mastro m'appellò Giasone
Finchè asilo mi diè negli antri sui:
Si favellò con nobile fidanza,
E giunse il Divo alla paterna stanza.
  Lo riconobber dopo il lungo esilio
Del padre antico l'avide pupille,
E come bolle sul commosso ciglio
Gli crescevan di pianto umide stille;
Chè gioiva in mirar siccome il figlio
Sovra i garzon più vaghi alto sfaville;
E scossi al grido degli eventi strani
Correano ad abbracciarlo ambo i germani.
  Il chiaro d'Iperèa fonte vicino
Lasciò Ferète, e Amitàon Messene,
Nè meno a salutar l'almo cugino
Quinci Admeto, e Melampo indi sen viene:
Ospiti gli accogliea Giason divino,
E doni amici dispensando e cene,
Ben cinque notti e cinque dì con elli
Cogliea d'ilare vita i fior più belli.
  Ma quando il sesto giorno in oriente
Spuntar si vide, in pronti modi e schietti
Aprì Giason quanto volgeva in mente,
E ognun lodonne i bei consigli e i detti:
Allor co' fidi suoi surse repente,
E penetrava ne' regali tetti:
Là, come i passi dell'altier s'udiro,
Scese il figliuol della chiomata Tiro.
  Or dando base alla concetta mole,
Sciolse il prode garzon voci soavi:
O del Petrèo Nettun famosa prole,
N'accieca il lustro de' guadagni pravi:
Ma l'uom nemico a Temi aprir si suole
Il calle a fatti lacrimosi e gravi:
Ambo dunque frenian la voglia impura,
E lieta n'ordirem vita futura.
  Creteo, tel sai, dal sen medesmo uscìo
Coll'altier Salmonèo; quindi noi siamo
Terzi da lor; n'odian gli Dei, se rio
Sorga rancore infra chi vien da un ramo.
Con ferrei brandi, e con ostil desio
De' nostr'avi i tesor deh! non partiamo:
Terre e greggi ti lascio e buoi rapiti,
Ond'empi l'alma, e cresci i censi aviti.
  Nè se ten viene onor provo cordoglio,
E non se i lari tuoi fansi potenti;
Ma ben mi siede in cor lo scettro e il soglio,
Onde reggeva Eson belliche genti:
L'un prima e l'altro senza risse io voglio,
Poi rivendicherò, se nol consenti.
Giason sì disse, e in volto anch'ei cortese,
Come il tempo chiedea, Pelia riprese.
  Qual vuoi sarò; ma degl'inferni Dei
Tommi all'orror ch'entro mie vene impera:
Presso l'età canuta io nol potrei,
Tu'l puoi ben nel vigor di primavera.
Turba Frisso già spento i sonni miei,
E l'errante a ridurne ombra severa
Vuol che d'Eta m'inoltri al regio ostello,
E rechi qua quell'ariete il vello.
  Sacro ariete che il salvò dall'onda,
E dagli strali di matrigna infida:
Però lo spettro in sulla manca sponda
Mi vien del letto e mi rampogna, e sgrida.
Quinci alla pitia corsi ara feconda,
E pronto addimandai consiglio e guida:
Pronto rispose alle preghiere il Nume,
E vuol ch'io tenti d'ampio mar le spume.
  Tu per me compi l'immortal cimento,
E cederò, tel giuro, e reggia e trono.
Così propizio accolga il giuramento
L'autor di nostra stirpe, il Dio del tuono:
Piacquero i patti, e cento araldi, e cento
Ne divulgâr per ogni riva il suono,
Poichè, lasciata la regal magione,
Mandava i forti a ragunar Giasone.
  Sciogliean richiesti all'arduo rischio appena
Tre prodi infaticabili le piante,
Cui Leda un giorno, e l'occhibruna Almena
Partorivan di furto al gran Tonante.
Venian due figli del signor che frena
Col tridente immortal l'onda sonante,
E lasciar Pilo, e Tenaro famosa,
Venerando il campion che sveglia e osa.
  E oh come noto il vostro onor si feo,
Periclimen gagliardo, Eufemo audace!
Scese da Febo il citarista Orfeo,
Padre di colto poetar che piace;
