Una vita senza senso, tratto
dai GRANDI
n+1
in libera docenza (ci rendiamo
conto della vastità dei loro scritti, ma
tuttavia questo passaggio a noi è risultato troppo
elevato per non inserirlo nel sito. )
[Alcuni uomini], esaltandosi per i
ritrovati della scienza e della tecnica, anziché elevare
il pensiero a Dio hanno tutt'al più sentimenti vivi, ma
terreni. Altri ricercano una vita interiore
inconsistente, ridotta ad una solitudine sdegnosa e
quasi disperata. Altri infine, indifferenti e
insensibili a tutto, non apprezzano né la grandezza
della fede né la dignità dell'uomo, ma vivono una vita
senza senso". Questa è una formula che deve restare: una
vita senza senso. Anche i milioni di operai, che seguono
come gregge le manifestazioni opportuniste e
ribalbettano slogan castrati che puzzano di tutte le
ideologie di classi nemiche, vivono, i disgraziati, una
vita senza senso, imbevendosi di rimasticate maniere
borghesi davanti al televisore.
(Omelia di Natale di Pio XII e
commento di Amadeo Bordiga, in Sorda ad alti messaggi
la civiltà dei quiz, gennaio 1956)
Fatti e misfatti
Mentre scriviamo, abbiamo a portata di
mano, sullo schermo del computer, una cartella che contiene
numerosi articoli di cronaca sul malessere sociale, con
relative statistiche e interpretazioni psico-sociologiche. E
siccome l'argomento che stiamo trattando ha suscitato un
appassionato interesse fin dal suo avvio, abbiamo anche
cartelle con le diverse collaborazioni giunte via Internet
dalla nostra "redazione diffusa". Tutto il materiale di
cronaca è riconducibile alla patologia sociale che colpisce
l'individuo contemporaneo, ma l'insieme sembra composto da
elementi così casuali e slegati che sarebbe difficile
coglierne il nesso preciso se non facessimo ricorso a ben
precise leggi sociali, quelle stesse che poniamo alla base
della nostra dottrina generale. La quale, in quanto
concezione unitaria del mondo, non fa posto a una specialità
scientifica dedicata ai mali dell'animo, e tantomeno a una
terapeutica utile a rattoppare l'individuo affinché non si
lagni troppo e vada a produrre.
Scorriamo le finestre dello schermo e
chiediamoci che cosa può collegare fatti del genere,
riportati a caso:
- Cinquecento ragazzi provenienti da periferie degradate
si organizzano e assaltano in massa migliaia di bagnanti
su una spiaggia razziando tutti gli oggetti di valore.
- Madri ammazzano i propri figli, annegandoli,
prendendoli a calci, buttandoli dalla finestra o nei
cassonetti.
- Due milioni di giovani in estasi si riuniscono per
pregare con il Papa in un immane incontro mediatico
amplificato dalla televisione.
- Tre giovani si uccidono insieme innescando una serie
di suicidi fra altri giovani, con le stesse modalità.
- In un grande stadio le opposte fazioni di ultrà,
attaccate dalle "forze dell'ordine", si coalizzano e
insieme ingaggiano battaglia.
- Una massa enorme di persone dà luogo spontaneamente a
una veglia funebre di più giorni in morte di una ex
principessa divorziata.
- Una ragazzina, con l'aiuto dell'amante coetaneo scanna
"senza motivo", a coltellate, la madre e il fratellino.
- Giovani appartenenti ad una setta satanica massacrano
alcuni degli adepti loro coetanei.
- Tre milioni di lavoratori partecipano ad una oceanica
manifestazione sindacale in difesa di un insignificante
articolo di legge con un entusiasmo sproporzionato
rispetto all'obiettivo.
- La popolazione di un quartiere ingaggia una battaglia
di strada in difesa di un piccolo scippatore contro un
esagerato schieramento di polizia;
- Due o tre miliardi di umani festeggiano con angosciosa
speranza l'avvento del nuovo millennio "sbagliando" di un
anno, cioè anticipando stranamente e clamorosamente, la
fatidica data.
- Un miliardo di cattolici, coadiuvati da credenti in
altri dei, inscenano una planetaria manifestazione mistica
intorno alla morte del meno mistico papa della storia,
distintosi per aver trasformato definitivamente il mistero
della Chiesa in un prodotto perfettamente consono alla
società dello spettacolo (con conseguente sovrapproduzione
di santi).
E così via, in un inventario che può
essere lungo quanto si vuole. Nel corso del nostro studio,
non potendo ovviamente analizzare tutti gli episodi
elencati, ne estrarremo alcuni significativi raggruppandoli
in insiemi congruenti. Utilizzeremo per questo fonti super
ufficiali come la Chiesa, l'Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS), l'Istituto Europeo per le ricerche Economiche
e Sociali (EURES) e il Servizio Informazioni per la
Sicurezza Democratica (SISDE); citeremo volutamente anche
fonti non ufficiali, come la letteratura e il cinema, spesso
molto più sensibili nel registrare fenomeni come quelli che
stiamo indagando di quanto non lo siano gli istituti
preposti dagli Stati con le loro fredde tabelle.
Ma veniamo alle leggi sociali che
collegano i fenomeni suddetti. Già nei suoi studi giovanili
(1843) Marx, indagando sulla struttura produttiva e
riproduttiva sociale, era giunto alla conclusione che la
vera patologia dell'uomo capitalistico è la separazione da
sé stesso (separazione dell'individuo dalla specie)
attraverso l'alienazione del prodotto del proprio lavoro,
non più finalizzato al bisogno dell'altro, reciprocamente,
ma alla valorizzazione del Capitale, unidirezionalmente. Si
ha un bel dire che la malattia è della psiche e che è
determinata nell'individuo fin dalla sua nascita, al massimo
modificata con lo sviluppo nell'ambiente: se è vero che ogni
epoca ha sofferto delle sue nevrosi specifiche, quest'epoca
soffre di qualcosa in più della malattia psichica (ammesso
che esista una psiche come quella presa in esame dagli
psicologi). Nessuna "malattia" è diagnosticabile nel caso di
un irrazionale dolore collettivo per la morte di una
principessa britannica, nel paese che conobbe la sua
rivoluzione borghese nel '600, il cui partito tagliò per
primo la testa a un re. E nemmeno sono malati milioni di
uomini che parteciparono a una grande marcia di lavoratori,
mossi da manovre tra frazioni politiche e quindi presi per i
fondelli nel paese dei furbi venuti su alla scuola della
borghesia più vecchia del mondo e quindi più putrefatta
delle sue più giovani consorelle.
Come ha mostrato Wilhelm Reich, non c'è
differenza fra psicologia individuale e di massa, ma è
certamente più facile diagnosticare qualche tipo di
patologia nel caso degli assassinii in famiglia, dei
suicidii, delle statistiche generali degli omicidii e
persino degli incidenti stradali (sembra nientemeno che un
batterio dei topi, trasmesso all'uomo dai gatti, alteri la
percezione del pericolo innalzando la propensione al
suicidio, specie in chi guida). Ma anche in questo caso è
fin troppo evidente che c'è una relazione diretta fra la
decrepitezza del capitalismo e le patologie di tipo sociale.
Nei paesi più industrializzati la produzione di plusvalore
relativo attraverso l'aumento costante della produttività va
a scapito della salute fisica e soprattutto mentale di chi
produce ed è costretto a vivere in una frenesia tale da
diventare spesso distruttiva. Ma anche di chi non produce e
vive nella spasmodica ricerca di un posto di lavoro. Dalle
forme di violenza potenziale, che danno luogo
soprattutto a fenomeni depressivi di massa, si passa sempre
più sovente a varie forme di violenza in atto,
altrettanto di massa, non più gravi ma solo più evidenti,
con ossa rotte, sparatorie e spargimenti di sangue. Violenza
potenziale e attuale sono comunque sintetizzabili da un
unico comune denominatore: lo spreco immane e insensato di
energia sociale, di un enorme potenziale umano ben
altrimenti indirizzabile.
La violenza patogena, potenziale o in
atto, sembra tuttavia non essere monopolio dei paesi più
industrializzati. In contraddizione con il legame diretto
tra patologia e ultrasviluppo, la violenza moderna cresce
anche in molte aree del mondo che sono state bloccate nel
loro sviluppo. La contraddizione è però solo apparente
perché queste aree non solo sono state private del loro
tradizionale bagaglio di relazioni umane e depauperate dalla
rapina imperialistica, ma sono anche state catapultate a
forza sulla scena del capitalismo più moderno, quello del
mondo finanziario, speculativo e assistenziale. In Asia,
Africa e America Latina crescenti masse urbanizzate,
improduttive e affamate possono sopravvivere in immense
pseudo-città solo grazie a piccoli traffici e agli aiuti
internazionali, dato che le briciole lasciate dalle aziende
multinazionali sono fagocitate dalle avide borghesie del
luogo. Le quali, terminato ormai il ciclo delle lotte di
liberazione nazionale, partecipano alla spartizione del
plusvalore mondiale come mafie finanziarie moderne,
affiancate dagli interessati tutori delle city
imperialistiche.
La vita e il senso
Dice ancora papa Pio XII nell'omelia
citata all'inizio:
"L'uomo moderno ha costruito un mondo in
cui le meraviglie si confondono con le miserie, ricolmo di
incoerenze, come una via senza sbocco, una casa che non ha
tetto. In alcune nazioni infatti, nonostante l'enorme
sviluppo del progresso esteriore e benché a tutte le classi
del popolo sia assicurato il materiale mantenimento,
serpeggia e si estende un senso di indefinibile malessere,
una attesa ansiosa di qualcosa che debba accadere.
L'ineluttabile epilogo è una via verso la rovina, perché il
metodo puramente quantitativo confida tutto il destino
dell'uomo all'immenso potere industriale della nostra epoca.
Questa superstizione non è neppure atta ad erigere un
baluardo contro il comunismo perché essa è condivisa dalla
parte comunista" (Omelia di Natale cit.).
Prosegue il commento:
"Egli [ Pio XII] colpisce, con il termine
geniale di 'superstizione produttivistica', non gli
individui, ma la vera stimmate dell'attuale modo di
produzione. Il dio Capitale non cade quando cadono Creso,
Rotschild, o Morgan: cade quando il prodotto dell'umano
lavoro e l'oggetto del consumo non è più merce. Cade in
un'economia a metodo non più quantitativo, quando non esiste
più la sua misura universale, la moneta. Cade quando la
legge del valore, sopravvivente anche in forma staliniana,
passa tra le cose morte. Forse allora la specie umana
ritornerà molto prossima a quello che le religioni antiche,
balbettio dell'umanità, ma balbettio geniale e vitale,
chiamarono mondo dello spirito" (Sorda ad alti
messaggi la civiltà dei quiz cit., passim).
Spirito. Quello che il borghese, tronfio
del suo volgare sapere, chiama superstizione antica. Quello
che il filosofo riconduce alla fenomenologia di una vita
irreale, fatta di idee e non di materiali rapporti. Quello
che invece era l'antitesi della moderna superstizione
quantitativistica, cioè genuina qualità dell'esistenza,
impossibile da quantificare secondo segni di valore. Si
scandalizzi chi vuole, ma è questa circolarità (questo
"ritorno", impossibile senza lo sviluppo intermedio) l'unica
a poter essere definita "movimento reale che abolisce lo
stato di cose presente", cioè comunismo.
Abbiamo visto che per Marx la vita
dell'uomo capitalistico ha perso la sua qualità, cioè la sua
onnidirezionalità per diventare a senso unico. Dalle
complesse relazioni sociali fra tutti gli uomini, si è
passati alle relazioni unidirezionali al solo scopo della
valorizzazione del Capitale, fenomeno che Marx ha chiamato
"passaggio dalla sottomissione formale del lavoro al
Capitale alla sottomissione reale". La complessità rimane un
fattore intrinseco al sistema produttivo e distributivo,
mentre le relazioni fra gli uomini sono semplificate
all'estremo: compera, produci, vendi, consuma. Il "vivi" è
un optional non previsto in catalogo e non è trattato
alle riunioni dell'ufficio marketing. È in tale
contesto che scattano tre comportamenti antitetici ma
riconducibili alla stessa fenomenologia che tenteremo qui di
analizzare da un punto di vista non sociologico, almeno nel
senso corrente del termine: 1) l'autodistruzione; 2) la
distruzione dell'altro, con cui non posso avere che
relazioni dis-umane (nel nucleo base della società – la
famiglia – si sfugge sempre più spesso alla realtà e
all'alienazione con riti di omicidio-suicidio); 3) la
ricerca spasmodica di surrogati di aggregazione, di comunità
sostitutive (permanenti come una città costruita da una
intentional community, transitorie come una
manifestazione operaia, o virtuali come una comunità di
hackers collegati in rete tramite Internet).
L'uomo, ridotto a mera appendice di un
processo lavorativo che non gli appartiene più, ridotto
quindi a sensore, valvola, termostato, apparecchio di
controllo della macchina, del sistema di macchine collegato
da mille canali di comunicazione e di traffico, scopre che
vorrebbe vivere, ma che non gli è neppure permesso di
esistere in quanto uomo. La sua classica condizione
di uomo-merce non è più soltanto riferibile al possesso
della forza-lavoro che vende per denaro, ma riguarda
l'intero arco della sua esistenza. Eppure per gli antichi
"esistenza" era l'ex-sistere, il tirarsi fuori dal
semplice "stare" come elemento ininfluente entro una natura
che andava per conto suo e se ne infischiava del senso del
suo procedere, soprattutto non misurava i suoi risultati –
successi o catastrofi che fossero – con il metro della vita
(cioè nascita-morte) di un essere particolare fra gli altri.
