Mio sono mare

Non conosco il motivo per cui ho dovuto affrontare il mare. Oppure l’ho dimenticato. È passato molto tempo da quando le acque si sono fatte profonde e misteriose. Tanto da convincermi, forse, di non aver mai vissuto un solo giorno fuori da questo moto perpetuo che mi trascina.


La bussola e il sestante

Nella mia cabina conservo due oggetti preziosissimi, la bussola e il sestante. Misurare l’altezza del sole e delle stelle è ciò che dà senso al mio diario di bordo consentendomi una parvenza di storia in quest’universo uniforme di materia acquosa. Osservare l’ago della bussola che come un essere dotato di intelligenza autonoma si dirige verso un punto preciso dell’orizzonte, mi fa sentire meno solo. La sua quotidiana certezza, quel suo gesto come di alzare il braccio e poi tenderlo in avanti per indicarmi una meta apparentemente indistinta, mi ricordano l’autorità del nocchiero alto sulla prua mentre stabilisce la rotta. Alla sera ripongo l’uno e l’altra nelle loro custodie di mogano scuro e velluto, come il mio corpo nella cuccetta per un necessario riposo. Ma durante la veglia, quando il governo del timone consente temporanee distrazioni, mi piace vedermi reggere a braccia alzate quello strumento di ottone che raccoglie le stelle e l’orizzonte, dunque l’universo intero. Oppure interrogare il magnete che solidale a questo globo chiamato terra ma apparentemente imprigionato dalle acque, trae dalle profondità metalliche della materia sottostante il responso sulla mia vita e sul mio destino di navigatore. E percepisco nella indagine quotidiana il paradosso della mia esistenza di nauta che vagando in un mondo sconosciuto tenta di formulare geometrie nelle quali egli stesso è angolo ed arco e lato e non quel dio che dispiega i suoi calibri e i suoi noni dall’esterno della sfera celeste. Così le misurazioni sono provvisorie e quotidiane, perché le verifiche in un altro tratto di cielo sconvolgono le accurate cosmogonie che le avevano precedute. E persino la curvatura della terra nell’adagiarsi delle costellazioni sopra l’increspatura delle onde, appare dissimile da un cerchio per l’abitudine dell’occhio a osservare "dall’interno" la distesa piatta del mare, dunque escludendo che esso possa precipitare al di là dell’orizzonte. Non si è adattata anche la fede alla necessità della ragione per la prova dell’esistenza della divinità? dunque al prodotto dell’intelletto distillato dalla mera osservazione sperimentale? perciò attendo di veder scomparire isole e natanti e cetacei nel loro allontanarsi della mia nave prima di concludere troppo affrettatamente la natura sferica del mio viaggio. All’arbitrarietà di ciò che è scritto nei numerosi volumi che costituiscono la mia biblioteca, ho sostituito le uniche certezze per me verificabili, la direzione salda di quel piccolo magnete e l’altezza misurabile degli astri. Perciò non esistono scelte, nulla della mia vita dipende dallo sciogliersi di un dubbio, dall’esito di un conflitto interiore circa una questione di natura materiale oppure filosofica. La direzione dell’asse terrestre e la posizione dell’equatore celeste sanno in quale punto del mio universo e della mia vita io mi trovi, conoscono in anticipo quale sarà il mio governo del timone, hanno la certezza del mio domani come io quella dei miei giorni trascorsi senza errore possibile, poiché nessuna scelta doveva essere operata, non essendoci altra certezza, per il mio navigare, che queste misure astrali che mi definiscono.
Quando cala il buio e la calma dei venti consente al mare la tregua del riposo notturno, mi raccolgo nel mio studio al lume di una fioca lampada per registrare il percorso della giornata. Non possedendo mappe di terre note, isole, continenti o semplici atolli, la linea della rotta si dipana sulla bianca superficie dei fogli che riportano solo una rosa dei venti stampata in un angolo, come un sigillo. A volte, mentre la mia mano segue col lapis la linea obbligata dell’asta metallica, l’occhio coglie per distrazione, ai bordi del campo visivo, quella frastagliata immagine e la rielabora per un gioco della fantasia che non so controllare. Allora il cuore ha un balzo e, come avessi percepito un fantasma nella stanza, lo sguardo si distoglie dal goniometro per posarsi su quella figura concretizzata nell’illusione di un’isola, la terra ferma sulla quale il mio viaggio avrà fine. Non sono certo di provare delusione o sollievo quando i vertici appuntiti dei segni cardinali riprendono il loro orientamento incidendo non solo la mia impertinente immaginazione ma anche la mia anima.


Onde come montagne

Per molti giorni il mare si agita tempestoso come un immenso essere vivente preso dalle convulsioni della malattia. Sembra una preda che tenti di sfuggire al suo aggressore avendo ormai rinunciato alla corsa e restandogli la speranza di sottrarre il proprio corpo agli artigli del predatore con la difesa di una irrefrenabile e disperata agitazione. Lo osservo afferrandomi al timone per non essere trascinato lungo il ponte e scaraventato lontano dai sobbalzi della mia nave. Percepisco la sua grandezza e la profondità del suo respiro, partecipo della sua potenza e insieme del dramma che sembra accomunare gli elementi dei quali io stesso faccio parte. Non ci sono che il mare, il vento, la mia nave e me stesso, in attesa dell’esito di queste turbolenze. E poiché io solo mi appartengo pur essendo attore necessario di questa immensa distesa acquea, mio stesso sono mare, mio sono mare, nel mio destino e nella mia lotta per la sopravvivenza. L’esito della contesa tra il mare e il suo turbamento coincide con l’esito della mia vita, non essendo escluso che io, cioè mio, e così il mare, si venga infine inghiottiti da un baratro oscuro più profondo delle profondità marine, più oscuro del cielo, quando privo del conforto della luna mi fa presagire il nulla in cui tutto sarà precipitato senza testimonianza alcuna. Dunque i miei gesti, le mie decisioni, i miei interventi sul timone della nave hanno lo scopo di garantire la mia sopravvivenza insieme alla incolumità del mio natante, ma anche quello di contribuire all’affermazione del mare e del suo destino. Talvolta immagino che quel pericolo costituito dalla mobilitazione di tutte le forze del mondo mi sia ostile e nemico, ma subito respingo questo pensiero convincendomi, al contrario, di dovermi rendere responsabile nel controllare tali alterazioni della quiete naturale. Mi muovo con la circospezione del condannato a morte che inanella lungo il suo ultimo percorso pericoli immaginari che allontanino i propri pensieri dalla imminente applicazione della sentenza. E il pericolo reale è grave e al tempo stesso grandioso, onde come montagne si muovono minacciose intorno al bordo della mia nave. A volte sembrano altissime muraglie che si parano davanti e di fronte alle quali non resta che la resa, il riconoscimento di una magnificenza con la quale non è possibile il confronto e la lotta. Allora non resta che l’assenza di respiro e l’attesa del colpo secco e definitivo della mannaia che separerà per sempre l’orgoglio del pensiero dalla sudditanza del corpo. L’ultimo fugace impulso prima della riconquista di una nuova trascurabile speranza è il più vergognoso e rimosso dei pensieri umani. Il riconoscimento assoluto della potenza del pericolo, l’attribuzione a ciò, o a colui, che ci darà la morte della condizione di essere superiore meritevole di ogni nostra sottomissione. In virtù della quale, ma solo come frutto della fede, l’opportunità della sopravvivenza e della rinascita. In nessun caso la condizione umana affronta lo svilimento di se stessa così come nell’attribuire al proprio incubo di estinzione la grandezza del divino. Conferendogli, per uno strano processo di propiziazione, le virtù opposte alla feroce inappellabilità con la quale egli dispensa la morte. Altre volte, le onde si dispongono altissime tutto intorno coprendo ogni orizzonte. Mi volto sgomento e per ogni direzione il mio sguardo intravede solo cielo al di sopra di creste frastagliate e minacciose. La nave sembra trovarsi nel mezzo di una profonda valle e il tempo sembra sostare. Quel luogo permanente si imprime dunque nella memoria come una stabile topografia. I corrugamenti e i ripari, le variazioni cromatiche e i rilievi ondosi sembrano prestarsi alle diverse funzioni immaginate e decise da un abitante di tutt’altro mondo. Sembra allora di trovarsi su un altipiano, in una depressione valliva i cui bordi confinano col cielo, sembra l’interno di un docile cratere ormai pacato degli eccessi della terra, sembra il vivere quieto ma dentro al recinto invalicabile dell’esistenza. Il vento tace mentre la calma invade il mio animo e la fragile nave. Una calma apparente e vibrante al tempo stesso perché siamo entrambi in attesa dell’ulteriore atto di potenza che ci solleverà ad altezze inaudite alle quali è possibile solo attendere, precipitare, cedere, inabissarsi nella meschinità del nulla dopo l’illusione del dominio. Lassù, dove l’orizzonte si curva su se stesso formando il magico cerchio della conoscenza infinita, tutto è chiaro, tutte le ragioni trovano soddisfazione, tutti i conflitti incontrano, placati, il loro giudice e l’equazione generatrice dell’universo dispensa le sue soluzioni. La tempesta e il vano ribollire del mare sono un trascurabile movimento sulla superficie appena increspata della storia, fino alla successiva ricaduta negli abissi del dubbio e del timore. Per giorni e giorni che, talvolta, sembrano non finire mai. E che in realtà non finiscono mai perché ciò che segue è sempre un’altra vita.