E l'alato signor del caduceo
Due cari pegni accelerar ne fece,
Eurito ed Echìone, i nervi e l'ossa
Pieni di generosa erculea possa.
  Del nativo Pangèo l'orrido calle
Abbandonâr frementi alme guerriere,
Poichè affacciossi alla profonda valle
L'eccitator di gelide bufere;
E Zete quinci col fratel, le spalle
Di penne armati fumiganti e nere,
Richiamava ai magnanimi perigli,
Padre geloso dell'onor dei figli.
  Desio di navigar nei forti accese
La possente de' cuori arbitra Giuno,
Onde nemico di sudate imprese
Appo la madre non restasse alcuno:
Ma sfidando la morte anco palese
Non comparisse di virtù digiuno,
Mentre anelando per destin migliori
Spargea l'invitto stuol degni sudori.
  Giason frattanto sull'auguste porte
Novera il fior dei prodi, e tutti onora;
Levasi Mopso, e la superna sorte,
E i santi augurj profetando esplora:
Poi consiglia l'impavida coorte
Ad aggravar la fortunata prora,
E promette lietissime vicende,
Sicchè al rostro il nocchier l'ancore appende.
  Ma sull'eccelsa poppa il capitano
Aurea togliendo in man tazza profonda,
Dal fulminante genitor sovrano
Aure liete invocava e facile onda,
E cadenti nel placido oceano
Quete notti, e bei giorni, e via gioconda,
E desiato trionfal ritorno
Agli ozj amici del natio soggiorno.
  Voce di tuono dall'eterno Empiro
Fausta rispose ai caldi preghi e santi,
E dalla nube romorosa usciro
Lucidissimi raggi folgoranti:
Si confortâr nel nobile desiro
Favoriti dal cielo i naviganti,
E dando speme degli onor supremi,
Forza, il vate gridò, forza co' remi.
  Spingeasi a dritto infaticabil moto
Dalle robuste man l'audace pino,
Sicchè per esse, e per favor di Noto
Giunse alla bocca del profondo  Assino:
Quivi sacro delubro ersero in voto
Quei  generosi al tridentier marino,
E non mancava sull'estrania riva
Pe' biondi buoi di Tracia era votiva.
  Chiedean là scampo all'adorato Nume
Dai rischj orrendi che temean presenti;
E già cozzar fra le agitate spume
Gemine pietre e vive osservi e senti;
Come battendo le fischianti piume
S'urtan nemici d'ogni tregua i venti;
Ma tragittando il divo stuol consorte,
Inoperose le faceva e morte.
  Quelli del Fasi ne' gelati umori
Scendean frattanto, e delle argive braccia
Provâr la forza i negri abitatori,
Cedendo il campo allo stess'Eta in faccia.
La madre allora dei pungenti amori
Di quattro raggi a salda ruota allaccia
L'augello degli incanti furibondo,
E prima il reca dall'Olimpico al mondo.
  Quinci imparò Giason maga querela,
Onde, già sorda al filial rispetto,
Desti Medea l'amor che in lei si cela,
E greco soglio brami e greco letto.
Arde l'alta donzella, alfin rivela
L'arti paterne al garzoncel diletto,
E unguenti gli offre a non sentir le pene,
E promessa n'ottien di dolce imene.
  Ma già l'aratro adamantin s'appresta,
E vomitando inestinguibil vampa
Gli indomiti giovenchi ergon la testa,
Rimbomba il suol della ferrata zampa.
Sotto il peso del gioco Eta gli attesta,
E gli drizza congiunti e solchi stampa,
Sinchè pervenga trascorrendo intorno
In brev'ora a fornir l'opra d'un giorno.
  Poi lieto esclama: se vigor cotanto
Possiede il duce: e compie ugual lavoro,
Di vittoria immortal si tolga il vanto
E seco ne ritragga il vello d'oro.
Non risponde Giason, ma getta il manto
E Vener chiama dall'etereo coro,
Ed entra illeso tra le fiamme orrende,
Chè della donna sua l'arte il difende.
