IL PRIMO DOPOGUERRA - DALLA FINE DELLA GRANDE GUERRA AL CROLLO DI WALL STREET

LA CONFERENZA DI PACE E LA NUOVA EUROPA

Benchè la conferenza di pace di Parigi, che fu aperta ufficialmente il 18 gennaio del 1919, dovesse stabilire principalmente la nuova carta d’Europa, dopo gli sconquassi della guerra, chi si trovò ad essere figura preminente da subito all’interno dei lavori diplomatici fu il presidente americano, Woodrow Wilson. Questi, con piglio tipicamente yankee, si investì immediatamente della parte del difensore della libertà e della civiltà, riuscendo ad imporre ai rappresentanti delle altre potenze vincitrici, vale a dire l’inglese Lloyd George, il francese Clemenceau e l’italiano Orlando, come punto di partenza per le trattative, un documento diviso in 14 punti, che aveva reso pubblico un anno prima, e in cui lui si ergeva a demiurgo di un nuovo, meraviglioso, ordine internazionale. Possiamo dire che, proprio da questi celebri 14 punti tragga origine la mania, non del tutto perduta, degli Stati Uniti di farsi sempre e comunque gli affari degli altri, atteggiandosi a paladini-sceriffi della pace mondiale (il caso vuole, viceversa, che in quasi tutte le guerre ultime scorse ci sia il loro zampino). Comunque sia, le linee guida di questo documento erano rappresentate dall’apertura delle barriere commerciali tra gli stati, dalla riduzione degli arsenali, dall’eliminazione della diplomazia segreta, e dal ridisegno delle frontiere delle colonie e dell’Europa.

Per l’Europa, il principio che informava tale definizione di nuove frontiere doveva essere quello dell’autodeterminazione dei popoli; di autodeterminazione delle colonie non si discusse neppure.

L’ultima perla del diadema wilsoniano, in cui i lettori più smagati avranno già letto i prodromi dei disastri europei dei successivi trent’anni, fu la proposta di creare la Società delle Nazioni, che tutelasse sulla pace, sull’indipendenza e sulla sovranità territoriale dei popoli del mondo, nientemeno! Che la cosa fosse una bufala è dimostrato dal fatto che gli USA, liberatisi di Wilson, rigettarono il trattato di Versailles e non entrarono a far parte della Società delle Nazioni.

Le cose, tuttavia, andarono un po’ per le lunghe, specialmente alla voce “ridefinire la carta geo-politica d’Europa”: come si sarebbe visto una settantina d’anni dopo, in Bosnia, le popolazioni balcaniche e mitteleuropee, soprattutto, avevano la deprecabile tendenza a mescolarsi tra loro, dando l’aire a rivendicazioni territoriali piuttosto dissimili, da parte di legittimi governi di stati diversi.

S’aggiunga a questo che i Francesi, ottenuta la revanche, non avevano affatto dismesso il revanscismo, e si opponevano con forza ad un plebiscito di autodeterminazione in Alsazia e Lorena (dato che i suoi esiti erano tutt’altro che certi in chiave filofrancese) e non gradivano che la Germania se ne uscisse fuori dal patatrac che aveva messo in piedi con un semplice “tante scuse, e arrivederci!”.

Dunque, la delegazione francese si adoperò perché la Germania subisse quanti più tagli territoriali possibile, con buona pace dell’autodeterminazione e del principio di nazionalità: Hitler aveva trent’anni e si occupava d’altro, al momento, ma la parola Anschluss nel vocabolario tedesco esisteva già!

Se vogliamo comprendere le ragioni per cui, un solo quarto di secolo dopo la terrificante ecatombe della Grande Guerra, il mondo precipitò in una guerra ancora più spaventosa, proprio nella conferenza di Parigi dobbiamo andare a cercare il nocciolo di tante ferite non rimarginate, di tante attese deluse, di tanti drammi nazionali, che sfociarono in un odio senza limiti, in terribili dittature nazionaliste e nel quasi suicidio d’Europa.

Anche l’Italia non si ritrovò appieno in quei 14 punti di Wilson, visto che, tra le annessioni territoriali previste dal Patto di Londra, comparivano regioni, come il Sud Tirolo, l’Albania ed il Dodecanneso, la cui nazionalità italiana risultava un tantino problematica da dimostrare.