Il mito di Prometeo registra il passaggio
da questa età dell'uomo a quella dell'ordine costituito
della civiltà. Il titano è punito non tanto perché abbia
dato il fuoco agli uomini quanto per aver con questo cercato
di mantenere l'unità Cielo-Terra e quindi tradito il nuovo
ordine. Nella Guerra dei Titani si era schierato con Zeus,
aiutandolo a vincerli e ad imprigionare il loro capo, Crono;
era quindi un transfuga rispetto alle proprie origini,
schierato per il nuovo assetto patriarcale. Ma Zeus tradisce
la continuità antica, quella di Temi (Gaia), la madre dei
Titani, anzi, la Madre per eccellenza. Quindi tradire un
traditore non è atto malvagio. Incatenato alla roccia,
sbranato dall'aquila, Prometeo ha l'appoggio delle Oceanine
che giurano di non congiungersi mai con i nuovi dei. Rimaste
fedeli all'ordine antico, lo giurano sulle Moire, forze
delle origini, tessitrici dei destini umani. La battaglia è
però perduta: tutti gli dei si schierano con Zeus e con
l'ordine nuovo. Gli uomini, ormai separati dagli dei per
sempre, assistono impotenti, anche quando un ibrido semidio
(Eracle) libererà Prometeo.
Il mito registra il lungo periodo
necessario al cambiamento e la confusione in cui è avvenuto.
I protagonisti cambiano di posto a seconda delle versioni e
le relazioni di parentela divina si confondono. Prometeo
impersona la rivoluzione neolitica, che è ingresso in
un'epoca dove l'antica simbiosi uomo-natura si perde in un
lunghissimo processo. In molte opere greche è riportato il
grido del Coro (l'elemento impersonale) contro lo
snaturamento dell'uomo che produrrà tragedie a catena. Per
millenni la vita era stata concepita come prodotto
conseguente di una natura non ancora antropomorfizzata e
tracce di tale concezione sopravvissero alla fusione fra la
civiltà greca e quella romana. Poi, alla vittoria del
patriarcato seguirono le vittorie della proprietà vera e
propria, della forma statale e delle basi per un nuovo modo
di produzione. Tuttavia, fino a tutto il periodo classico
schiavista, l'esistenza rimase per gli uomini un flusso
continuo che consumava vecchie forme e ne produceva di nuove
senza apportare cambiamenti sostanziali, senza introdurre
nel rinnovamento un "progresso", quindi una freccia del
tempo, un senso (nella doppia accezione di
direzione e significato) verso un futuro
differente.
Un millennio e forse più separa
l'originario mito di Prometeo da una nuova concezione del
senso della vita, quella che si afferma a Roma, crogiuolo di
popoli e religioni, concezione di cui il cristianesimo
infine si appropria. E non a caso lo fa producendo ponti
sincretisti fra paganesimo e sé stesso, come il falso
carteggio fra Seneca e San Paolo, dove il legame fra il
filosofo e il santo viene fondato sulla crisi "morale" del
mondo pagano. L'esistenza allora si finalizza a una
condizione futura di beatitudine o dannazione, si numerano
gli anni, punteggiandoli di martiri e di eventi
straordinari, fissando così il concetto di storia ancora
oggi dominante. Con il giungere del capitalismo al suo
ultimo stadio la vita ha di nuovo perso di "senso",
sia nell'accezione corrente che in quella di marcia
verso un fine. La vita degli uomini è totalmente subordinata
alla monotona valorizzazione perpetua e circolare del
Capitale: … D-M-D'-M'-D''-M''… denaro, merce, più denaro,
altra merce. Uno spietato non-movimento in cui domina il
quantitativo, e il qualitativo sparisce dalla vita,
appiccicandosi soltanto alla merce affinché questa possa
avere un valore d'uso che le permetta di far
da tramite alla realizzazione del valore di scambio.
Con buona pace della soddisfazione dei bisogni umani, quelli
non indotti dall'insensato consumo.
L'esistenza è angoscia. E perché mai?
Nel capitalismo l'esistenza è lotta di
classe. Nella società comunista sarà lotta per armonizzare
ciò che è stato disarmonizzato fra uomo e natura. Sarà
certamente anche lotta appassionata per conquistare nuovi e
superiori livelli di esistenza. Potrebbe persino essere
lotta contro la natura, se questa s'indirizzasse verso
l'estinzione della nostra specie. Invece per l'umanità dei
nostri tempi l'esistenza è una trottola impazzita che
fabbrica angoscia, e nessuno oggi può sapere se il
capitalismo non stia già assecondando l'estinzione del
genere umano. Nel tentativo di rispondere al cieco girare
dell'esistenza su sé stessa al solo scopo di valorizzare un
Capitale estraneo all'uomo, nel secolo XIX si affacciò sulla
scena una corrente filosofica, l'esistenzialismo, che
escogitò un espediente ideologico-mentale per interpretare
la condizione poco piacevole nella quale l'umanità era
precipitata: ogni individuo non era posto in un
mondo-sistema determinato da forze a lui estranee, come
credevano gli idealisti e i positivisti, ma era posto di
fronte a continue scelte, attraverso le quali "faceva sé
stesso".
Nel suo manifesto contemporaneo, scritto
da Sartre nel 1946 (L'esistenzialismo è un umanismo),
questa corrente ribadisce che l'uomo non è soltanto quel che
crede di essere, ma è anche quel che fa per essere tale:
"L'uomo non è altro che ciò che si fa". Naturalmente per
fare è necessario essere e scegliere che cosa fare, per cui
― non si capisce bene come e perché ― l'uomo esistenzialista
sceglie, e sceglie sempre il bene, dato che "nulla può
essere bene per noi senza esserlo per tutti". Così si
crea un legame, precedentemente dimenticato, fra l'individuo
e i suoi simili, sulla base di una scelta consapevole,
immaginiamo basata sul libero arbitrio. L'uomo infatti è un
essere autocreantesi, un essere molto speciale che "fa" per
essere, "ha più dignità di una pietra o di un tavolo",
perbacco.
Per gli esistenzialisti l'uomo è angoscia
proprio perché, a differenza dei tavoli e degli animali, si
autocostruisce attraverso continue scelte problematiche. La
sua esistenza in quanto tale, quella che precede il fare,
non sarebbe ancora umanismo. L'uomo sarebbe dunque
l'individuo. Però, dato che l'angoscia deriva dall'impegno,
egli si assumerebbe delle responsabilità in quanto persona
che agisce a nome dell'intera umanità. L'angoscia è il modo
di essere dell'uomo in quanto persona responsabile. Sapendo
di esserlo, non può più appellarsi a un comodo Dio che "fa"
per lui. Nessun pretesto può più essere accampato per il
quietismo e l'inazione. Perciò l'esistenzialista deve
essere impegnato. Il che significa alla fin fine
essere un volgare immediatista attivista. E via di questo
passo, tanto per confermare che l'ora per mandare la
filosofia in pensione è scoccata da tempo. Chi volesse
divertirsi con le amenità esistenzialiste può leggersi il
libro, che contiene, ci mancherebbe, anche il
parlamentino-dibattito finale.
Quel che qui ci basta sottolineare è il
fatto materiale che nella testa degli uomini, quando stanno
per soccombere a terribili determinazioni più grandi di loro
(era appena finita la Seconda Guerra Mondiale, altro che
scegliere razionalmente il "bene"), scatta un meccanismo di
produzione di teorie per cavarsela. Ma, come dice Marx a
proposito di Proudhon, la piccola borghesia, essendo una
non-classe impotente schiacciata fra le grandi classi
storiche, in questi frangenti produce a scala industriale
brutte copie di teorie della borghesia o del proletariato,
mistificandole. Ebbene, il piccolo borghese esistenzialista
engagé copia roba vecchia spacciandola per nuova,
credendo con ciò di dare un senso all'esistenza per poterla
chiamare vita.
Il marxismo è una concezione realistica
del mondo. Seguendo la sua bussola, possiamo constatare che
le mezze classi hanno una vera e propria manìa di costruire
castelli teorici in aria, e quindi ci diventa facile
riconoscere a prima vista le concezioni irrealistiche,
prolifiche come conigli, capaci di annebbiare ogni approccio
razionale alla conoscenza dei fenomeni: quello della vita
senza senso in particolare, compresa la concreta angoscia
che ha risvolti così reali, drammatici e diffusi nella
società odierna. Il nostro esistenzialista engagé si
culla nell'illusione che l'individuo possa con la sua
volontà far leva sulle vicende del mondo, purché sia
impegnato in qualche conventicola di pensatori preposta ad
illuminare gli altri. Non importa se essa è completamente
slegata dal mondo reale, basta che le sue elucubrazioni
siano pubblicate, sollevino dibattiti fra gli accademici e
soprattutto, oggi, appaiano in televisione. E non è strano
che questa follìa si manifesti proprio nell'epoca in cui
l'individuo è fatto a pezzi, disintegrato da mille e mille
determinazioni, ridotto a zerbino del Capitale. Più le
determinazioni all'impotenza sono feroci, più la
supposizione di potenza si fa strada, come dimostra
la cricca esistenzialista dei neoconservatori al governo
negli Stati Uniti, il cui "Progetto per il nuovo secolo
americano" ― nientemeno ― è una filosofia già impantanata
nella rete di venalissimi interessi che avvolge i piani di
guerra. Se nella testa del singolo individuo scoppia
prepotente l'angoscia in quanto tensione fra l'essere e il
vivere (il "farsi"), alla testa delle grandi nazioni scoppia
la contraddizione fra ciò che saremmo in grado di fare, come
specie, e ciò che in effetti si fa. Non vedremo Bush e
Cheney sul lettino dello psicanalista, ma sono finiti i
tempi delle solide certezze rivoluzionarie della borghesia
illuminista: oggi per un barile di petrolio o una cattedra
universitaria si bacia la Bibbia, si gettano alle ortiche
antiche scienze e si "creano" teorie nuove che durano un
mese.
La borghesia illuminista aveva spezzato
l'immobilismo delle classi feudali, con l'industria e con l'Encyclopédie
prima che con la ghigliottina, e aveva osato affermare che
la natura è conoscibile per mezzo di schemi formali
astratti, che consentono di rivelare leggi e di avanzare
ipotesi teoriche migliorabili per approssimazioni
successive. Essa non provava nessuna angoscia esistenziale,
anzi, era piena di fermento positivo; ma da molto tempo,
almeno da quando il capitalismo dell'epoca imperialistica è
una forma sociale di transizione, è una classe morta, del
tutto anacronistica. Dal capitalismo in ascesa nacque la
teoria rivoluzionaria comunista; dalla sua fase decadente
scaturiscono potenti conferme di un programma atto a
distruggere, proprio come quello borghese a suo tempo, le
vecchie credenze. Un programma che nega l'eternità delle
conquiste raggiunte e, nello stesso tempo, estende i metodi
d'indagine scientifica dall'ambiente fisico ai fatti
economici e sociali, secondo le stesse leggi.
Angosciata è quindi la borghesia e
angosciati sono tutti i rappresentanti delle vecchie classi,
mentre i comunisti si nutrono di certezze sottoposte a
continua verifica sperimentale. Persino parte della stessa
borghesia è costretta a capitolare clamorosamente di fronte
alla nostra teoria, adottandone, magari inconsapevolmente,
categorie e metodi. Critichiamo il volgarissimo scientismo
borghese, ma non ci schiereremo mai con chi si accoda alla
moda antiscientifica d'oggi, vero rigurgito di mistiche
antistoriche.
D'altra parte, nel variegato mondo
dell'insensato, vi è chi si riferisce alla "rivoluzione"
senza tuttavia liberare un solo neurone del suo cervello
dalle categorie presenti, e anzi contribuisce a perpetuarle;
chi si dichiara seguace di Marx e abbraccia incongruamente
l'eclettismo scettico e relativistico. Anche costoro
conducono una vita senza senso, perché da veri
esistenzialisti credono di "scegliere", credono che bastino
un po’ di buona volontà e di spirito di sacrificio per
mettersi alla testa del movimento sociale, mentre invece
seguono la folla dei sintonizzati col sistema, si
adeguano, adattano il loro comportamento ad un successo che
è solo immaginato, e finiscono per emettere semplicemente
frasi senza riferimento alla realtà. L'immediatismo
attivistico è vera filosofia esistenziale della
controrivoluzione.
L'esistenzialismo e l'esistenza
Fabbricare desinenze in "ismo" è la cosa
più facile del mondo. Quando iniziammo a usare "luogocomunismo"
ci sembrò così naturale che non ci accorgemmo nemmeno di
aver coniato una parola nuova, come ci fece osservare un
abbonato che di mestiere fa lo scrittore. Forse però il
termine era già "nell'aria", per via del suo significato
facile facile. Adesso è di uso comune. Tranquilli, non
costruiremo una filosofia su una parola. Ci interessa
piuttosto capire perché si fabbricano desinenze. E perché
nascono "ismi" come l'esistenzialismo. Anche per Marx, come
per gli esistenzialisti, "la radice dell'uomo è l'uomo
stesso", e dunque l'uomo è un essere che si fa. Alcuni
esistenzialisti atei hanno perciò provato ad accostare Marx
alla loro filosofia. Non scherziamo: un conto è indagare sul
millenario arco storico che conduce l'uomo a "farsi", anche
biologicamente, attraverso il proprio lavoro e le relazioni
con altri uomini in un processo reale, per niente lineare ma
punteggiato da rivoluzioni, che porta al capitalismo e alla
società futura; un altro conto è titillare il proprio
cervello ed estrarne categorie filosofiche buone per una
breve stagione di ordinaria angoscia (chi ha mai più sentito
parlare dell'esistenzialismo francese engagé?).
Detto questo è bene scendere dall'empireo
della filosofia al mondo reale, dove uomini e donne
producono e si riproducono, dove l'esistenza perde il suo
ridicolo "ismo" e al posto di elucubrazioni personali
troviamo città, fabbriche, campi, scuole, strade, ferrovie,
reti telematiche. Nell'inserto Donne del quotidiano
La Repubblica, uno storico della filosofia ha una
rubrica in cui risponde agli affanni esistenziali dei
lettori, prendendo le distanze dall'omologazione
mercificatrice. Una volta provò a dire qualcosa di
anti-filosofico notando che la ricerca di un "senso" nella
nostra vita con le sue tribolazioni non potrebbe portare che
a depressioni e angosce:
"L'unica cosa da fare è vivere questa
vita in pienezza, che già è un'impresa non da poco".
