Cronache da Canepa

27 marzo
Come sai sto sulle alture. Lungo la strada c'è una costruzione con una piccola porta che per mesi ha inquadrato, irreale e impressionante per la sproporzione delle misure, la bianca testa di una bella cavalla. Era il mio appuntamento mattutino, la mia certezza di essere nuovamente sveglio e relazionale. Poi, il proprietario ha spostato l'animale in un recinto attiguo, lungo la strada. Tutti i giorni mi fermo per salutare quel bell'animale che ormai riconosce il ronzio della mia vespa.

Ieri mattina, tornando verso casa, la cavalla era per strada, come fuggita dal suo recinto, per trottare sulla strada asfaltata. Invece "Cheienne" (così abbiamo battezzato quello che supponevamo fosse il suo proprietario, un uomo alto e robusto con una lunga capigliatura grigia e disordinata) era sulla porta della "stalla" intento nei lavori di manutenzione.
Sapevo che avremmo trovato un'occasione per parlarci. Già accennavamo a un saluto indiano mentre scendevo al mattino per andare a scuola. Così ho saputo che conduce la sua puledra e che ogni anno si concede una vacanza consistente in una traversata dell'appennino, verso Piacenza e lungo gli antichi tratturi.
Porta tutto con sé e sosta, per la notte, presso osterie che ancora si trovano nella fascia montuosa ligure lombarda. La conversazione si è svolta mentre io, come un classico cowboy, sono rimasto in sella al mio ronzinante, motore ecologico acceso.
In dieci minuti, io Pino e quell'uomo dal nome Silvano che è tutto un programma, siamo quasi diventati amici. Tanto è vero che, secondo lui, dobbiamo organizzarci un raid insieme, durante la prossima estate.
Dato che ha insistito perchè io, qualche volta, mi fermi a chiacchierare tornando a casa nel pomeriggio, credo di essermi guadagnato il rito delle fave (i baccelli) e salame di Sant'Olcese, per questa primavera...

Un tempo, agli uomini, bastava uno sguardo e il fiuto per capire se farsi la guerra o stringere alleanze. Qualche volta decantare le parole come foglie morte d'autunno semplifica le cose e le arricchisce. E se capita a me che sono (su invito) un chiacchierone logorroico e vaniloquente, fare questa affermazione...

Non c'è alcun motivo per avviare una conversazione come la nostra e può non essercene alcuno esprimibile per interromperla. Purtroppo io soffro del complesso dell'abbandono per via di quel mio giovane padre fuggito così in fretta dalla vita. Però non c'è dolore che l'esistenza, così indifferente, non attenui e allontani.

In realtà io so cosa sia la ricchezza.
Di questa, o sappiamo riconoscere lo scopo oppure, altrimenti, non ci resta che dichiararne la perfetta inutilità. É l'unico mio pensiero nel quale si insinua il sospetto che qualche dio esista. Ed è proprio lui che mi frena dal dire che io mi sento molto, molto ricco. Non voglio evocarlo.

19 aprile
Oggi, tornato tardi da scuola, ho pranzato alle duetrenta e poi sono stato preso dal sonno che il pomeriggio scrosciante conciliava a meraviglia. Però mi sono preparato un bel caffè doppio con l'intenzione di uscire, tutto bardato di cose impermeabili, per una passeggiata fino a Levà, il borgo dopo Canepa, verso monte, distante due chilometri da qui. Pioggia o non pioggia…

Lungo la strada c'è un garage con le saracinesche sempre aperte, di quelli che hanno più l'aria di magazzino di campagna piuttosto che di posteggio per automobili: scaffali scalcagnati appesantiti da libri di scuola, un lavandino, attrezzi per il lavoro nei campi, cassette, bottiglie, ceste, corde, reti, bilance, paletti e manici per badili. Immaginavo fosse quello della proprietaria delle bietole che scorgo a quindici minuti da casa, lungo il mio sentiero cinghialesco, ed alla quale mi proponevo di chiedere fave fresche per un picnic. Infatti era lì, intenta a separare con santa pazienza le erbe inutili dal "prebugiun", appena raccolto (si tratta del diuretico tarassaco officinale, il nome genovese viene da una leggenda che lo vede propinato all'ignaro Goffredo da Buglione, "pro Boglione", che ordinava ai suoi di procurargli pietanze buone della zona).