  Toglie l'aratro, ed aggiogar vi puote
Dome le fere con possente freno,
E lor d'acuto stimolo percuote,
E trascorre con lor l'ampio terreno.
Pinge il tiranno di stupor le gote
Ma duolo ascoso gli ricerca il seno;
Mentre i festanti Achei porgono al prode
Destre amiche, bei serti, e ingenua lode.
  Mostrò il figlio del Sol la bionda pelle
Ove di Frisso la spiegò l'acciaro,
E sperò che dall'ardue opre novelle
Raccorrebbe Giasone un frutto amaro.
Di vigile dragon pronte mascelle
Facean tra selve al gran tesor riparo,
E tanto l'empio mostro alto sorgea,
Che la figlia del bosco Argo vincea.
  Ma da vicino omai l'ora ne preme
E tornar dêssi nel sentier dei cocchi,
Nè il lungo error mi toglierà di speme,
Se insegno altrui come al confin si tocchi.
Colpiro, Arcesilao, le doglie estreme
Il macchiato dragon dai fulgid'occhi,
E l'Esonide, vinta ogni fatica,
Seco a Pelìa domar trasse l'amica.
  Quindi nel vasto mar corsero i forti,
Poi scendendo nell'indico oceano
Toccâr le sponde ove le ree consorti
Vindice ferro non trattaro invano.
Tentaron quivi dell'agon le sorti,
Quivi alle belle consentir la mano,
E per lor fausta notte, e fausto giorno
Di semenza immortal si fece adorno.
  Poichè d'Eufemo la prosapia erede
Vien quinci, e onor di splend'opre acquista,
O tragittasse alla spartana sede,
O il fren reggesse all'umida Callista.
Poi con propizio ciel Febo le diede
Del libio regno la fatal conquista,
Ove gli accorti prodi ebbero in dono
L'alma Cirene dall'aurato trono.
  Or m'odi Arcesilào: l'alto intelletto
D'Edipo inte vogl'io. Se querce antica
Le immense braccia, e il venerando aspetto
Sotto irata perdè scure nemica,
Salda fia sempre, ove il natio ricetto
Abbandonando e l'ardua selce aprica.
Regga tra le colonne archi superbi,
O alla tarda invernal fiamma si serbi.
  Tu sei medico all'uopo, e Delio è teco;
Versa tu pelle piaghe almo licore:
Sovvertir le città può il vil, può il cieco,
Ma sol l'uom prode sa tornarle in fiore;
E allora il sa che pronto esser con seco
D'alcun propizio Iddio senta il favore.
Or tu, cui fan tesor sì dolci beni,
Veglia e bei giorni al cittadin mantieni.
  Del Meonio cantor ti rieda in mente
L'eccelso detto: a preparar ne viene
Lieti successi messagger prudente:
E onor da retto avviso han le Camene.
Qual Demofil trae vita innocente
Sepper tue stanze, o re, seppe Cirene:
Fu giovin tra i garzon, tra i vecchi astuto,
Com'uom per venti omailustri canuti.
  Non ei versa dal sen tosco protervo,
Le ingiurie abborre, nè a virtù fa guerra;
Pronto ad oprar, la lieve al par di cervo
Occasion precipitando afferra;
Ma non la segue qual ansante servo,
Mentre incerta si sbalza in sulla terra.
Or pensa, o re, se duole accolga in petto
Sì degno prode ad esular costretto.
  Pur egli geme, come il magno Atlante,
Sotto il gran peso della vôlta eterna,
E in estraneo confin volge le piante,
Membrando i campi e la magion paterna.
Ma impietosito alfin sciolse il Tonante
Gli empi Titàni nella valle inferna;
E cessando nel mar l'aura crudele,
Han pace, Arcesilào, le stanche vele.
  Ei dunque, scosso il rio malor, desira
La natal terra, e i bei fonti d'Apollo,
E gli ozj amici, e la giocosa lira,
Che tôrre usò tra liete mense al collo:
Nè contra i suoi nemici odio respira,
Nè quinci vuol d'obbrobri esser satollo.
L'accogli e udrai qual d'inni a te rinvenne
Presso Tebe ospital vena perenne.

