La mia piccola odissea
di Andrea Guelfi

 

Prefazione

Questo racconto è la storia di quanto successo allo scrivente, Andrea Guelfi fu Vittorio, nato a Genova il 22 Giugno 1922, dopo l'armistizio avvenuto tra l'Italia e gli Alleati suoi avversari nella seconda Guerra Mondiale e proclamato il giorno 08/09/1943.
Il 5 Febbraio 1943 ero stato chiamato alle armi e inviato alla Caserma del 1° Reggimento Granatieri di Sardegna a Roma e da qui dopo una quindicina di giorni e la vestizione, assegnato al XVII Battaglione d'Istruzione e inviato a Forlì' dove ci accantonarono alle "Casermette" a tre chilometri dalla città.
Dopo la perdita dell'Africa Settentrionale (Egitto, Libia e Tunisia) e lo sbarco degli Alleati in Sicilia, venimmo inviati nel Luglio 1943 a continuare il Corso Allievi Ufficiali a Gioia del Colle (Bari) in zona d'operazioni dove la posta ci veniva inviata indirizzandola alla "Posta Militare" come per i soldati al fronte.

 

Nota

Nel 1943 gli "ex" del Regio Esercito Italiano consideravano ancora i germanici più come alleati della guerra in Africa, Russia, Iugoslavia, Grecia, Mare Mediterraneo, che come avversari.
Nessuno poi, fino a dopo il 25 Aprile 1945, avrebbe avuto notizia degli orrori dei campi di sterminio, dei campi di concentramento, del motto "Arbeit macht frei" che sinistramente era ostentato sui loro ingressi...
Questo spiega la spavalderia colla quale tanti sfortunati militari, desiderosi soltanto di tornare a casa, rischiarono la loro libertà e la loro vita.
Bisogna anche ricordare che, prima del volo di Otto Skorzeni colla cicogna a prelevare Benito Mussolini tenuto agli arresti sul Gran Sasso, non si poteva immaginare la risurrezione del fascismo nel Nord Italia con l'inizio della guerra civile tra la R.S.I. e i partigiani, le rappresaglie dei tedeschi e dei fascisti come a Marzabotto (BO), a Vinca (MS), ecc.; di leggi di crudeltà inaudita come il cosiddetto "Bando di Graziani" per cui il renitente al richiamo alle armi nell'esercito repubblichino delle classi 1922/1923 era passibile di fucilazione sul luogo della cattura senza alcun processo.
Scrivo questo perché le generazioni del dopoguerra possano tentare di immaginare in quali situazioni ci siamo trovati e quali decisioni fummo costretti a prendere nella più completa assenza di ordini o direttive che avrebbero dovute essere impartite alle Forze Armate dal governo del generale Badoglio.
Per molti ex militari il desiderio di ritornare a casa nel Nord Italia fu foriero di molte sciagure e delusioni.

        Gennaio 1992

 

Dall' 8 al 12 Settembre 1943

La libera uscita era suonata da alcuni minuti e Pietro ed io stavamo uscendo per il consueto giro serale dei caffè.
Nel pomeriggio eravamo rimasti in camerata, con la scusa che l'ottava squadra doveva dare ancora qualche esame di teoria, invece di andare all'istruzione ed all'immancabile allarme.
Al cancello ci incontrammo con un plotone che rientrava ed un compagno ci disse che c'era qualcosa di grosso in aria.
Un'emozione assai spiegabile ci prese; però ci ricredemmo quasi subito: fuori c'era la solita aria tranquilla e normale di tutti i giorni.
Dirigendoci verso la piazza (di Gioia del Colle - Bari) discorrevamo secondo il solito; senza però riuscire ad eliminare il pensiero di quella novità, così assurda e così probabile.
D'altra parte, completata l'occupazione della Sicilia, gli angloamericani erano sbarcati già da alcuni giorni a Villa S. Giovanni.
Facendo questi ragionamenti, noi passeggiavamo in su e in giù per il Corso, ed al nostro occhio cominciava a presentarsi qualche novità.
Aumentava il numero delle persone nella strada e si formavano gruppetti di tre o quattro. Varie le espressioni dei visi ma prevalentemente allegre, come per un premio. Una parola girava senza posa: "ARMISTIZIO".
Allora ci ritirammo in un caffeuccio ed ordinammo un gelato.
Dapprima ridevamo, dicevamo un sacco di stupidaggini; poi ci facemmo improvvisamente seri e tristi e pensammo al peggio.
Quando ritornammo in strada, tutta la folla era corsa come una fiumana in piazza e ne chiedeva conferma davanti al municipio.
La notizia era troppo bella per il popolo; per quel popolo che non ama la guerra, che é abituato da generazioni a pagare le tasse con qualsiasi partito al governo, a lavorare sempre e che, non avendo ideali troppo alti ed ambiziosi, si contenta della pace.
Ci riscosse dai nostri pensieri il trombettiere che suonava la ritirata in anticipo in mezzo alla folla e ci consolammo subito pensando: "Per un pezzo addio libera uscita!"
Rientrammo nella scuola in cui eravamo accampati, con una visione di pace negli occhi, di famiglie nuovamente unite, di piaghe lenite e risanate, di città illuminate; pensando ai visi delle nostre mamme e delle nostre fidanzate raggianti e, nel profondo del cuore, un senso come di sventura vicina e terribile.
Non sarebbe ancora una volta la nostra Italia divenuta campo di battaglia per gli stranieri?
Come ci riuscì difficile quella sera prendere sonno! Ci fu persino un allarme, così per non perdere la cattiva abitudine.
Il mattino successivo cominciarono a prendere forma le nostre ansietà.
Voci di sbarchi britannici a Taranto, Salerno, Ancona, Napoli e Genova! E da noi la solita stupida vita quotidiana.
Gli esami (per il grado si sergente ma con nomina a caporalmaggiore per i soliti motivi di economia statale). Vicino al campo sportivo una radio mobile del campo d'aviazione funzionava e captava Radio Londra.
Così, mentre il numero degli sbarchi si riduceva, aumentava il numero delle città e delle regioni occupate dai tedeschi: Milano, Roma, Torino, Genova. Una ridda di notizie sempre peggiori che, fortunatamente, dopo il primo sbalordimento iniziale, non aveva più eccessiva presa sul nostro animo, da sette mesi abituato a passare di delusione in delusione.
E gli esami continuano!
Mentre i tedeschi cominciavano ad occupare i punti strategici della città e del suo campo trincerato, i tremila militari italiani, secondo le direttive del Governo Badoglio, si rinchiudevano negli accantonamenti o andavano a fare ginnastica!
Così si giunse a domenica 12 settembre 1943.
Già da due giorni gli inglesi erano a Mòttola e a Castellaneta, a circa venti chilometri da noi e si dormiva vestiti, con le armi pronte al fianco.
Malgrado tutto eravamo ancora efficienti e saremmo stati certamente capaci di affrontare dietro ad una barricata la morte se fossimo stati comandati da un Uomo coraggioso e capace di assumersi una simile responsabilità. Ma tutto questo ci mancò al momento decisivo e fummo stanati come i conigli in una buca: cedere le armi o saltare in aria ! E poiché gli eroismi sono belli purché fatti in vantaggio di chi se lo merita, cedemmo.
Ho visto in quella scarsa mezz'ora davanti ad un pericolo effettivo ed immediato il reale valore di ognuno di noi.
Pietro Marzano calmo come il solito con un triste sorriso sulle labbra come la maggior parte di noi; facevano difetto i soliti coraggiosi, quelli che avevano sempre da dire la loro, i tipi da venti/ventesimi in attitudine militare.
Certo la loro attitudine consisteva nel divenire un brillante ufficiale, azzimatissimo, sempre inguantato, che non visita le camerate per timore dei parassiti!
Quanti bluff svanivano alla luce del sole! Il capitano verde come un limone spremuto, gli ufficiali silenziosi, il terribile Ten. Corsani in tali condizioni che se uno gli fosse salito su un piede sarebbe stato zitto; l'Aiutante Maggiore sembrava un bimbo cui urgesse mutare i calzoncini. Già, era lui che doveva portare la risposta al comandante tedesco!
Ma, fortunatamente per loro, cedemmo e tutto finì così.
Assai gentilmente il colonnello tedesco ci elargì nel suo discorso la nostra libertà di fare ciò che si voleva.
Che squallore quella sera nel XVII Battaglione d'Istruzione! Quasi nessuno aveva preso il rancio: gli ufficiali erano spariti; il capo guardia non c'era più; anche il trombettiere taceva. Nessuno riusciva a ridere o a scherzare.
Eravamo tutti in attesa che la notte finisse per fare qualcosa.
Il dilemma più tragico per noi era: "Ci lascerà andare il Colonnello o pretenderà tenerci inquadrati fino all'arrivo degli Inglesi?"
Fortunatamente il sonno non si fece troppo attendere e ci liberò ben presto da tutti i problemi.