Sogni notturni

La mia navigazione sembra non avere posa neppure durante le quiete notti in cui il vento, geloso del mare, si muove leggero come a scompigliare dolcemente i silenziosi raggi della luna. I miei occhi tentano invano di scrutare nell’enigma di quella luce sospesa nel buio e catturata dalle piccole onde che ne moltiplicano all’infinito il riflesso. Ma il mistero sul quale galleggia la mia esistenza è ancora più impenetrabile che durante lo stordimento solare del giorno. Benché i miei pensieri azzardino risposte, per quanto il mio animo cerchi riparo nelle consolanti utopie della speranza, l’oscurità delle acque e la loro origine vitale conducono i miei pensieri ad un gorgo senza fine, entro il quale solamente il sonno consente la parvenza di una tregua. Allora ritorno. Il sonno è il mio ritorno alla condizione primitiva dell’esistenza quando ancora tutto era possibile. Mi accingo al sonno, e ai sogni, per una sospensione dilatata del tempo in cui realtà e immaginazione si accarezzano sciabordanti come la chiglia della mia nave e le evanescenti sirene spumose di questo mio mare.
La prua del mio natante rotea volgendosi alla circolare linea dell’orizzonte e sembra cercare un giustificato motivo di sosta. Ad occhi chiusi io stesso attendo un’occasione per l’abbandono del corpo che consenta alla ragione di galleggiare su un altro mare. Come bussando timidamente alle porte di una nuova vita, per una rotta che finalmente non richiede governo se non quello della barca che trascinata dal fiume deve appena evitare la durezza delle brusche sponde, mi affido alla corrente dei sogni. Solo qui, celato dal buio della notte, sono spettatore di me stesso e mi scruto come un padre indulgente l’esuberanza del figlio ancora non gravato dal peso dell’esperienza. Ed ella appare, quasi richiamata da un appuntamento. È una stella, è l’onda, è un’alba tersa, una nuvola graziosa, una folata di vento, nebbia leggera, la malinconia. È l’aria frizzante, l’acqua, la vela, la polena nutrice, la fuggente scia, la chiglia e le fiancate, è ogni ‘a’ che incontro in questo mare.
Sta immobile e sorride celando una leggera e necessaria apprensione. Mi guarda, ma i suoi occhi già indagano oltre il momento, gli arti sono disposti alla difesa e all’abbandono. Attende. Nulla è più che l’attesa mentre io, eletto a promessa e finalmente sollevato da subalterne circostanze mi dispongo di fronte alla responsabilità della mia vita. Sogno, eppure nulla è più reale del sogno al cui confronto fantasia è la tempesta, pulsare del sangue alle tempie il tuono degli uragani, ricordo incerto il muggire delle onde. La pressione delle mie dita segna delicatamente la cedevole superficie di un astro e il calore trascorre da quel sole all’interno del mio corpo e della mia anima. Cosa è più reale della pelle che compenetra pelle alla ricerca dell’originale unità? Così mi perdo, ritrovandomi, in un altro essere che attende. Soprattutto mi stupisco per lo sguardo così difficilmente esprimibile attraverso le parole e così intensamente significativo di parole: "Sorprendimi, scegli, decidi tra le infinite sfumature di deliberati gesti possibili quell’unico che manifesterà il tuo delicato e fermo proposito di farmi conquista, dimostra la tua forza, come il vento che ingravida della sua potenza le vele, come il mare che dispiega la sua maestà sulle fide correnti, come te stesso che tiene saldo il timone nel turbinio degli elementi. Governa questa mia trepidante gioia di te", sembra dire, tranquillamente posata nell’attesa, mentre i suoi occhi e la distrazione delle sue labbra dischiuse nel sorriso mi percorrono lungo altre rotte della mia vita. Io sono mare, allora, ed ella è nave. Ma nel segreto attendere il mio potere su lei, ella è potere su me che mi muovo incerto nella prova di noi. Ecco, io sono il mare, alla notte. Ancora mio sono mare ed ella è chiglia della nave dalle sinuose forme che danza sulle mie onde irrequiete.
Infine non c’è abbandono, distacco, allontanamento tra quelle ore illuminate dal sogno e la luce algida del mattino perché dentro al mio animo, così come è vero ciò che scorgo sempre oltre l’orizzonte, è certa la presenza di quell’altro da me che la notte fonde nella reciproca comprensione. Anzi, ella è l’orizzonte stesso, con la sua inestinguibile presenza e la promessa di ciò che accadrà anche oltre i miei sogni, per una necessità, per un destino, un fato che non dolorosamente mi sfuggono. Io, noi, siamo uno. Come esiste un solo mare dai tanti nomi, noi fluiamo l’uno nell’altro in un legame indissolubile che solo l’incerta sistematica degli uomini disconosce attraverso classificazioni e nomenclature e confini anch’essi giustificati dalle mediocri leggi di una divina invenzione.
La luce filtra attraverso gli scuri del mio ricovero notturno. Gli oggetti familiari della mia stanza mi hanno custodito per tutta la notte ed io li ripago carezzandoli con lo sguardo come di ritorno da un lungo viaggio. Questo è ogni istante nel quale io sono altrove oppure inabissato nella misteriosa complessità del mio spirito. Quanto ai sogni, ma soltanto per chi non teme la tempesta e lo squassare delle onde e la violenta ira del cielo anzi trattenendo saldamente la mira nel governo del timone, essi sono lo scopo, il motivo, la ragione di tanto dibattersi della vita: uno sguardo insistente e il tuffo nel chiarore di occhi che attendono. Se io sono ciò che ho compreso dentro me nel mio peregrinare, allora, finalmente, soltanto in quegli occhi che mi raccolgono sono l’universo intero, la spiegazione, una accettabile verità del mio essere mare. Quando la notte si disperde e i sogni semplicemente svaniscono ma nel dischiudersi come corolle al sole, so che è necessario proseguire. Anche se nulla, sull’orizzonte di ogni rinnovato mattino, promette una meta al mio caparbio navigare.