Naturalmente il filosofo metteva intorno
a questa frase altre cose che la rendevano apparentemente
ragionevole, ma una lettrice, sforbiciandola con facilità
dall'inessenziale, pose la materialistica domanda:
"Non le viene il sospetto che ci sono
categorie di persone che non possono permettersi una
risposta simile? Che vivono nella più totale miseria
materiale e spirituale, che conducono esistenze talmente
disgraziate per cui, se si pongono la domanda 'che senso ha
questa vita?', lei non può rispondere 'non porti la
questione ma vivi e basta'. [Rsponderebbero]: 'Cosa,
vivi? Non sarà mica vita, questa? Quali sarebbero le cose
per cui dovrei vivere, le occasioni che posso cogliere?' ".
Ben detto. Passiamo dal rotocalco al
quotidiano, dal filosofo a un professore, il cui articolo
comparve in prima pagina su La Repubblica. Siamo in
una scuola di Roma. Una quindicenne racconta in classe che
la sua aspirazione è comprarsi un paio di mutande griffate e
portarle a spasso sotto un paio di jeans a vita bassa, in
modo che si veda il logo stampato sull'elastico. Il
professore inorridisce e cerca di "far lezione". Cita Jung:
"Una vita che non si individua è una vita sprecata",
e tenta un sermone contro la cultura di massa. La ragazzina
lo frega:
"Professore, ma non ha capito che oggi
solo pochissimi possono permettersi di avere una
personalità? Loro esistono veramente e fanno quello che
vogliono, ma tutti gli altri non sono niente e non saranno
mai niente. Io l'ho capito fin da quando ero piccola così.
La nostra sarà una vita inutile. Mi fanno ridere le mie
amiche quando discutono se nella loro comitiva è meglio quel
ragazzo o quell'altro. Non cambia niente, sono due nullità
identiche. Noi possiamo solo comprarci delle mutande uguali
a quelle di tutti gli altri, non abbiamo nessuna speranza di
distinguerci. Noi siamo la massa".
L'insegnante resta basito:
"Capivo che non riuscivo a convincere
nemmeno me stesso. Capivo che quella ragazzina aveva
espresso un pensiero brutale, orrendo, insopportabile, ma
che fotografava in pieno ciò che sta accadendo".
Sveglia, professore!
È evidente che le due sconosciute e forse
inconsapevoli materialiste mettono sul tappeto il problema
della libertà, della possibilità reale di essere individui e
nello stesso tempo parte di un tutto, cosa che oggi è
negata. Si è individui liberi com'è libero il mercato,
democratici com'è democratica l'uguaglianza dei valori
scambiati, specie tramite il loro equivalente generale che è
il denaro-capitale. Liberi di essere granuli indifferenziati
di una massa produttrice-consumatrice di merce e di
ideologia, magma sociale che esiste non per sé (insieme di
specie) ma per il Capitale. Liberi sì, ma di essere uomini a
una sola dimensione, come disse un altro filosofo un tempo
ultrafamoso e ormai dimenticato. Non è una grande scoperta
dopo il potente concetto di alienazione introdotto da Marx.
Comunque è sul tema della libertà,
nozione evanescente al di fuori di un discorso di classe,
che gioca gran parte del filosofare moderno. Quando la
filosofia era al tempo stesso anche religione e scienza, le
ricerche intorno all'organizzazione della conoscenza e della
vita sociale avevano un significato; ma da quando è stata
soppiantata dalla scienza incarnata nell'industria (diciamo
dalla presa della Bastiglia e da Kant in poi), da quando
cioè la libertà è passata dal mondo delle idee a quello
della realtà borghese (liberté, egalité
fraternité!), l'unico suo scopo è quello di dare un
significato agli stipendi di professori altrimenti
disoccupati, senza che l'umanità si accorga di qualche
beneficio. Il caduco "ismo" che alcuni di loro hanno
appiccicato all'esistenza umana è costruito su una foto
della realtà, ma la dinamica complessiva è assente. Ne
risulta un moncone di realtà su cui si può dire tutto quel
che si vuole, senza essere troppo "responsabili", come
invece vorrebbe il catechismo esistenzialista. La libertà
può consistere nel decidere, ma bisogna sapere chi decide e
che cosa. Per noi, adesso, l'unica libertà possibile è
liberarci dell'ultima società classista della serie
millenaria.
Soffermiamoci un poco su questo concetto
della libertà/responsabilità: sembra che sia stato Karl
Jaspers ad introdurlo per primo in contesto
"esistenzialistico" moderno, quando affermò che la libertà è
prerogativa specificamente umana. La definizione di "uomo"
sarebbe dunque: essere che sempre si decide; quindi non solo
libertà dall'essere determinato a…, ma libertà nel decidere
di… Prendiamo per buona la definizione, che a dire il vero
ci sembra un po' banale. Tutti sanno che l'uomo, a
differenza degli animali, può entro certi limiti
progettare la propria esistenza proprio mentre progetta
macchine complesse, sistemi di produzione o agglomerati
urbani. Ma se è vero che progetta, quali sono i limiti entro
cui lo fa? La pura e semplice constatazione di questa sua
capacità non è sufficiente. Per noi è molto meglio un'altra
definizione, che il lettore riconoscerà di certo e che ci
permette di spostare l'attenzione dal progetto-bricolage
alla dinamica storica del rovesciamento generale della
prassi: l'attività sociale dell'uomo consiste nel
millenario procedere dal regno della necessità (animale) a
quello della libertà (umana). La vera essenza dell'uomo
corrisponde alla sua esistenza nella fattispecie di questa
dinamica.
La libertà non può dunque essere
prerogativa dell'individuo, che può al massimo progettare
una macchina, una casa, una ferrovia, ma sempre nell'ambito
della sua vita di consumi per il Capitale. La libertà è
prerogativa della specie, che sarà in grado di progettare la
propria esistenza globale in armonia con la natura. Solo il
rovesciamento della prassi è libertà e volontà nella loro
autentica accezione. L'uomo, arrivato al punto odierno
(capitalismo maturo) non è né carne né pesce, è in mezzo a
un guado. Non può tornare indietro e non sa ancora che cosa
lo aspetti, anche se deve comunque proseguire. Di qui
l'angoscia, non per la responsabilità, ma al contrario, per
l'irresponsabilità, l'impotenza che lo attanaglia. La
percezione deprimente, fatale per molti, di una vita senza
senso.
Come tutto, anche la vita insensata ha un
mercato. Più della metà degli americani ricorre a
psicofarmaci, e i loro bambini "inquieti" sono tenuti a bada
chimicamente. Un numero crescente di giovani occidentali non
può fare a meno di assumere droghe di ogni tipo per tirare
avanti. Persino i ragazzini si fottono il cervello aspirando
vapori di benzina, colla, solvente, ecc. Il mondo intero va
fuori di testa e l'unica cosa che riesce ad escogitare è
qualche rattoppo. Medicina e farmacologia d'oggi non sono
altro che mezzi per "guarire", cioè per rattoppare
l'individuo, non si prefiggono di evitare la malattia
nell'ambito della specie. Ma per il mercato va bene così
(sempre che il peso economico per la società non diventi
troppo alto), e quindi l'industria apposita intasca profitti
immani, affiancata dagli strizzacervelli, che anch'essi non
se la passano male. Ce ne sono persino di una corrente
esistenzialista, tanto per essere in tema. Essi praticano la
logoterapia, il cui motto è preso di sana pianta
dalla filosofia in questione: "Essere liberi da… in modo da
essere liberi per…", ed ha per manuali testi dal titolo
significativo come La sofferenza di una vita senza senso,
psicoterapia per l'uomo d'oggi (Frankl). Psicoterapia
per fare che? Per accettare l'insensato senza soffrire ed
essere pronti a produrre piuttosto che a vivere?
Tra l'altro l'aforisma esistenzialista
non è gran che originale: è presente nei testi canonici, ma
anche negli insegnamenti del Buddha, che mostrano la via per
liberarsi del dolore per raggiungere la beatitudine della
sua assenza. Marx aveva superato la mistica
concretizzando la libertà perché essa è parte del
processo storico reale, ossia parte di ciò che già gli
uomini hanno realmente fatto e stanno facendo: essere liberi
dal capitalismo per essere liberi di sprigionare la propria
umanità in una società nuova. E qui torniamo alla lettrice e
alla ragazzina di poco fa per addentrarci nell'inferno della
vita quotidiana capitalistica: perché, al di là delle
belle parole, questa è la vita reale d'oggi e non c'è
esorcismo all'interno di essa che possa regalare qualche
cosa all'uomo angosciato.
A meno che egli non veda una prospettiva
altrettanto reale. Ora, l'unica dinamica interessante della
"nostra" società è quella di produrre effetti di
auto-negazione su sé stessa. Il capitalismo è diventato un
sistema così libero da ogni controllo da parte
dell'uomo, da procedere a briglia sciolta verso quel
suicidio che impone così spesso agli individui che
assoggetta. A dispetto dei suoi servizievoli addetti che
fanno di tutto per preservarlo, questo sistema si sta
distruggendo per la semplice ragione che anch'esso sta
perpetuando un'esistenza senza senso. Una volta che ha
dimostrato di riprodursi non più per soddisfare le esigenze
dei capitalisti, che anzi vengono espropriati, ma solamente
per valorizzare Capitale diventato anonimo e impersonale, ha
per ciò stesso dimostrato la sua non-esistenza potenziale
(Marx). Insomma, siamo alla classica affermazione: evocherà
da sé, nel proletariato, il proprio esecutore e becchino.
Farmaci e macchine contro il male di
vivere
Quando le molecole sociali si
surriscaldano e si agitano impazzite producendo statistiche
poco edificanti per la superba società del Capitale, si
possono sempre raffreddare per farle stare quiete. A questo
proposito esistono farmaci appositi, come abbiamo visto, e
l'umanità sofferente ne fa uso smodato. Adesso leggiamo
anche la notizia che è stato appena scoperto un farmaco,
novità assoluta, che permette di essere arzilli anche in
caso di mancanza di sonno (da discoteca, da doppio lavoro o
da angoscia, non fa differenza). Ci aspettiamo un aumento in
borsa delle azioni dell'azienda produttrice, oltre che
l'aumento degli indici di produzione, non appena sia provato
che un operaio riesce a fare due turni per volta.
Ma la pillola non è tutto. Leggiamo negli
stessi giorni un'altra notizia: la macchina impiantata
nell'uomo è la vera soluzione, è il suo interlocutore
intelligente, la sua protesi, come in certi racconti di
Philip Dick. La pillola si aggiunge a una serie ormai
pletorica, ma vuoi mettere la macchina, con la sua linea di
montaggio, il marketing, l'assistenza tecnica,
l'obsolescenza da progresso, la batteria, l'operazione per
l'impianto, l'ospedale, il personale medico. Nelle prime
pagine del romanzo di Dick Gli androidi sognano pecore
elettriche? il protagonista si sveglia tramite uno
stimolatore del cervello che gli predispone un umore
adeguato per la giornata. Egli dialoga con la moglie, che ha
una macchina simile, perciò discute su come impostare i
rispettivi programmi tenendo conto l'uno dell'altro. Il
rischio è di cadere in quel circolo vizioso che certa
psichiatria moderna definisce di "doppio vincolo",
situazione tipica per l'insorgere della schizofrenia di
famiglia.
Il romanzo fu scritto nel 1968. Oggi,
2005, la Food and Drug Administration, l'ente che negli
Stati Uniti controlla il ciclo di produzione di cibi e
medicinali, ha ammesso all'uso generalizzato un apparecchio
elettronico che, stimolando il nervo vago, dovrebbe
alleviare i problemi delle persone colpite da depressione
grave. I risultati sembrano confermare gli esperimenti
condotti su pazienti insensibili a ogni altra terapia. Un
apparecchio simile era già utilizzato fin dal 1997 sugli
epilettici e la scoperta che abbia effetti anche sui
depressi all'ultimo stadio è stata del tutto casuale (per
cui le modalità di "funzionamento" sono ancora sconosciute).
Gli addetti ai lavori sostengono che è
meglio agire sul nervo vago che intervenire sul cervello con
azioni estreme come l'elettroshock. Sarà certamente vero, e
sarà forse anche meglio che ingurgitare farmaci per decenni,
ma l'idea che un essere umano vada in depressione fino allo
stadio del pericolo mortale e lo ringalluzziscano con una
macchina che stimola artificialmente il cervello è tipica
del capitalismo, spasmodico rattoppatore di falle che esso
stesso genera. E ci fa venire in mente, in un mondo che vede
aumentare a dismisura il settore che produce merci dedicate
all'Ego e al culto dell'apparire, qualche più che probabile
sviluppo.
Non si nasce depressi, lo si diventa. E
la "malattia" è tipica della modernità, colpisce
specialmente gli abitanti dei paesi del cosiddetto
benessere, con il picco negli Stati Uniti, che hanno 566
consumatori di psicofarmaci ogni mille abitanti. Ora,
prendiamo l'uomo caduto in depressione e sistemiamogli sotto
pelle, alla base del collo, un apparecchio elettronico con
le funzioni che abbiamo descritto, una specie di
pacemaker. La casistica ci dice che nel paziente
"migliorano l'umore, la memoria e la soglia di attenzione
verso l'ambiente, mentre ritorna il senso perduto
dell'ottimismo".
Al momento l'ente americano permette
l'impianto della macchina antidepressiva solo sui pazienti
gravi, che sono il 5% dei depressi (negli USA sarebbero
comunque 7 milioni i candidati), "ma in futuro il suo
utilizzo potrebbe estendersi", battono le agenzie di
notizie. Infatti chi, in un mondo che precipita l'uomo
nell'autodistruzione, potrà fare a meno di portare sotto
pelle una macchina dell'ottimismo, un Viagra elettronico per
inturgidire cervelli cadaverizzati? E se, venuti meno gli
stimoli economici keynesiani alla produzione, si provasse a
impiantare direttamente nel corpo degli operai una macchina
per stimolare, insieme all'ottimismo capitalistico e quindi
al consumo, anche la conseguente produttività?