Discorso a parte merita Fiume, assegnata alla Croazia già dal Patto di Londra, in quanto enclave italiana in una campagna slavofona, ma che ora l’Italia rivendicava per sé: proprio sull’argomento dell’italianità di Fiume le trattative si inchiodarono e Orlando, con a ruota il fido Sonnino, che parlava benissimo l’inglese ed aveva colto l’antifona, rientrò per protesta in Italia.

Ma erano altri tempi, mica come oggi, che, se Amato invia una protesta all’Olanda per come i poliziotti olandesi trattano i giornalisti italiani, tutti se la fanno sotto: allora la défaillance italiota passò sotto silenzio, e la conferenza continuò ad andare avanti tranquillamente per un mese (aprile-maggio 1919) senza di noi, finchè i due se ne tornarono a Parigi quatti quatti, giusto in tempo per constatare che Gran Bretagna e Francia si erano già divise le ex colonie tedesche e che per loro non c’era rimasto un bel niente.

Per la stesura del trattato di pace vero e proprio, ci si trasferì a Versailles; e per la stipula da parte della Germania si scelse, con poco tatto invero, quella stessa Galleria degli Specchi in cui, nel 1871, era stato proclamato l’Impero germanico, all’indomani di Sédan: anche qui il lettore smagato troverà l’antefatto del comportamento di Hitler alla firma dell’armistizio con la Francia, nel 1940.

La Germania, a Versailles, perse il 13% del suo territorio, cedette per 15 anni alla Francia lo sfruttamento delle miniere della Saar, consegnò l’Alsazia e la Lorena alla Francia, la Posnania e la Prussia occidentale alla neonata Polonia (questo corridoio polacco verso il mare, di fatto, divideva la Germania in due): i tedeschi persero il 75% della loro produzione di ferro, il 25% di quella carbonifera e tutte le colonie.

Se a questo si aggiungono le clausole circa l’esercito, l’occupazione quindicennale della Renania e le riparazioni dei danni di guerra (20 miliardi di marchi-oro subito, il resto in comode rate fino al 1964!), si comprenderà come molte voci, in Germania, avessero allora accusato il nuovo governo repubblicano di Weimar di avere accettato delle condizioni che sancivano la fine della nazione tedesca.

Si comprenderà, del pari, di dove nacque il forsennato nazionalismo di alcune frange della destra germanica: sorgeva una specie di revanscismo alla rovescia, alimentato dal mito della “pugnalata alle spalle”, che i politicanti avrebbero inflitto ad un esercito non ancora sconfitto. Di qui al nazionalsocialismo il passo è veramente brevissimo.

Probabilmente, un atteggiamento meno intransigente e più mite verso la Germania avrebbe tolto di mano ai fanatici pangermanisti la loro arma principale di propaganda: dapprima, Germania contro tutti, poi Germania sopra tutti!

Nei successivi trattati, firmati a Saint Germain (10/9/1919) e al Trianon (4/6/1920), furono stabilite le condizioni di pace, rispettivamente, per l’Austria, divenuta repubblica, e per l’Ungheria; oltre alle due repubbliche danubiane, l’impero austroungarico era stato diviso in Cecoslovacchia, Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (dal 1929, Regno di Yugoslavia), Galizia (alla Polonia), Sud Tirolo, Venezia Giulia, Istria meno Fiume, Zara e qualche isola (all’Italia). Il destino degli altri alleati minori degli Imperi Centrali fu sancito dai trattati di Neuilly (Bulgaria) e Sèvres (Impero Ottomano); quest’ultimo fu del tutto smantellato, a favore di protettorati franco-inglesi in Medio Oriente.

Per quel che riguarda l’Urss, pur essendo decaduto il trattato di Brest-Litovsk, furono riconosciuti legittimi gli stati creati dai Tedeschi ed ora autodichiaratisi indipendenti (Finlandia, Lituania, Estonia, Lettonia e Polonia), che erano considerati una sorta di linea difensiva contro l’espandersi della minaccia comunista. Per la storia italiana, riveste grande importanza, in questo periodo, l’impresa fiumana, guidata da D’Annunzio, che per ragioni di spazio, non tratteremo in questa sede, avendole Area già dedicato un bel Focus, qualche tempo fa; gli esiti dell’impresa e la sua importanza per la nascita dell’immaginario fascista sono cosa nota.