Terre all’orizzonte

Al mattino è sempre una rinascita salire dalle profondità della mia barca per emergere sul ponte ormai invaso dalla luce. Sono gli occhi a sorprendersi maggiormente per l’accoglienza del giorno, ma tutto il corpo risente dell’invadente chiarore. Tutto è focalizzato, nitido, si mostra e si espone come nella vetrina del mondo e la complice oscurità dei sogni arretra. Il dualismo dell’esistenza, in bilico tra il chiarore e l’ombra, tra la notte e il giorno, tra il comprendere e il sapere, si scioglie di fronte al potere insostenibile della luce. Niente che sia sul mare può celarsi anche se la profondità delle ore trascorse, per una sottile corrispondenza con la realtà materiale, riflette l’insondabile che sta sotto alle vaste acque. Io stesso, allora, sono giorno, io stesso muovo i miei passi da oriente ad occidente come fossi il sole. E poi a ritroso, ma solamente per la necessaria dimostrazione di un vano libero arbitrio. Riprendo, insieme alla luce, un discorso interrotto con la vita. Mi chiedo cosa accadrà, cosa sia il mondo reale, esterno a quello onirico che mi ha raccolto per tanto e sconosciuto tempo. Perciò rivolgo lo sguardo all’orizzonte come per un vaticinio, nella speranza di scorgere una irregolarità, una eccezione, una trasgressione al prevedibile che renda finalmente palese la mia sorte. Io conduco la mia nave e i giorni conducono me, ogni cosa che accade è riconducibile alle sue ragionevoli premesse. Un evento - un’isola all’orizzonte? un altro naufrago eppure pilota di un solido natante? - che alterasse le condizioni ormai confermate del mio viaggio, costituirebbe la dimostrazione dell’esistenza di un principio ispiratore a sua volta libero da ragione alcuna, l’imprevedibile, neppure soggetto a ritrosa concatenazione di eventi, il cosiddetto miracolo. Ecco perché scruto quell’infinito lontano dubitando possano interrompere il percorso del mio sguardo tremuli corrugamenti della linea di separazione tra terra, anzi mare, e cielo, anzi azzurra dimora di troppo timide divinità.
La brezza fresca mi colpisce in viso sublimando nell’aria il torpore degli arti e della mente e quella stessa aria, con i suoi invisibili contorni fluttuanti, diventa folate di vento, dispettosa compagna del mare che risponde con spruzzi irrequieti dalle piccole e disordinate onde spumeggianti biancore.
In certe giornate, la calma di vento rende immobile l’intero universo, le vele ricadono come spente e la superficie marina ondeggia chilometrica disegnando ovunque lunghe striature e riflessi cangianti che scorrono, si scompongono e riprendono a modellarsi lambendo morbidamente, intanto, le pareti della nave. Sinuosità estese che non conoscono l’urto con la scogliera, lucidità oleose che testimoniano, indifferenti, solo una ingiustificata e infinita assenza, tranquilli moti di pacata rassegnazione, una sorta di riflessione su se stesse e sul cielo. L’aria è tersa, cristallina e trasparente, così tersa che la linea dell’orizzonte è, finalmente, una linea di confine. Netta, marcata, precisa come le tracce lasciate dalla mia penna sulle mappe. Tuttavia osservo il cerchio del mare con occhi incerti. Neppure una nuvola ridimensiona l’infinito vuoto del cielo, nessuna foschia carica di umidità aleggia per indurre la mia mente all’illusione di un altro destino possibile. Perciò quei vapori, quelle nubi, anziché sollevarsi misteriosamente e lievi come fantasmi dal bordo del mondo, salgono come spire necessarie nella mia mente. La mia mente si fa orizzonte offuscato e su quell’orizzonte si stagliano le isole della mia immaginazione.
Emergono, dunque, i percettibili contorni di altro dal mare, altro dal cielo e dal tempo che mi circondano. Isole che, non fosse per l’evanescenza della loro natura, potrebbero essere definite la "terra ferma". Molte di esse esistono per un tempo così breve da farmi dubitare di averle davvero incontrate, se non fosse per le ombre che la mia memoria conserva diligentemente a scopo rievocativo. Altre mi seguono a lungo e non scompaiono neppure se lo sguardo si distoglie per la preoccupazione del timone.
Il profilo che le isole ritagliano nel cielo è pura apparenza. La minuscola sagoma scura può essere il preludio a un vasto continente, oppure la grande ombra cela una modesta scogliera ingigantita dall’illusione delle distanze. Quasi si sforzassero di apparire ciò che non sono ed escludendo per principio di coincidere con le aspettative dell’osservatore, nascondono sempre la parte migliore di sé, oppure la peggiore, perpetrando un inganno che trae motivo, si direbbe, dalla loro definitiva inesistenza. In effetti, una fantasia capace di percorrere il cielo di quelle terre, si troverebbe di fronte ad estensioni e mappe assolutamente inattese rispetto alle proiezioni degli oscuri rilievi che sorgono in lontananza, leggeri come zattere ma grevi nell’azzurro intenso dell’aria. Oppure si troverebbe soltanto di fronte al nulla di questo esteso mare.
La questione della loro entità risiede nella mia titubanza ad assegnare alle apparenze il carattere di reale piuttosto che di immaginario. E comprendo nella sospensione del mio giudizio l’opportunità di rivestirle, comunque, dei contorni fantastici necessari alla mia cosmogonia nautica. Eppure non so risolvermi al colpo di timone che indirizzerebbe decisamente la prua verso quelle estraneità. Allora, immagino, potrebbe accadere l’abbraccio avvolgente delle fredde nebbie dell’illusione oppure il sonoro cozzare della chiglia contro la durezza della costa. In questo caso nessuna marea, nessun vento che soffiasse a gonfiare le vele riuscirebbe ormai a ricondurre nella libertà cardinale questo mio naviglio perché l’approdo sarebbe fatale e conclusivo.
Ma riconosco un secondo e paradossale motivo per il quale tengo lontana la mia nave da quelle insistenti presenze. So per certo che in quell’universo complicato e terrestre, presso uno dei labirintici percorsi segnati dal passaggio degli uomini e dal lento trascinarsi delle cose, al chiuso di un ricovero senza cielo e senza vento, un altro me stesso siede attendendo. Egli vive del mio stesso ricordo ed ha negli occhi le stesse tempeste, le stesse estenuanti giornate di calma e l’infinito del mare e nulla è più doloroso del ricordo che non contenga in sé l’interrogativo per il domani. Egli attende solamente ciò che già conosce e gli si fa incontro come l’oscura ombra della notte.
Le mie vele, ora sono gonfie dell’orgoglio del vento e il bompresso, l’inquieto albero già lanciato oltre la prua, insegue un punto lontano e indistinto, forse la meta inesistente dei miei giorni e dei miei pensieri di confuso abitante del mare.