Il capitalismo non è un malato da curare,
deve sparire
Edgar Lee Masters scrisse questo
epitaffio per uno degli ex viventi che popolano la sua
celebre Antologia:
"Dare senso alla vita può condurre alla
follìa, ma una vita senza senso è la tortura
dell'inquietudine e del vano desiderare, è una barca che
anela il mare eppure lo teme".
È vero: nel capitalismo un uomo che
cerchi di dare un senso alla propria esistenza non può che
realizzare la sua propria condizione di alienato in mezzo ai
suoi simili e tentare di porvi rimedio. Sapendo però di non
poter "fare" nulla per cambiare da solo l'intero pianeta, e
sapendo di essere un granello fra altri, sembra non avere
altra scelta che arrendersi (e dar fuori di testa contro di
sé o i suoi simili come nel film The assassination di
Niels Mueller). O assecondare il movimento reale, nel
frattempo individuato come comunismo, ovvero come
morfogenesi sociale, fermento distruttivo dell'attuale forma
e costruttivo della nuova. In un certo senso il comunista è
un pazzo deviante in mezzo a omologati sani. I quali, per il
comunista, sono gli "altri", appartenenti al passato,
prigionieri del vano desiderare e da ciò torturati a vita,
schiavi dell'indeterminatezza e di voglie inculcate, come
hanno detto anche due papi a mezzo secolo di distanza l'uno
dall'altro.
Il capitalismo provoca malattia sociale
trasformando i bisogni naturali dell'uomo esattamente in
voglie sintetiche (che tra l'altro non riesce nemmeno a
soddisfare). Non è affatto strano che la Chiesa, o perlomeno
quel che è diventato quell'organismo dall'esperienza
bi-millenaria, pur esaltando la mistica della persona abbia
individuato nel personalismo voglioso e insoddisfatto un
malefico influsso sociale, un filo conduttore che porta alle
cause di ciò che chiama attacco alla spiritualità e
relativismo dilagante. L'apoteosi dell'individualismo,
l'incapacità di collegare la vita a basi teoriche, la
coltivazione di teorie del dubbio, il navigare a vista senza
bussola e senza mappe, è impossibilità di sopportare la
contraddizione fra il vivere il proprio atomo di esistenza
separata e il far parte, nello stesso tempo, della forma
economico-sociale più socializzata della storia.
Noi riceviamo continuamente, via
Internet, una valanga di materiale prodotto da gruppi,
partitini e individui che cercano disperatamente di
affrontare la malattia del capitalismo, accettando, il più
delle volte senza accorgersene, l'immagine che il
capitalismo stesso offre di sé, cioè quella di un sistema
malato che ha bisogno di un medico. Ma persino i vecchi
socialisti e anarchici sapevano che i rivoluzionari non
possono essere il medico del sistema, sono la sua malattia
mortale. Il trionfo esistenzialistico e solipsistico
della bestia-soggetto, incapace di avere un approccio
qualsiasi alla comunità di specie, nemmeno con
l'immaginazione, porta al sacrificio quotidiano
dell'esistenza cui si è appioppato quell'"ismo" assurdo,
alla morte rateizzata invece che alla vita, la vita vera,
quella che nella morte individuale trova il suo naturale
compimento per alimentare la vita della specie. Questa
società tratta l'uomo al pari di un mezzo di produzione da
"ammortare", come dice il termine ragionieristico che noi
certamente cambieremo in "ravvivare", come scritto in un
nostro vecchio testo.
L'individuo capitalistico è ammortato
fin dalla nascita in quanto macchina da consumo di pannolini
e merci specifiche prodotte a miliardi. Continua ad esserlo
fino alla vecchiaia, quando non è rottamato solo perché
consuma altre merci specifiche come pannoloni, pillole a
carrettate, creme per stirare la faccia, servizi di
vampiresche case di riposo, ecc. Anima e corpo
dell'uomo-massa sono quotati alle borse mondiali come parte
integrante di tutte le altre merci, e a nulla vale che egli
si cavi qualche spicciola soddisfazione (un po' di denaro,
un po' di sesso, un po' di svago e via a ripetere il ciclo):
sarà sempre trattato come una nullità il cui cervello è solo
un accessorio, mero prolungamento del midollo spinale, da
attivare solo quando dev'essere reattivo agli stimoli
consumistici. Può suicidarsi, ammazzare gente per strada,
sgozzare i parenti, o fare il terrorista, ma sarà sempre
trattato alla stregua di materiale da marketing. Per
questo la sua impossibile ribellione ogni tanto si fa
materiale da prima pagina dei giornali, pirotecnica,
esagerata, inspiegabile, e fa vendere un sacco, come ben
sanno gli scrittori alla Truman Capote. Anche Hitchcock
notava che i professionisti del crimine sono noiosissimi,
mentre fra i fuori di testa "normali" proliferano i veri
genii del delitto creativo.
Dicevamo che Marx giovane si accorse
molto presto della perdita di umanità nell'uomo
capitalistico. Egli osservò che quest'ultimo finisce per
considerare "persona" solo sé stesso, mentre relega il
proprio simile a "cosa", distruggendo irreparabilmente la
possibilità di vedere nell'altro lo specchio di sé, l'essere
umano con cui intessere un rapporto non alienato, attraverso
il quale ognuno possa arricchire la propria umanità.
L'importanza data alle cose o alla loro immagine riflessa
nel cervello porta a reazioni esagerate, apparentemente
incomprensibili: il numero dei ragazzini che si ammazzano
per aver sfasciato l'automobile del babbo o perché "vanno
male" a scuola vien subito dopo quello dei morti provocati
dalle stragi in famiglia, in un crescendo che ispira qualche
articolo o dibattito ma non scalfisce neppure di striscio la
macchina produttiva di valore. In entrambi i casi è data una
sproporzionata importanza a cose personificate o a persone
immaginate come cose. Una brutta pagella non vale
un'esistenza; d'altra parte è difficile immaginare di
estinguere un'esistenza con centosettantatrè coltellate: se
si ammettesse di avere a che fare con una vita invece
che con una cosa ne basterebbero un paio.
Psicologia, sociologia e illusorie
medicine
Indubbiamente qualcosa succede nella
testa di chi si ammazza, ammazza altri o partecipa ad azioni
collettive violente e spesso assassine. Oppure entra in
depressione fino a morire da vivo. Le spiegazioni
sociopsicologiche abbondano, e non mancano gli esperti che
cercano le cause della suppurazione sociale nella
disoccupazione, nell'insicurezza del vivere, nella miseria
materiale, in quella morale e così via. Comunque sia,
costoro danno sempre un'interpretazione che non esce dalle
categorie di questa società, assolutizzando uno degli
aspetti del problema senza vedere l’insieme. Di fatto
troviamo una specie d'invarianza nel loro affrontare il
problema di quell'angoscia di vivere che sempre più spesso
prende il sopravvento sull'assuefazione inerte, passiva.
Proviamo ad elencare:
- Il presunto diverso viene quasi sempre definito tale
dopo che ha manifestato il comportamento atipico;
prima è in genere una "brava persona del tutto
normale" e la ricerca sul perché della trasformazione si
riduce a una constatazione postuma.
- La definizione diventa essenziale come l'etichetta su
un prodotto: aggettivi come depresso, suicida, assassino o
vandalo diventano sostantivi; non è previsto il povero
cristo fuori di testa perché separato irreparabilmente
dalla propria umanità.
- L'etichetta serve a incasellare il prodotto più di
quanto non lo sia già negli scaffali del gran supermercato
globale: perciò si fanno cliniche per i depressi,
supercarceri per i violenti, manuali per i
suicidi, consultori per i drogati, persino
olimpiadi per i disabili.
- Una volta incasellati i devianti, si procede a far
opera di "integrazione sociale", in modo che sia ben
chiaro il dualismo insopprimibile fra essi e i normali. A
nessuno viene in mente che vi è un'unica umanità con le
sue cellule differenziate. Si separa la specie che produce
e si riproduce in diverse umanità, affinché si possa poi
far opera di unione (e dar luogo al relativo mercato che
solo approssimativamente si identifica col "terzo
settore"). Un po' come fanno gli scienziati specialisti
quando organizzano incontri interdisciplinari, che
ovviamente ribadiscono l'esistenza di discipline
separate.
- Infine si passa alla descrizione fantastica di che
cosa dovrebbe escogitare la società per evitare
l'insorgenza delle devianze e dei danni che esse provocano
(espressi sempre in denaro): cioè si fa appello ai
governi affinché prendano provvedimenti onde evitare costi
materiali e sociali troppo alti (come se i governi, in
virtù del solo appello, potessero effettivamente
fare qualcosa di diverso o in più di quanto non abbiano
fatto prima).
Qualche psico-socio-economista giunge ad
annotare una relazione fra la miseria materiale e quella
morale, pur senza avvicinarsi neanche lontanamente alle
riflessioni marxiane sulla struttura del bisogno mediata dal
denaro, per cui in una classe l'oro trasforma bruttezza in
bellezza o debolezza in forza, e nell'altra la patata si
impone in quanto unico bisogno, come nel caso del
proverbiale irlandese di Marx. In realtà non fa che
blaterare di una soluzione alla Maria Antonietta: dato che
per lui la separazione dell'individuo dalle sue condizioni
di esistenza è separazione dell'individuo dalle cose,
basterà dare l'oro invece della patata e l'angoscia
esistenziale sparirà d'incanto. C'è persino un movimento
internazionale che rivendica un "reddito di cittadinanza",
cioè una quantità di denaro fissa per ogni individuo dalla
nascita alla morte, indipendentemente dal lavoro che svolge
e dal reddito che questo gli frutta. Un movimento informale,
ma che sostiene la compatibilità di questa "rivendicazione"
proprio con l'economia di mercato.
Il sistema che separa gli individui dal
frutto del proprio lavoro, quindi dalla comunità, non è
riformabile entro il sistema stesso per la semplice ragione
che esso non può andare oltre il livello appena descritto,
può tutt'al più far riferimento quantitativo con le cose. La
mia vita (o quella di chi sarà vittima della mia angoscia)
non conta nulla in confronto all'esasperata importanza
assunta dalle cose: il denaro per sopravvivere bestialmente,
i beni che, per essere considerato qualcuno, dovrò
consumare, donne e uomini compresi, che non vedrò come
un'immagine rispecchiata di me stesso, così come loro non
vedranno sé stessi in me. Queste considerazioni, che si
trovano negli appunti giovanili di Marx, distruggono
completamente l'analisi (pretesa materialistica) secondo la
quale il male del vivere ha ragioni legate al reddito. Non
c'è bisogno di ricorrere al facile esempio della cosiddetta
depressione, patologia interclassista che colpisce
indipendentemente dalle condizioni economiche, è sufficiente
constatare che la vita perde sempre più senso man mano che
il reddito aumenta storicamente, e non solo quello
"nazionale", ma anche quello medio dei proletari che hanno
un lavoro.
Patologie autodistruttive o "criminali"
esistevano anche in passato e la vita negli slum di
Londra o di Manchester, descritti anche da Engels, era senza
senso tanto quanto quella di oggi (ma almeno la miseria del
minatore non era elevata dai filosofi ad angoscia
esistenziale). Il capitalismo non è affatto un malato da
guarire, è proprio fatto così, non fa che esasperare
a un livello mai visto tutti i caratteri delle società di
classe. E li esaspera al massimo perché, a differenza delle
società precedenti, è totalizzante. Esso infatti giunge a
separare il produttore dal suo prodotto, non semplicemente
"di più" di quanto non lo separasse la società degli
schiavi o quella dei servi della gleba, bensì
completamente. Questo è il motivo della produzione a
scala industriale di angoscia esistenziale, di non senso del
vivere. Un motivo fisiologico, cioè inerente alla
natura di questa società. Dunque è solo a partire dalla
suddetta separazione totale che si può comprendere il
concetto di alienazione: la chiave psicologica
contingentista, così come quella pseudo-materialista, rimane
l'interpretazione tipica del medico che vorrebbe la medicina
per guarire il malato.
Prendiamo la mancanza di lavoro, con la
quale si cerca di spiegare l'intreccio fra le mafie e la
popolazione, specie giovanile, nel Sud d'Italia.
L'incalcolabile dissipazione umana dovuta a una
disoccupazione che giunge in certe aree a superare il 50%
non ha nulla a che fare con lo slogan 'a fatica ce stà,
ma nun ce 'a vonno dà" (uno dei più cretini che siano
mai passati per la testa degli attivisti): la fisiologia del
capitalismo ci dice che il lavoro proprio non c'è.
Per la semplice ragione che il Capitale moderno, macchinista
e razionalista, riduce sempre di più i lavoratori produttivi
(anche se, paradossalmente, avrebbe bisogno di sempre più
consumatori con reddito). Il disoccupato tende a
perdere la sua condizione di lavoratore potenziale e
diventare un esubero permanente. Anche in questo caso
vediamo due aggettivi che, con l'uso, diventano sostantivi.
Non c'è da stupirsi se in un simile serbatoio di
disperazione pescano sia i voraci capitalisti del sommerso
che i caporali dei circuiti capitalistici alternativi in
cerca di manodopera per i loro eserciti (le varie mafie
propriamente dette non sono più criminali di quelle del
capitalismo ufficiale, come dimostrano fatti recenti e no).
L'umano e il bestiale
È celeberrimo l'aforisma di Marx sul
lavoro alienato come paradigma della condizione bestiale
degli uomini sotto il capitalismo: il lavoro organizzato è
condizione coatta e, nonostante sia l'unico carattere che
distingue l'uomo dalla bestia, è visto come una condanna.