LE ROUGE ET LE NOIR

Oltre ad avere seppellito la vecchia Europa ottocentesca, la Grande Guerra è stata la levatrice di un nuovo modo di interpretare la politica e lo scontro sociale: i grandi partiti socialisti europei, che per tutto l’ultimo scorcio del XIX secolo e per i primi quindici anni del XX non avevano fatto che radicarsi e crescere, ora prendevano decisamente al balzo la palla rappresentata dall’enorme disordine interno che alcuni dei paesi ex belligeranti dovevano affrontare.

Era la grande occasione vagheggiata dagli ambienti socialrivoluzionari degli anni immediatamente antecedenti il conflitto: quella che li faceva propendere per la guerra, in contrapposizione al pacifismo della sinistra moderata, perché nella guerra essi vedevano il detonatore sociale della rivoluzione.

In effetti, la Russia, come abbiamo già scritto nel numero precedente, senza la guerra, con ogni probabilità non avrebbe visto l’affermarsi al potere della sparuta minoranza bolscevica; in altri paesi, peraltro, ci si andò assai vicino.

Quello che, in seguito, fu ricordato come il “biennio rosso” è stato spesso, volutamente temo, dimenticato dagli storici: è un po’ difficile comprendere perché tante persone comuni e di indole comunemente pacifica abbiano potuto guardare con sollievo l’affermarsi di un ordine che era già, evidentemente, in odor di dittatura, se non si tien conto del fatto che una rivoluzione di stampo bolscevico era, allora, ai loro occhi, un pericolo estremamente concreto. Le destre ipernazionaliste ed antilibertarie, rappresentavano agli occhi della gente perbene il minore dei mali: uno scotto da pagare per evitare guai peggiori. Insomma: si cercò più ordine a scapito di un po’ di libertà; si preferì il rischio di una svolta reazionaria alla certezza di una rivoluzione scellerata. Da questo scontro feroce tra “rossi” e “neri” nacque una nuova politica, fatta di demagogie contrapposte, di slogan e di appelli diretti al popolo, contrapposta alla vecchia ed usurata politica liberale, con i suoi maneggi ed i suoi trasformismi.

Era una situazione al limite della rottura; e fu proprio la Grande Guerra a portarla a tale limite.

In Germania, ancor prima della fine della guerra, erano scoppiate rivolte filocomuniste in molte città: si trattava di una vera offensiva rivoluzionaria, che culminò nella rivolta della Lega di Spartaco.

Gli Spartachisti, ex demosocialisti divenuti comunisti sotto la guida di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, tentarono di fare a Berlino quello che avevano fatto i loro soci russi a San Pietroburgo, ma furono sconfitti e massacrati dall’esercito, coadiuvato dai cosiddetti Freikorps (Corpi Franchi), milizie volontarie che si possono considerare gli antesignani delle SA naziste.

I moti spartachisti non godettero di grande seguito tra gli operai berlinesi, e, dopo una settimana di sangue (5-12 gennaio 1919), il governo di Weimar, presieduto da Ebert, poteva annunciarne la totale disfatta; Luxemburg e Liebknecht furono giustiziati.
Poco dopo, lo stesso Ebert chiuse i conti con la Repubblica dei consigli, altro tentativo di governo bolscevico che era stato proclamato in Baviera nel novembre del 1918.

Tra gli sconfitti della Grande Guerra pareva essere in voga la deriva comunista; tant’è che anche la neonata repubblica d’Ungheria si trovò alle prese con una rivoluzione: il bolscevico Bela Kun, che si sarebbe messo in luce nella guerra civile russa, proclamò, nel marzo del 1919, la Repubblica sovietica, finchè Romeni, Cechi e alleati dell’Intesa, a cinque mesi dal suo insediamento, non lo cacciarono, mettendo al suo posto l’ammiraglio Horty.

Proprio per coordinare tutte queste iniziative slegate tra loro, Lenin concepì e fondò, a Mosca, la terza Internazionale (Comintern), che mirava, come abbiamo specificato nell’inserto sulla rivoluzione russa, alla rivoluzione mondiale; alla Terza Internazionale aderirono e ad essa si uniformarono (centralismo democratico) i partiti comunisti europei.

In questa atmosfera di insurrezione permanente, si possono perfettamente immaginare gli stati d’animo della gente comune, cui giungevano notizie vaghe, ma preoccupanti, degli atroci massacri russi ( è del luglio del 1918 il massacro dei Romanov a Ekaterinburg), e che avevano sotto gli occhi le masse senza controllo che trasformavano ogni giorno le piazze in campi di battaglia: è logico che esse cercassero delle figure rassicuranti in materia di ordine pubblico e di normalizzazione; nasceva il mito dell’”uomo della Provvidenza”.