Sale sulla pelle

Su questo immenso oceano non esiste il male ed ogni cataclisma è una circostanza dell’universo, ma preferisco dire dell’esistenza, che la vita deve attraversare. Le giornate lievi si succedono rare ai lunghi periodi di faticosa sopravvivenza e nessun occhio immaginario compare tra le potenti nuvole di tempesta ad annunciare il castigo, la vendetta, il sopruso o l’arbitraria violenza.
Eppure, l’insistere della sventura che scuote il mare e i fianchi della mia barca, che squassa il cielo ed abbatte gli alberi delle mie vele si protrae, talvolta, fino alla disperazione dei giorni in cui compaiono, come fantasmi, i nemici immaginari della mia mente. Dritto sulle scricchiolanti assi del ponte, porgendo il braccio e la lampada oltre il parapetto, verso l’azzurro che si agita molte distanze più in basso, cerco tra le onde un mistero, un dubbio, l’inspiegabile, un evento inatteso, lo stupore e lo sgomento. Ma soltanto quel frantumarsi e ricomporsi d’acqua percuote con una sequenza solidale al pulsare del mio sangue questa isola peripatetica e instancabile che è racchiusa nei miei legni.
Piuttosto esiste il dolore sordo e incomprensibile, senza motivo riconoscibile e senza lo spiraglio della fine. Quel dolore che ha per origine soltanto il caso e che conduce, senza la chiarezza del tragitto, alla convinzione che sia impossibile giungere ad una qualsiasi conclusione.
Per giorni e giorni poso il mio sguardo sull’orizzonte mentre i miei occhi fuggono ancora più lontano ma senza nulla osservare, catturare, includere in un cerchio di conoscenza compiuta. Senza un motivo. Nella notte mi sembra di scorgere una luce fioca, così evanescente da dubitare si tratti di immaginazione: appare, si muove istantaneamente, come furtiva sulla retina, poi scompare per riapparire vivida e certa dopo uno sbattere di palpebre nel buio.
Così la ragione. Quanta caparbietà, testardaggine o semplicemente tenacia trattenerla nella coscienza di ogni istante, di ogni giorno, di ogni stagione. Tuttavia essa sembra avere sempre necessità di nuovi fatti, sembra richiedere ulteriori prove ed eventi da aggiungere al quadro che sintetizzi l’idea personale dell’universo. Una ragione non prescritta attende gli avvenimenti come per una cosmologia mai definitiva perché modificata da una progressiva e interminabile formulazione. Dunque anche io attendo, pronto ad accogliere una novità che dia chiarezza e spiegazione, che completi un mosaico infinito di cui non è dato, come per questo mare, scorgere i confini. Per una potestà non richiesta io sono il giudice e la misura, sono il testimone e la legge. E tuttavia sono schiacciato dalla realtà mutevole che, nell’arco del mio tempo, plasma, modifica e muove quell’impotente "fuori da me" e che ad ogni scuotere del vento ridefinisce la mia fragilità, l’inizio e la fine del mio percorso.
Eppure ho le palme levigate dalle levigate impugnature del timone, eppure io decido, governo, scelgo, mi dirigo e mi indirizzo. Eppure io sono la mia stessa rotta.
Per motivi che neppure comprendo, sono persuaso della ragione che regge la mia vita sotto la continua minaccia di un dubbio necessario. E in questo equilibrio si muovono i miei giorni come la chiglia della mia nave, diritta e protesa davanti alla sua stessa scia.
Altrimenti è la bellezza, oggettiva e indescrivibile se non attraverso l’infantile approssimazione delle parole. Compare improvvisamente ed inattesa per essere raccolta dagli occhi ma anche dall’udito e dall’olfatto, talvolta dal sensibile tatto della pelle. Oppure non compare per nulla rimanendo per sempre ignota ma non meno reale dell’immaginazione che si affida al ricordo. La bellezza è ciò che è, e non esiste fantasia che possa dirsi non ispirata dalla bellezza. Di fronte alla bellezza è l’incanto che, rispetto all’attitudine degli uomini a riprodurre nella propria mente ciò che è all’esterno del proprio corpo, si situa ad un livello superiore nell’esperienza dell’essere. L’incanto è perdita di sé che non vuole possedere l’oggetto della propria ammirazione, ma uscire dal minuscolo involucro dell’intelligenza per far parte, dilatato e indistinto, di quella stessa bellezza.
Le linee essenziali e i colori del mare, di giorno e di notte e comunque abbia esito il dialogo tra le acque e il vento, sono sufficienti ad esprimere un bene infinito e mutevole. Sono le increspature intorno alla nave o le sinuosità avvolgenti della bonaccia oppure, ancora, le distanze a perdita d’occhio misurate dalle sfumature azzurre del cielo e dei suoi riflessi cangianti fino all’orizzonte. Una bellezza non custodibile e indifferente alle esagerate vicende umane, la fonte sorda e altera della ricorrente disfatta della conoscenza che noi umani chiamiamo emozione. Ma anche l’origine di quel mistero che in ogni circostanza e imprevedibilmente definiamo felicità.
Infine il vuoto, il silenzio, il nulla altrove da questo pullulare di atomi che racchiude tollerante la piccola sfera dell’universo nella sua dimensione spaziale e temporale. Dove si frantuma l’illusione dell’esperienza e la misura del giudizio, la distanza tra il proposito della sera e lo stanco incedere del mattino, la determinazione e la resa. Ogni cosa che accade è inghiottita dal nulla ed è dispersa dalla macina del tempo. Allora il beccheggio del mio natante sul profilo delle onde che mi impedisce anche solo di definire una meta all’orizzonte, acquista il senso della mia vita che è costantemente distogliere lo sguardo, non guardare, eludere e andare oltre. Altrimenti la fissità del silenzio.
Se osservo il mio viso e le mie braccia, alla sera, se scruto le mie mani come pur estranee e provate compagne della mia fatica, mi accorgo di quanto sale sia sulla mia pelle, ogni giorno di più. Davanti alla fioca candela che comicamente mi duplica nello specchio del mio ricovero, so che quel sale è la prova della mia esistenza, la misura della mia ragione, lo scopo del mio tempo e l’origine del mio orgoglioso sognare di aver vissuto. Porto alle labbra il dorso di una mano e lo assaporo. Sale sulla pelle come se gli anni non potessero celarsi nell’oblio, come se il domani potesse risolversi in altro che non fosse la sconfitta dei giorni ormai trascorsi e cancellati.


Grigio torbido a distesa

Per molto tempo, l’intensa colorazione grigia dell’oceano non può essere attribuita solo alle nubi che coprono il cielo oscurando il sole. È una tinta ribelle e torbida che essenzialmente rende illeggibile la superficie, facendola apparire ostile e muta. Le piccole onde - che compongono il grande respiro del mare che compone il mondo che compone, in definitiva, l’universo - appaiono senza governo, come abbandonate dalle correnti ai loro capricci. L’aria sembra titubante e in attesa. Allora ammaino le vele senza alcun timore, come fosse per un evento familiare e perciò rassicurante: lo scrosciare della pioggia sopra al legno del ponte, il ticchettio delle gocce sui vetri della mia cabina e rifugio, le lacrime senza pianto sul mio viso.
Questa condizione dura ore e ore, a volte giorni e giorni. Dimenticandone inconsapevolmente le interruzioni, sembra durare mesi e mesi. La pioggia sottile cade quasi sempre in assenza di vento ed è il motivo di una prolungata pausa dal governo dell’imbarcazione.
L’attesa, la sosta, la calma rassicurante dei giorni uguali e l’inerzia, il riposo e il tempo per ricomporre ancora una volta la prospettiva di ciò che è stato, l’ascolto di voci dall’anima, oppure qualche eco come per una risposta. Un intervallo senza avvenimenti ulteriori. Eppure credo che non accada mai: indipendentemente dai pensieri, le alchimie della mente procedono nelle loro mutevoli definizioni. Allora, anziché tra i flutti del mare, il mio destino si dibatte in balia dei conflitti, delle sopraffazioni e delle rese di inafferrabili avversari biochimici che si confrontano nella mente. Il grigio dei giorni favorisce il pareggio dei conti che stabiliscono il prezzo di ogni azione trascorsa. La mia vita, tesa come un arco nella provvisorietà dei debiti e dei crediti, vissuta come tutto fosse possibile - a costo di una revisione ad hoc dell’economia dell’esistenza – riequilibra il dare e l’avere, riordina il giusto e l’ingiusto, l’opportuno e l’esagerato, la gratitudine e la prepotenza dei giorni. Sembra non accadere nulla ed accadono le cose più importanti, quelle che indurranno al ripiegamento o alla fuga, al proseguimento della corsa oppure all’umiliante ritorno sui passi già percorsi. Il grigio che investe ogni cosa, che scompone le precise costruzioni del tempo, è perdita e rassegnazione, è oblio di ogni progetto, è disconoscimento dei colori del mondo. La luce del sole è lontanissima, celata dallo spessore del cielo come negli abissi del mare. Ciò che traspare dalle spesse nubi è solo il barlume dell’ottimismo. Da questa parte dell’universo si spandono la confusione e la minaccia della sconfitta e, intanto, nelle profondità della mente inaccessibili alla coscienza, precipitano i cristalli dell’entusiasmo e dell’esaltazione, si scompongono le architetture saline dei propositi e delle speranze, si sciolgono le reazioni ancora effervescenti delle attività e degli slanci, le turbolenze si smorzano per approdare ad una condizione di dolorosa quiete. Involontariamente e al riparo indistinto delle grigie nebbie che celano ogni cosa.
Molti si perdono in questa falsa bonaccia come fosse la più temibile delle tempeste. Il rischio consiste nell’arenarsi in un punto dell’oceano infinito che tuttavia, paradossalmente, non conosce spiaggia o scoglio o secche.
Mi accorgo di come il tempo scolpisca la mia interiorità al pari del mio scafo che, salpato come una veloce gazzella della prateria marina, affronta ormai le onde con la sicurezza e la fragilità di un antico vascello. Eppure, nella frammentaria visibilità di questi giorni sospesi e provvisori, la scultura è soggetta alla revisione per un nuovo viaggio e per un altro mare. Attendo che la metamorfosi si compia oppure che la frantumazione devastante mi privi di me stesso disperdendomi in queste brume. Come in osservazione del decorso di una malattia della quale appaiono solo i sintomi, mi chiedo chi sarò io domani, verso quali orizzonti dirigerò, ancora una volta, la mia già incerta rotta.