 

Lunedì 13 Settembre

Il domani mattina uscii abbastanza per tempo per recarmi a trovare la famiglia Poli. Erano tutti in orgasmo perché il marito non era rincasato la sera precedente da Bari. Li salutai, dopo averli messi al corrente sulle mie intenzioni di tornarmene a casa e li lasciai al loro destino. Mentre ritornavo alla caserma, vidi molti dei miei compagni che, zaino in ispalla e pantaloni di tela tagliati corti, partivano nel tentativo di raggiungere la propria famiglia.
Il mio animo era tutto in tempesta; da un lato la visione della casa, dei miei cari; dall'altro tutta la massa dei rischi e delle incognite del viaggio.
Alla fine prevalse il desiderio di ritornare su tutte le obiezioni e, quando rientrai nell'accantonamento, la decisione era già presa.
Partii alle 10 e mezzo, insieme a Pietro e ad altri tre napoletani, con la novità che Mussolini era tornato al potere.
Scegliemmo la via di Altamura - Spinazzola, essendo gli inglesi già sbarcati a Bari.
Il sole era alto in un cielo azzurro e limpidissimo; l'ultimo saluto che Gioia ci diede fu in tutto il suo splendore.
Cominciava la nostra odissea, una delle prime legnate della vita, capitataci tra capo e collo così, d'improvviso.
La fede era molta; le possibilità relative però. Se per i quattro napoletani si trattava di meno di cinquecento chilometri, per me erano oltre mille. E lo zaino pesava!
Appena fuori città partecipammo al saccheggio della nostra sussistenza e ciò che sembrava già pesante venne aumentato di vari chilogrammi di scatolette e galletta. Fortunatamente tutto è relativo a questo mondo!
Mentre stivavamo il sacco, un apparecchio dalla bianca croce ci regalò due o tre confetti, caduti fortunatamente ad un centinaio di metri, tra il tintinnio dei vetri infranti
Ripartimmo con altri tre napoletani unitisi a noi.
I primi chilometri della nostra marcia verso la libertà furono presto condotti a termine, tra gli scoppi delle nostre munizioni che saltavano allegramente ed inutilmente in aria, cospargendo la strada di detriti.
Poi il caldo ebbe il sopravvento e, quando il sole stava per tramontare, avevamo fatto appena una diecina di chilometri!
Fu così che, durante uno dei nostri numerosissimi alt con materiale a terra, ci raggiunse il nostro Colonnello. Anche lui se ne andava: però, più fortunato di noi, in macchina.
Ci augurò buon viaggio e buona fortuna. Poveretto, aveva le lacrime agli occhi.
Gli ultimi chilometri li coprimmo con un provvidenziale camion che ci posò a Santèramo in Colle.
Anche qui gli stessi sintomi osservati a Gioia del Colle: tutte le botteghe chiuse, un'aria spaurita e di attesa tra la popolazione che ci guardava con pietà e commozione.
Appena fuori del paese io e Pietro rimanemmo indietro e vendetti le scarpette da ginnastica, la ventriera e l'ultimo paio di mutandoni per centodieci lire! Anche Marzano si liberò di qualcosa in quella occasione.
Poi, mentre forzavamo l'andatura, fummo fermati da una buona vecchietta, magra e rugosa, che non seppe trattenere le lacrime, ci abbracciò e ci offerse quel poco che aveva: un bel cesto di fichi, mandorle ed uva. Non so perché ma mi fece l'impressione della povera Italia che accoglieva a braccia aperte i suoi figli più cari che nessuna colpa avevano della presente sciagura.
Accettammo qualche fico, così spontaneamente offerto e, quando proseguimmo, Pietro aveva gli occhi pieni di lacrime. Anch'io ero commosso e credo avrei pianto volentieri, senza amarezza.
Quante mamme come quella vecchietta ho incontrato ancora durante il mio ritorno; quanta gente si commosse vedendoci girare così raminghi e sbandati per le polverose strade di Puglia!
Ritrovati i compagni, proseguimmo ancora per un paio di chilometri e ci fermammo presso una masseria, dove chiedemmo ed ottenemmo alloggio per otto persone.
Quella sera stessa tagliai io pure i miei pantaloni di tela, riducendoli corti e godetti il sollievo di un generoso pediluvio freddo fatto insieme a Pietro in una tinozza scavata in un sasso.
I padroni o mezzadri che fossero, posero una grande casseruola al fuoco e ci cucinammo fagioli e verdura con alcune uova, cui aggiungemmo una diecina di scatolette di lesso, ottenendo una broda sostanziosa e ottima al palato.
Dormimmo bene quella sera su un soffice strato di paglia in una cantina semi-interrata malgrado tutte le novità, prima tra le quali l'esser fuori caserma. In quella mezz'ora di veglia prima di spengere la candela trovammo anche il modo di ridere e scherzare, dimenticando per un momento tutte le difficoltà e le prove che ci si prospettavano.

