America - marzo 2001

da "Dieci giorni negli States: appunti di viaggio" -

La mia prima volta in un paese anglofono e intorno voci, o meglio, suoni che non dicono, parole che non significano.
Lo scalo a Gatewick si prolunga oltre il previsto, ritardo “ per problemi tecnici”   e quindi tempi morti, attesa.
Mi siedo in una delle aree riservate ai passeggeri in transito, accanto a me un uomo giovane e due bambini, un maschio ed una femmina.
Parlano spagnolo, ma sono latinoamericani. La bambina avrà sei o sette anni, sembra molto gracile, i capelli chiari accentuano la sua fragilità e ha occhiaie profonde.
Il padre, l’uomo ha infatti sul volto il suo identico sorriso, non smette mai di guardarla, ogni tanto le passa una mano sui capelli, la sfiora appena, come per timore di farle male.
Prende dalla borsa una scacchiera pieghevole e poi le mostra l’alfiere che combatte per amore di una bella principessa, la torre del castello incantato, la regina che è bella, ma non quanto la sua bambina, la sua niña d’oro, e per ultimo il re, forte e imponente, ma che da solo non saprebbe vincere la sua battaglia.
Mi succede di pensare che mio padre non mi ha mai raccontato fiabe quando ero bambina, almeno non ricordo.
La domenica pomeriggio mi conduceva alla partita di calcio, quando i “biancorossi” suscitavano ancora entusiasmo e i grossetani riempivano lo stadio.
Forse avrebbe voluto un figlio maschio, certo nessuno gli aveva mai dimostrato che la tenerezza non significa fragilità.

Finalmente viene annunciata la partenza del volo: davanti a me tre donne, lo stesso volto nel protrarsi del tempo.
La nonna non smette di guardarsi intorno, non capisco nemmeno una parola di quello che dice, ma l’emozione che traspare dal suo viso parla per lei.
Sua figlia la guarda con indulgenza, la rassicura, ogni tanto le prende una mano con un sorriso.
La ragazzina cammina in disparte, sembra infastidita, tiene gli occhi abbassati e mastica la gomma in continuazione, l’unico impegno che sembra prendere sul serio.
La più vecchia è lei.  

Sull'aereo il mio posto è vicino al finestrino e la poltrona accanto alla mia resta vuota, così posso stendere le gambe.
Nella fila centrale c'è una donna di colore, non ne ho mai vista un'altra tanto brutta.
Ha i lineamenti molto marcati e le guance gonfie fanno assomigliare la sua testa ad un pallone in cui la bocca sporge come una ferita che non riesce a rimarginarsi. 
Mangia qualche cosa di grasso conservata in una carta di giornale, alternandola a cucchiaiate di una strana poltiglia biancastra. Si infila in bocca pezzi di cibo con le mani, cerca di spolpare un osso con i denti.
Non riesco a non guardarla, mentre lei sembra indifferente a quanti la circondano.
Penso al così detto “bon ton” che ci suggerisce regole per tutte le occasioni, per apparecchiare, usare il cucchiaio, sbucciare un’arancia……
Penso al disagio dissimulato a fatica che accompagna un liquido deglutito rumorosamente, un bicchiere troppo pieno, un frutto che sfugge all’impegnativo lavoro della forchetta.
Avverto tutto il ridicolo delle “maniere”, delle forme, con le quali noi stessi ci imbalsamiamo in stupidi, inesorabili gesti: burattini di un eterno teatro.
Si pulisce le mani strusciandole con un fazzoletto di carta.
Poi dalla borsa estrae una piccola trousse e inizia a truccarsi gli occhi e infine passa un rossetto violaceo sulle labbra ancora unte di cibo.
La rivedo per pochi minuti all'uscita dell'aeroporto, cammina sicura di sé, ha una lunga gonna turchese che le fascia il sedere e che da uno spacco lascia intravedere le cosce fino all'inguine. Incrocio il suo sguardo: ha la forza dirompente di una saetta, mi fa sentire inutile.