Così ho conosciuto la signora Natalina alla quale mi sono presentato come "Pino".
Nella quiete della conversazione delle persone di un tempo (vedi Silvano) le informazioni corrono tra l'uno e l'altro come l'acqua che defluisce rapida lungo un canale, che precipita dentro una forra, che si fa inghiottire dal gorgo. Perciò, in pochi minuti eravamo perfettamente "al corrente" l'uno dell'altro.
La signora Natalina è un donna tonda, proprio tonda e graziosa come le comari nei quadri campestri di Bruegel. Avrà l'età di mia madre, quindi passati i settanta. Il marito è sofferente, in dialisi, e al ritorno dal suo periodico e triste rito deve stare a letto inoperoso. Lei, che ha l'aria del capofamiglia, ha la patente dal cinquantaquattro perché vende, all'entrata del mercato all'ingrosso, i suoi prodotti: bietole, rosmarino, salvia, prezzemolo, insalatina da taglio, patate, fave e piselli quando è la stagione etc. Si alza presto (si fa per dire) e all'una e trenta di notte è già alla guida della sua macchinina per recarsi a Genova.
In realtà non ha una vera e propria licenza ma i vigili, mi ha detto, sono bravi e chiudono un occhio da quasi sempre… Fornisce le sue erbe e verdure e tuberi ai fruttivendoli (che, qui a Genova, si chiamano bisagnini, "besagnin", per via della loro origine di coltivatori lungo le sponde del torrente Bisagno che, essendo un torrente, periodicamente distrugge argini, recinzioni e confini come un piccolo Nilo ed ecco gli anarchici seminatori ridefinire le loro preziose competenze territoriali secondo nuovi schemi, privilegi, vantaggi e postazioni). Però, qualche volta, vende anche alle "signore" che non sono mai contente: le patate nodose, il tarassaco sporco, le fave care, l'insalata lunga…

"Però le signore non sanno, non capiscono… quanto ci vuole a coltivare, raccogliere, pulire… ormai non capiscono più, confondono le cose (parole anche di mia madre) e non sanno neanche più fare da mangiare, poveri mariti! (e povere anche le mogli di quei mariti, mi creda, signora…, ho aggiunto io rubandole per un attimo la scena). Pensi che qualche tempo fa ho venduto due mazzi di bietoline, di quelle piccole, tenere, tenere, a una giovane che voleva verdure genuine e fresche per il marito. Qualche giorno dopo è tornata protestando: - "mio marito si è lamentato, erano dure!" come dure, erano bianche, tenere… le ha cotte bene? "come cotte???"- non le ha cotte? "io credevo…". Così, da quel giorno, a queste ragazze chiedo sempre se vogliono verdura da cuocere o da mangiare crude. Poveri mariti, quello si è mangiate le bietole crude, mi immagino il resto!".

Mi ha detto che a lei piace parlare con chiunque, viste le condizioni del marito infermo e la poca disponibilità della figlia già maritata e con pargoletto. Non ha mai avuto timore di scambiare parole con chi si ferma davanti al suo magazzino. Solo le ombre scure sui tornanti della strada, durante il suo quotidiano viaggio notturno, le fanno balzare la fantasia e allora sterza bruscamente e accelera lungo la discesa. "Ma adesso mi fanno un po' paura tutti questi marocchini che cominciano ad arrivare anche qui…". Per non contraddirla ho spostato la eventuale pericolosità sugli zingari (che mai si sono visti da queste parti) ma solo per i loro furtarelli. E per minimizzare le ho mostrato l'arma che ho sempre con me, il coltellino svizzero con la lama lunga tre centimetri. Così si è messa a ridere sentenziando che, effettivamente, possiamo stare tranquilli.