In tutta Europa vi fu una reazione delle destre a questa offensiva comunista: in Germania nacque, nel 1920, il NSDAP (cioè il partito nazista), in Italia (1919) i Fasci italiani di combattimento, mentre in Russia aumentava continuamente l’appoggio dei paesi occidentali all’Armata Bianca, che combatteva contro lo stato sovietico.

Affluivano spesso nelle file dei movimenti di estrema destra i reduci della Grande Guerra, che ritrovavano in quell’ambiente il clima di braveria tipico dei corpi d’assalto: arditismo, trincerismo, reducismo, sono solo i nomi di un unico disagio per il rientro alla vita civile di tanti che, gratificati e responsabilizzati in guerra, non accettavano di tornare ad occupazioni umili e monotone.

E nel neonato movimento fascista, essi trovarono anche un riconoscimento del loro valore e del loro sacrificio: si ricordi che le manifestazioni socialiste contro la guerra impedirono perfino l’esposizione di tricolori (visti dai socialisti come una provocazione!?) nel primo anniversario della vittoria, e che gli insulti e gli sputi per i reduci che uscivano in libera uscita in divisa erano all’ordine del giorno.
A questa situazione di gravissima tensione si deve aggiungere un quadro economico che, se per taluni paesi europei era problematico, per altri era addirittura disperato.

In Italia vi furono lotte sociali terribili, negli anni 1919-1920: i contadini, che avevano sperato che il governo mantenesse le promesse di distribuzioni di terre fatte loro durante la guerra, quando compresero che non se ne sarebbe fatto nulla, occuparono, con le leghe rosse e quelle bianche (comunisti e cattolici) le campagne.

Questo seminò il panico tra i proprietari terrieri, che cominciarono a guardarsi intorno alla ricerca di qualcuno che potesse proteggere le loro proprietà ed i loro interessi: indovinate di chi sto parlando…

Nell’estate del 1920, l’occupazione si estese alle fabbriche: intervenne il governo, con una proposta compromissoria tra proprietari ed operai, sostenuta dallo stesso Giolitti; ma, ormai, la borghesia italiana aveva fiutato il pericolo, ed aveva scelto con chi schierarsi.

Nel marzo del 1919 c’era stato il programma di San Sepolcro, che aveva offerto il baliatico al fascismo: se Giolitti, primo ministro, subentrato a Nitti nel giugno del 1920, non si decideva ad usare le maniere forti contro operai e contadini, le avrebbero usate le squadre fasciste, che apparivano sempre di più agli occhi dei grandi agrari e degli industriali italiani come l’unico argine al dilagare della minaccia sovversiva Intanto, nel gennaio del 1921 (congresso di Livorno) nasceva il P.C.I., guidato da Gramsci e Bordiga: tra rossi e neri, il vecchio timoniere di Dronero cercava di navigare a vista.

In questo contesto, Giolitti concepì un nuovo schieramento elettorale, che desse al governo una maggioranza forte: i blocchi elettorali nazionali, che comprendevano liberali, democratici, nazionalisti e fascisti, in un melting pot improbabile.
Le elezioni gli diedero torto: i fascisti passarono all’opposizione e Giolitti si dimise.

Dopo i governi traballanti di Bonomi (luglio 1921) e di Facta (febbraio 1922), il Partito Fascista, che ormai era divenuto il più forte partito italiano con i suoi oltre 700.000 iscritti, dopo essersi proposto alla Nazione come sostituto dello Stato in molti frangenti, reclamò ed ottenne la presidenza del consiglio per il suo capo, Benito Mussolini.
Il 29 ottobre, dopo aver rifiutato di dichiarare lo stato d’assedio in occasione della Marcia su Roma, il re nominò Mussolini capo dell’esecutivo: anche se nessuno ancora lo sapeva, quello era l’anno zero dell’Era fascista.

PROVE TECNICHE DI REGIME

Non appena conquistato il potere, Mussolini, si affrettò a lanciare segnali distensivi verso chi temeva che la sua presidenza fosse, come infatti fu, solo il prologo ad una dittatura: in realtà, il primo governo Mussolini fu quanto mai moderato, comprendendo, oltre a pochi fascisti tra i meno radicali, liberali, nazionalisti e popolari.