Nel migliore dei casi è un surrogato della vita, un tormento
per "apparire" più che non "essere", un mezzo per poter
consumare, spesso una fuga dall'inferno ancora peggiore
della famiglia schizofrenica. Così l'uomo si sente uomo
quando mangia e beve, si accoppia, dorme (tutte attività che
condivide con le bestie), mentre si sente bestia quando
lavora (attività che gli è peculiare). Questa inversione fra
l'umano e il bestiale non può non avere conseguenze sul
fragile organismo biologico strappato dall'unità con la
specie, e c'è un bel cercare l'origine genetica del
disadattato, del depresso, del teppista da stadio o
dell'assassino: siamo tutti "brave persone" fin quando le
stimmate di reattività e di violenza che ci sono in ognuno
di noi non vengono attivate da una individuale soglia di
insopportabilità della vita.
Il rovesciamento sarebbe semplice: ridate
all'uomo la sua umanità perduta e lo vedrete rinascere come
una specie nuova, più evoluta e intelligente. Ridate
all'uomo il lavoro come tempo di vita globale e vedrete
esplodere la sua capacità di spezzare la schiavitù nei
confronti della forza alienante del Capitale, lo vedrete
diventare finalmente libero. Ma non sarà l'umanità perduta
di un'età dell'oro, perché la storia è irreversibile. L'uomo
non si è "corrotto" rispetto a una leggendaria purezza
primordiale; ha imparato invece a "rovesciare la prassi",
cioè a progettare, cioè ad anticipare con la mente un
risultato futuro, cosa che non ha mai fatto a livello così
diffuso in nessuna forma sociale prima del capitalismo. Solo
che nel capitalismo lo fa assai male e soprattutto
finalizzando ogni progetto alla sola valorizzazione del
Capitale. Anzi, con l'autonomizzazione di quest'ultimo dalla
società umana, l'uomo si limita ad essere un'appendice della
macchina produttiva globale, come l'uomo-batteria di
Matrix, da cui le macchine traggono energia per
dominare, buttandone i resti nelle fogne quando egli-esso si
guasta (impariamo a leggere nella biblioteca dei miti
antichi e moderni: oggi Hollywood riproduce la realtà del
capitalismo come lo scudo di Achille descritto da Omero
riproduceva la realtà micenea).
E allora, se è vero che solo attraverso
il lavoro l’uomo si distingue dalle bestie, se solo
attraverso la progettazione e modificazione dell’ambiente e
della natura che lo circonda egli si mostra uomo, ma tutto
ciò nel capitalismo è coatto, esterno, separato, come se ne
esce? Non è che questa condizione impedisca all'uomo di
averne consapevolezza e quindi gli impedisca di volere il
cambiamento? Non si trova l'uomo in un circolo vizioso per
cui egli è alienato, e proprio la sua alienazione gli
impedisce di rendersene conto? Se il nostro cervello è
portato alla lavanderia sociale e connesso con mille fili a
un mostruoso sistema che induce una bolsa beatitudine
consumistica nella quale l'unico disagio è il non-consumo di
cose, un'angoscia guaribile con pillole e carceri,
propaganda e "guerre al terrorismo", come farà mai l'uomo a
riappropriarsi della propria umanità perduta?
L'uomo si trova nell’impossibilità umana
di vivere atomisticamente e socialmente isolato dalla
propria comunità, ma vi è costretto, per cui l'unico modello
di vita diventa quello della bestia soggetto incapace
di avere una relazione umana con il suo simile umano,
sacrificati entrambi in cambio di oggetti di
soddisfazione immediata, compreso il proprio partner, inteso
come oggetto sessuale o strumento di realizzazione sociale.
Ma la "bestia umana", al di là di alcuni
caratteri genetici ormai insignificanti, non è connaturata
alla nostra specie come una sorta di peccato originale. Per
milioni di anni abbiamo vissuto in piccole comunità
organiche, raccogliendo ciò che offriva la natura,
producendo poco a poco la nostra stessa struttura di specie
e quindi procedendo e cambiando verso una situazione
futura. La nostra evoluzione è stata non soltanto biologica
ma, soprattutto nell'ultima forma sociale, certamente più
tecnica e scientifica che biologica (cfr. n+1, Il
cervello sociale). Adesso siamo in fase di transizione,
non siamo né bestie né uomini, mezze scimmie ancora
prigioniere di un passaggio dall'homo habilis
all'autentico homo faber, cioè dal primate
scheggiatore di sassi all'uomo artefice,
all'uomo-industria capace di rovesciare la prassi bestiale e
organizzare finalmente la propria esistenza nella e per la
natura. Che sarebbe un po' come dire: passaggio all'homo
homo (cfr. Desmond Morris e Leroi-Gourhan).
Come definire dunque l'ibrido umanoide di
oggi, in moto verso la propria liberazione, nella sua
"normalità" produttiva di valore? Come definire le sue
azioni "devianti" nei confronti di sé stesso, dei suoi
simili e della società intera? Davvero si tratta di schegge
individuali impazzite anche se a volte si esprimono
collettivamente? Dobbiamo trovare un'invarianza nei vari
casi, per quanto diversi tra loro, per vedere se per ipotesi
la cosiddetta devianza non sia invece un fenomeno
connaturato al cambiamento reale, la forma fenomenica in cui
esso si manifesta a questo particolare stadio del trapasso
verso una società nuova.
Atti di morte come negata aspirazione
alla vita
Il nuovo millennio tanto atteso e
strombazzato era in corso da pochi mesi quando un immane
spettacolo veniva trasmesso praticamente in diretta a
miliardi di persone in tutto il mondo: un commando suicida,
si disse, aveva attaccato i simboli del potere
economico-militare americano, il World Trade Center e il
Pentagono. Forse voleva attaccare anche il simbolo politico,
la Casa Bianca ma sembra fosse stato intercettato. Si disse…
forse… sembra… Sono in molti a non credere alle versioni
ufficiali, e su questo evento alcuni hanno prodotto della
controinformazione a livello non banale. Sta di fatto che da
allora una macabra guerra a un nemico astratto (il
terrorismo, non l'esercito dei terroristi) si trascina
senza alcuna possibilità di vittoria militare. Da allora si
sgrana un rosario di morti in una macelleria che ha ancora
meno senso della normale vita senza senso in questa società
capitalistica. Di tale guerra abbiamo già scritto; qui
interessa sottolinearne la novità: una generalizzazione mai
vista del soldato-suicida-omicida.
Dobbiamo precisare il discorso: il
terrorismo (ovviamente nell'accezione corrente, noi ne diamo
un'altra definizione) fa enormemente meno morti civili dei
bombardamenti "regolari", e i combattenti terroristi muoiono
in misura assai minore dei soldati in battaglia. I
kamikaze furono ufficialmente 1.228 nel 1944-45 e, fino
al 1983, con gli attacchi degli hetzbollah in Libano,
non ebbero emulazioni, se non in eventi sporadici. C'è una
differenza fra i soldati di un esercito regolare, sia pure
immersi in un ambiente che giustifica ideologicamente il
sacrificio, e i militanti guerriglieri che lo adottano come
arma di lotta: a questi ultimi manca la costrizione, essi
decidono individualmente di agire in tal modo. Dall'83 ad
oggi il fenomeno si è allargato dal Medio Oriente a quasi
tutto il mondo, e sono migliaia i combattenti che hanno
cercato e cercano di infliggere danni con tale metodo a
coloro che individuano come nemici.
Quel che ci interessa, qui, è
l'indifferenza verso la propria vita, offerta in nome di una
comunità, non importa di quale tipo. Come il mondo della
produzione influenza i caratteri della guerra
(decentramento, terziarizzazione, privatizzazione,
informatizzazione, ecc.), così la società civile espande i
suoi caratteri su di essa, impregnando gli eserciti
irregolari di pulsioni autodistruttive. Non crediamo affatto
alla leggenda messa in giro dalla disinformazione di stato
secondo la quale il suicida-omicida sia semplicemente un
fanatico sanguinario, nemico della democrazia. Non facciamo
così banali i seguaci delle severe leggi del Profeta.
Crediamo piuttosto che l'esercizio del sacrificio di sé e di
altri, in questa pratica così apparentemente in contrasto
con la guerra tecnologica odierna, sia da mettere in
rapporto al generale decadimento dei rapporti sociali. Una
reazione non dissimile dalle altre alla negata umanità, alla
sottrazione dell'uomo dalla comunità. Le comunità che oggi
reagiscono all'invadenza mortifera del Capitale, lo fanno
esattamente allo stesso modo di quelle antiche, con sprezzo
della propria vita, considerata parte della vita della
comunità aggredita da forze esterne. Solo che oggi lo fanno
con le stesse armi dell'avversario, si auto-negano
diventando molto più simili a lui di quanto non lo fosse un
nativo americano quando adottava mustang, Winchester e
whisky.
E comunque la più stringente
assimilazione-distruzione non è per niente una vittoria del
capitalismo, come fu un tempo. Stiamo assistendo alla
bancarotta planetaria del sistema. Sarebbe piaciuto ai
fomentatori di guerre "atipiche" additare i devianti (in
questo caso "islamici") come rappresentanti di una
sub-umanità incivile. Invece scopriamo che si tratta dei
figli delle borghesie e delle mezze classi emergenti di un
mondo che si pone in concorrenza con quello
occidentale sul suo stesso terreno. Di fronte alla
distruzione dei resti di umanità presenti nelle vecchie
società islamiche morenti, i loro rappresentanti già
conquistati al capitalismo partecipano alla generale
schizofrenia sociale. Devono odiare il denaro e l'usura, ma
prosperano su denaro e usura, seppure purificati
dall'elemosina. Odiano l'Occidentale materialista e
blasfemo, ma ergono nuove città più somiglianti alla
demoniaca Las Vegas che alle sante moschee. Diventano così
nemici di sé stessi più che di un avversario esterno,
esattamente come noi occidentali siamo diventati i
principali nemici della nostra umanità.
La statistica ci offre scenari di
matematica chiarezza: una madre che ammazza il proprio
figlio, un suicida disperato o un cosiddetto kamikaze
possono rappresentare una insignificante fluttuazione
statistica in una determinata realtà sociale, ma la
sestuplicazione dei delitti in famiglia in cinque anni,
l'aumento degli omicidi e la comparsa di un fenomeno che
porta migliaia di guerriglieri ad immolarsi in tutto il
mondo, rappresentano un fenomeno che fa saltare i parametri
della normalità. Il grande numero dei suicidi raggiunto
(circa 70.000 suicidi all'anno in Europa) non indicano più
un fenomeno di normale malessere. E i 250.000 della Cina (lo
stesso indice in rapporto agli abitanti) ci mostrano quanto
sia reale il legame con l'avanzare del capitalismo, di un
comune livello di vita senza senso.
Viviamo in una lunga fase di transizione
che prepara la definitiva rottura rivoluzionaria. Essa non
può non essere anche una fase di fibrillazione sociale in
cui l'individuo implode e la società esplode
dando luogo a fenomeni sempre più marcati. Di fronte al
futuro che si realizza già adesso in forme che non sono più
capitalistiche senza essere ancora comunistiche (cfr. la
nostra serie sul "Programma rivoluzionario immediato",
comparsa su vari numeri della rivista), tutta la società non
può fare a meno di entrare in contraddizione e applicare
violenza a sé stessa con atti di morte come manifestazione
della vita negata.
D'altra parte: come possono conciliarsi
la famiglia mononucleare e radicata localmente con la
società aperta e globalizzata; il lavoro salariato con
l'espulsione dei salariati dalla produzione; la proprietà
privata con la continua espropriazione coatta della
proprietà; la potenza del lavoro associato con gli egoismi
particolari; la borghesia, che può essere solo nazionale,
con il mercato, che può ormai essere solo mondiale; la
ricchezza sfrenata con la miseria crescente, la schiavitù
della necessità con il già visibile regno della libertà; la
comunità illusoria dello scambio secondo valore con la
comunità umana reale? Viviamo in un mondo di dicotomie che
diventano contraddizione generalizzata, con ripercussioni
inevitabili sulle molecole individuali che compongono il
tutto. Ed è sbagliato pensare che tutto ciò non abbia
implicazioni politiche solo perché esula dal campo
abituale della politica.
I sussulti di guerra indeterminata e
quotidiana (che potrà benissimo diventare condizione
permanente), la collera sociale e la crescita statistica dei
fuori di testa che passano per malati da reparto
psichiatrico, sono con tutta evidenza sintomi di
degenerazione irreversibile dei rapporti sociali. Milioni e
milioni di individui, che si vedono precluso ogni accesso
alla vita umana, sono posti di fronte a un diktat
spietato: dedicarsi anima e corpo a un qualcosa che non è
loro, che appartiene ad altri, anzi, a un'astrazione come il
Capitale resosi indipendente dagli uomini. Negarsi a questa
mostruosità è possibile solo attraverso vie estreme, come
sono estremi il suicidio o la ribellione cieca e distruttiva
o anche, con un minimo di giustificazione ideologica, il
terrorismo dostojevskiano occidentale.
E il negarsi a questa società, anche se
in forme non certo consapevoli e quasi sempre trasverse, non
è forse una manifestazione del gran corso rivoluzionario
attuale? Manifestazione anomala, dati i tempi, forse inutile
dal punto di vista del risultato immediato, ma sempre lotta
spontanea contro lo stato di cose esistente, se non
per la sua abolizione.
Vediamo già i puristi del luogocomunismo
marxista-leninista storcere il naso e mettere le mani
avanti: non ci verrete mica a dire che è lotta di classe!