Washington è una città costruita a tavolino, un esperanto urbanistico.
Palazzi, spazi, parchi, tutto è ordinato e grande, anche le macchine.
Di giorno è una città di bianchi, ma dopo le diciotto, quando gli uffici chiudono, per le strade quasi solo neri.
I bianchi a Washington non ci vivono, ci vanno a lavorare: funzionari, banchieri, finanzieri che la sera fanno ritorno nelle eleganti e agiate villette anonime degli eleganti e anonimi quartieri residenziali intorno alla città.
Questa è almeno la mia impressione e le code interminabili di auto in uscita dalla città all’ora di chiusura degli uffici sembrano confermarla.
I neri: spazzini, autisti, custodi di musei, inservienti nei supermercati, addetti alle pulizie nei ristoranti, a Washington ci vivono anche, nella periferia.
All’improvviso i palazzi di marmo e di cristallo ( qui non ci sono grattacieli perché l’altezza degli edifici non deve superare quella del Campidoglio e così i piani li scavano sotto terra), i grandi viali squadrati, sono cancellati da casette di uno o due piani con facciate dai colori forti che anziché nascondere il degrado lo accentuano, da strade senza marciapiedi con la spazzatura abbandonata negli angoli, da cortili approssimativi ingombri di roba vecchia, di rottami, di pezzi di carrozzerie.
Qualche nero lavora negli uffici dei bianchi, nessun bianco metterà mai piede in questi quartieri fatiscenti dei neri.

Le persone per strada sono molto gentili, quando mi vedono alle prese con la piantina della città molti si fermano e mi offrono il loro aiuto, una delle  poliziotte in servizio alla Casa Bianca mi dà una calorosa pacca sulle spalle e il suo abbraccio altrettanto caloroso quasi mi stritola.
Eppure uccidono con la siringa o la sedia elettrica.

Nel cimitero di Arlington vado a vedere la tomba di John Kennedy.
Avevo circa quindici anni quando nel tardo pomeriggio sentii alla radio la notizia dell’attentato di Dallas.
Avevamo comprato da pochi anni il primo televisore, le notizie non arrivavano “in tempo reale”, i personaggi del cinema, della televisione, della politica rimanevano lontani dalla gente comune, come filtrati, e John Kennedy era un mito, affascinante, felice, generoso.
Ricordo di aver pregato e di aver pianto molto allora, forse perché ancora credevo negli eroi buoni e forti che vincono sempre contro il male.
Ora, davanti alla lapide con il suo nome, non provo nessuna emozione particolare, forse sarà per i tanti turisti giapponesi che, come cavallette si arrampicano per fotografare, o forse perché ho smesso di credere negli eroi buoni e forti.

Non sapevo che nella National Gallery ci fossero tanti dipinti degli impressionisti: Monet, Manet, Degas, Pissarro, Renoir.
Mi affascinano le cosce e i glutei opulenti delle donne di Toulouse Loutrec, mi assomigliano, sono assalita da un moto di orgoglio, mi convinco che sarei stata per lui una modella ideale.

Ad Atlantic City, la Las Vegas della East Coast, arrivo quando è ormai buio, non vedo niente della città, solo le luci lampeggianti, fortissime, multicolori dei vari hotel-casino: il Plaza, lo Sheraton, il Caesars.
Opto per il Caesars, forse per la mia familiarità con il personaggio.
Fuori fa un freddo polare, un vento gelido brucia le labbra
All’interno la temperatura è estiva, eccessiva, come del resto in tutti gli edifici, pubblici e privati.
Mi ritrovo in un salone sconfinato, in terra un tappeto rosa a rombi blu copre per intero l’immenso pavimento, un lampadario di cristallo con un numero infinito di luci materializza il senso dell’opulenza.
Per una scalinata rotonda ed imponente arrivo al primo piano, qui una statua di oltre venti metri che riproduce Cesare conquistatore delle Gallie domina l’angolo del Caffè-concerto e la lunga serie delle slot-machine distribuite lungo le pareti, dove si aprono anche le porte delle stanze attigue con i tavoli da gioco.
Inserisco dieci dollari in una macchinetta, li perdo subito e chiudo la mia esperienza di giocatrice d’azzardo.
I locali sono affollatissimi, abiti da sera luccicanti si mescolano a tute informi, ad abiti gessati, forse reminiscenza dei tempi d’oro del proibizionismo, a completi color pastello abbinati con scarpe da ginnastica.
Giocano e mangiano in continuazione.
Prima di riaffrontare il freddo passo dalla toilette: non è facile nemmeno qui con Apolli, legionari e Cesari che ti osservano da ogni angolo, alla faccia della privacy!