Ode V

  Allo stesso Arcesilao vincitore col carro

  Largo poter si chiude
Ne' regali tesor, quando fortuna
Li mesce alla virtude:
Per lor d'amici eletto stuol s'aduna,
O tu che quinci osasti alto cammino,
Arcesilào divino.
  Poichè da' tuoi verd'anni,
Quelli versando in agonal cimento,
Grido a raccôr t'affanni,
E Castor segui emulator del vento,
Che, cessato il brumal tempo, n'adduce
Più folgorante luce.
  Fan quanti han senno in petto
Del celeste favor pompa gioconda:
E te nel cammin retto
A muover uso, bel fulgor circonda;
Te, che di forza il cor pieno e d'ingegno,
Moderi eccelso regno.
  Ed oggi sei felice
Di nuova sorte, se primier guidasti
La biga vincitrice
Nelle pianure de' cirrèi contrasti;
E l'inno accogli che scherzando morde
Per te le dorie corde.
  Fermo ti sieda in mente
Quest'alto carme suonando viene
Di Citerea ridente
Presso i begli orti nella tua Cirene:
A Dio, che dal ciel muove ogni vicenda,
Onor pe rte si renda.
  D'amor costante omaggio
A Carroto ti leghi. Egli non usa,
Figlia del tardi saggio
Epimeteo, condur seco la Scusa;
Poichè di Batto all'onorata sede
Volse securo il piede.
  Ma giunto alle divine
Castalie linfe, degli equestri vanti
L'onor ti pose al crine;
Nè sospingendo i corridor volanti
Dodici volte al destinato corso,
O timon ruppe o morso.
  Talchè le intatte ruote,
Quali di mano al dotto fabbro usciro,
E quali alle remote
Colline apparver del crisèo ritiro,
Tali del Nume nell'auguste soglie
Pendon sacrate spoglie.
  Chè lor d'alto cipresso
Robusta trave preparò sostegno
Al simulacro appresso,
Cui scelto tronco di felice legno
Gli arcier cretesi collocaro un giorno
Nel parnasio soggiorno.
  Dunque con lieto ciglio
D'uopo è incontrar sì generoso prode.
O d'Alessibio figlio,
Le grazie dal bel crine a te dan lode;
E dopo i rischj tra 'l festante coro
Hai di carmi ristoro.
  Tu fortunato auriga
Tra venti e venti che cadeano al suolo,
Illesa l'aurea biga
Con fermo cor riconducesti a volo
Nell'alma Libia e nel natal paese
Dalle illustri contese.
  Nullo a gran vanti ascende
Senza travagi. Or lieta or trista sorte
Con alterne vicende
Al prisco Batto si facea consorte,
Al difensor dei cittadini, al vero
Sole dello straniero.
  Gli aspri lìon d'intorno
Sgombraro scemi del natio coraggio,
Quando al novel soggiorno
Co' suoi recò l'oltramarin linguaggio.
Sperse Febo que' mostri, e non fu vano
Al cirenèo sovrano.
  Tesor di medic'arte
Febo ne porge a mitigar le pene;
Ei cetra d'ôr comparte,
E amiche a chi più vuol fa le Camene;
E padre a dolci studi, ozio sereno
Altrui ne versa in seno.
  Il fatidico asilo
Ei tien, di dove risuonar parole,
Che dieron Argo e Pilo
E Sparta in regno alla famosa prole,
Cui dal suo seme pullular già vide
Egimio e il forte Alcide.
  Ma grido acquista e lume
La mia gente da Sparta, onde venièno,
Non senza fausto Nume,
Gli Egidi già nostr'avi a Tera in seno;
E li guidava nel terren beato
Per vario calle il Fato.
  Qui nacque il gran convito
D'ostie frequenti, e lo serbian tuttora,
Mentre nel carnio rito
L'alma Cirene, o divo arcier, s'onora;
Ove abitaro a Marte aspro devoti
D'Antenore i nepoti.
  Poichè si vede appena
Di Priamo in fiamme la superba sede,
Qua con la bella Elena
Volgean que' forti navigando il piede,
E loro affrian ricetto e onor divini
Gl'illustri cittadini:
  Quelli che trasse in pria
Con le voci fortunate prore,
Tentando immensa via,
Pel salso flutto il libico signore,
E prescrisse più vasti ai sommi Divi
I recinti votivi.
  Egli all'eletta schiera,
Onde Apolline ottien pompa devota,
Ampia equestre carriera
Drizzò primiero e l'appellò Sciròta:
Qui l'estremo del foro angolo accoglie
Le gelide sue spoglie.
  Entro regali porte
Ei godè tra i viventi alto destino,
E  sceso in grembo a morte
Perenne si mertò culto divino:
Dormon gli altri frattanto il sonno eterno
Presso l'asil paterno.
  E dai funerei marmi
Gli eccelsi di virtù fregi diversi
Odon nei dolci carmi
Di molle rugiadosa onda cospersi:
Del figlio illustre odon gli onor più belli,
E parte n'hanno anch'elli:
  Mentre nel lieto coro
Dà lode a Febo Arcesilào cortese,
Cui suona inno canoro,
Premio all'oro che sparse e all'alte imprese:
Lui porta il saggio all'etra, e carme io sciolgo
Per lui men duro al volgo.
  Senno ha maggior degli anni,
E ne' consigli e nella forza invitto
D'aquila impenna i vanni;
Ei torre appare inagonal conflitto;
All'arti nacque alato Genio, e puote
Destro agitar le ruote.
  Ogni sentier di lode
Ei preme ardito, e gli dà lauri il cielo.
Deh! sempre fausti al prode
Ne proteggete, o Dei, la possa e lo zelo,
Sicchè nol morda glacial tempesta
A' bei frutti molesta.
  La mente alta di Giove
Governa il fato degli eroi più cari:
Ma se il pregar lo muove,
Di Batto ei doni ai fortunati lari
Colà d'Olimpia nel sudato agone
Più splendide corone.