 

Martedì 14 Settembre

Di buon mattino ripartimmo, rinfrancati dalla buona dormita e pieni di energie. Dopo un'ora circa di cammino scorgemmo in lontananza Altamura, la nostra meta della giornata. Io ero in testa alla comitiva e tiravo come un dannato.
Si erano stabiliti trenta minuti di marcia e trenta di riposo, con un totale di due chilometri. e mezzo l'ora di media.
A mezzodì facemmo tappa in una ex stalla cadente, dove iniziammo tosto i preparativi della colazione. Pietro aveva scoperto li fuori un campicello di pomidoro e corse a farne provvista; il focolare c'era ma mancava la legna: a questa provvedemmo sradicando un vecchio trave tarlato dal tetto, che riducemmo in schegge mediante un attrezzo leggero che avevamo con noi. Due gavette affiancate fecero da marmitta e cucinammo i pomidoro col grasso della carne, aggiungendovi infine questa e delle fettine di formaggio. Il cuoco fui io e, modestamente, affermo di aver raramente mangiato qualcosa di così gustoso.
Essendo il caldo asfissiante, ci sdraiammo sulla terra del' abituro, mentre due di noi estratti a sorte si recavano al casello ferroviario appena sorpassato per acqua.
Quando tornarono ci portarono in trionfo due pollastri che avevano catturato ed uccisi nel pollaio del casello stesso. L'entusiasmo salì alle stelle e di lì a poco ci rimettemmo in cammino.
Giunti quasi ad Altamura, per ben due volte venimmo fermati da pattuglie di tedeschi che ci chiesero se eravamo armati e ci tastarono anche. Per farsi intendere dicevano: "Nix pum-pum" atteggiando le dita a revolver. Fu così che Pietro si decise a buttare in un campo la sua rivoltella e le relative munizioni.
Altamura è una bella città di circa 25 mila abitanti, su una specie di collina, dal che credo derivi il suo nome, visto che nessuna traccia di mura esisteva ancora. Il suo lastricato era assai sdrucciolevole e ne ricordo la chiesa assai antica con una facciata tutta ricamata, come un lavoro al bulino.
Dopo averla traversata, ci fermammo in una via della periferia per alleggerire il nostro carico, ed io per cento lire mi disfai delle due coperte di lana!
Appena usciti dalla città ci fermammo ad una piazzola dove era postato un pezzo da 88 m/m c/aereo e c/carro, per chiedere all'ufficiale il termine del coprifuoco. Provai col francese, niente; con l'inglese, fiasco; italiano, neppure a pensarci, e, quando stavamo per abbandonare l'idea, riuscimmo ad intenderci col latino! Tra noi c'era un professore di lettere (due esami credo alla laurea) e riuscimmo ad ottenere l'informazione desiderata.
Si presentò poi il problema dell'alloggio: credo abbiamo fatto oltre 5 chilometri. cercandolo, per trovarlo finalmente in un "jazzo" (sono le masserie-ovile di Puglia)
Questo casolare era infossato in un avvallamento del terreno, una specie di gravina, e con la luna già alta e l'azzurro cupo del cielo ci dava una malinconia esasperante.
Quella pianura monotona, lievemente ondulata con qual che albero priva d'erba e dalla terra rosso scura, l'oscurità e il fresco della sera, quella costruzione in pietra annerita dal tempo, a volte e piena di anfratti, tutti i muretti di divisione e quella pecora che, tossendo, pareva una creatura umana, davano un senso di abbandono che ci opprimeva.
Io ero seduto in cima alla scala esterna e fumavo una sigaretta mentre Pietro ed un altro spennavano i due disgraziati bipedi.
Intanto il paiolo con l'acqua si scaldava su una fascina mentre i bagliori del fuoco ci illuminavano a tratti ed il suo crepitio rompeva il silenzio.
Fortunatamente ci fu la farsa del preparare e pulire i volatili per la cottura. E poiché nessuno voleva farlo, fui proprio io a squarciarli ed a vuotarli! Una massaia sarebbe certamente inorridita vedendo la mia opera; comunque tutto fu fatto senza eccessivi incidenti e dopo un'oretta fummo in grado di mangiare.
La notte trascorse tranquilla e dormimmo nell'ampia stalla deserta in santa pace.

 

Mercoledì 15 Settembre

Molto opportunamente avevamo appeso la sera precedente tutti i nostri averi a fili di ferro pendenti dalla volta. Trovammo sterco di topo perfino sui nostri teli e qualche unghia dei piedi rosicchiata!
La luce del sole mutava completamente la natura del luogo e fu alla sua luce che mi accinsi a dare alle fiamme tutte le lettere da casa. Un sacrificio abbastanza doloroso per la massa dei ricordi, ma utile tanto per il fisico (un chilogrammo di meno sulle spalle) quanto per il morale. La sensazione di aver tagliato tutti i ponti col passato e la certezza di preservare la nostra intimità da curiosità di estranei sono preziose per chi compie uno sforzo straordinario. E mi giovarono.
Quel mattino eravamo troppo contenti e fiduciosi nella vita.
Da quarantott'ore eravamo in cammino e il senso fisico-morale dei primi quaranta chilometri di meno si faceva potentemente sentire. Come funzionavano bene i nostri muscoli, i nostri piedi, le nostre spalle! Ogni 11/12 minuti un cippo miliare rimaneva dietro la nostra schiena.
Ed il sole era ancora basso quando avvistammo Gravina, 14 chilometri oltre Altamura. Come si presentava bene quel paese, con le sue case, i suoi campanili ed una torre, residuo forse di passati fulgori medievali!
Ma quei due tedeschi sulla strada, rigidi come baccalà, con tanto di Machine-pistole, si incaricarono subito di disilluderci.
"Nix Gravina, nix Spinazzola, verboten, tornare Altamura, lavorare!"
Avessimo potuto incenerirli, distruggerli, annientarli! Un odio enorme ci divideva, noi a casa nostra, costretti a girare a piedi come straccioni, mentre un branco di schiavisti andava in macchina, su macchine nostre, con la nostra benzina e sulle nostre strade! Un sintomo di ribellione ci aveva preso e ci faceva tremare. Ma anche torcendo il collo a quei due miserabili non avremmo certo cambiato la situazione. Ci saremmo trasformati in selvaggina impotente, messa al bando e cacciata.
Perché il nostro Colonnello aveva ceduto? Non era meglio morire sulla breccia piuttosto che subire queste umiliazioni? Non era meglio continuare l'opera intrapresa dai nostri padri e dai nostri avi, sterminando quanti più negrieri germanici era possibile? -"Giorno verrà"- dicemmo allora e questo si stava avvicinando a grandi passi, come è scritto nella nemesi storica.
E stanchi, oppressi, con un groppo in gola, riprendemmo all'inverso, strascicando i piedi, quel cammino che avevamo fatto un'ora prima con tanta baldanza.
Eravamo tanto annientati che non riuscivamo quasi più a parlare. Concordemente ammettevamo che sarebbe stato meglio rimanere a Gioia, ma nessuno aveva voglia di ritornarci.
Da come si erano espressi i due tedeschi pareva impossibile proseguire, salvo procedere per boschi con rischi abbastanza gravi. Non sapendo come decidere subito una cosa così grave, pensammo di rifugiarci in qualche capanno per poter provvedere in tranquillità al domani, divenuto ormai così incerto.
E ci sistemammo in una stalla-fienile, padroni dello sterminato recinto di una villa sprangata e abbandonata. Un doppio filare di fichi, vigneti, pomidoro, melanzane e peperoni a disposizione.
Anche tre pozzi, in una depressione. Una gavetta servì da secchio e con vari pezzi di spago si costruì la corda. Ma dal primo pozzo che delusione: acqua salmastra-magnesiaca! Scartato a priori il secondo pozzo perché l'acqua aveva delle bollicine, ci rivolgemmo fiduciosi al terzo. La gavetta scende, uno strappo, è colma, risale. Chi si decide ad assaggiarla? Ma fu sufficiente l'odore: solforosa.
Intanto un ronzio di apparecchi si avvicinava: fortezze volanti. Tutti a terra: è pericoloso mostrarsi in divisa! Qualche bomba cadde su Altamura poi, terminato il pericolo, risorse la questione dell'acqua.
L'ultimo pozzo era in mezzo ai primi due e l'acqua aveva un aspetto peggiore dei precedenti. Pure tentammo. Acqua purissima, fresca, deliziosa con quel gran caldo! E questa specie di piccolo successo valse a rialzare di non poco il morale.
Accendemmo il fuoco sotto la cappa e poiché il vento respingeva il fumo, il cuoco indossava una maschera antigas, innovazione che consiglio a tutte le massaie che lacrimano per qualche difetto del camino!
Malgrado tutta la buona volontà, la sera non avevamo ancora stabilito cosa fosse meglio fare. Ed andammo a dormire nel bel calduccio della paglia, nostro giaciglio fedele da tanti mesi ormai.
E quando l'animo ebbe dimenticato le miserie della vita per rattrappirsi in seno al corpo, nel bel calduccio del cappotto, la notte passò come tante altre, né meglio né peggio.