No, il suicidio non è lotta di classe; né lo sono il
sabotaggio luddista o il cosiddetto terrorismo o
l'ammazzamento in famiglia. Eppure Marx ed Engels si
aspettavano l'accelerazione dello sfascio sociale proprio
osservando le manifestazioni spurie che il processo
comportava. Una rabbia senza "rivendicazioni", una forza
distruttiva senza "proposte positive" che avessero la
velleità di sanare una società destinata a crepare. Non è
lotta di classe, certamente, ma il suo surrogato quando essa
manca: la disintegrazione della società che avviene
comunque, sia che imbocchi la via drastica
dell'insurrezione, sia che prenda vie secondarie e impieghi
tempi lunghi per prepararla meglio. È scomparsa un'URSS
senza che fino al giorno prima qualcuno lo sospettasse,
tutti concentrati sui grandi parametri economici e politici,
completamente disattenti verso i fenomeni, pur
visibilissimi, di decomposizione sociale, denunciati persino
da un Gorbachev.
Percezione soggettiva e realtà oggettiva
L'individuo omologato nega ovviamente che
la sua sia una vita senza senso. Non si pone la retorica
domanda "avere o essere". Siccome crede di essere soltanto
se ha, egli cerca di avere, con tutte le sue forze, e così
uccide sé stesso con le proprie mani anche senza spargimento
di sangue: restando semivivo. Milita perciò come uno
zombie in un esercito i cui soldati interpretano ogni
sussulto di ribellione come un attentato del nemico alla
loro esistenza. In questo stato di angoscia è un buon
target nella guerra sociale, la cui propaganda gli dice
proprio ciò che vuol sentirsi dire.
Ma l'esercito dei morti viventi non può
esimersi dal manifestare qualche anomalia nel suo stesso
seno. Anzi, più avanza l'omologazione, più sembra prendersi
la rivincita qualche forma di devianza che improvvisamente
rapisce i normali e li getta nella mischia. Per forza: la
vita è nella specie, non nell'individuo, e la specie si
riproduce proprio perché gli individui muoiono, anche se è
il loro modo di morire che mostra quanto sia in buona
salute. Oggi chi muore suicida, ammazzato, o restando a metà
strada come il morto-vivente, può solo avere un epitaffio
del genere: "Morto perché c'è sempre qualcuno che non
sopporta più la vostra civiltà". Come si vede, una bella
invarianza che affascia un sacco di gente, la più disparata,
comprese migliaia e migliaia di vittime in incidenti che, a
detta degli esperti, non sono altro che suicidi od omicidi
mascherati e che superano di gran lunga le cifre ufficiali
fornite dalla criminologia. La "vostra" civiltà, perché chi
mette in gioco la propria vita o sopprime quella altrui
sfida l'omologazione, parla già dal di "fuori" della
società, è un "terrorista".
I marxisti non hanno mai confuso le forme
emotive e le pulsioni viscerali dell'attivista con la
passione comunista, fatta anche di istinto e intuizione, ma
sempre collegata a un programma. È vero che la spinta
elementare, spontanea, accompagna inevitabilmente lo scontro
fra capitalisti e proletari nella lotta per la ripartizione
del valore, ma diciamo che i comunisti non hanno mai avuto
troppa simpatia per i lumpenproletari, per i rappresentanti
delle sottoclassi che vivacchiano ai margini della società
produttiva, e in fondo neanche per i luddisti. I comunisti
detestano più ancora le forme contestatarie sfocianti nel
piagnisteo politico, le pulsioni immediatistiche
riconducibili a un riformismo urlato (a volte armato), ormai
diventate parte del panorama nel capitalismo decadente.
Tuttavia – e sottolineano il "tuttavia" – il popolo
dell'abisso dà ogni tanto segni di rivolta e il riformismo è
costretto ad accodarsi a movimenti di classe. Perciò i
comunisti non sono mai indifferenti di fronte ai
fenomeni che stanno a monte di questi variegati "tipi"
sociali, non raggruppabili in insiemi netti ma solo sfumati,
dei quali la società ci presenta un esempio lampante persino
nelle due grandi classi, ai cui confini abbondano le figure
spurie, come diceva Marx.
Abbiamo visto che un conto è qualche
suicida, omicida, terrorista o "deviante" di qualche genere;
altro conto è un milione di suicidi, omicidi ecc. ecc. Una
cosa è la percezione della vita dall'interno di insiemi
sociali e la spiegazione che l'individuo che ne fa parte dà
di essi e di sé stesso, altra cosa è osservare una realtà e
capirne le determinazioni, la dinamica, soprattutto per
quanto riguarda il futuro. Robert Heinlein, un autore di
fantascienza, scrisse negli anni '50 un racconto intitolato
L'anno del diagramma, nel quale un patito della
statistica raccoglieva dati insoliti sulla natura e sul
comportamento umano inserendoli in un modello formale.
Questo modello portava inevitabilmente a una catastrofe, che
infatti si presentava sotto forma di guerra atomica. Dal
punto di vista del discorso che stiamo facendo ci pare
interessante il tipo di spiegazione che l'autore forniva a
proposito dei grandi avvenimenti attesi dal protagonista:
egli non badava né all'economia né alla politica ma
raccoglieva i dati comportamentali degli individui, di per
sé ordinari, molto indicativi però non appena formavano
degli aggregati trattabili in modo statistico. Pochi
fenomeni presi uno a uno sembravano pura follìa, ma presi
tutti insieme dimostravano la marcia collettiva verso la
catastrofe. Nessuna volontà umana avrebbe potuto cambiare le
determinazioni rivelate dal diagramma, anzi, sarebbe stata
la volontà ad adeguarsi e gli uomini avrebbero comunque
marciato verso uno sbocco previsto.
La teoria soggiacente alla storia narrata
è matematicamente e materialisticamente ineccepibile. Se
vediamo la massa degli individui in movimento caotico come
le molecole di un gas riscaldato e prescindiamo, com'è
doveroso in un modello del genere, da ciò che "pensa" ognuno
di essi, è evidente che ci basta il risultato statistico del
movimento, come in fisica. E il ragionamento si può
impiegare in analogie più profonde che non il movimento dei
gas, come fa per esempio John Barrow nel saggio Da zero a
infinito parlando dei caratteri della meccanica
quantistica:
"Quando affermiamo che una particella si
comporta come un'onda, non dobbiamo immaginare un'onda
sull'acqua o un'onda sonora. È più appropriato considerarla
un'onda di informazione o di probabilità, analoga a
un'ondata di criminalità o di isterismo. Infatti, se
un'ondata di isterismo percorre una popolazione, lì sarà più
probabile imbattersi in un comportamento isterico:
similmente, se un'onda elettronica attraversa un
laboratorio, ivi sarà maggiore la probabilità di rivelare un
elettrone. Nella teoria quantistica vige un determinismo
assoluto, ma non a livello di ciò che si osserva o di ciò
che si misura", bensì a livello di ciò che avviene
realmente.
Nella società succede lo stesso.
L'esempio della meccanica subatomica è ancora più calzante
di quello riferito alle molecole di un gas, perché nella
società, come nella materia, abbiamo un apparente dualismo
fra le sue proprietà granulari (ogni individuo è contiguo
al suo simile) e quelle ondulatorie (vi è continuità
di relazioni fra gli individui entro la specie). In questa
società divisa, è ovvio che sorga un conflitto insanabile
fra discreto e continuo, fra individuo e specie; ma in
natura questo conflitto è assente, non è che una proiezione
idealistica dell'osservatore impregnato dei pregiudizi
tipici dell'epoca borghese.
È vero che le cose umane si concatenano
dialetticamente, e che l'osservazione della realtà è nello
stesso tempo azione su di essa. Ma non esiste un "principio
d'indeterminazione" che neghi la possibilità d'indagine
sulla dinamica sociale, come affermano alcuni. Il
comportamento di un individuo ci può senz'altro sfuggire;
non ci può però sfuggire la dinamica che ne coinvolge
milioni. Può darsi che non si riesca a cogliere il senso di
un'azione singola e di tutte le determinanti che
influenzano gli eventi successivi, ma l'insieme delle azioni
determinate ci permette di ricavare una conoscenza di
tipo generale su insiemi di azioni "coerenti", cioè dello
stesso tipo. La meccanica delle particelle, dice Barrow,
"nonostante la sua ambiguità, è
incredibilmente precisa in ogni sua previsione sui processi
che hanno luogo nel mondo atomico".
E subito a noi viene in mente il tormento
di Einstein: non è possibile che il mondo atomico e quello
visibile a noi siano governati da leggi diverse e
incompatibili se in entrambi i casi è possibile un alto
grado di predittività, confermato dalla sperimentazione.
Insomma, se noi prendiamo a calci un individuo, possiamo
avere un'incertezza sul suo comportamento (reagisce con un
pugno, scappa, ci insulta, ci denuncia, si ammazza o ci
ammazza), ma se ne prendiamo a calci un milione abbiamo con
ciò stesso dato luogo a un'onda probabilistica (e ne siamo
parte) sulla quale un osservatore esterno è in grado di fare
delle considerazioni di tipo formale, mettendo insieme dati
su chi e come dà il calcio, su chi e come lo riceve, in
quale ambiente si svolge l'azione, e soprattutto quale sia
la soglia che fa scattare la reazione rispetto
all'adattamento, ecc.. Che cosa è un "osservatore esterno"?
Risposta: chiunque abbia la possibilità di analizzare il
sistema n ponendosi al livello di un sistema n+1
che lo contenga come premessa (come fece Einstein con
Galileo e Newton).
Reazione del primo tipo:
l'autodistruzione
"I rapporti fra gli interessi e gli
animi, le vere relazioni tra gli individui, sono ancora da
creare fra noi dalle fondamenta, e il suicidio è solo uno
dei mille sintomi della generale lotta sociale
permanentemente in atto, da cui tanti combattenti si
ritirano perché sono stanchi di stare fra le vittime, o
perché si ribellano all'idea di guadagnarsi un posto d'onore
fra i carnefici" (Jacques Peuchet, glossato da Marx in
Peuchet: del suicidio).
Le sottolineature sono di Marx. Il
lettore tenga presente questo passo quando arriverà ai
capitoletti successivi: il suicidio con altri tipi di
violenza è solo uno dei mille sintomi della lotta sociale
permanente.
Nel marzo del 1966, mentre in tutto il
mondo stava montando l'ondata probabilistica di malessere
sociale fra le molecole più giovani della nostra specie, gli
studenti del liceo Parini di Milano diedero vita a un
giornaletto di scuola che fu subito scandalo nazionale. Al
di là delle motivazioni "sessuali" per l'immediata censura,
il giornaletto fu lo specchio di quel malessere, tanto che
una ragazzina intervistata, di fronte alla prospettiva di
avere una vita tutta famiglia, casa e lavoro come i suoi
genitori, disse categoricamente: "piuttosto mi ammazzo".
Sappiamo che effettivamente da allora ad oggi i suicidi sono
aumentati, specie fra i giovani (quadruplicati dall'84 a
oggi), e che persino il ciclo giovanile "politico" finì in
riti di autodistruzione assimilabile a una specie di
suicidio collettivo.
Il 2 settembre 1990 fece scalpore un
altro tipo di suicidio collettivo originato da quello di tre
adolescenti che si uccisero, insieme, con i gas di scarico
chiudendosi in un'automobile e lasciando un cartello:
"Questa vita non ha prospettive". Nelle due settimane
che seguirono, aumentarono i suicidi fra i giovani e ben 14
furono eseguiti con la stessa tecnica.
Un precedente famoso fu l'ondata di
suicidi che seguì alla pubblicazione del racconto I
dolori del giovane Werther di Goethe nel 1774, tanto che
in alcuni paesi l'opera fu proibita. Lo stesso accadde con
l'opera di Foscolo Le ultime lettere di Jacopo Ortis.
Dopo il suicidio di Marilyn Monroe, la statistica registrò
un'impennata autodistruttiva addirittura del 40% in
California, la sede di Hollywood. Ora, ci dicono gli
esperti, l'effetto di emulazione ha a che fare con la
circolazione della notizia, specie oggi che la potenza
mediatica non è paragonabile a quella di un romanzo
settecentesco, ma ovviamente non è la notizia in sé a
provocare i suicidi che fanno variare la statistica: la
decisione di auto-sopprimersi è solo il culmine di un
processo durante il quale sono vagliate molte prospettive
oltre a quella estrema, ed essa scatta quando il ventaglio
si riduce. Lo psichiatra Erwin Ringel chiama questo processo
"chiusura esistenziale" e ritiene che sia la prima causa di
suicidio. Dunque il motivo contingente, l'emulazione, non
sarebbe altro che la concentrazione in un periodo breve di
ciò che sarebbe successo in uno più lungo. Insomma, succede
per l'individuo ciò che succede per molti fenomeni naturali,
compresi quelli che interessano la specie umana: l'accumulo
graduale, continuo, di condizioni che ad un dato punto
esplode in un evento discontinuo. Vale per i palazzi che
crollano, per le guerre che scoppiano e per le rivoluzioni
che cambiano il mondo.
Chiamiamola singolarità, biforcazione,
soglia, fa lo stesso: l'importante è tenere presente che
siamo di fronte a una delle leggi di natura e che essa
presenta notevoli caratteri di invarianza. Il punto di
svolta scatenato dall'accumulo continuo di fatti e
situazioni in una storia che lo precede, si manifesta anche
con altre forme di autodistruzione: studi americani hanno
per esempio dimostrato che vi è una relazione diretta fra
l'aumento dei suicidi espliciti e quelli nascosti in
incidenti di vario genere, specie quelli che coinvolgono
giovani guidatori d'automobile (gli stessi studi prendono
addirittura in esame anche gli incidenti aerei, la cui
statistica presenta delle ondate e alcuni casi di suicidio
esplicito di piloti).
La letteratura specializzata sulla
prevenzione sociale del suicidio non è che il prodotto di
una fra le tante attività assistenziali in grado di fornire
pretesti per ricavarne un reddito o un salario qualsiasi. Ma
se la profilassi è fatta di fantasie, la terapia è fatta di
chiacchiere e farmaci; è quindi un rimedio che non evita
affatto i suicidi ma gli corre dietro, perché essi aumentano
in ragione diretta con il cosiddetto benessere che permette
l'accesso alle "cure". La diagnosi comunque non può far
altro che registrare un invariante: la vita senza senso.