Ode VI

  A Senocrate d'Agrigento vincitore col carro

  Udite! i floridi campi trasvolo
Dell'alme Cariti, di Vener bella,
Or che il fatidico tempio m'appella,
           Centro del suolo.
  Qui per Senocrate cinto d'alloro,
Pe' lieti Emmenidi, pel patrio fiume
Nel bosco serbasi del pitio Nume
            D'inni un tesoro.
  Nè in mare a sperderlo tonante nembo
Con folta d'orride nubi sen viene,
Nè fero turbine che spesse arene
            Volve nel grembo.
  Ma degni applausi, gloria d'eroi,
Sparso d'amabile raggio di luce,
Egli, o Trasibulo, pel cocchio adduce
            Al padre, e a' tuoi.
  Della vittoria l'immagin teco
Tu rechi e mediti l'almo consiglio
Cui diè Filliride di Peleo al figlio
            Nell'arduo speco.
  E onora, dissegli, la mano eterna,
Che vibra il rapido fulmineo strale,
Ma in un pur venera la ognor fatale
            Vita paterna.
  Tal ebbe Antiloco saggio pensiero,
Allor che intrepido cadde pel padre,
Sfidando Mennone, di brune squadre
            Duce severo.
  Ecco al Nestoreo cocchio s'implica
Destrier, cui Paride ferì col dardo:
Ecco discendere contra il gagliardo
            L'asta nemica.
  Corse al Messenio per l'ossa un gelo,
E vieni, salvami, fedel mia prole,
Gridò, nè inutili le sue parole
            Volâr pel cielo.
  Corse il magnanimo fra mille spade,
E i giorni a Nestore comprò co' suoi:
Quindi l'annovera tra i figli eroi
            L'antica etade.
  Tai giorni volsero: pur dagli egregi
Fatti Trasibulo sua norma piglia;
E giovin carico d'illustri fregi
            L'avo somiglia.
  Col senno ei modera gli ampj tesori,
L'orgoglio abbomina, rispetta Temi;
Delle Pieridi ne' gioghi estremi
            S'orna di fiori.
  Te, da cui vennero l'equestri prove,
Nettuno, ei seguita con lieti auspici,
E mel dolcissimo fra lieti amici
            Dal sen gli piove.

Ode VII

  A Megacle Ateniese vincitore della quadriga

  S'oggi pei figli d'Almeon s'ottiene
Delle quadrighe procellose il vanto,
E' bello, o Musa, dall'illustre Atene
         Muovere il canto.
  Qual altra gente, qual fiorita riva
Porremo ai carmi generoso segno,
La quale innalzi fra la gente Achiva
          Grido più degno?
   Famosa ovunque d'Erettèo risuona
Per mille lingue la prosapia erede,
Che strusse, o Febo, nella tua Pitona
            L'inclita sede.
  Ma cinque all'Ismo, due ne' pian cirrei
E un serto io canto dell'elèo conflitto,
Onde i tuoi padri, e tu fregiato sei
           Megacle invitto.
  Nè men la palma che gli Dei clementi
Oggi ti diero, di piacer m'accese;
E sol mi lagno che il livore addenti
         L'eccelse imprese.
  Ma vecchio è il grido che qualor Fortuna
Mostra la faccia più costante e bella,
Allor sul capo del mortal s'aduna
            Nera procella.