Sono arrivato a Levà quando è spuntato un raggio di sole. Una giovane coi capelli corti e l'aria spiccatamente da ragazzo telefonava (by cell) al rivenditore per chiedere se la motozappa che le avevano appena recapitato "andava a benzina verde o rossa". Ho capito che si trattava di una donna perché stava raccontando a un robusto signore sui sessanta che era scesa lungo la "fascia" ripida e che era stata in difficoltà etc. Intanto si era accesa una sigaretta e fumava accanitamente.
C'era la pioggerellina, c'era il sole e il verde che spuntava tra deliziosi fiocchi di nebbia lungo i costoni della valle. Mi sono chiesto come mai il signore non la seduceva riducendola a deliziosa e consenziente nudità in uno dei numerosi ripari agresti di questa campagna appenninica. Perché la gente non fa più spesso e innocentemente l'amore, perché gli uomini non sono più galanti e audaci, perché le donne sono sempre in attesa. Ma questa è una storia diversa…

6 giugno
Minuta e asciutta, vestita al modo di una comparsa di film a Cabot Cove (Miss Fletcher), sta dentro alla sua cinquecento colore aragosta per fare la guardia alle sue case: un piccolo insediamento quasi borgo su quel crinale del Fasce che protegge la prima Riviera di levante.
Come quelle fabbriche dismesse che, col tempo, si trasformano da deturpazioni dell'ambiente in solenni e inutili cattedrali, lo spartiacque appenninico tra Genova e Recco, disboscato nei secoli per l'imprevidenza degli uomini, appare ora completamente prativo, dunque desolato, eppure affascinante nella sua essenzialità. Il deserto di linee tra il verde dell'erba accarezzata dal vento e l'azzurro del cielo è, finalmente, il confine preciso tra la solidità dei liguri di terra e la rassegnazione di chi era costretto a sognare un altro mondo oltreoceano. Quelle linee sono interrotte, oggi, da piccole mandrie di cavalli orgogliosi di stagliare il proprio profilo oppure interessati a godersi la brezza dei crinali.
Nell'incisione tra due colli (significativamente il monte Cornua e il monte Becco) alcune case inattese e qualche rudere dovuto al crollo di altezze ambiziose e punite dal tempo.
La prima volta avevo cercato di evitare quel buffo personaggio sulla settantina che voleva coinvolgermi nel giudizio su due goffi giovanotti mentre andavano curiosando. Ma, al ritorno, appena posata la vespa, subito era uscita dalla sua portierina per partire all'attacco. Maglietta e camicetta e maglioncino fatto a mano e senza maniche, calzoni bianchi a mezza gamba e, dappertutto, segni di terra, un cappellino bianco da bird watching e scarpette da tennis sopra a calzette di nylon recuperate, parlava con piglio deciso e, soprattutto, irrefrenabile. Le case sono le sue e deve sorvegliarle perché gli "amici di Canepa" hanno convinto il debole sindaco di Sori che il terreno appartiene al comune. I bifolchi -"quelli di Canepa sono tutti contadini, rozzi e cattivi d'animo, lei che mi sembra una persona per bene, non si fidi!" -capeggiati da quello coi capelli lunghi, Silvano! -"sa che faceva l'infermiere ai matti e sembra matto anche lui? suo fratello fa il macellaio a Nervi e ancora adesso (e qui fa il gesto con la mano sul braccio) si droga, sa?"- vorrebbero togliermi tutto e fare qui un agriturismo… mi hanno sfondato le porte, rubato dentro alle case, portato via le persiane!
E giù storie su tutti: quello di Ischia con la trattoria, che compra terre e altre terre, il ferroviere coi bot da decine di milioni ad acquisto, la Natalina che ha costruito senza rispettare le distanze e la cugina che vende a Levà (a proposito, nella bifolcheria, forse quelli di Levà sono un po' meglio). E poi, quello della trattoria Cornua che, coi suoi cavalli, le distrugge le staccionate e le riempie di escrementi gli spazi tra le case e il costo esorbitante di un miserabile pasto con patate surgelate (testimone un vecchio conoscente perché lei mai e poi mai…). E poi duecentomila lire al giorno per tosare l'erba, sono dei signori ormai, questi contadini, E i pastori sardi che non pagano affitto per le terre…
Eravamo appoggiati al guard rail che fa da ringhiera all'abisso di verde a capofitto su Levà e Capreno e Sussisa e Canepa e il mare. Lo sguardo era trattenuto e salvato da vecchi cavi di teleferica ormai precipitati dal cielo ai cespugli spinosi. Il penetrante odore di timo quasi stordiva e, intanto, verso Genova, i vapori ascendenti valicavano il confine dove gli era possibile.
La signora Orero (ma anagraficamente signorina, come aveva precisato per una mia domanda sui suoi eredi noncuranti) diceva che mai, mai avrebbe lasciato le sue case a quegli ignoranti prepotenti. Ecco, a una persona come me, certo avrebbe potuto offrire (in affitto, ovviamente) una delle abitazioni. Perchè lei sapeva capire con uno sguardo di chi fidarsi.
A quel punto non osai chiederle di poter visitare almeno la corta viuzza tra le abitazioni per non farle pensare alle cattive intenzioni di un estraneo. Prima del lungo monologo, però, eludendo la sua sorveglianza avevo intravisto, affrescata su un muro, circa all'entrata del borgo, la scritta "Pippo di Becco". Chiedendole lumi, mi aveva spiegato che Pippo era suo nonno e Becco è il nome della località. Salutandoci, mi ha raccomandato di tornare che avrebbe "conversato" volentieri con me e, forse, mi avrebbe fatto visitare l'interno di una casa.
La lasciai un po' stralunato e guidando la vespa senza casco, come per scompigliarmi. Pensavo… chissà se quella esile signora saputa, al corrente di tutto e di tutti, sapeva esattamente chi fosse il suo bisnonno, padre del suo nonno Pippo "di Becco"… che stupidaggini vado a pensare!