 

Giovedì 16 Settembre

Al mattino, dopo aver preparato gli zaini per tornare verso Altamura ed... aspettare, sentimmo delle voci e fummo raggiunti da due contadini che ci dissero che moltissima gente stava arrivando dal nord e che anche dal sud erano passati tanti militari.
La prospettiva era troppo bella per non ritentare e difatti ripartimmo.
Ahimè, i due soliti cerberi erano già appostati e non vollero nemmeno udirci; più rigidi che mai infransero ancora una volta le nostre speranze più vive.
Ancora una volta riprendemmo la via del ritorno. Oltrepassammo il nostro rifugio del giorno precedente e della notte, dirigendoci verso Altamura.
Per la via un continuo va e vieni di tedeschi, naturalmente tutti motorizzati. Notammo una novità: quasi tutti i camion avevano una mitragliatrice contraerea o, almeno, una vedetta. A quanto desumemmo i caccia inglesi avevano cominciato a lavorare proficuamente ed a picchiare sodo.
Giungemmo ad una casa Cantoniera e ci fermammo a bere (acqua fresca dell'acquedotto pugliese e nient'altro!).
Il padrone ci informò che durante la notte i tedeschi vi avevano "lavorato". Infatti una finestra era in schegge ed i mobili tutti tritati e maciullati per rubare. Che miseria!
Da una figlia invece apprendemmo che ad un paio di chilometri nell'entroterra c'erano soldati ed ufficiali nostri in attesa degli eventi. Drizzammo allora la rotta verso una "Masseria Calderoni", segnata anche sulla mia cartina come sull'Atlante Stradale del TCI, sperando di ritrovare qualche compagno del XVII Battaglione.
Invece trovammo i militari del campo di concentramento per prigionieri inglesi e rimanemmo loro ospiti per tutta la giornata.
Anche lì un piccolo mondo con tutti i suoi intrighi. C'erano due gruppi: un plotone deposito di un reggimento di artiglieria con molto materiale in consegna, quello che ci ospitò, e circa altrettanti uomini al comando di un maggiore per tutti i servizi del campo. Questo maggiore era una bravissima persona che proprio il giorno prima aveva freddato a bruciapelo un goriziano perché voleva andarsene a casa. Ci propose di rimanere con lui per combattere ad oltranza i tedeschi; ci avrebbe riarmati e trattati da sottufficiali, ma davanti al nostro contegno risoluto e negativo se ne andò con le pive nel sacco.
Pranzammo con un'ottima pastasciutta, organizzata con tutte le migliori regole dell'"ars culinaria naiae", generosamente cosparsa di cacio grattugiato.
Per farla breve, prima di sera avevamo già deciso io ed altri quattro tra abruzzesi e marchigiani di ripartire il mattino successivo camminando per tratturi e costeggiando le Murge.
La sera dormimmo sotto un albero e sotto le stelle.
C'era la luna, fredda in un cielo di gelido cristallo, tutto punteggiato di innumerevoli luci. Gli ulivi e i mandorli sembravano neri, in contrasto colla terra tutta scintillante, quasi bianca.
Era così bello starsene supino, sul telo imbottito di paglia, con l'aria fresca che mi carezzava leggermente, fumando l'eterna sigaretta, cullato dalla pace della notte mentre una grande sinfonia di grilli deliziava l'orecchio. Il sonno tardava a venire ed i pensieri si rincorrevano dietro la fronte, uno più bello dell'altro.
Inondata dal raggio lunare la pianura perdeva la sua immobilità e cominciava ad ondeggiare pian piano come per cullarmi, per aiutarmi a vedere con l'immaginazione la mia meta. Che visione dolcissima! La casa, la Mamma, il viso di Bruna, il mio letto. Tanti sogni, tanti desideri, tante illusioni...
Poi, quando la realtà sembrava illusione e l'illusione realtà stesi la mano per toccare, per convincermi. Un leggero dolore tra due dita, un senso di fuoco. Avevo dimenticato la sigaretta!

 

Venerdì 17 Settembre

L'alba era ancora lontana quando "Rosso" venne a destarmi per partire.
Mi si spezzò il cuore salutando Pietro, il compagno indivisibile dei miei sette mesi di vita militare, di tutte le gioie e di tutti i dispiaceri; l'amico fedele e disinteressato.
Ancora dopo tanto tempo lo rammento spesso insieme alla mamma e diciamo sempre: -"Possa aver raggiunto felicemente Napoli e la sua famiglia"- Miglior augurio non gli saprei fare.
E partii. Ma dei nuovi compagni nessuna traccia. Andai avanti per un bel po'; mi sgolai a chiamare, poi tornai indietro, inutilmente.
Ma non volli tornare sulla decisione già presa e ripartii solo, deciso ad arrivare a qualunque costo. Ed alle sette vi erano già sei o sette chilometri di muretti, campi, mandorli e fichi tra me e Pietro.
Mi fermai ad una masseria per chiedere un poco di frutta e, quando stavo per ripartire, vidi arrivare i miei compagni, già scoppiati. Proseguimmo insieme per un pezzetto poi, visto che andavano troppo lentamente, li salutai ed andai per mio conto assai più speditamente.
Alle dodici mi fermai presso alcuni mezzadri che mi regalarono un cesto di uva e due uova freschissime.
Feci la siesta all'ombra di un enorme pagliaio nell'ora della canicola e, per provvedere all'estrema possibilità, scrissi il mio indirizzo sul taccuino, pregando chi lo avesse rinvenuto di mandarlo ai miei e ripetei la scritta in francese ed in inglese.
Poi ripartii un po' prima delle quattro. Gravina era già rimasta alle mie spalle di un bel pezzo.
Lungo il percorso incontravo carovane di gente che veniva per la gran maggioranza dall'alta Italia.
Questi erano giunti col treno nelle vicinanze di Foggia e poi avevano proseguito a piedi. Erano già tutti in borghese, con valige o sacchetti in spalla. Per quel pomeriggio feci ancora sette od otto chilometri, seguendo il tratturo e camminando in mezzo a sterminati campi di stoppie arse dal sole. Le rare masserie erano distanti da uno a due chilometri l'una dall'altra.
Giunsi così all'ultima, sulla carta segnata Masseria Costarizza, una grande costruzione con un cortile interno, tettoie e stalle per gli animali, con uno sciame di galline, due cavalli ed un puledro. Ma di uomini nessuna traccia. E poiché non mi piaceva rimanere solo in casa d'altri, presi il coraggio a due mani e rifeci un paio di chilometri indietro, fino alla masseria precedente. Mi feci accendere un poco di fuoco e cucinai le mie due uova alla "gavetta" aggiungendovi una scatoletta di carne.
Poi rimasi solo, mentre i padroni, per paura dei tedeschi, si ritiravano a dormire all'addiaccio in qualche gola delle Murge. Ma in quella stalla c'era un così dolce tepore...!
Unico disturbo la diarrea che mi costrinse ad abbandonare più volte il giaciglio ed un paio di mutande!