Ode VIII

  Ad Aristomene d'Egina lottatore

  O bella Pace, di tranquille menti
Fausta nutrice in terra,
Figlia di Temi, che cittadi e genti
A bei destin sollevi,
Arbitra dei consigli e della guerra,
Per man d'Aristomène
L'onor della vittoria oggi ricevi
Dalle pitiadi arene.
  Blanda cultrice d'opportuni modi
Tentar belle fatiche,
E bei frutti raccôr del par tu godi:
Tu, se alcun serba mai
Indomabile in petto ire nemiche,
Sfidi l'orgoglio insano
De' feri mostri, e profondarlo sai
Nel sen dell'oceano.
  Te non conobbe, e ingiustamente offese
Porfirion rapace:
E' grato il lucro che signor cortese
Da ridondanti sale
Volontario d'offrir pur si compiace;
Ma violenze acerbe
Partoriscono alfin sorte fatale
All'anime superbe.
  L' empio Tifon per cento capi altiero
Non isfuggì tuoi sdegni,
Nè campò de' giganti il condottiero;
Ma sotto il divin telo,
E il grand'arco febèo cadder gl'indegni.
Or di Senarce al figlio
L'istesso Nume venerato in Delo
Volge propizio il ciglio.
  E vincitor dalle parnasie sponde
Lo guida incoronato
Del dorio metro e della casta fronde
Dove le Grazie oneste
La bella Egina in guardia ebber dal Fato:
Ella ne' dritti suoi
Temide serba, e del fulgor si veste
Degli Eacidi eroi.
  Però splendide glorie ostenta e piene
Dagli scorsi anni primieri:
Lei salutâl le faticose arene
Madre d'atleti egregi;
Dal generoso seno uscir guerrieri
In belle pugne accorti:
Ond'è che tanto il suo valor si pregi
Nel novero dei forti.
  Ma dell'ondosa Egìna ogni bel vento
Le brevi ore fugaci
Non consenton ch'io sposi all'arpa e al canto;
E ognor fastidio ingrato
Versano in gentil sen Muse loquaci.
Drizziam pertanto il dardo,
Cor mio, nel vicin segno, e carme alato
Voli al campion gagliardo.
  A calcar l'orme avìte uso tu sei,
O lottator, nè oltraggio
Rechi di Teognèto ai serti elèi,
Nè per l'ismia corona
Di Clitomàco al giovenil coraggio.
Dei Midilidi prodi
L'onor tu cresci, e intorno a te risuona
Alto fragor di lodi.
  Di quelle lodi che s'udiro un giorno
Dall'Oiclide sparte
Presso le soglie del Cadmèo soggiorno,
Poichè venir dovièno
Gli Epigoni a tentar novello Marte.
Nei bellici perigli,
Puro, il vate dicea, ribolle in seno
L'ardor paterno ai figli.
  Veggo Almeòne di pugnar già vago
Sul fiammeggiante scudo
Scuoter l'orrendo maculato drago,
E alle tebane porte
Preceder tutti nel funereo ludo.
Veggo pur dianzi afflitto
Di stragi Adrasto rintegrar sua sorte
Nel secondo conflitto:
  Sebben di pianto gli cosperga il ciglio
Domestico dolore:
Ch'ei sol fra i Greci dell'ucciso figlio
Fia che il cener raccolga;
E salvo quinci per divin favore,
Le vincitrici piante
Coll'intera falange alfin rivolga
All'ampie vie d'Abante.
  Sì disse Amfìarào. Quindi Almeòne
Io pur di versi aspergo,
E intreccio all'are sue liete corone,
Ch'egli appo me risiede,
Fedel custode del mio dolce albergo;
Ei pien del patrio lume
Mi rafferma le sorti allor che il piede
Muovo al pitiaco Nume.
  Ma tu, possente feritor, che regni
Nel famoso recesso
E il comun voto d'ascoltar ti segni,
Qui fu per te, gran Dio,
Il più bel serto al garzoncel concesso;
E obbietto a mille studi
Ne' tuoi dì già gli diede il suol natio
L'onor dei cinque ludi.
  Deh con mente benigna oggi rimira
Quanto per queste dita
Sposar mi giova alla maestra lira!
Temide santa prende
Dell'inno trionfal cura gradita;
E dall'etereo coro
Alle vostre, o Senarce, alte vicende
Favor costante imploro.
  Se alcun d'ampio sudor non bagna il volto,
E beni accoglie, il pensa
Per accorta virtù ricco lo stolto.
Ma tanto l'uom non vale,
E Iddio, sol egli ogni tesor dispensa.
Egli che alcun sublime
Leva talora, altri con possa uguale
Sotto la man deprime.
  E a te, prode garzon, dolce corona
Di tue vittorie al grido
E Megara porgeva e Maratona.
Te salutò tre volte
L'agon di Giuno nel paterno lido;
Ed ora in bei contrasti,
All'ire tue le redini disciolte,
Quattro emuli domasti.
  Nè Delfo al ritornar ebbero amica,
Nè lieto infra gli amplessi
Li accolse il riso della madre antica;
Ma côlti dalla sorte
Cercan, l'agon fuggendo, ermi recessi.
Sol chi tal palma ottenne,
Che del ben che bramò lo riconforte,
Mette al volar le penne.
  E l'alma a cure più lodate inchina
Che non all'ôr: ma come
Leva in alto i mortali aura divina,
Così destin severo
Al suol gli sbalza, e ne disperde il nome.
Nati, cader bisogna:
Che siam noi dunque o che non siamo? Leggiero
Veder d'ombra che sogna.
  Ma se mai sovruman raggio n'è dato
Dal fulminante padre,
Bello è l'uman fulgore, e il viver grato.
Deh versa ogni tesoro
Su queste, Egina mia, libere squadre;
E liete ore tranquille
Giove, Eaco,Pelèo tessan per loro,
E Telamone, e Achille!