15 luglio
La gente assoggetta persino il deserto alla toponomastica che deriva dalle proprietà, dalle pratiche locali oppure dalla presenza (o emarginazione o segregazione) di diverse classi sociali. Figuriamoci questa Riviera stretta tra mare e monti e polimorfa per corrugamenti, rilievi, anse, promontori, balze e solchi alluvionali verso la costa… La località è arretrata rispetto alla via Aurelia e perciò potrebbe essere signorile se fosse in alto ma è popolare perché sta sotto ai ponti della strada, della ferrovia e dell'autostrada eppure pregiata perché è a Sori, dietro a Sori ma sotto a Lago che è sotto a Canepa. Per questa contraddizione, stranamente, non ha nome ma solo l'indicativo "sul greto" o "dalla passerella".
Antonio vive scalzo nella sua casa e antenna parabolica e pc dell'ultima generazione (ovviamente non conosce l'inglese delle stazioni televisive satellitari e tiene buoni i ragazzini con una loro play station super accessoriata). Il tutto situato, appunto, accanto al greto del torrente Sori dove erano coltivazioni di palma pasquale e baccelli (le fave) e fiori funerari. Sopra c'è il Boschetto con la trattoria dispensatrice di odori di fritto e sotto solo l'acqua dove miriadi di pesciolini, come gli uomini, si affollano dove è più probabile trovare cibo.
Facendo il bagnino dipende dalle condizioni del mare. Ecco perché ho dovuto aspettarlo lungo la scaletta che sale alla sua porta di casa. Sotto al sole di luglio e ripassando i faticosi input informatici per i quali dovevo incontrarlo.
Al suo posto è arrivata Paola, la moglie. Di fretta perché lavora alla bottega di torte e farinate di Recco e, prima di iniziare il solito turno diciassette - ventiquattro, doveva fare la doccia, preparare un bagaglietto per i ragazzini che sarebbero stati affidati alla sorella, sfogarsi un po'…
Hai appuntamento con uno che si chiama Antonio?
Tu sei quel signore del computer?
Antonio è fuori di testa, proprio fuori, telefono a una che gli dica di venire!
"Aspetti, non è importante… a questo punto preferisco che lei non glielo ricordi così non viene e io me ne vado a casa!"
Digli che c'è qui quel signore del computer, digli di venire quando torna!
Io non so più cosa fa, dove ha la testa, ma ormai, questa non è più una famiglia
"Antonio ha accennato a qualche difficoltà"
Difficoltà? è un casino! io darei fuoco a questa casa, sto male, sto malissimo, ormai siamo divisi, separati! lui ha fatto una barriera…
"È un'epidemia!"
Si, anche Patrizia, hai sentito? ma quella è fuori come un poggiolo! non sei quel signore che sta sopra a Patrizia?
"Si, ma sotto, al piano di sotto"
Ne sentirai delle belle! ma Patrizia è mia amica, però è fuori come un poggiolo… anche io però… sto male, domani vado dallo psicologo.
Perché la gente fa così? perché succede? lui non vorrebbe che io lavorassi ma come si fa?
Il mio padrone vorrebbe che rimanessi ma anche lui, coi soldi…
È venuto un signore che mi ha proposto un bar in via degli orefici a Genova, dovrei aprire alle sette, forse dovrei abitare lì, come faccio ad aprire alle sette stando qui? e con chi dovrei parlarne?
"Ci sono altre persone?"
- un protratto silenzio -
C'è uno, ma lo tengo in un canto. Perché non lo amo, non sento di amarlo. Altrimenti io…
Sei quel signore che va a fare le pulizie Anna, vero?
"?"
Quella bionda, un po' piccola, Anna!
"Ah, si, una volta e poi basta perché non ho molti soldi"
I soldi… qui è successo tutto per i soldi. I soldi, i soldi…
"Antonio ha ovunque fotografie di suo padre"
Si, è rimasto shockato, distrutto dalla morte di suo padre.
"Gli voleva molto bene…"
Tu sei quel signore separato, ho sentito?
"Si"
Si sta male, si sta male, vero?
"È molto doloroso, soprattutto i primi tempi"
Io sto già male, domani vado dallo psicologo
"Pensi che possa servire?"
Lui è diventato un muro, io voglio stare con mio marito, voglio stare con lui.
"Non dovrebbe essere difficile…"
Senti, mi dispiace che sei venuto per niente, ma lui è fuori… vedi? gli chiedono di fare una cosa e lui si dimentica!
"Non importa, ho preso un po' di sole… però, questi vicini, che curiosità!"
Sono degli stronzi, vedi? credono che sia venuto a trovarmi l'amante! stanno a guardare tutto…
"Effettivamente…"
Passa dal negozio, una volta, ti regalo un po' di focaccia, farinata…
"Grazie, ti ringrazio, ora vado ma non rimproverarlo"
Grazie, ciao, come ti chiami?
"Pino"
Ciao Pino…
"Ciao Paola"