Il caso e la speranza

Per quanto si possa essere certi dell’esistenza di imperscrutabili percorsi causali che conducono agli avvenimenti quotidiani (tra i quali almeno alcuni segnano irrevocabilmente la nostra vita) nessuna invenzione dello spirito umano è così efficace, per dare parvenza di vero all’illusione del libero arbitrio, come quella che attribuisce al caso, dunque alla casualità, il succedersi della maggior parte degli accidenti che incontriamo sul nostro cammino. Il dominio nel quale il pensiero ha potuto conseguentemente spaziare è molto più vasto di questo mare che io abito, molto più vasto dello stesso universo perché comprende anche l’idea di dio. La causalità delle azioni umane fa apparire la consapevolezza della realtà come un rivolo di vento che involve su se stesso, come una piccola onda che ricade nella conca del proprio dorso senza altro effetto sul dispiegarsi del tempo e delle correnti. E così è. Mentre la condizione di libertà sarebbe imprescindibile da un ente superiore che per grazia divina l’avesse donata a una specie prescelta del mondo animale. D’altra parte, ogni volta che rifletto sulla continua concatenazione dei fatti della mia vita è come se provvisoriamente me ne tenessi fuori, come se mi allontanassi da me per osservare me stesso vivere. E ciò comporta l’inevitabile auto elezione a divinità libera e giudicante: l’illusione della consapevolezza mi solleva dalla stessa realtà rendendomi dio.
Ci sono giorni e giorni in cui mi impongo di mantenere la rotta della mia nave nella stessa direzione Allora il sole sorge in corrispondenza di un punto preciso del mio legno – alle mie spalle e come se quell’astro mi stesse inseguendo - per tramontare in un punto simmetrico della stessa nave, dall’altra parte dell’universo. Così, dopo avermi superato sembra nuovamente indugiare dietro la mia scia, e concedendomi di fuggire, inerme, verso l’orizzonte. Ma dopo settimane di navigazione, all’improvviso, le mie mani, le braccia, tutto il mio corpo come preso da un autonomo impulso, decidono la giostra di quella ruota raggiera della fortuna che è il timone di comando. Soprattutto mi dirigo verso il sole nascente come provenisse dalla culla della mia stessa vita. Assaporo così una parvenza di libertà, l’autonomia delle mie decisioni, il delirio del gratuito. In quel momento nutro la mia vita allontanando da me la deriva e il disastro, l’inerzia deprimente e l’apatia. Mentre i miei occhi scrutano la nuova meta, per altro non dissimile da quella appena disattesa ma diversamente baciata dal sole, il mio cuore si riempie di speranza e la mia mente di immagini fantastiche: ecco il cibo degli uomini, ecco gli alimenti evolutivi che hanno sparigliato le carte nella storia dell’universo insinuando il dubbio della libertà negli esseri prediletti dall’esistenza. Io sono una ulteriore piccola onda che ricade sul proprio dorso senza altro effetto, ma spinta da un vento che trasforma ciò che incontra impedendo ogni ritorno. Io sono la speranza e la prefigurazione.
Immagino gli approdi e le terre felici che mi accoglieranno, le alte cime stagliate contro il cielo e circondate da nubi cariche di preziosa acqua dolce, immagino spiagge sulle quali le onde del mare, finalmente placato, si involvono quietamente, immagino porti protetti e case disposte a schiera intorno al luogo del ritorno, delle reti, delle piccole barche da pesca, il luogo degli odori intensi dove terra e mare si toccano, si amano, si confondono, consumano l’incesto degli elementi.
Oppure prefiguro le tempeste cogliendone i segnali nel mutare del vento, nel ribollire sommesso dell’acqua, nel grigiore improvviso che dilaga come il fumo di un incendio. Allora il mio comando anticipa gli avvenimenti: prima che la nave si inclini per le correnti, e nel mio pensiero è già abbattuta su una fiancata, correggo la rotta. Prima che la vela si tenda fino a strapparsi, allento le cime come se il suo ventre fosse già gonfio contro il cielo. Prima che la furia del mare faccia danzare tutti gli oggetti e tutte le fiammelle, e mi vedo già nella devastazione e negli incendi, ogni cosa è assicurata, ogni lume e ogni candela sono spenti. So prevedere ciò che potrebbe accadere e premunirmi, indirizzare gli eventi in modo che il futuro mi sia meno avverso possibile. Due universi, dunque. Il primo è quello nel quale si svolge la mia navigazione e il secondo è la riproduzione del primo nella mia mente, il luogo che mi consente di vivere due e più volte la mia esistenza in una sequenza incessante di circostanze ipotetiche.
Ripercorro così le linee obbligate di un disegno che nessuno ha tracciato, ma come fossi affidato a una illusoria sorte che mi offre quotidianamente la consolazione della speranza.
A volte mi prende il dubbio di aver percorso una rotta sbagliata, per quanto le direzioni possibili differiscano soltanto nel movimento quotidiano delle ombre oppure nella volubilità del vento e delle correnti marine. E capita che io sia preso dalla tentazione di tornare indietro, lungo la mia stessa scia, verso uno dei tanti punti di partenza, per scegliere altrimenti, affrontare il sole del mattino mentre scaglia altrove i suoi raggi. L’angusta finestra della vita umana guarda sulla vastità del mondo che a malapena l’immaginazione riesce ad afferrare. Pertanto la traccia lungo la quale ogni individuo marca il proprio sentiero sembra confondersi indistintamente tra innumerevoli alternative. Nulla sembra più semplice e praticabile della ricerca di una via soddisfacente lo spirito e l’intraprendenza. Ma a nessuno, proprio a nessuno è concesso ritornare esattamente in quel punto di partenza dal quale una scelta cruciale ha segnato il seguito della vita, a nessuno è concesso di riportare alle origini i propri sentimenti, le proprie aspettative, i propri legami, gli slanci e l’orizzonte intero intorno a sé. Perché, comunque, il prezzo sarebbe ripercorrere esattamente la stessa strada, giungere agli stessi esiti, rivivere il proprio passato come se nulla di quel secondo percorso fosse diverso dal precedente.
Dunque io accado proprio come gli elementi inanimati del mondo e in modo altrettanto ineluttabile. Così accade il mare, il vento, il planare del mio legno sul grande respiro delle acque. Così accadono la mia gioia e il mio stupore, la mia speranza, la saldezza delle mie scelte, i miei dubbi e il mio dolore. Accadono le cose più complesse e quelle più semplici: siamo noi uomini che per presunzione le ordiniamo secondo una gerarchia, incapaci di prescindere dall’esistenza di qualcuno che ci osserva, ci giudica, ci solleva dalla condizione di eventi insensati in un universo senza spiegazioni.
Inseguo i fantasmi che si formano, pur evanescenti, sull’orlo del cielo. Altre ombre si allontanano lungo la scia della mia nave e come la scia si diradano col tempo e nel ricordo. Il caso e la speranza sono i miei compagni, senza i quali, o senza l’illusione dell’esistenza dei quali, mi perderei, abbandonandomi alla deriva in questo immenso e ancora sconosciuto mare.