Ode X

  A Ippocle di Tessaglia corridore del doppio stadio

  O diva Sparta, o florida
Tessaglia, ov'ebbe impero
Pel famoso Aristomaco
D'Alcide il seme altero!
Ma sciolgo io forse il canto
Con temerario vanto?
  No: per Ippocle or chiedono
E Pelinno e Pitona,
E i fortunati Alevadi
Dei fior pimplèi corona;
E sacro ai merti suoi
Il carme degli eroi:
  Mosse l'invitto giovine
All'agonal periglio,
E sei recessi aonii
Dall'arbitro Consiglio
Per le doppie carriere
Le lodi ebbe primiere.
  Quindi se ognor promuovono
Quaggiù gli Dei clementi
Delle fatiche splendide
I principj e gli eventi,
Delfico Sir chiomato
Tu gli scendesti a lato.
  L'indole bella spinselo
Del genitor sull'orme,
Primo due volte in Elide
Fra le armigere torme,
E lieve al par del vento
Nel parnasio cimento.
  Deh lor fra i tardi posteri
Fioriscan bei tesori;
Parte ottengan non ultima
Di Grecia ai sommi onori,
E il ciel gli riconforti
Di non cambiate sorti!
  Quegli è beato, e fervide
Merta castalie note,
Che snello piede, e valido
Braccio vantar ne puote,
E nobili corone
Côlte in sudato agone.
  Poi giunto ai dì più languidi
Mira con lieto ciglio
Il pitio serto splendere
Sul crin di giovin figlio.
E Fricia è tal. Chi suole
Bramar le vie del Sole?
  D'Alcide ai segni arrestasi
La gloria del mortale;
E valicando inospiti
Contrade, e immenso sale,
Il calle indarno tenti
Alle iperboree genti.
  Solo il figliuol di Danae
Giunse ai remoti tetti,
Allor che s'immolavano
Cento giumenti eletti,
E fean le mense invito
All'ospite gradito.
  Le belve insolentivano
Sotto i nudati acciari:
Febo dal ciel ridevane,
E sui fumanti altari
Gradìa l'offerte e i voti
Del popoli devoti.
  Lungi da lor non partonsi
Le amabili Camene:
Ma schiere d'alme vergini
Sulle felici arene
Alto suonar fan l'etra
D'arguta tibia, o cetra.
  E bei conviti apprestano
D'alloro inghirlandate;
Nè morbi lor s'accostano,
Nè gel di tarda etate,
O rea Nemesi, amica
Di sdegni e di fatica,
Or dunque alla magnanima
  Gente da Palla scorto
Venìa l'invitto Perseo,
Valor mostrando accorto,
E spinse all'atra foce
La Gorgone feroce.
  Poi tornando coll'orrido
Teschio che avea pendenti,
Di chiome invece, squallidi
Raggruppi di serpenti,
Di Serfo entro le porte
Recò lapidea morte.
  Qual fia, se vien dall'etere,
Portento menzognero?
Ma posa il remo, e l'àncora
Getta, o fedel nocchiero,
E dagli occulti scogli
La nave mia ritogli.
  Mentre, qual ape fervida
Vola di fiore in fiore,
Tal passa velocissimo
Il carme lodatore,
E toglie alto concento
Da cento obietti e cento.
  Or se d'intorno al Peneo
Gli esultanti Efirèi
Danzando amin ripetere
Il suon degl'inni miei,
Ippòcle avrà decoro
Maggior del pitio alloro.
  E invidia fia di tenera,
Stupor d'età natura
E di leggiadre vergini
Soavissima cura:
Chè dissimili affetti
Pungon diversi petti.
  Ma chi sudando accostasi
Al ben che agogna in terra,
Se alfin presente scorgalo,
Con pronta man l'afferra,
Poichè il diman s'asconde,
In tenebre profonde.
  Or basti. Al core affidomi
Del candido Torace:
Egli sul cocchio Aonio
Oggi salir mi face,
E amato m'ama, e fido
Precedemi col grido.
  Il cor nell'opre svelasi
Com'oro in lidia pietra;
Ma consegnar non medito
Te solo alla mia cetra,
E avran modi tebani
Pur anco i tuoi germani.
  Ei delle leggi Tessale
Serban l'onor sincero,
E casti al ciel le innalzano:
Ch'ebber colà l'impero
Dei paterni destini
Gli onesti cittadini.