16 luglio
Sul calendario dice Beata Vergine del Carmelo, eppure a San Bartolomeo, un chilometro prima di Sant'Apollinare, stanno lanciando fuochi d'artificio. E non deve essere per sbaglio perché gli scoppi durano da un quarto d'ora almeno…
Soltanto è strano che sia mezzogiorno e con un sole così, i fuochi d'artificio… si sentono solamente! Gente di Riviera, beati loro...

18 luglio
Alle diciannove ho preso la vespa e sono salito verso il crinale, lungo la deliziosa strada alberata e solitaria che sembra trovarsi in valledaosta. Nei pressi della cappelletta di monte Cornua mi sono incamminato a piedi lungo il costone che scende verso Sant’Apollinare. La vegetazione è al massimo del suo rigoglio e il percorso, in certi punti, si intuisce appena. Il desiderio di seguire la linea spartiacque mi ha portato, ovviamente, fuori sentiero. Felci fittissime, dirupi da aggirare e balze scoscese, timore per le vipere e segni del grufolamento dei cinghiali mi hanno tenuto in emozionante apprensione per un’oretta buona, ma il panorama verso il mare era uno spettacolo. La costa con il promontorio di Portofino, Recco e Camogli, più in là Rapallo e Sestri Levante e il Bracco aveva un aspetto inconsueto. Vista da lassù, più che osservata sembrava spiata alle spalle. Perché questa è la sensazione che offre l’arco della Liguria: raccoglie un golfo di mare e, invece, sembra proteso e lanciato verso il mare.