 

Sabato 18 Settembre.

Quel mattino partii tardi, alle sette.
Per tutta la mattinata marciai in mezzo alle stoppie che scricchiolavano sotto le scarpe, controllando bene il mio cammino sulla carta. Vi erano dei bacchetti rinsecchiti, tutti coperti di gusci bianchi e vuoti di lumache e certe erbe dalle foglie larghe ed irte di spine. In breve ebbi le ginocchia tutte sgraffiate.
Oltrepassai Poggio Orsini, un borgo pittorescamente adagiato sulla sommità di una specie di duna, brulla come le Murge, e la sua stazione fatta saltare e data alle fiamme dai tedeschi per non so quale rappresaglia.
Quando il sole fu caldo ed alto all'orizzonte, mi fermai alla prima masseria, soprattutto per mutare l'acqua della borraccia, che sapeva di muffa. Ma l'acqua che assaggiai aveva un tale gusto di terra e di paglia fermentata che, tutto considerato, la sete era ancora il partito da preferirsi.
Fortunatamente c'era un bravo giovine, ex militare come me che andò a riempirmela.
Mi diedero dell'ottimo pane bianco ed anche del formaggio, insieme a diverse fette di un enorme popone.
Quel giovine acconsentì a cambiare la mia divisa di panno, cappotto compreso, con un abito borghese: una giacca nera, una berretta sdrucita e bisunta ed un paio di pantaloni neri a righe, tipo smoking, che, col risvolto ammainato mi arrivavano appena sotto il polpaccio! Era già un passo avanti, insomma!
Così, quando il sole era già basso sull'orizzonte, presi congedo da quella gente, ringraziando e ringraziato.
La masseria portava il nome pomposo di "Castel Garagnone" (I ruderi del castello erano sulla vetta di una Murgia).
Lo zaino si era nuovamente alleggerito e camminavo spedito e di gusto verso Spinazzola che si intravedeva di già. Verso sera fermai un giovine del posto per chiedergli informazioni circa la strada più breve e scopersi che avevo da fare con uno studente. Non seppi declinare l'invito a fermarmi presso di lui per pernottare. Perdevo è vero un'ora di cammino; in compenso avevo una compagnia piacevole e feci anche un magnifico bagno completo.
Cenai come un pastorello con una ciotola di latte appena munto e di capra, nella quale nuotavano due o tre qualità di pane (pagnotta compresa) e galletta.
Poi mi accinsi a dormire, usando come giaciglio un divano di automobile posto in una greppia nella stalla, in compagnia di questo giovine.
La mia diarrea raggiunse quella notte il suo diapason facendomi scendere ben nove volte.
Alla prima suscitai una cagnara e ci fu un cane, di gusti evidentemente copofagi, che apprezzò il mio regalo.
Verso le due di notte la Murgia, tutta illuminata dalla luna, sembrava ricoperta di pezzetti di vetro, tanto luccicava.

 

Domenica 19 Settembre.

Il mattino, dopo aver fatto colazione con un'altra ciotola di latte, indossai l'abito borghese e cambiai il mio cilicio (leggi: lo zaino) con un sacchetto di tela. Anche la gavetta e la bustina vennero abbandonate al loro destino.
Durante la notte non avevo chiuso occhio, probabilmente perché ossessionato da un vivo dolore ad una rotula.
Ma non fu il ginocchio a tradirmi, bensì il sacchetto che dopo un'ora di cammino cominciò a perdere la roba, costringendomi a pezzarlo diverse volte, sacrificando all'uopo le pezze da piedi.
Alle dieci ero al traverso di Spinazzola e, mentre mi congratulavo con me stesso per i primi ottanta e più chilometri felicemente percorsi (il dolore al ginocchio era scomparso così come era venuto), arrivarono una diecina di apparecchi inglesi da caccia, che iniziarono un infernale carosello proprio su Spinazzola, bombardando ed incendiando depositi di petrolio.
Il guaio fu che quel tratto di campagna era completamente deserto e che quei malintenzionati erano sempre sopra la mia testa. Fortunatamente la passai liscia e, quando il bombardamento ebbe termine, ero già sufficientemente lontano.
Ero tutto contento perché il sacchetto si portava assai meglio dello zaino e contavo di moltiplicare per 1,5 la mia media giornaliera. A mezzogiorno, dopo aver mangiato una scatoletta con un poco di galletta, trovai anche il tempo di radermi, piacere cui non volli mai rinunciare. Mentre riponevo il rasoio mi sfilò innanzi un bel gregge. Non ricordo più quanti ne avevo già visto negli ultimi due giorni.
Un gregge in Puglia consiste di un numero di capre e di pecore che varia dalle cento alle trecento. Comandante supremo un ragazzetto dai dodici ai quindici anni di solito, coadiuvato da tre o quattro cani da pastore abruzzesi, candidi e pelosi, assai simili al mio Kiss.
Il pastorello porta su una spalla una bisaccia con dentro una ciotola, un cucchiaio ed un bel pezzo di pane.
Quando è pressapoco mezzodì si siede, estrae la ciotola, munge due o tre animali, si fa una zuppa e mangia tranquillamente.
Quando si è saziato munge qualche altra pecora, rompe ancora del pane nella ciotola e chiama i cani.
Poi riparte, zufolando magari una canzonetta.
Questa volta non attesi le quattro per ripartire, ed ero in cammino prima ancora delle due, poggiando più verso nord per Minervino.
Il "tratturo" non camminava più in mezzo a campi senza fine, ma bensì su tante terrazze che costituiscono il prolungamento delle Murge. Vigneti, mandorli ed ulivi, ulivi, mandorli e vigneti; poi qualche "trullo" ed infine una macchia più scura... quando ecco il solito ronzio di motori. Ammaestrato dall'esperienza del mattino, mi addentro nella macchia, tutto contento di essere a metà strada tra Spinazzola e Minervino, ed a circa mezzo chilometro dalla strada.
Invece caddi dalla padella nella brace perché in quel bosco erano accatastati innumerevoli barili di petrolio e benzina, suddivisi in un semicerchio di riservette, di cui io ero proprio il centro.
In compenso mi godetti tutta la scena del mitragliamento e del bombardamento, le colonne di fumo enormi degli incendi. Gli apparecchi scesero così bassi che oltre a distinguere benissimo i cerchi bianchi rossi e blù sulle ali e sui timoni, si vedeva persino il pilota ed il fumo uscire dalle due canne delle mitragliere.
E poiché i proiettili grandinavano, dovetti giocare a rimpiattino, frapponendo tra me ed essi un maestoso tronco d'albero. Uno di questi caccia mitragliò ed incendiò un camion che stava passando.
Fortunatamente tutto andò bene anche questa volta e prima delle quattro ero a Minervino, quindici chilometri oltre Spinazzola.
Due donne mature mi requisirono tosto e mi portarono in una specie di bottega-sala da pranzo, dove vollero a tutti i costi darmi da mangiare. Una di queste donne piangeva e si disperava perché dei suoi tre figli uno era in Grecia, uno in Sicilia ed uno in Russia, e non ne sapeva assolutamente più niente. Cercai di farle coraggio per quanto mi era possibile, ma per poco non mi misi a piangere anch'io.
Credo che non riuscirò mai a dimenticare l'accoglienza di quella brava gente che mi diede pane, formaggio, salame, uva e mi costrinse a bere un litro di vino. Una vecchia mi regalò una camicia bianca ed un'altra mi diede un sacchetto in condizioni migliori del primo. Quando alle cinque suonate da un pezzo ripartii, mi trovai possessore di un paio di chilogrammi di pane bianco ed andavo perfettamente a zigzag per il vino.
Ma ero contento ed emozionato per la generosità di quelle brave persone.
Man mano che mi allontanavo da Minervino potevo sempre meglio apprezzare la sua fisionomia di borgata arrampicata ad anfiteatro sulla schiena di una Murgia, del tutto differente dagli altri paesi e cittadine.
Camminavo in un dedalo di tratturi e strade comunali che mi rendevano assai difficile la rotta, essendo già uscito dal quadrante della mia carta.
Mi avevano detto che ogni uno o due chilometri avrei incontrato qualche masseria e difatti così fu per i primi chilometri. Poi, dopo averne coperte sette od otto, quando era quasi notte non ne trovai più nessuna e continuai a camminare.
Intanto era spuntata la luna...
Ma mi dispiaceva troppo dormire all'addiaccio e solo, ora che non avevo altro riparo che il telo tenda.
Finalmente la luna scomparve in una piazzetta dietro due o tre case e ringraziai mentalmente il buon Dio del dono così opportuno.
Uscii di strada tutto contento e, dopo aver camminato un bel po', giunsi in mezzo... ai piloni di una casa in costruzione!
Con quanto piacere ritornai sulla strada dopo quella delusione!
Così continuai a camminare e dopo un altro paio di chilometri giunsi ad una stalla deserta dove mi alloggiai nella paglia della greppia. Ma il vino mi aveva messo un caldo infernale addosso e per un pezzo stetti in camicetta al di fuori, a prendere aria.
Poi tornai nella greppia e non tardai a prendere sonno.