Philadelphia è una città reale, segnata dal tempo e dalla vita concreta degli uomini.
Il mio albergo, nel quartiere di Chinatown, è sotto la tutela delle Belle Arti, si tratta infatti di una ex  fabbrica di mobili del secondo ottocento, ristrutturata senza alterare le antiche strutture: il risultato non mi convince molto, ma è apprezzabile la volontà di conservare il proprio passato, del resto non ne hanno molto.
Finalmente vedo i grattacieli, quelli veri, trenta, quaranta, cinquanta piani.
Mi sento compressa, se possibile ancora più piccola.
Mi riconcilio con la mia modesta statura quando vedo le casette di mattoni rossi del Cultural District nella città vecchia e dell’Historic Waterfront
Non è solo una questione di misure però.
Qui convivono una miriade di razze, cinesi, giamaicani, neri, italiani, irlandesi, nei piccoli negozi si vende di tutto e soprattutto c’è tanta gente per strada, rumori, voci, risate.
Entro nella Christ Church, la Chiesa della Nazione: è qui che hanno girato il film Sesto Senso quello con Bruce Willis.
Guardo le balconate di legno bianco che nel film sembravano molto più imponenti.
Mi viene subito incontro il rettore e mi chiede che lingua parlo.
Torna dopo pochi secondi con due fogli dattiloscritti in italiano, inizio a leggere, mentre egli mi osserva: “I fedeli possono qui rinforzare la loro fede in Dio che crea gli uomini e vuole che essi siano liberi….”, divento rossa come un pomodoro e non so più dove guardare, con la coda dell’occhio cerco l’uscita, mentre, quasi strisciando lungo la parete e con un sorriso stirato di circostanza, faccio del mio meglio per non deluderlo.

Quando sente che sono italiana, un nero, custode del museo di Rodin, si offre di farmi da guida, parla il francese.
Mi mostra le opere più importanti e lo fa con grande passione.
La scultura più imponente è quella che raffigura “ I cinque borghesi di Calais”, mi spiega il significato di ogni particolare, parla lentamente, scandisce con pazienza le parole perché io passa capire con facilità. Ma è soprattutto davanti ai bronzi che riproducono il volto e la figura di Balzac che  sembra quasi commuoversi nel raccontarne la storia: lo scultore non avrebbe voluto realizzare quel lavoro, lo fece solo per l’amicizia che lo legava a Zola che glielo aveva proposto. Volutamente, tuttavia,  diede un aspetto torvo, quasi truce ai tratti del volto dell’autore della Comedie Humaine, era la sua forma di protesta contro la violenza del potere, sempre opprimente e arrogante, sia che derivi dal denaro che dalla politica.
Ed ora  è lui che protesta, è lui che esprime la sua rabbia, il suo dolore.
Sono sorpresa da quest’uomo, dall’intensità dei suoi sentimenti, dalla sua gentilezza e al momento di salutarlo cerco il borsello per lasciare una mancia, ma lui mi precede, “voi italiani siete il popolo migliore del mondo, volevo  ringraziarvi, vengo dal Senegal e ho due fratelli in Italia, l’unico paese dove si fa qualche cosa per gli africani”.
Non ho più avuto il coraggio di guardarlo negli occhi, come sempre mi succede quando mi si attribuiscono dei meriti che non ho.

L’undici marzo è la festa di san Patrizio, il santo patrono degli irlandesi.
Alle ore tredici inizia una grande parata nella Franklin Parkway, dovunque i colori bianco, verde e arancio, nei cappelli, nei fiori, nelle coccarde, persino nelle caramelle e nello zucchero filato.
Sfilano tutti, associazioni di veterani, di enti assistenziali, scuole di ballo, di musica gaelica, gruppi sportivi, uomini politici che stringono la mano alle migliaia di persone in fila ai bordi del grande viale.
In coda ad ogni gruppo la bandiera irlandese unita a quella degli States.
Per noi europei è facile criticare con una sorta di sufficienza certe esibizioni che ricordano il folklore delle sagre di paese, ma credo sia degno di rispetto l’attaccamento alla propria terra di origine da parte di chi vive qui da generazioni e che forse in Irlanda non ci ha mai messo piede.
Del resto persino gli italiani  in America festeggiano il Columbus day in mezzo alle bandiere tricolori.

New York è Manhattan, è i grattacieli, i negozi, il Brooklyn Bridge, i musei, il Central Park.
Rimane solo una percezione fugace, sfuggente.
Ci tornerò.

Anna Maria Pantaloni

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