Blu profondo

L'involucro è così aderente da penetrare almeno in parte nelle cavità del corpo e la mia bocca è serrata come per un'espressione necessariamente seria ed attonita. L'involucro è tutto ciò che mi circonda, che mi avvolge, che mi culla: è acqua infinita, densa e mobile, è tutta l'acqua del mondo.
Attorno a me è la varietà più estesa di azzurro che si possa immaginare, nel tempo e nello spazio. Non esiste la possibilità di un paragone perché da sempre, da quando cioè gli uomini hanno appreso a pensare, la realtà è sfumature di azzurro turbate da effimere intromissioni di diversi colori dovuti a ininfluenti vicende individuali e collettive. La terra e il fuoco sono accidenti secondari, grumi estranei all'eternità. Il cielo e l'acqua sono azzurri ed io sono pura esistenza immerso in questi elementi assoluti. Dio è l'azzurro dell'universo e il blu profondo del mare.
Mi muovo con la lentezza della medusa confondendomi col mio elemento naturale, come se non potessi mai smettere di osservare, come se il tempo per capire non bastasse affatto. Il lessico di questo mio permanere nell'abbandono inerte è costituito da una estesa varietà di toni della luce che vanno dal chiarore insostenibile dello Zenit fino al buio imperscrutabile della mia coscienza che colloco idealmente nella direzione profonda degli abissi. Eppure non precipito, non so precipitare, invece conservo questa quota di indecisione situata tra la notte schiarita da pallide fosforescenze e la luminosità dell'emergenza, verso la superficie del mondo.
Un moto del capo come il gesto del mimo che simula corpi marmorei trattiene il mio desiderio di abbracciare in un solo sguardo tutto l'orizzonte subacqueo: le pupille sono attratte da ombre che si muovono fuori dal campo visivo ma precedono inutilmente il resto del corpo che tardivamente si adatta. Tutto ciò che appare come un alone sfuggente, già scompare prima che io abbia potuto comprendere, mentre altre densità illusorie si alternano nel distrarre la mia percezione della realtà. Mi sento prigioniero del mio corpo che, tuttavia, vive una esistenza libera da vincoli e gravità. La curiosità del mio sguardo eccede rispetto all'oggettiva essenzialità del luogo in cui galleggio senza peso e senza tempo. Poiché il pensiero è incapace di sostenere l'assenza del dialogo, le apparenze eteree dovute al denso gioco delle correnti prendono la consistenza di interlocutori muti ma autorevoli, ogni ombra che mi circonda è l'ammonimento a non eludere le ragioni e le conseguenze delle mie azioni. Dunque la libertà dei miei pur rallentati gesti implica paradossalmente la censurabilità dei miei pensieri: legami invisibili e divieti appena velati dalla forma di regole dialogiche ordinano la successione degli eventi della mia vita sommersa.
Da qualche direzione provengono flussi di calore misteriosi e inspiegabili, come se una entità superiore si preoccupasse di confortare la mia pelle con piccoli doni di tepore. Che però mi conducono fino allo stordimento dei sensi e all'abbandono delle membra, dello sguardo e perciò dell'attenzione. Tutto sembra indurmi ad una esistenza senza interazioni e vaglio critico. Certamente accanto a me, sopra di me e nelle profondità, accadono eventi impetuosi e roboanti dei quali, tuttavia, non ho coscienza. Accadono le tempeste più violente e la calma snervante della bonaccia ma nulla più mi riguarda. Ogni cosa avviene dentro di me che cerco di avvertire, ma solo indirettamente e per coglierne pure e semplici suggestioni, il continuo agitarsi del pianeta, le lontane e misteriose forme viventi, l'agitarsi del tempo. Temo la quiete del mio animo perché non è più importante ciò che accade all'esterno: felicità e gioia, ansia e dolore, attesa e speranza sono dentro di me e rappresentano l'unica vita significativa e possibile. Tutto accade nel mio spirito e nella mia mente e per ciò che riguarda il resto, esso è sufficientemente rappresentato da questo blu indistinto che vale montagne, foreste, nubi temporalesche, valli prative e verdeggianti, profili di isole lontane e la carezza del vento su ignare città brulicanti di vita. I sentimenti, i timori, i dubbi e le scelte sono la mia vita che procede dentro di me appena turbata dagli avvenimenti materiali e fisici. La vita è me e solo incidentalmente è i riflessi che il mio animo raccoglie, percepisce, della realtà esterna e perciò estranea alle ragioni della mia vitalità.
Ma non esiste, non può esistere per un universo temporaneo, dunque sprofondato nell'abisso del pensiero che comprende la sua origine e la sua fine, non esiste un percorso che non abbia termine, una notte senza l'invadenza dell'algida luce del mattino, non può esistere l'eterna sospensione del giudizio. Oppure la vita si trasforma in altro a cui è estranea la duplicità dell'esistenza, nella restituzione di sé alla sola materia privata dello spirito.

Il dolore si fa acuto, insopportabile, amplificato dall'immobilità che lo rende unica espressione vitale e negazione stessa della vita, la pura ed esclusiva esistenza interiore si involge in nodi sempre più inestricabili: si raccolgono i pensieri, si resta in ascolto dei propri pensieri, si vive dei propri pensieri e in questi, come fossero disposti secondo una autonoma topografia della mente, ci si perde, apparentemente senza scampo.
Infine, come se un piccolo pesce guida avesse assunto la ipnotica conduzione del mio moto, come se un elemento esterno e inconsapevole della gestazione dei miei pensieri si fosse intromesso nel mio destino, risalgo verso la superficie. Uno spirito di conservazione mai evocato e sconosciuto mi trascina lontano, fuori, verso la linea di confine del respiro. E riemergo alla luce e verso l'esteso sovrastare del vento.