 

Lunedì 20 Settembre

Alle sei del mattino ero già in piedi e, mentre rifacevo il mio sacco, tiravo le prime somme della mia odissea.
Era una settimana che ero in viaggio ed avevo coperto centocinque chilometri. Non era molto, ma avevo perduto due giorni intorno a Gravina ed ero troppo pesantemente caricato al principio. Contavo di avere maggiore fortuna con la nuova settimana ed infatti cominciai bene, trovando un carretto a muli che mi portò, sempre per tratturi, fino al "Ofto" (ossia al fiume Ofanto). Qui feci un po' di cammino a piedi e poi trovai un altro traino che mi condusse a Cerignola, grossa cittadina, dove mi accompagnai ad un autiere milanese proveniente da Bari e ad un ferrarese proveniente da Reggio Calabria.
Venimmo informati che in un convento c'era una mensa organizzata appunto per noi "militari in trasferta" e vi partecipammo declinando il nostro nome.
Pastasciutta pane e vino; era già qualcosa. Alle undici e mezzo eravamo già ripartiti, col solito cavallo di S. Francesco per Foggia, distante trentasette chilometri, imboccando la Strada Statale N° 16, "Adriatica".
Dopo tanto cammino per strade polverose questa, asfaltata ed in buone condizioni, ci pareva un salotto. I miei due nuovi compagni si erano tolte le scarpe e le avevano messe a cavalcioni di una spalla, legate insieme mediante le stringhe.
Sulla destra, a distanza di trecento metri circa l'una dall'altra stavano le fattorie modello dell'Associazione Combattenti, tutte uguali e carine, ciascuna col proprio pozzo, lunga fila di trivelli sullo sconfinato Tavoliere delle Puglie.
Le ore passavano e la strada rimaneva indietro: ogni passo uno di meno. Oltrepassammo sulla sinistra Orta Nova e traversammo il torrente Carapelle.
In lontananza si profilava il Monte del Gàrgano.
Mentre il sole tramontava incontrammo un terzetto di carri armati leggeri che andavano verso sud; poi quando l'oscurità fu completa e cioè alle nove ci fermammo ad una fattoria, sette chilometri prima di Foggia, dove ci alloggiammo nell'andito, deposito di paglia e foglie di granoturco, insieme ad un gruppo di meridionali provenienti dal nord.
Durante tutta la giornata avevamo incontrato continuamente carovane di gente proveniente dal nord che però erano arrivate col treno fino a Tèrmoli, e non più a Foggia.
Durante la prima metà della notte il nostro sonno fu turbato da un incendio e da violente esplosioni che avvenivano a qualche chilometro ad occidente da noi.
Probabilmente si trattava di una polveriera o depositi di bombe d'aviazione essendovi molti aeroporti militari intorno a Foggia.

 