A quell’ora, Canepa e Levà, più in basso, erano già immerse nella penombra dopo aver stillato dalla giornata le ultime gocce di luce e di vita, quelle più gustose e importanti. Mi è venuto in mente Fulvio, un mio compagno di scuola media. Un ragazzo intelligente e pronto alla discussione, con una espressività rapida e immediata che mi aveva fatto tanto invidiare la sua vivacità di pensiero. L’ultima volta lo avevo incontrato ad una stazione di servizio ed eravamo entrambi in vespa. Lui stava litigando col gestore perché non aveva sgocciolato nel serbatoio il contenuto del tubo di rifornimento. Era per le ultime preziose gocce, le ultime e le più preziose. Aveva ragione, credo. Lì per lì ero rimasto stupito perché io non avevo mai fatto caso alla possibilità di svuotare mediante contorsioni il contenuto di quella gomma. Ci ripensai due anni dopo, quando seppi da un comune compagno che Fulvio era morto per un tumore a soli trent’anni. Era giusto che tenesse tanto a quelle gocce, alle ultime gocce come fossero della vita.

In mezzo alle erbe filanti a cascata sul sentiero, la coda dell’occhio ha intravisto le pietre di un muretto artificiale, il simbolo del calice disegnato di rosso e, cercando meglio, un rubinetto a pulsante per far sgorgare acqua dai sassi. Cose di Liguria e dell’interminabile (e incalcolabile) laboriosità tenace, testarda e solitaria. Quasi sempre dignitosamente nascosta.

Sulla piazzola dominata dal monte Becco la signora Orero stava indottrinando una coppia, gli ascoltatori di turno della sua geremiade sugli immigrati, i meridionali, i nuovi ricchi e gli invasori delle sue terre. Così mi sono fermato per il tempo sufficiente a nutrirmi della vista del precipizio di verde oltre al guardrail. Un anonimo "buona sera" protetto dal casco che non mi ero tolto e via verso il Liberale (la trattoria sul Monte fasce che domina Genova). Un altro balcone soleggiato al termine della cresta sovrastante, verde contro l’azzurro del cielo. Il confine interrotto da sagome di cavalli allo stato semi brado. E tanto mare, mare, mare.

Ho percorso il tragitto di ritorno tenendomi sul solitario lato sinistro della strada e osservare la Val Lentro. Alla testa di questa che sembra nascere proprio dal colle tra monte Cornua e monte Becco (dunque dal presidio della signora Orero e nelle sue proprietà) c’era una conca prativa meta di gite domenicali e ombreggiata da macchie di bosco ceduo. Sul sentiero disordinato c’era una curiosa coppia che, per l’abbigliamento, sembrava tornare a casa dopo la spesa al supermercato. Reggevano buste di plastica rigonfie e, evidentemente, avevano fatto picnic sui prati. Ma erano vestiti da passeggio: l’uomo indossava pantaloni fini e la camicia chiara di cotone. La ragazza sembrava una bomboniera per la gonna un po’ rigonfia sui fianchi. Osservandola da lontano risaltavano il colore rosa e le gambe scoperte sopra al ginocchio per la brevità dell’indumento. Entrambi apparivano fuori luogo o irrinunciabilmente eleganti. Optando per quest’ultima ipotesi ho dedotto che lei dovesse indossare mutandine rosa di pizzo.

L’immagine di quel ricamo esposto al cielo tra le fronde del boschetto e sul verde primavera del prato, mi mise addosso una intensa allegria. Così, eludendo accuratamente la signora Orero, presi la strada del ritorno cullato dalle curve della strada e dai miei allietati pensieri.

20 luglio
La strada che riporta a Sori è piuttosto complicata: otto tornanti per giungere a Lago (dove non esiste un lago), un rettilineo e infinite curve "a gomito" dietro alle quali c’è sempre, inatteso, qualcuno che risale la valle escludendo di incontrare veicoli discendenti. Malvolentieri la percorro sapendo che la meta è solo il Boschetto dove scavalcare il torrente con la passerella che porta alla casa di Antonio. Perché di solito questo tratto è solo l’inizio della via per Genova. Dunque, per un’ora di istruzioni informatiche, mi tocca percorrerne la parte peggiore.

Nel tentativo di scoprire un passaggio carrabile ed evitare il ponticello, ho oltrepassato la località Boschetto per l’abitato di Sori. Presso una delle ultime curve strette c’è un locale dallo strano nome "Locanda del tempo perduto". Da mesi gioco con la mia mente come il gatto col topo. Nel chilometro successivo interrogo la fantasia con le ipotesi più strampalate circa il motivo di quel nome e poi la freno per lasciare spazio ad altre elucubrazioni turistiche, per riprendere il discorso il giorno successivo. Sabato e domenica riposo.