L'anamnesi del suicida-tipo, la sua storia clinica, presenta
sempre un quadro in cui domina la disintegrazione: della
situazione precedente, delle attese, dei rapporti con gli
altri, del senso di appartenenza a qualcosa o anche a
qualcuno.
L'intera società (compresa l'osannata e
nello stesso tempo annientata famiglia) assomiglia sempre
più a un magma sconnesso di individui, la cui sola
caratteristica sociale è quella di essere gomito a gomito in
quanto particelle contigue ma non continue. Sono eliminati i
rapporti reciproci che non siano la produzione e il consumo
alienati. Perciò nessuno potrà sentirsi parte utile di un
tutto e cresceranno le probabilità di prendere atto della
propria inutilità, la futilità totale, la solitudine. Non è
un caso che il suicidio sia praticato più da giovani e
anziani che da appartenenti alle fasce medie di età: il
giovane non è ancora utile al Capitale e l'anziano non lo è
più (o almeno, lo è solo come tramite di rastrellamento di
valore da parte di medici, industrie farmaceutiche,
ricoveri, ecc.). Al primo è negata sempre più spesso la sua
unica possibilità odierna di vita, quella di produrre e
consumare; al secondo è negata la sua funzione millenaria,
che nelle società non capitalistiche era quella fondamentale
di trasmettere conoscenza, esperienza e capacità di giudizio
all'interno di un gruppo organico, umano.
Il novanta per cento dei suicidi soffre
di patologie psichiche; il 60 per cento di depressione
grave. Seguono la schizofrenia, la psicosi da
tossicodipendenza, il disturbo della personalità, alcune
forme degenerative neuronali e così via. Vi sono
ricercatori, soprattutto americani, che hanno provato ad
applicare metodologie apparentemente materialistiche e
deterministiche al fenomeno del suicidio, cercando di
scoprire se un ventaglio così vasto di patologie potesse
essere ridotto a fatti fisiologici. In effetti, analizzando
il cervello di soggetti suicidi, hanno osservato che in essi
vi erano alterazioni notevoli a livello dei
neurotrasmettitori cerebrali, specie la serotonina. Ad una
determinata situazione biochimica del cervello sembra dunque
corrispondere un determinato comportamento dell'individuo.
Anche perché il sistema che produce e utilizza serotonina è
legato a fattori genetici, è stabile nel tempo, mentre gli
altri sistemi biochimici del cervello, come quello del ciclo
noradrenalinico, risentono delle variazioni ambientali.
Tuttavia le sperimentazioni di
laboratorio hanno dimostrato che in un cucciolo di primate,
privato delle cure materne e sottoposto a stress, si
può indurre artificialmente un basso livello di produzione
serotoninica, per cui le funzioni noradrenaliniche non sono
inibite e scattano l'aggressività e l'istinto di
autodistruzione. Se ciò è esatto, sembrerebbe dimostrata sia
l'origine genetica di tale istinto, sia la possibilità di
interferenza sociale sul determinismo naturale. Perciò il
dato sociale, che con la sola teoria genetica sarebbe
scacciato dalla porta, rientra prepotentemente dalla
finestra. Non è più un'idea ma un dato materiale a conferma
dell'invarianza delle leggi di natura che ci permettono
l'estensione degli esempi del comportamento individuale al
corpo della società.
Secondo l'Organizzazione Mondiale della
Sanità, i suicidi sono un milione all'anno in tutto il
mondo. In Italia sono mediamente 4.000 e il suicida
corrispondente al picco statistico "è maschio, ha oltre i
65 anni, è vedovo, solo e socialmente isolato". Noi
siamo quindi convinti che l'esperimento con la scimmia non
sia affatto di sostegno alla teoria genetica ma che
riproduca esattamente la condizione indotta del
suicida-tipo, cui viene tolto il legame con l'attività di
specie. Può darsi che il fattore genetico rappresenti una
condizione-base per eventi scatenati dall'ambiente, ma non
può essere la causa determinante e preponderante del
suicidio. Determinante è l'inutilità percepita
dall'individuo, quello "solo e socialmente isolato", quello
che più di tutti conduce una vita senza senso. Da tener
presente che i tentati suicidi sono infinitamente di
più ― circa 200.000 all'anno in Italia ― e che solo una
parte dei loro autori ha intenzione di "mandare un segnale",
molti sono soltanto maldestri e prima o poi ci riprovano.
Ammettiamo, come suggeriscono i
ricercatori citati, che vi sia un'interazione fra cause
genetiche e cause ambientali. Ribadiamo però che sono queste
ultime a far scattare la soglia di attivazione del
comportamento. Ci troviamo dunque di fronte a centinaia di
milioni di potenziali suicidi in tutto il mondo "attivabili"
da tali cause. Per noi, che ci occupiamo di fatti sociali
più che di psicologia individuale, è inevitabile un
collegamento con gli uomini-bomba che quotidianamente si
fanno saltare in aria uccidendo con criteri a volte
indecifrabili. Può essere una categoria speciale che non
risponde ai soliti principii di invarianza? Se ci sono
individui che, in odio a situazioni ambientali, si impiccano
in solitudine in un solaio, si mettono a sparare per strada
o vanno a schiantarsi con l'automobile senza neppure
figurare nelle statistiche, a maggior ragione possono
esservene altri che vengono spinti ad azioni di
auto-distruzione per una causa sentita, formando un insieme
sociale coerente che supera la fatidica soglia ed è in grado
di muovere guerra al nemico in modo organizzato.
A questo punto i teorici della cosiddetta
guerra al terrorismo ci appaiono in una luce un po' diversa
dal solito: essi, come tutto il sistema che tentano di
conservare, sono dei solerti "attivatori di soglia", in un
certo senso dei terroristi fabbricatori di terrorismo. La
guerra in Iraq è la dimostrazione lampante di questo
assunto: il terrorismo suicida-omicida in quel paese non
esisteva prima della guerra; adesso è endemico ed è
parte integrante della guerriglia, anche se il significato
di molte azioni ci sfugge, come gli attentati alle moschee
con l'orribile massacro di civili inermi. Se gli
americani hanno applicato davvero una "teoria della carta
moschicida", se cioè hanno predisposto una regione del mondo
in cui attirare i terroristi e annientarli – come vantavano
di aver fatto immaginando di aver così terminato la guerra –
ebbene, essi si sono sbagliati di grosso, come dimostrano
proprio alcune loro ricerche militari sul "fenomeno" Iraq e
sulle concatenazioni che provocano estesi scontri sociali. E
non occorre chissà quale scienziato per capire che la
materia prima per plasmare guerriglieri suicidi è
inesauribile, lo sterminato numero di persone con problemi
di alterazione serotoninica non c'entra: c'entra
l'altrettanto o ancor più sterminato numero,
statisticamente certo, di situazioni che fanno scattare
la soglia distruttiva.
Reazione del secondo tipo: la distruzione
dell'altro
Una ricerca all'americana farebbe forse
dipendere anche l'esito di una rivoluzione dalle alterazioni
a livello dei neurotrasmettitori cerebrali, ma fissiamoci a
un fatto certo e dimostrato: di fronte all'indeterminatezza
dei motivi scatenanti individuali, vi è l'assoluta
determinatezza della stabilità statistica riguardo alla
violenza suicida e alle sue ondate d'incremento. In ogni
caso, per quanto riguarda gli esiti immediati della vita
senza senso (che ne siano o meno responsabili i neuroni, o
altre determinanti come concausa), siamo sempre di fronte ad
un effetto soglia che scatta quando cause anche
minime si accumulano nel tempo. Ciò ha delle implicazioni
importanti via via che saliamo i gradini della complessità
sociale e passiamo dal singolo individuo a insiemi più
numerosi e interconnessi, i quali finiscono per trascendere
l'individuo e presentare elementi di organizzazione di più
individui o di comunità intere verso un fine, reale o
immaginario; cosa che evidentemente supera le pulsioni
puramente distruttive.
Ma andiamo con ordine. All'interno del
grande insieme "violenza sulla persona", il confine tra la
classe "suicidi" e quella "omicidi" è sfumato. Tra le due
classi di comportamenti vi è quella abbastanza estesa degli
"omicidi-suicidi", non certo prerogativa del jihadismo
islamico. Sempre più spesso il suicidio avviene dopo atti
omicidi e in molti casi, specie negli Stati Uniti, con un
evidente salto dalla sindrome detta "di Werther" a quella
che potremmo definire "di Sansone". Le cifre sono
significative e in Italia oscillano intorno a una trentina
di casi all'anno con circa 1,5 morti per ognuno di essi, con
un numero di vittime intorno al 10% di quelle del suicidio
individuale. L'ordine di grandezza è mediamente rispettato
nei maggiori paesi industrializzati, anche se in quelli
anglosassoni è leggermente sopra la media.
Un dato significativo è l'origine sociale
dell'omicida-suicida-tipo, che per il 56% appartiene alla
classe dei salariati (operai, impiegati, dipendenti
pubblici), più o meno la stessa percentuale che questa
classe copre sul totale degli occupati: segno evidente del
fatto che la vita senza senso coinvolge tutte le classi,
anche quelle "privilegiate", le quali non trovano un gran
sollievo nel rapporto con il "loro" capitale. Un dato più
significativo ancora è che l'omicidio-suicidio avviene per
il 75% entro la famiglia, specie tra i parenti più stretti,
dimostrando che questa istituzione da secoli non è più la
base per relazioni di tipo umano, ma, al contrario, è ormai
strumento di disumanizzazione perversa.
Dove la funzione disumanizzante della
famiglia si mostra in tutta la sua potenza disintegratrice
dei rapporti umani è nelle cifre dell'omicidio: nel 2002 le
statistiche italiane hanno registrato per la prima volta un
netto sorpasso delle stragi in famiglia rispetto a quelle
della criminalità. Su 634 vittime totali, quelle degli
eventi "di prossimità" sono state 325 di cui 223 nella
famiglia in senso stretto (184 quelle della criminalità).
Cresce l'uccisione dei figli, specie dei più piccoli. E
quando una specie arriva a uccidere i propri cuccioli vuol
dire che è allo stremo, perché uccide il proprio futuro; gli
infanticidi in Italia sono in progressione geometrica:
furono 12 nel '98, 14 nel '99, 20 nel 2000, 63 nel 2001. Le
statistiche non comprendono ovviamente il macabro ricorso al
"cassonetto" se non nei casi venuti alla luce, mentre per
gli esperti un'accurata indagine sugli "incidenti" ai
neonati moltiplicherebbe per diversi fattori il numero
ufficiale degli infanticidi.
Dieci anni fa le vittime di omicidi in
famiglia erano circa 50 all'anno; nel 2004 sono state 223,
perciò la progressione è stata dell'8% all'anno. Anche qui
una progressione geometrica che ovviamente non può rimanere
costante all'infinito. In ogni caso non regge la teoria del
delitto in quanto "disturbo psichico", manifestazione
improvvisa di follìa ecc., perché la percentuale di
premeditazione dell'omicidio in famiglia è del 60%,
dimostrazione palese che vi è, come nel suicidio, lo sbocco
violento di un lungo processo di preparazione. D'altra parte
neppure la teoria della violenza innata dell'uomo può
reggere. Infatti, in condizione di non-civiltà, gli
ammazzamenti sono impensabili nella famiglia che è la base
biologica di produzione e riproduzione, quasi assenti
all'interno della comunità e molto rari fra comunità
diverse, spesso più rituali che altro (tant'è vero che
quando, più tardi, accadono, come registrato nella tragedia
greca, essi danno inizio a una serie maledetta il cui
fardello va al di là delle generazioni).
Dimenticato e rimosso l'armonico rapporto
dell'uomo con l'altro uomo ― caratteristico di precedenti
forme sociali ― abbiamo ormai una tendenza endemica alla
distruzione di entrambi. A parte l'autodistruzione, la
distruzione dell'altro avviene sia tramite la prevaricazione
egoistica, sia, sempre più frequentemente, con
l'eliminazione fisica. In ogni caso al fine di far valere un
proprio "spazio" in concorrenza con quello altrui, evidente
scimmiottamento della realtà economica. Così la vita non
solo perde di senso ma anche di "valore", nel doppio
significato ideologico ed economico, in significativo
parallelo con la crescente svalorizzazione delle merci
(compresa la forza-lavoro) dovuta all'automazione dei
processi produttivi e alla crescente scala della produzione.
Essendo la vita considerata alla stregua degli oggetti di
consumo, è appunto consumata come una merce "usa e getta",
con la differenza che l'uso corrisponde esattamente al
gettare.
Ecco in che modo il rapporto EURES del
2004 descrive, con i limiti del linguaggio burocratico, lo
scadimento dei rapporti umani rivelato dalla pratica
generalizzata dell'omicidio:
"Dal confronto dei dati emerge una realtà
nella quale lo spazio vitale dell'individuo, cioè
l’insieme delle relazioni significative, si va gradualmente
riducendo, con una progressiva perdita della capacità di
discriminare, al di là della prospettiva emotiva e dei
comportamenti reattivi individuali, tra ciò che ha realmente
senso e valore e ciò che invece ne ha in misura soltanto
marginale. I risultati del Rapporto indicano dunque che lo
studio dell’omicidio deve oggi maggiormente concentrarsi
sulle cosiddette patologie della normalità e,
soprattutto, sulle reazioni individuali al disagio, allo
stress e alla frustrazione, in una dimensione sociale
caratterizzata dall’indebolimento e dalla perdita di ruolo
di alcuni tradizionali attori della 'mediazione sociale' (la
famiglia e le Istituzioni, ma anche i sindacati e le altre
organizzazioni rappresentative)".