Martedì 21 Settembre

L'oscurità era ancora completa quando ci svegliammo e ripartimmo; soltanto dopo un bel pezzo ci accorgemmo che eravamo partiti all'una e mezza anziché alle cinque e mezza come credevamo. Ma non ci dolemmo dello sbaglio e proseguimmo tranquillamente.
Foggia non tardò a presentarsi a noi con tutte le sue orribili ferite di guerra.
Finora è la più martire di tutte le città italiane, come prova la sua triste nomea di "città distrutta ed abbandonata". Noi vi trovammo però un vecchietto incretinito, dalla paura o dal dolore, che non seppe neppure indicarci la strada giusta.
Tirava ancora un poco di vento e dovevamo camminare nel mezzo della via, su un tappeto scintillante di calcinacci e di frantumi di vetro, per scansare le tegole ed i pezzi d'imposta che assai sovente cadevano dalle povere case sventrate.
Quasi tutte le finestre erano illuminate... dalla luna che pioveva dai tetti e dai soffitti sfondati, mentre innumerevoli porte si scuotevano, sbattevano e cigolavano sinistramente.
A folate un lezzo caldo giungeva alle nostre narici, lezzo di fumo, bruciaticcio, calce arroventata, cadaveri in putrefazione, fogne scoperte. L'odore caratteristico di Foggia.
Come potemmo ed a furia di tentativi giungemmo sulla piazza principale e poiché una bocca d'acqua funzionava ancora ci svestimmo e facemmo pulizia.
Non scorderò mai quel bagno alle tre di notte in una città deserta ed in rovina. Allora mi parve una bravata; ora mi ripugna come un sacrilegio.
Un aereo inglese si incaricò di illuminarci la via con i suoi razzi e ci fece fuggire precipitosamente.
Troppo sinistro quel luogo!
Era ancora notte quando trovammo un sacco colmo di pane di segale, il classico "pane di munizione" tedesco.
Lo portammo a spalle fino ad una masseria dove il fattore ci portò una specie di casseruola colma di latte appena munto, assicurandoci che avrebbe dato quel pane ai nostri disgraziati compagni che sovente bussavano alla sua porta e che non sempre poteva sfamare. Ripartimmo tosto con le prime luci dell'alba.
Dopo un'ora circa di cammino avvistammo a destra del ciglio della strada due carogne di cavallo in completa putrefazione e quasi completamente disfatte: Fu poi la volta di un cane e poi sentimmo per la terza volta il puzzo caratteristico della carne in putrefazione, sulla sinistra però questa volta.
Mi avvicinai per vedere di cosa si trattava e fu con un certo raccapriccio che vidi un cadavere.
Uno spacco trasversale sull'alto del cranio largo due dita ed ancora un po' di broda al posto del cervello; le occhiaie vuote, la pelle del viso, delle mani e dei piedi divenuta nera come l'ebano; le labbra semi distrutte che conservavano un ghigno quasi feroce, aumentato dal candore dei denti nudi; l'osso dell'anca ormai scoperto. Non so ancora adesso se attribuire il mio senso a compassione, a schifo, a presagio.
Nessuno di noi voleva parlarne: troppo paurosa era l'ipotesi di una fine simile, sul ciglio di una strada, con i denti stretti nello spasimo di chi si sente vinto, forse quando stava per gridare vittoria.
Stanchi morti, con le gambe che non ci reggevano più giungemmo finalmente a S: Severo.
In questa cittadina si erano accumulati oltre mille ex militari che non osavano proseguire, essendo convinti che i germanici li avrebbero arrestati, imprigionati e forse anche ammazzati. Noi tre facemmo una buona propaganda ma temo avremo fatto un buco nell'acqua. Comunque peggio per loro!
Ci infilammo in una bettola dove consumammo un pasto poco abbondante e nelle prime ore del pomeriggio ci mettemmo in cammino lemme lemme, per uscire dalla borgata ed alloggiare in qualche masseria. Non potevamo certo pretendere di più dalle nostre gambe che in ventiquattro ore ci avevano portati per ben sessantasette chilometri!
Ma in una piazza trovammo un camioncino tedesco fermo che andava a S. Paolo ed in breve si decise a portarci.
Erano solo 12 chilometri ma fu una grande soddisfazione aggiungerli all'attivo della giornata. Ci portarono anzi fortuna.
Difatti a San Paolo attendemmo fino alle sei, quando intoppammo un altro camion che ci trasportò per altri diciotto chilometri fin quasi a Serrra Capriola. Le gambe non si fecero troppo pregare per fare gli ultimi tre e così al crepuscolo eravamo a sessantatré chilometri da Foggia ed a Cento da Cerignola.
Trovammo facilmente alloggio per la notte in un forno e, deposti i bagagli, uscimmo per cenare.
Il nome del paese è assai appropriato: si tratta di un gruppo di case arrampicato sulla vetta di una rupe.
Vicoletti stretti in salita ed in discesa, muniti di anelli ai muri cui sono legati durante il giorno i porci che di notte vengono rinchiusi nelle case.
Proprio vero il proverbio: "Paese che vai, usanza che trovi"!
Nella notte il porco che dormiva nello stanzino attiguo al forno nel quale stavamo sbracati si sciolse, e se non avessimo provveduto immediatamente a legarlo di nuovo, si sarebbe sdraiato insieme a noi. Al mattino eravamo abbondantemente profumati di orina e di sterco.

 

Mercoledì 22 Settembre

Era ancora buio quando uscimmo dal forno e ci fermammo per un bel po' sulla piazza sperando in qualche camion gentile. Ma invano, e ben presto ripartimmo, a piedi come al solito.
Prima di uscire nella campagna incontrammo però un autotreno fermo in una via traversa, con la poppa rivolta alla strada e ci fermammo per tentare.
Il camion era in panne; però il milanese era da borghese conduttore di autotreni. Dopo aver trafficato per oltre mezz'ora, ed esserci sporcati abbondantemente le mani, il camion era in grado di ripartire.
Così venimmo presi a bordo e la meta della macchina era Francavilla a Mare; ossia sette chilometri prima di Pescara e centosettanta oltre Serra Capriola! La prospettiva di prendere il treno forse la sera stessa ci galvanizzava.
Il camion era però molto scarettato: ogni cinque chilometri circa necessitava scendere e buttare acqua nel radiatore che era sempre secco.
Però si andava e, almeno in discesa, si correva.
Dopo un paio di ore tappa e ci regalarono un barattolo ciascuno di una specie di macedonia di frutta e del pane.
Unica crisi le sigarette di cui eravamo completamente sprovvisti.
Ad Istonio passammo il mezzogiorno. In questo paese vidi il sergente regalare due o tre vasetti come quelli che ci aveva donati ad una povera donna con due figlie che aveva il marito al lavoro in Germania.
Questo mi commosse e mi fece pensare che non sempre il diavolo è brutto come lo si dipinge e che probabilmente la maggior parte dei tedeschi ha un'anima come noi.
Proseguimmo bene per un paio d'ore ancora, poi si ruppe la camicia di un cilindro e, otto chilometri prima di Casalbordino, eravamo definitivamente arrestati. Mancavano ancora oltre settanta chilometri a Pescara.
Il milanese, più fortunato di me, aveva già sceso il suo bagaglio e poté quindi saltare su di un camion che si era fermato un attimo. Ugualmente fece il ferrarese che era privo di bagaglio. Io rimasi a terra.
Dopo aver atteso invano il rimorchio per quella sera, andai a dormire in cima al camion, profittando di una coperta gentilmente prestatami.

 

Giovedì 23 Settembre

Anche il mattino rimasi ad aspettare e mi feci persino la barba; poi, visto che questo traino si faceva troppo aspettare, me ne partii solo soletto nel pomeriggio.
Raggiunsi Casalbordino dove una brava donna mi cucinò appositamente due uova ed una giovine mi affidò una lettera per Milano. Poi ripartii per Torino di Sangro, dove speravo di essere più fortunato.
Infatti mi venne donato un lasciapassare per la città di Milano (permesso di circolare nelle ore del coprifuoco, anche in bicicletta), mediante il quale mi riuscì facile, raccontando una storia commovente, prendere appuntamento con un conducente di una colonna per il mattino successivo.
Quella notte dormii sul duro acciottolato di una piazzetta, avvolto nel telo, e mi svegliai al mattino tutto infreddolito ed ammaccato.