Oggi, credo, la risposta è venuta da sé.

Avendo rallentato per la brutta curva (la trattoria si trova proprio sull’esterno dell’angolo) ho notato una persona uscire dall’auto appena posteggiata sul breve rettilineo successivo. Era Franco, il compagno, per lunghissimi anni, di Daniela.

Daniela era una ragazzina aperta e sorridente. Abitava nello stesso edificio di mia madre da prima che io me ne allontanassi per sposarmi. Un brutto giorno si ammalò di qualcosa che le faceva perdere l’equilibrio e, per molto tempo, si pensò a labirintite o qualcosa di simile. Ed anche a disturbi dell’età poco più che adolescenziale. Franco era il suo ragazzino che, già in quella circostanza, si preoccupava di accompagnarla e sorreggerla. Con quel suo sorriso, Daniela, dava l’impressione di simulare un po’ per avere le cure di lui. Invece era sclerosi multipla e Franco iniziò così il suo apprendistato nella condivisione di un calvario. Immagino soltanto quanto siano stati tragici e pietosi quei dieci e più anni di lento morire. E Franco sempre accanto a Daniela col suo braccio, la sua auto, il suo tempo a disposizione. Ecco, il tempo.

Ho fermato la vespa per constatare che fosse proprio lui ed ero sicuro di cosa facesse da quelle parti. Infatti, dopo aver attraversato la strada, si diresse alla porta della locanda aprendola con un gesto che sembrava consueto.

Alla "Locanda del tempo perduto". Franco alla locanda del tempo perduto. Davvero, se Freud aveva ragione sugli atti mancati, quelli inconsci e quelli senza inibizione alcuna, mi chiedo da dove nascano l’abnegazione, il sacrificio e la dedizione disinteressati. Anche oltre il giudizio razionale della nostra mente, anche oltre il trascinarci verso verità che non ci impediscono di credere ed agire. Anche oltre il misterioso motivo del nostro tempo perduto.

1 ottobre
Ho ridisceso con l’auto carica di bagagli gli otto tornanti di Canepa.
Dodici mesi e qualche giorno fa avevo raggiunto la casa per accordarmi sull’affitto e, sostando a Lago, avevo chiesto dove fosse Canepa, ma già sospettando quel balcone come un nido d’aquila aggrappato alla montagna e pressoché in verticale sopra alla mia testa.
Con la vespa, la salita era tutto un calcolare il tracciato ripiegandosi a destra e a sinistra e con l’orecchio teso all’auto che poteva venire in giù, sparata. Però con una riserva di intelligenza per leggere i tornanti.

Il primo è il tornante delle palme e del canneto
Il canneto nel fossato del ruscello che, con una rapida carriera, diventa il torrente Sori e le palme, ormai trascurate, nell’equilibrio tra l’altitudine e il refrigerio dovuto alla permanente umidità della zona. Però con un ricordo di Riviera (forse, più che altro, di tributo alla Riviera) e di gracidare stordito e pigro sulle sponde scoscese. La svolta stretta è proprio su un ponticello protetto da muriccioli di pietra sui quali non ho mai visto nessuno seduto. Perché le canne e le palme non sono uno spettacolo e il refrigerio, in questa zona che strappa ai declivi faticose e anguste fasce, è una punizione per i pomodori e gli ortaggi che ricevono dalla montagna più ombra che sole. Qualche volta mi dava la sensazione di transitare sul ponte levatoio che offre accesso alla contea di Canepa, e provavo l’inspiegabile timore che qualcuno potesse sollevarlo durante (oppure, ancora peggio, dopo) il mio attraversamento. Per errore, naturalmente, perché quei piccoli borghi dell’entroterra considerano già abbastanza l’appartenere a sé stessi i propri abitanti per accogliere e trattenere ogni genere di forestiero.