Io, il mio vascello

La brezza fresca che sembra giocare con l'immensità del mare e del cielo annuncia la primavera. Sono le prime ore del mattino e ogni elemento appare chiaro, trasparente, compenetrabile. L'acqua che accarezza la chiglia con il suo azzurro denso e mobile, qua e là bianca di spuma, comunica una forza dirompente che pervade persino il mio animo. Respiro a pieni polmoni l'aria cristallina con la certezza di esistere e in questa esistenza, almeno per il mio pensare, cibarmi, sorridere e soffrire, con la certezza di vivere.
Sento ondeggiare sicuro ed agile il mio vascello con il quale costituisco, ormai, un solo organismo: la sua robustezza è la mia energia, la mia guida è la sua certezza di sopravvivere alle forze talvolta avverse del mare.
Immagino spesso questa unità, cioè me e l'imbarcazione, come fossi un gabbiano che gioca nel cielo tra le ampie velature e senza motivo se ne allontana per esplorare la superficie azzurra facendovi infine ritorno come alla propria casa. Così, dall'alto oppure da oltre i bordi del ponte, riconosco tutti i miei legni e le mie vele, li descrivo, ne esploro disegni e increspature, elasticità sonora nel beccheggio e cedevolezza candida contro il cielo, per la esuberanza del vento.
L'albero maestro oscilla altissimo facendo lamentare la mastra su cui è piantato e tende gli stralli e le sartie come corde sonore di violino. E il suono si amplifica nella grancassa tesa dai bagli e dalle anguille del ponte. Riconosco ogni suono che proviene dalle vele oppure dal ventre protetto dello scafo. E di questo immenso corpo conosco ogni arto fin dal tempo della sua costruzione: la chiglia, spalla robusta su cui posa tutto il peso di questo mio castello, le ossature, come costole pronte ad assecondare il mantice di un immenso polmone e il fasciame che tutto chiude e ricopre. Conosco ogni venatura, ogni malcelato nodo, ogni perno, ogni incastro che serra definitivamente asse ad asse, trave a trave. E di tutti riconosco la voce, lo stridio, il solidale frusciare sull'acqua per la benevolenza del vento. Io so di me perché conosco ogni parte di questa unità, cioè me e l'imbarcazione, io sono me stesso intanto che conservo la consapevolezza di tutto ciò che "è", pure se sperduto nell'immensità dell'oceano.
La certezza della mia esistenza non indistinta - non goccia di mare identica ad un'altra goccia di mare, non respiro di cielo identico ad ogni altro respiro, non scia che si disperde pochi istanti dopo il passaggio dello scafo - la certezza di me si fonda sulla precisa geografia del mio animo che io conosco insieme a tutte le fibre, le essenze, le varietà dei miei legni. Io so di esistere non in quanto essere pensante ma per la mappa dei pensieri che la mia vita ha prodotto e per la responsabilità delle azioni che io ho autonomamente deciso, per me e per la mia imbarcazione. Osservo l'esito della mia vita - e dunque me stesso - nei profili della velatura leggera e dell'affilato natante in equilibrio entrambi, nel cielo e sul mare. Mi osservo intento al timone sullo spazioso ponte e so di essere.
Talvolta questa consapevolezza è così salda da concedermi la sospensione del pensiero, la noncuranza, l'abbandono senza riserve, senza dubbi o domande alla corrente del tempo. Oppure così salda da indurmi a cogliere con lo sguardo, oltre la tolda, oltre i parapetti, sul mare aperto, l'immagine speculare di questa mia isola. Allora le ampie vele scosse dal vento non mi sovrastano dall'alto degli alberi ma sventolano sul mare orgogliose e sicure. La nave è leggermente inclinata su un fianco e scivola leggera tra i flutti: la osservo compiaciuto come fosse una mia creatura, come fosse il mio involucro, il mio corpo, la mia anima, la mia stessa identità. Naviga a non molta distanza da me eppure sono ancora al comando di quella singolarità marina che orgogliosamente conduco. Ne scorgo le curve precise e funzionali, ne apprezzo il materiale e riconosco l'abilità dispiegata nella sua costruzione dai maestri d'ascia, dai carpentieri e da un gran numero di artigiani scrupolosi. Enumero una per una le travi che si sono lasciate piegare, flettere, amputare, cesellare, scalpellare, tornire e fresare per corrispondere alla complessità dell'opera. E ancora mi compiaccio del cammino percorso, dell'adempimento di uno scopo che sembrava prescritto, del compiersi di un disegno imperscrutabile e giusto. L'immagine di tanta stabilità, dunque l'immagine di me, si staglia precisa e rassicurante lungo il corso della mia vita.

Può capitare, invece, che per lunghi periodi il mio vascello sembri ora allontanarsi ora ridurre la distanza che da lui mi separa. Sono le correnti marine e i venti che si attribuiscono la balia della sua rotta, sono le mutevoli condizioni dell'atmosfera e del sole e della luna e delle maree e delle stagioni e degli accidenti tellurici che rendono instabile il mio punto di osservazione. A volte scende una notte interminabile e i miei occhi faticano a riconoscere intorno a piccole e fioche luci i contorni del mio battello. La mia visione dubita, indugia, disconosce e si perde. Inseguo con lo sguardo una sagoma indistinta e priva di contenuto, cerco di rievocarla aiutato almeno dalla memoria, ma ogni certezza sfugge dispersa nel buio impenetrabile. Oppure è la nebbia improvvisa a farmi precipitare in un'angoscia che sembra non aver mai fine. In una successione incessante di tentativi e immaginazione e conquista - compongo, ricompongo, vedo frantumarsi i contorni della mia sola realtà galleggiante ma perduta tra due immensità di azzurro. Il grigio cangiante e mutevole dei vapori si prende gioco della mia attenzione, inutilmente mi sforzo di accostare i tasselli del mosaico che costituisce la mia identità. Io non mi riconosco più, non mi conosco più e davanti ai miei occhi disorientati una piccola lancia squassata dalle onde oppure il più grande e indifeso dei bastimenti, la zattera del naufrago oppure l'agile goletta rappresentano solo illusioni troppo effimere di realtà: io sono il caleidoscopio delle luci del mondo nell'impossibilità di formare una immagine decorosa e coerente. Il vento scuote le vele strappandole e trascinandole lontano verso distanze infinite, gli alberi precipitano come relitti sul mare in tempesta, lo scafo si apre oscenamente alle onde che lo invadono e lo smembrano, la robusta chiglia vaga ondeggiando senza senso tra i flutti. Inutilmente tento di raccogliere i frammenti della mia vita che, così dispersi, allontanano anche la possibilità di una storia narrabile del mio tempo. E ciò per un periodo che sembra interminabile.
Infine, in un nuovo mattino, tutto si ricompone e le mie braccia tornano salde al timone per imporre la rotta, i miei pensieri si stabilizzano, i miei sensi percepiscono ogni oggetto, ogni elemento, ogni parte del mio natante. Ma è una conquista sempre difficile che richiede distacco e vigore. E la consapevolezza di come l'animo, al pari delle foglie d'autunno per la sferza del vento, sia soggetto all'inevitabile e ricorrente scompiglio operato dal tempo e dall'umana ventura.