Il messaggio alla borghesia era chiaro: da una parte, Mussolini si atteggiava a magnanimo vincitore e a protettore (l’antica Roma insegna) delle prerogative parlamentari (che pure, non del tutto a torto, disprezzava), dall’altra impersonava l’unico che potesse tenere a freno lo squadrismo, minacciando, all’occorrenza di lasciargli le briglie sul collo per una “seconda ondata”.

Nel frattempo, egli creò la MVSN, ossia una forza armata dipendente dal partito; contemporaneamente, Mussolini fece approvare un decreto che limitava la libertà di stampa.

Il parlamento gli venne incontro nella edificazione del regime: nel 1923 fu, infatti, modificata la legge elettorale, ripristinando il maggioritario con un grosso premio di maggioranza (2/3 dei seggi al partito di maggioranza relativa).

Il “listone” ministeriale (composto dal solito minestrone fascisti-nazionalisti-liberali-popolari) ottenne il 64% dei suffragi, e si beccò il premio. Dopo questa vittoria fascista alle elezioni, Giacomo Matteotti, deputato socialunitario, denunciò brogli ed intimidazioni, chiedendo l'annullamento dei risultati: per tutta risposta, il 10 giugno del 1924, fu rapito dalla ‘ceka’ fascista, ucciso e seppellito nella campagna romana; il suo cadavere decomposto fu ritrovato da un cane due mesi più tardi, provocando l’orrore e la durissima reazione dell’opinione pubblica.

Sulle responsabilità di Mussolini nell’assassinio di Matteotti si è scritto molto, e, certo, con maggiore autorevolezza di quanto non possa fare il sottoscritto; dai risultati dei due processi e delle molte inchieste private, mi pare si possa però dire che, senz’altro, è imputabile a Mussolini una responsabilità oggettiva del delitto Matteotti: se non avesse esclamato, fuori dall’emiciclo, subito dopo l’intervento del parlamentare socialista, “dov’è la ceka, dov’è Dumini?”, c’è da dubitare che gli ottusi sicari di Dumini si sarebbero assunti in proprio la decisione di un intervento tanto grave. E’ pur vero che, probabilmente, essi volevano solo dare una lezione a Matteotti, la cui reazione aveva provocato una colluttazione sull’automobile usata per il sequestro, e, si suppone, la coltellata alla carotide che lo uccise: altrimenti non si spiegherebbe il vagare tutta la notte senza scopo, con quell'ingombrante cadavere a bordo, né la sepoltura sotto pochi centimetri di terra, in fretta e furia.

Chi ha pianificato ed organizzato a tavolino un delitto del genere non si comporta così.

Circa le responsabilità dirette del futuro Duce, ci andrei più cauto: in quell’estate del 1924, Mussolini non era affatto in una posizione politica inattaccabile; l’opposizione era ancora forte e scalpitava: di tutto aveva bisogno il primo ministro, meno che di un martire tra i piedi.

Senza dubbio, l’assassinio di Matteotti portò più danni che vantaggi a Mussolini, almeno sulla breve distanza; e siccome Mussolini era piuttosto abile ad annusare la situazione politica, escludo che abbia direttamente ordinato un delitto che gli faceva così poco gioco.

Comunque sia, l’opposizione insorse; solo che, anziché, attaccare Mussolini in parlamento, i deputati dell’opposizione si ritirarono sull’Aventino, ossia fecero come la plebe romana nelle lotte contro i patrizi: si astennero dall’attività parlamentare, aspettando un gesto risolutivo del re.

Campacavallo!

Passata la crisi, nel gennaio del ’25, Mussolini rivendicò la paternità di tutte le azioni degli squadristi (che avevano, nel frattempo, ripreso ad imperversare) ivi incluso il delitto Matteotti, gettando le basi della dittatura: nel dicembre del 1925 fu creata la figura del ‘capo del governo’ dotata del potere di convocazione e revoca dei ministri; il passo successivo (gennaio ’26) fu quello di avocare a sé il diritto di emanare decreti con valore di legge: in pratica, allora Mussolini divenne il Duce.