Il secondo è il tornante della casa dei doganieri
Stretto tra alte mura come un canyon adatto agli agguati, il secondo tornante è dominato da un misterioso terrazzino a sbalzo sulla strada che sembra ospitare due gendarmi minacciosi armati di moschetto o di pentole d’olio perennemente a bollore. I gabellieri stanno, invece, nella casa linda e rosa ingentilita da un salice piangente sul prato pochi metri prima della curva. Al salice è appesa una graziosa altalena, il segno di un tempo familiare che oscilla tra i sopportabili alti e bassi della vita. Ma la presenza di numerose auto che si avvicendano anche straniere, mi fa sospettare il cambio degli addetti alla dogana. Sono certo che, prima o poi, li avrei visti sistemare sulla strada il loro tavolino per chiedere ai passanti, come quel personaggio di "Non ci resta che piangere" con Benigni e Troisi, "quanti siete? dove andate? cosa portate? un fiorino!"

I terzo è il tornante dei muraglioni
Avrebbero potuto riempire di cemento tutti i contrafforti che proteggono la strada. Invece, per fortuna, sapevano di essere osservati da generazioni e generazioni. Quei liguri ostinati che con la forza delle braccia e della necessità avevano trattenuto poca terra dal precipitare in mare costruendo chilometri di muri a secco. Il digradare dell’appennino sulla via Aurelia è una piramide più grande e imponente di quelle egiziane. I sassi sono più piccoli ma la solidale disposizione è la stessa di tutte le schiavitù del mondo e dell’uomo nella sua povertà laboriosa.
Così i muraglioni sono in pietra viva, alti e umidi come si conviene per i muschi che scendono giù dagli uliveti sovrastanti.
Ruzzolando sulle mie due ruote mi inclino verso valle per tenere la curva e intanto resisto al vento che sale nella gola. Allora quelle grandi arcate verticali mi sembrano le vele che, spinte dal vento, impediscono a questi scarni monti di ritornare nelle profondità di quel mare azzurro e paziente che si allontana sempre più e già sembra estraneo. Come nel posarsi sulle cose lo sguardo di altra gente.

Il quarto è il tornante del bivio perduto

Il quinto è il tornante di Tersori

Il sesto è il tornante delle tre donne
Le tre donne sono la vergine Maria di una cappelletta votiva, poco più di un’edicola, che vigila sul tre quarti del tornante per cui il raddrizzarsi della vespa sul prossimo rettilineo sembra un levitare verso soavità celesti, una ragazza scialba che sbuca al mattino da una crosetta che sale proprio fino al gomito della curva (più in basso si intravede una casa contadina con la pergola, il bucato steso e l’adiacente deposito di "ravatti" alla genovese che mai si getterebbero via fino alla prova definitiva della loro inutilità, cioè mai) e la stessa ragazza alla sera, incredibilmente la stessa per gli occhi curiosi atteggiati a indifferenza e incredibilmente diversa per un abito lungo solcato da uno spacco vertiginoso, una acconciatura dei capelli che, insieme ai tacchi alti e litigiosi (con le mattonelle della stradicciola) la rendono altissima e un po’ altera. Dubito che quelle tre donne sappiano il motivo del mio, pure indebito, interesse per loro. Ma, quanto alla ragazza che tutte le mattine lascia la sua casa per scendere al mare, percorrere l’Aurelia e raggiungere la città per l’inevitabile lavoro, qualcosa di autentico me la rende incantevole. Come quel tipo rossigno di Vercors rappresenta fisionomicamente ogni francese, quella giovane ha, per me, l’aspetto delle donne genovesi come se le può figurare chi si fa accogliere da questa terra. Forse sto dicendo di un mio stereotipo personale, però basta visitare i cimiteri, in questa provincia carichi di devozione e investimenti, e osservare le immagini sopra ai cognomi (qui sono Antola, Benvenuto, Fasce, Olcese e Picasso), per rendersi conto di caratteri ricorrenti e comuni. Come sul viso della venditrice di noccioline a Staglieno che coi suoi sacrifici quotidiani aspirava a conquistarsi non tanto la gioia divina quanto la concreta e palese immortalità terrena.

Il settimo è il tornante dell’acqua di fosso

l’ottavo è il tornante del cielo di Canepa

Il nono non è

L'entrata del laboratorio