Diario di bordo

 Il mio scafo, spinto dal vento, lascia dietro di sé una scia che si espande in lontananza sbiadendo e dissolvendo come un ricordo. La natura cedevole eppure ignara dell’acqua impedisce ogni traccia cancellando per sempre l’evento del mio passaggio. Per essere, io e il mio legno, dobbiamo esistere ogni istante senza pause e senza esitazioni. Nessuno potrebbe ricomporci, almeno nella memoria, scrutando l’indifferente superficie del mare. E noi viviamo l’alternarsi delle stagioni come un’altra lacuna del divenire che riprende ciclicamente il suo corso senza storia.
Oltre alla pergamena del mio viso, è la traccia di inchiostro sul libro di bordo, che riapro ogni sera, a segnare la direzione e lo scandire del tempo.
L’aria pungente e l’intensità dell’azzurro del cielo annunciano il prossimo inverno. Le nubi si innalzano come torri abbaglianti di un biancore purissimo. Ci saranno giornate di pioggia battente, i venti consiglieranno la rinuncia alle vele, il mare rintuzzerà testardamente le fiancate ingrigendosi d’ombra, ma poi sarà ancora la luce di cristallo di questo cielo. La consolazione della vita è il poter ricominciare, l’eventualità di un nuovo inizio che cancelli ogni sconfitta, ogni errore, ogni contraddizione. Allora l’estate, l’autunno, l’inverno e la primavera avranno tutte una propria ragione e proprie virtù: gli eccessi del caldo, del freddo, della siccità e della pioggia saranno stemperati dall’attesa e dalla convinzione che ci sarà un’altra possibilità, un’altra opportunità celata dietro ognuno dei nostri giorni.
Ma la direzione del tempo è ancora verso l’oblio. La ciclicità delle stagioni ha lo scopo di negare la metafora dell’evoluzione confermando, invece, la sferza degli anni. E ciò che resta nell’animo umano provato dalle tempeste è il senso di incompiuto dal quale è immune ogni altra forma di vita che popola l’universo.
Rileggo il diario di bordo come la storia tortuosa del mio vagare, improvvisamente divenuto terza persona ripercorro le mie giornate e le mie scelte come appartenessero a un estraneo del quale sono costantemente ma non esaurientemente prossimo alla conoscenza. Mi sorprendo a dialogare con quel me stesso rimanendo persino stupito dalla complessità del suo animo e delle sue riflessioni. É come se ogni giorno, ogni istante della nostra vita fossimo altro e incapaci di ricomporre nel ricordo e nei progetti la stessa unità che racchiude un’onda del mare, il solido legno, un’ombra all’orizzonte.
La grafia delle sue pagine è tutt’altro che uniforme e riflette stati d’animo che ormai non riesco più neppure a simulare, nonostante tutto l’impegno della fantasia. Per brevi periodi le parole sembrano muoversi leggere sul foglio, al pari dei pensieri fiduciosi del futuro. Ondeggiano sulle righe di stampa come un delfino tra le onde e sembrano divertite tanto della meta - la conclusione del pensiero o dell’annotazione - quanto dal loro stesso manifestarsi attraverso una linea variamente arabescata. Le vocali sono tonde e ariose mentre le consonanti alte svettano come per respirare e trarre ispirazione dal cielo. Quelle discendenti sembrano ancorare saltuariamente le frasi affinché l’euforia del benessere che le fa scaturire non indugi al volo che le disperderebbe frivolamente nel nulla.
La mia stessa scrittura – il cosiddetto diario di bordo – nell’intento di descrivere le giornate appena trascorse cela, attraverso il gioco elusivo delle parole lanciate all’inseguimento di immagini, metafore e meri “dati oggettivi”, la realtà più vera. E intanto il succedersi volontario e inconsapevole, non già dei tratti calligrafici ma delle intere proposizioni, e la scelta dei lemmi e il ritmo imposto dalla punteggiatura svelano impudicamente la realtà più profonda.
La rilettura, come tutte le esplorazioni private della possibilità di una veduta aerea (tale è il mio navigare se non osservato dal più alto degli alberi che si spingesse fino al cielo) richiede la ricomposizione per indizi successivi della mappa, per una topografia via via sempre più attendibile. Così l’immedesimazione nel me stesso narrante comporta la progressiva e sublime simulazione – la ricostruzione fedele – di quel me stesso dentro me medesimo.  Così accade che universi ormai incongruenti si comprendano, ma incapsulandosi l’uno nell’altro senza speranza di unità e dunque di verità.
L’animo di chi intraprenda la scrittura, una cronaca, una interpretazione, lo porta a immaginare che alla fine della sua opera si delinei, come per una legge naturale, una conclusione. Perciò una vita “piena”, un esito “morale”, una vicenda esemplare, la rivelazione dei colpevoli o dei segreti benefattori, il lieto fine oppure un respiro di soddisfazione concludono, nelle aspettative di chi elabora con le parole, la realtà della vita. Così in chi descrive, come in chi narra, come in chi semplicemente annota. Invece la vita, nella maggior parte dei casi, è la goccia d’acqua che cadendo risuona amplificata nelle profonde cavità della terra, mentre le vicende personali sono il vano rifulgere, da quella, della rapida luce che l’attraversa nel suo breve precipitare.
Per quanto il rito serale della registrazione degli avvenimenti si attenesse a uno stile impersonale e quasi tecnico, traspare nel succedersi delle pagine l’ansia di aggiungere tasselli quotidiani a un disegno complessivo che presto si sarebbe svelato. Ogni giorno sembra l’attesa di un avvenimento illuminante che avrebbe dato il senso a tutte le cose, al navigare di questa grande nave e mio, alla mia vita.
Per questo ripercorro spesso le pagine del mio diario. Ancora come cercando di comprendere dai miei giorni trascorsi cosa mi accadrà domani.


La verità

All’improvviso, tutto ciò che mi sta intorno - un’infinità di cose -  mi appare nuovo e sorprendente: il ponte, gli alberi, il mare ovunque. Le vele e il cielo sono sempre gli stessi, ma il mio osservarli in quel modo stupito li rende come oggettivi, estranei, altro da me, veri. Sono circondato da ovvie presenze fisiche che l’abitudine e la fantasia adattano alle esigenze del mio spirito che se ne appropria e quasi le anima.  Si può dire che io abbia intorno la mia mente e il mio cuore riversati su oggetti che nulla hanno realmente a che fare con me e con la mia interiorità. Essi hanno sui miei pensieri il primato di essere reali, oggettivi e concreti, capaci di cozzare e interferire, duri e inanimati. Mi circondano e mi assediano, giungono fino ai miei occhi e anche più dentro di me nella distaccata geografia dell’anatomia umana. Posso alterare, filtrare, camuffare e interpretare, caricare di simbologia e significati ogni entità materiale del mio universo, ma è una mia illusione che la realtà muti conformazione e struttura e solidità senza il pur fragile intervento di altra materia, come le mie stesse mani, per esempio.
E tutte queste cose, fino all’intimità delle vene e degli organi vitali, sono la verità, la sola verità degna di tale nome. La circostanza che io riesca appena ad immaginarla, anche aiutato dalla vista, non è sufficiente perché riesca pienamente ad afferrarla e comprenderla. Posso solo affermare che esiste, evidentemente si estende al di là del mio sguardo visivo ed interiore, ma non riesco ad illudermi di alcun possesso, di alcun ragionevole e reciproco governo della conoscenza.
La verità - ciò che è - è silenziosa e oggettiva, le parole appena la sfiorano e la approssimano senza cambiarne gli attributi e la sostanza. Per quanto inarrivabile, la verità esiste indipendentemente da ogni dubbio umano che, ipotizzando, la vorrebbe comprovare. In fondo, la vita di ogni essere si svolge, si dipana, compie il suo ciclo intorno a una verità inafferrabile, come le nebbie che tentano di definire gli oggetti avvolgendoli e componendo in sé i loro confini e la loro superficie. Ma è una conoscenza, questa, approssimativa e nebulosa, inconsistente e complementare: la verità è convessa, reale ed oggettiva mentre la conoscenza umana è solo un tentativo di replica virtuale dell’universo che fonda qualche pretesa ragione nella propria concavità di intendere ed accogliere.
Ogni cresta frastagliata di onda, ogni schiocco di vela tormentata dal vento, ogni frustata di mare sulla chiglia e il suo rumore e il succedersi della sua posa spumeggiante contro la stessa superficie acquosa, ogni cigolio di legno provato sono la realtà, cioè come stanno le cose e nessun descriverle - neppure appena nominarle - ne intacca il sostanziale carattere di “verità”. I tentativi di raccontare, spiegare, poetare, disquisire, analizzare non si avvicinano neppure all’”è”, che resta infine immutabile e non tangibile dalle parole. “Vero”, è come se fosse un ulteriore elemento della realtà e ancor più vero in quanto realtà stessa.
E il mio spirito percepisce, in ogni squarcio dell’essenziale paesaggio che mi segue e che io inseguo, aiutato dai venti e dalle mie vele leggere, l’aleggiare della bellezza. Una bellezza, anch’essa, oggettiva e inopinabile, come precedente - e indifferente - alla comparsa dell’uomo su questo arioso pianeta: l’azzurro che si estende in sfumature infinite giocando con il candore delle nubi, il blu del respiro del mare che si protende verso il cielo, il rosso dei tramonti che sembrano inghiottire l’universo e il rifrangersi della luce negli spruzzi nebulosi dell’acqua, la linea dell’orizzonte e le creste delle onde, l’aria mobile nel vento e malinconica come il tempo che trascorre. Ma anche questa, la bellezza, è alterata dalla mia osservazione e giunge a me rimodellata dai miei sentimenti. Perché ogni istante di bellezza in cui mi imbatto non è tale di per sé, ma occasione di insopprimibile e dolorosa nostalgia per qualcosa che è trascorso, irrecuperabile, perduto e ormai irraggiungibile. Dunque, nella ricerca di una meta, nella fuga, o nella rincorsa di queste terse giornate autunnali, non conosco il mio destino ma neppure la mia condizione, la mia collocazione nel tempo e nello spazio. Soltanto l’illusione mi protegge dalla consapevolezza di una assoluta e totale ignoranza. Oppure sono così innumerevoli le verità che non conoscerò, prima che la navigazione abbia termine, da fami dubitare, alla fine, che la verità non esista affatto.

(continua)

L'entrata del laboratorio