 

Venerdì 24 Settembre

Fino alle sette non ripartimmo: io però ero già pronto alle cinque del mattino.
La strada era un continuo saliscendi ed ogni tanto appariva l'Adriatico col suo azzurro cosparso di vele multicolori e qualche raro bagnante.
Passammo sotto il massiccio della Maiella, dalle vette candide per i ghiacci perenni e traversammo Ortona a Mare, così tartassata in questi ultimi tempi dai bombardamenti, Francavilla e finalmente Pescara. In questa città c'era l'esodo della popolazione, essendo stata due volte bombardata dagli alleati dopo l'armistizio.
Vi facemmo tappa per mangiare ed i tedeschi mi offersero del pane e margarina che mangiai perché avevo fame, ma che non mi piacque affatto.
Mentre il camion camminava, io avevo raggiunto l'apogeo della mia gioia. Dopodomani al massimo, pensavo, sarò a casa, ed ero felice. Mi sorpresi a cantare ed a ballare una specie di sarabanda sui barili della benzina!
Dopo alcune disavventure come un incagliamento nella sabbia sul Lido di Pescara, giungemmo finalmente a Grottammare, prima stazione delle Marche, dove il camion fece tappa.
Qui per prima cosa andai in un albergo ad ordinarmi la colazione e quindi uscii per comperarmi una valigia ma, non avendone trovate della misura sufficiente, mi contentai di una cesta di paglia bianca.
Poi, dopo aver sistemato per benino tutta la mia roba, ed avendo saputo che il treno era alle 10 e 20' circa, me ne andai un poco a passeggio.
Comperai una pipetta dove trinciai le foglie di tabacco secche che avevo preso a Casalbordino e riuscii a fumare un poco. Mi feci una scorpacciata di gelati e, la sera, una di triglie, cotte in tutte le maniere e condite con tutte le salse, all'albergo.
Poi andai in stazione, dove il treno giunse alle undici passate.
Iniziava così la seconda ed ultima parte del viaggio, finalmente in treno.
Questo era stipato fino all'inverosimile e, quando alle una e mezza finalmente giunsi ad Ancona, ero proprio stremato.

 

Sabato 25 Settembre

Il treno per Bologna partiva alle quattro e venticinque, ma non osai affatto dormire, tanto era il timore di perderlo. Finalmente giunse e potei sedermi in uno scompartimento.
Il viaggio si effettuò nel migliore dei modi e, un po' prima di Forlì, provai l'emozione di rivedere le Casermette dove avevo trascorso tanti mesi nel periodo iniziale del Corso Allievi Ufficiali prima di essere inviato in "zona di operazioni" a Gioia del Colle subito dopo lo sbarco alleato in Sicilia.
A Bologna arrivai alle 10 circa e, dal treno, vidi parecchi ex militari italiani prigionieri in mezzo ai tedeschi della Vermacth colle machine-pistole imbracciate.
Mentre il treno stava per fermarsi dal binario accanto ne partiva un altro. Chiesi e, sentito che andava a Milano, riuscii miracolosamente a scendere dal primo e salire sul secondo senza perdere il bagaglio.
Così era risolto il problema di scendere e di attendere fino alle dodici con i tedeschi che guardavano le scarpe per catturare gli ex soldati.
Appresi sul treno, preso solo perché era molto in ritardo, che i tedeschi l'avevano ispezionato tutto e che i prigionieri visti erano stati fatti scendere.
Dal treno potei osservare i danni degli ultimi bombardamenti.
Tutto lo scalo merci era stato letteralmente arato dalle bombe del massimo calibro. Binari contorti, vagoni e locomotive sfondati e sventrati, pali stravolti.
Un vero disastro. Mentre partivamo suonò l'allarme.
Di lì a un quarto d'ora altre bombe piovvero su quelle rovine ed io mi stimo veramente fortunato di aver goduto di... quel quarto d'ora di vantaggio!
Alla prima stazione dai viaggiatori saliti apprendemmo che centinaia di "Liberator" martellavano di bombe la stazione di Bologna.
Sul treno trovai un genovese fuggito il giorno prima da Roma e tutto infagottato in una giacca nuova che gli era enorme.
Ci facemmo buona compagnia.
A Piacenza trovammo pronta la coincidenza per Voghera ed anche qui sfuggimmo alle grinfie dei tedeschi.
Ma sul treno un signore sfollato a Camogli, che viaggiava colla figlia ed un bimbetto, ci avvertì del rischio terribile che avremmo corso a Voghera.
Si offrì di aiutarci e sua figlia barattò la giacca con il mio compagno, mentre io mi infilavo il suo cappotto.
Giunti a Voghera presi una valigia e corsi verso il treno per Genova. Mi infilai nel sottopassaggio, ma un tedesco aveva visto gli scarponi e mi seguì. Per fortuna quel signore si frappose tra me ed il germanico, dandomi il tempo di salire nel primo vagone che mi si parò davanti.
Il treno era stipatissimo e mi infilai nel soffietto di comunicazione tra una carrozza di prima ed una di seconda.
Le donne, gli uomini ed un vecchio prete presenti si dettero d'attorno per nasconderci, e non so ancora adesso come potemmo sfuggire al controllo dei tedeschi che salirono e scesero sulle due piattaforme senza notarci.
A Tortona successe la stessa cosa e riuscimmo a ficcarci nella latrina, facendola franca ancora una volta.
E quando speravo ormai che tutte le prove fossero finite, prese fuoco la tela incatramata del soffietto ed il cuore già tanto provato mancò poco non mi saltasse quando udii qualcuno gridare: "Tirate il segnale d'allarme". "No"! fu l'urlo che mi uscì dal petto e mi adoperai con tutti i mezzi per spegnerlo, riuscendovi finalmente.
Quando anche questa prova ebbe termine ero affranto; bianco come un cencio lavato e con un tremito fortissimo nelle mani.
Gentilmente una signora mi offrì una generosa fetta di pane bianco che valse a ridonarmi le forze e la calma.
E, quando giunsi a Genova, mi parve di trovarmi già a casa.
Per tutto il tempo che attesi il treno per Camogli ero ossessionato dal timore che mi si notassero le scarpe e stavo lì con la cesta davanti ai piedi e con una spiacevolissima tensione nervosa. Poi giunsero contemporaneamente il treno ed un uragano di acqua.
Alle sette in punto scendevo a Camogli. Come mi parve piccolo in confronto agli sterminati orizzonti di Puglia e di Forlì! Con quattro salti fui fuori della stazione e pochi minuti dopo a casa.
La barba lunga, pieno di pidocchi, il vestito a brandelli ed assai sudicio. Ma la mia piccola odissea era giunta felicemente al suo epilogo.
Conclusione: Appena arrivato a casa mia madre, abbracciandomi, mi disse: "Cosa hai fatto, Ino caro, perché non ti sei fermato laggiù?"

        Andrea Guelfi

 

n.d.c. - postfazione
Credo intercorresse tra noi un rapporto di adozione, forse reciproco, come in tutti i rapporti tra padre e figlio con l'andare del tempo.
Poi il tempo rimane alle spalle e capire è solo un esercizio della mente.
Molti che non hanno sperimentato quella speciale familiarità pensano che essa sia immune dai contrasti, dai litigi, dalla disapprovazione e dall'odio, ma non è così. L'esercizio potrebbe proseguire coinvolgendo nella stessa realisticità i rapporti parentali che comportano gelosie, confronti, diritti di primogenitura (o, semplicemente, di unigenitura). Non ne vale la pena.
Mio suocero era, a modo suo, un erudito, un originale e un anticonformista, dunque non era una persona banale.  Quando mi ha mostrato gli appunti del suo ritorno dalla Puglia scritti su un quadernino di fortuna (nero dai bordi rossi!), ho pensato che fossero per me una piccola restituzione per la perdita di mio padre che, nello stesso periodo, aveva percorso la penisola tra analoghi pericoli, ma da nord a sud, verso il Salento. Perciò avevo stampato qualche decina di copie del suo diario in una veste tipografica che sembrava Fabula, dell'Adelphi.
Questo inserimento nel mio "Laboratorio" è per gratitudine. Come per tutti, lui non sapeva quali fossero, tra le cose che aveva offerto, quelle che altri avrebbero considerato doni.

L'entrata del laboratorio