Poco dopo, sparirono i sindaci, sostituiti dai podestà, e, nell’autunno di quell’anno, furono emanate le “leggi fascistissime” che abrogavano tutte le libertà costituzionali (stampa, associazione, eccetera), nacque il tribunale speciale e i parlamentari dell’opposizione furono dichiarati decaduti; nel 1928, fu assegnata al Gran Consiglio del Fascismo la facoltà di compilare la lista unica dei candidati alle elezioni (che dovevano essere tutti iscritti al PNF), e lo stesso GCF divenne un organo costituzionale: qualche mese prima, era stata creata l’OVRA, la polizia segreta, organo che non manca mai in qualunque regime dittatoriale.

IN EUROPA, INTANTO....

In Germania, dopo che PSD e Zentrum avevano perduto la maggioranza assoluta al Reichstag, nel 1920, si susseguirono governi che non potevano contare su maggioranze solide; inoltre, proprio in quel periodo, il paese affrontava, come si è visto, un momento di gravi tensioni e disordini, alimentati anche da una terribile depressione economica.

Non erano, infatti, solo i comunisti a tentare la via del putsch: anche organizzazioni di estrema destra organizzavano colpi di stato più o meno temibili. Dagli ambienti militari e dei Freikorps partirono i due tentativi di insurrezione violenta di Kapp (1920) e di Hitler (1923), che fallirono entrambi miseramente. Inoltre, in quegli anni, fare il politico non era esattamente un’attività salutare; lo dimostrano gli attentati di cui caddero vittime il deputato del Zentrum, Erzberger (1921), ed il ministro Rathenau (1922).

L’apice della crisi si toccò nel 1923; dal 1924 in poi, la Repubblica di Weimar cominciò a trarre beneficio dagli aiuti americani (piano Dawes), ottenuti grazie alla brillante politica di cooperazione internazionale del ministro degli esteri Stresemann, e la situazione andò migliorando e normalizzandosi; anche se gli effetti del crollo di Wall street erano dietro l’angolo…

Mentre la Francia remava tra alterne vicende, in Gran Bretagna era, nel 1924, arrivato al potere, per la prima volta, un laburista: Mac Donald. In realtà, Mac Donald governò solo pochi mesi, ma il dato è, comunque importante, perché venne interrotta la tradizionale alternanza Whigs (liberali)–Tories (conservatori), a favore di un’alternanza laburisti-conservatori.

Non è, comunque, che i sudditi di Sua Maestà se la passassero meglio degli altri: l’industria era poco competitiva, la disoccupazione avanzava e la gente era piuttosto esasperata.

Quando il ministro conservatore Baldwin tagliò i salari dei minatori (categoria tradizionalmente fortissima sindacalmente), scoppiò il finimondo, con uno sciopero ad oltranza che si concluse con un assedio degli scioperanti e con la loro resa per fame.

Queste, tuttavia, non erano le sole gatte da pelare della Gran Bretagna: nel 1916 c’era stata la rivolta di Pasqua a Dublino e, nel 1918, il partito Sinn Fein, vincitore alle elezioni, aveva proclamato unilateralmente l’indipendenza dell’isola di smeraldo, che sarebbe stata difesa da un esercito clandestino, il cui nome, ancora oggi, mette i brividi agli Inglesi: l’Irish Republican Army.

Nel 1921, l’Irlanda divenne libero dominion britannico, e, dopo una sanguinosa guerra civile, nel 1937, nacque l’Eire: la libera Repubblica d’Irlanda. Negli Stati Uniti, per concludere, Wilson venne giubilato ben presto, con le sue 14 tesi del cavolo: gli Americani volevano tornare a farsi gli affari loro, in beato isolamento, preoccupandosi solo di produrre e fare soldi, come ai bei tempi.

Per questo fu eletto presidente, nel 1920, l’isolazionista Harding, repubblicano.

Come lui repubblicani furono i presidenti successivi: Coolidge e Hoover, isolazionisti a oltranza e liberisti più di Berlusconi.

Fu allora che si affermò l’idea della “fabbrica-tempio”, dell’imprenditoria e del mercato sopra tutto, che tanti sfasci ha prodotto anche dalle nostre parti, specie quando si è coniugata con il materialismo marxista, dando origine all’ideologia dell’attuale sinistra (o presunta tale).

Insomma, negli USA i roaring twenties furono dieci anni di conformismo e trasgressione, di proibizionismo e di gangster; ma furono soprattutto lo scenario di un colossale granchio storico-economico, che avrebbe trascinato il mondo in una crisi che sarebbe stata impensabile, vista attraverso gli occhi di un yuppie del 1925 o di una ballerina di charleston.

Quel brusco risveglio fu il crollo di Wall street.