Ode XI

  A Trasideo di Tebe, giovine corritore dello stadio

  O nel ciel compagna Semele
Alle olimpiche regine,
O felice Ino Leucotea
Tra le Ninfe oceanine,
Ambo nate all'Agenoride
Leggiadrissime figliuole
Con la vaga Elettrionide,
Genitrice a invitta prole,
Deh! volgete a Melia il piè.
  Qui tesor d'aurati tripodi
Collocava il delio arciero
Sull'ascosa piaggia ismenia,
E all'oracolo sincero
Quivi stanza, onor qui diè.
  D'eroine qui raccogliere
Stuol consorte oggi desia,
E al suo fianco Melia invitavi;
Belle figlie d'Armonia,
Sicchè fausto appena d'Espero
Sorga il raggio, alto risuone
Temi, Delfo, e il sir fatidico,
Se di Cirra il sacro agone
Rese a Tebe illustre onor.
  Nella terra u' lieto Pilade
Già si strinse al dolce amico,
Ridestando il buon Trasideo
La virtù del padre antico,
Gli consacra il terzo allôr.
  Ah! perchè nel cor mi tornano
Crude immagini funeste?
Con pietoso inganno Arsinoe
Trafugò tra l'ombre Oreste,
Mentre il nudo acciar sacrilego
Si scuotea nell'empia destra,
E di sangue i regi talami
La feroce Clitennestra
D'inondar non dubitò.
  Sospirando d'Agamennone
La tradita ombra severa,
Colla saggia iliaca vergine
Di Cocito alla riviera
Senza onor precipitò.
  Chi potè l'iniqua spingere
All'orribile delitto?
Forse là sui lidi d'Euripo
Della figlia il sen trafitto,
O bramosa d'altro talamo
La tradì notturno amplesso?
Quanto grave in moglie florida
E' l'orror di pari eccesso,
Quanto mal s'asconde al dì!
  Spira intorno aura malefica
Contro i pallidi tiranni
Nè i tesori li assicurano;
Ma nascosto passa gli anni
Chi fortuna umil sortì.
  Tal Cassandra, e seco d'Atreo
L'alto germe al suol cadea,
Come alfin mirollo riedere
La fatal reggia amiclea;
Nè gli valse il fasto d'Ilio
Vôlto in polve, e sciolta Elena:
Quindi aprì l'antico strofio
Al fanciul salvato a pena
La cirrea valle ospital.
  Ma cresciuto in terra estranea
Al terror dell'ira ultrice,
Spense Oreste il vile adultero,
Spense l'empia genitrice
Sotto il vindice pugnal.
  Perchè intorno a obliquo trivio
M'aggirai lontan dal segno?
Perchè in mar travolse un turbine
Fuor del corso il nostro legno ?
Ove usassi a prezzo vendere
Della cetra i dolci modi,
D'ogni parte, o mia Pieride,
Il romor di compre lodi
Ben potresti mendicar.
  Ma convien oggi al magnanimo
Genitore, e a Trasidèo,
Che diletto in seno accolgono
Pari al delfico trofeo,
Altri carmi sollevar.
  Vincitrici ruote in Elide
Ei guidâr con ratto volo:
Nudi al corso in Cirra l'emulo
Superâr veloce stuolo:
Che riman? Di ben possibile
Bramo il Cielo a me secondo:
Se mediocri onor fioriscono
Più durevoli nel  mondo,
Biasmo il soglio, e biasmo i re.
  Rattemprando i voti fervidi
A comun virtù m'appiglio,
E così d'atroce invidia
Mi ghermisce invan l'artiglio;
Ella stessa è strazio a sè.
  Chi trapassa ore pacifiche
Giunto al sommo della sorte,
Nè recò  molesta ingiuria,
Più serena ottien la morte,
E il maggior d'ogni tesauro
Lascia in dono ai figli suoi;
Quella fama, onde l'Ificlide
Vive ancor tra i forti eroi
Celebrato in ogni età.
  Quella fama, onde s'onorano,
Prole ai Numi sempiterna,
E Polluce invitto e Castore,
Cui gradita sede alterna
E Terapne e Olimpo dà.

Ode XII

  A Mida d'Agrigento sonatore di tibia

  O di quante in beltà son chiare al mondo
  Alma città primiera;
Prima nello splendor, tempio giocondo
  Di Plauto alla mogliera;
Che ricche alberghi popolose vette
  Sui lidi d'Agrigento,
Deh! piacciati raccôr le frondi elette
  Del pitico cimento.
Già scorto da' bei studj, onde gli furo
  Cortesi uomini e Dei,
Per te l'inclito Mida iva sicuro
  Fra i gareggianti achèi;
E riportò nel delfico soggiorno
  Pur or l'ambìto vanto,
L'arte trattando, onde imitava un giorno
  Palla il gorgoneo pianto;
Il qual suonar tra i sozzi angui s'udìa
  Di lutto miserando
Quel dì che Perseo vincitor ferìa
  La vergine col brando
E morte addusse a Serifo marina,
  E al perfido lignaggio.
Poichè tolse di Forco alla divina
  Prole il diurno raggio.
Così fatali al crudo re tornaro
  Le insidiose cene,
E della serva madre il pianto amaro,
  E il violento imene.
Ma come alfin Minerva ebbe disciolto
  Dalle sudate imprese
L'almo figliuol, che in bionda nube accolto
  A Danae in sen discese;
Compose allor la melodia stridente,
  Che dalle tibie vola,
Qual suonava d'Euriale piangente
  Sulla rapace gola.
Quinci di vari modi alto concento
  Per noi diffonder s'usa,
Come cento fischiaro aspidi e cento
  Sul crine di Medusa.
Dal cavo bronzo il mobil canto viene,
  E dalle canne argute,
Che mira del Cefiso all'ombre amene
  Orcomeno cresciute.
E risvegliar de' nobili sudori
  Desio ne' forti ei suole,
E legge imporre dei festanti cori
  All'agili carole.
Chi fuggendo i travagli attigner vera
  Felicità presume?
Ma contrario al mattin, fausto alla sera
  Sperder li suole il Nume.
Non cede il Fato: pur quel giorno istesso,
  Ch'ogni speranza invola,
Uom da rifiuti dolorosi oppresso
  Con altro ben consola.


•  Indietro  •  Home  •  Autori  •  Titoli  •

©2002 Optima