Non dice il rapporto che i mediatori
hanno già fallito, che ormai nessuna mediazione sociale è
più possibile, e che l'impulso alla distruzione sta
abbondantemente trascendendo lo "spazio vitale"
dell'individuo. Quale mediazione sociale sarà mai possibile
fra uomini che non hanno neppure più un linguaggio per
comunicare se non quello della violenza, potenziale o
cinetica che sia? La civiltà capitalistica sta soffocando
sotto i rifiuti del suo proprio metabolismo. C'è troppo di
tutto e tutto si consuma troppo in fretta, anche il
linguaggio. Ovunque rifiuti metabolici, comprese le
industrie nuove di zecca, quando siano costruite solo come
paravento alle attività del capitale finanziario. Perciò
anche rifiuti ideologici e umani, come la sovrappopolazione
relativa che non entrerà mai più in quelle fabbriche,
popolazione ridondante che parla ormai con frasi fatte,
luoghi comuni, slogan televisivi. L'overdose di
comunicazione mediatica si traduce in spaventosa mancanza di
comunicazione, e il rapporto dell'uomo con l'altro uomo si
fa del tutto impossibile. In un mondo di uomini inutili non
è per niente strano che l'omicidio sia visto così spesso
come soluzione.
Reazione del terzo tipo: la
comunità-contro
Vi sono situazioni in cui l'individuo non
rivolge la violenza contro sé stesso o contro altri
individui, ma si aggrega in insiemi sociali con varie
finalità di tipo collettivo. Che potrebbero essere contro
altri insiemi del medesimo tipo o contro enti anonimi, ad
esempio lo Stato rappresentato da gruppi di uomini
specializzati secondo la divisione sociale del lavoro
(poliziotti, magistrati, burocrati). Ma potrebbero anche
essere per costituire comunità più o meno permanenti
fra individui con aspirazioni comuni. In questo caso i
granuli sociali agiscono sempre secondo pulsioni
individuali, però entro un campo di polarizzazione che li
obbliga a disporsi secondo un determinato ordine spontaneo.
Un caso significativo di comunità-contro s'è formato
recentemente a Napoli, dove diverse centinaia di cittadini
si sono mobilitati in difesa del loro quartiere preso
d'assedio dalla polizia per catturare uno scippatore. A
riprova di un'estraneità ormai diffusa nelle periferie
rispetto a uno Stato visto come nemico, indifferente alle
sorti dei suoi sudditi, s'è formata un'organizzazione
spontanea. E s'è dimostrata così efficace, contro una forza
militare soverchiante e preparata, da evocare presso la
stampa una regia della camorra. Invece s'è trattato di scene
talmente atipiche, rispetto all'omologazione sociale
imperante, che la borghesia non ha neppure potuto pensare a
un assaggio di rivolta sociale.
A Napoli è facile adoperare come
spauracchio un fenomeno come la camorra. Ma risulta meno
agevole inquadrare sotto la generica voce "teppismo", che
non ha alcun significato sociale, episodi come quello del 13
giugno scorso a Carcavelos, un grande centro balneare a 15
Km da Lisbona. Che razza di teppismo può essere quello di
500 giovani fra i 12 e i 20 anni, provenienti dalle estreme
periferie della città e anche da paesi vicini, che si
organizzano per assaltare in massa migliaia di turisti? Il
metodo è stato quello della razzia, un'ondata repentina che,
partendo dalla stazione ferroviaria, ha coinvolto le
strutture turistiche e i bagnanti sparsi sulla spiaggia,
spazzando via ogni oggetto di valore che capitasse sotto
tiro prima che la polizia potesse intervenire in forze. Il
giorno dopo, mentre Carcavelos era assediata tardivamente
dalla polizia, ad Algarve, nel Sud del paese, 50 ragazzi
davano vita ad una razzia del tutto simile. Curiosamente,
nei giorni successivi, una campagna xenofoba accentuava i
due fatti sottolineando la maggioranza di immigrati neri e,
nello stesso tempo, a protezione del turismo, una
disinformazione ufficiale ridimensionava i fatti
contraddicendo platealmente i rapporti di polizia e le foto
pubblicate (soprattutto su Internet). Da notare che nelle
località turistiche portoghesi s'era diffusa una scritta sui
muri: turista, sei tu il terrorista, frase
incomprensibile se non si pensa che il turismo
contemporaneo, di massa o di élite, è visto, da chi
non ne beneficia, come un gran distruttore del tessuto
sociale di intere regioni, specie dove è un fenomeno
recente. L'episodio della razzia organizzata ha fatto
scalpore in Portogallo, dove la polizia era impreparata, ma
è comune in Brasile, sulle spiagge o durante il carnevale di
Rio, dove le "forze dell'ordine" sono tecnicamente
addestrate a rispondere con una adeguata brutalità… che non
serve assolutamente a nulla, dato che il fenomeno s'accresce
invece di diminuire.
Nei casi napoletano e portoghese, come in
quelli delle bande che sciamano dalle favelas brasiliane per
le loro scorrerie, siamo di fronte ad un salto di livello
rispetto al suicidio, all'omicidio e all'ibrido di entrambi.
Al posto della sterile, nichilistica distruzione di sé e
dell'altro in risposta alla vita senza senso, abbiamo qui la
spontanea formazione di una comunità ritenuta alternativa e
assai interessante al fine del nostro studio. Si tratta
sempre di surrogati di comunità che riproducono il mondo del
nemico: ma in confronto al nulla individualistico
esistenziale v'è almeno un modello di socializzazione. Nel
ribollire dinamico che dà vita a questi microcosmi si
generano comportamenti ― e spesso persino linguaggi
specifici ― che sono come segni di appartenenza. Sono
comunità che si moltiplicano coinvolgendo migliaia di
persone in una lotta a volte spasmodica. Una ribellione
cieca quanto si vuole, certo non consapevole delle
implicazioni, certo non per il nuovo ma solo
contro l'esistente, tuttavia manifesta e preoccupante
per lo Stato. Scrive ad esempio un lettore di Repubblica
al supplemento del sabato di quel giornale, a proposito
della violenza negli stadi:
"Coltivo questa passione dall’età
dell’adolescenza. Le cariche del reparto celere, le
contro-cariche dei tifosi, le armi rudimentali, le bottiglie
rotte, le aste delle bandiere, le cinture dei pantaloni, i
bidoni utilizzati come arieti, le nuvole di fumo, i
lacrimogeni, le sassaiole, gli urli, le scaramucce, i
tafferugli e la guerriglia urbana. Amo le dinamiche di
questi moti. Le reazioni e i meccanismi che li regolano mi
attraggono tutt’oggi come allora. E quanto più ne riconosco
l’assurdità e il non-senso, tanto più mi affascinano, vani e
disperati come certi gesti eroici […] Sono un ventinovenne
nichilista e mi convinco via via più strettamente che quella
in cui sto vivendo è una società in putrefazione".
Meccanismi vani e disperati. Infatti il
lettore non scrive perché, pur non partecipando
direttamente agli scontri, ne è "morbosamente" attratto, né
perché considera in putrefazione questa società. Al
di là della vena nichilista, gli scontri negli stadi non
avrebbero alcun significato se non vi fosse un vuoto sociale
da riempire con una ritualità di violenza che ha nella
costituzione di una comunità entro la comunità la sola
ragione di essere. Se non vi fosse il fascino dell'appartenenza
ad essa e del sacrificio per affermarla e difenderla. Se non
producesse organizzazione, capi, masse che si muovono, e
ovviamente interessi. I lettori ricorderanno la battaglia
che provocò la sospensione del derby Roma-Lazio nel marzo
2004: centinaia di feriti, quaranta fra i poliziotti, voci
di un bambino ammazzato da una volante: voci che, di fronte
alle continue smentite della polizia, proprio per questo
sono credute vere da quasi centomila persone in agitazione
dentro e fuori lo stadio. L'improvvisa alleanza fra
tifoserie avversarie fece gridare a un complotto per
accelerare una legge salva-debiti a favore delle squadre in
crisi economica. Non c'era di vero né il bambino morto, né
il complotto. Come dimostrato dalle inchieste di due
giornalisti (Giovanni Valentini e Sandro Provvisionato),
semplicemente, di fronte allo Stato presente con la sua
forza armata e odiata, centomila tifosi s'erano coalizzati e
molti avevano cercato lo scontro. Di vero c'erano di sicuro
interessi fortissimi, che a posteriori avevano cercato di
sfruttare l'avvenimento, ma sul campo c'erano soprattutto
masse polarizzate, una effimera comunità-ultrà contro la
minacciosa comunità-altra, quella che rappresentava il
potere dello Stato. Di vero c'era, almeno per qualche ora,
la paura delle alte sfere della polizia e delle società di
calcio che sanno per esperienza (un episodio analogo era
avvenuto nel settembre 2003 durante la partita tra Avellino
e Napoli) quanto basti un nulla in questi casi per innescare
una catena sociale. E c'erano centomila persone in
uno spazio ristretto.
Un altro esempio significativo è quello
dei "teppisti" di Campo dei Fiori, a Roma. La piazza è
celebre, lì fu bruciato Giordano Bruno, lì c'è stato un
intervento immobiliare che ha sloggiato parte della
popolazione con le solite conseguenze: aumento dei prezzi,
turisti, locali alla moda, comitato dei residenti per la
"salvaguardia" del quartiere, ecc. Verso la metà dell'aprile
scorso, una sera, alcuni ragazzi giocano al pallone, forse
provocatoriamente, data la presenza dei tavolini dei bar con
bottiglie e bicchieri. La polizia, che presidiava già la
piazza, dà l'ordine di smetterla. Cosa che i ragazzi si
guardano bene dal fare. Parte un tentativo di carica.
Bottiglie e bicchieri diventano proiettili, la polizia
chiama rinforzi, la piazza si anima e 400 persone vengono
"coinvolte" nello scontro. Infine la piazza viene svuotata a
forza. I turisti applaudono, un'ordinanza della prefettura
proibisce le bottiglie di vetro nella zona, il comitato dei
residenti ringrazia per l'ordine ripristinato. Ma i ragazzi
ritornano da allora a provocare, non più con il pallone ma
con megafonini cinesi a poco prezzo che vengono regolarmente
sequestrati. Lo scontro diventa permanente. Il comitato dei
residenti è disperato, la nuova comunità dei ragazzi si
diverte sguaiatamente, i poliziotti non sanno più che cosa
fare. Non vi è azione da parte loro che possa impedire il
rafforzarsi della catena sociale invisibile: se la
spezzano essa si ripresenterà inesorabilmente in altre
forme, più sguaiate, più antipatiche, più violente, più
diffuse, più persistenti che mai.
Torniamo in Campania dove, oltre al
ricordato episodio della partita di calcio Avellino-Napoli,
ve n'è stato un altro significativo, come la protesta
spontanea della popolazione di Ariano Irpino contro la
discarica di Difesa Grande. Migliaia di persone sono
scese in strada per giorni al solo scopo di tutelare la
propria salute, infischiandosene delle etichette, sia quelle
di interessati sponsor politici, che avrebbero potuto
adottare e non hanno adottato, sia quelle affibbiate dai
media (il solito riferimento alle manovre della camorra, la
quale c'entra, ma per sfruttare ciò che c'è, più che per
crearlo). Infischiandosene soprattutto dell'etichetta
politicamente corretta di bravi manifestanti per i propri
"diritti", forse per via dell'istinto atavico di chi si
sente negare non un "diritto" ma l'aria che respira in
quanto comunità, la quale comunità non avrebbe nessuna
voglia di farsi imporre l'accumulo di merda capitalistica
sotto casa (una recente indagine dimostra che in vicinanza
delle discariche i casi di cancro aumentano dal 50 al 100%).
Un fenomeno che anche in questo caso ha
evidenziato il formarsi di una comunità-contro che prima,
quando i granuli sociali non erano polarizzati,
semplicemente non c'era, come sa chiunque abbia partecipato
a una riunione di condominio. E ha soprattutto riprodotto lo
schema della catena sociale, dato che ha coinvolto parecchie
aree della Campania fino a Bagnoli, generando l'identico
rifiuto di sottomettere le proprie necessità vitali a
logiche produttivistiche ritenute estranee. Qui lo schema
era completamente diverso rispetto a quello delle precedenti
"lotte proletarie" di Porto Marghera, di Crotone o di Gela,
dove la protesta per la salvaguardia della salute,
nonostante la combattività degli interessati, era rimasta
incanalata negli schemi classici del più "professionale"
corporativismo delle istituzioni sindacal-governative. E
dove l'impossibile difesa del "posto di lavoro" era passata
in primo piano, isolando la protesta nell'ambito
dell'ambiente in cui era nata, lasciando in secondo piano il
fatto che fosse tossico e letale.
Prima di analizzare la dinamica della
catena sociale, vediamo ancora un esempio. Nell'aprile
del 2001, in un pub di Bradford, in Gran Bretagna, due
individui si scazzottano. L'alterco "privato" innesca subito
partigianerie che lo fanno diventare rissa "pubblica". Il
locale viene devastato, interviene la polizia. Inizia un
lancio di oggetti e poi di bottiglie molotov. Accorrono i
soliti "teppisti" da altri quartieri. La polizia manda 130
agenti in tenuta antisommossa. Il locale va a fuoco e viene
completamente distrutto. La battaglia si allarga alle strade
vicine, poi al quartiere, le automobili in sosta vengono
incendiate e i negozi saccheggiati. Si aggregano bande dai
connotati etnici e politici (arrivano da altre città gruppi
fascistoidi), la guerriglia urbana dura sette giorni, quasi
senza sosta; ma anche nei giorni successivi le bande
scorrazzano per la città picchiando, incendiando e
saccheggiando. Continue battaglie di strada scoppiano per
tre mesi. A giugno la polizia della contea rinforza quella
locale con 500 agenti, che una notte sono sopraffatti
dall'aggregazione improvvisa di 1.000 rivoltosi arrivati da
tutto il paese. Gli agenti vengono ancora aumentati di
numero, si ricorre all'organico di otto dipartimenti. Poi
tutto cessa all'improvviso.
Questo processo di reazione a catena
entro un gruppo umano e fra gruppi è riducibile a un modello
matematico a sua volta descrivibile in termini discorsivi.
Ogni singolo ha nello stesso tempo un impulso individuale e
una relazione con l'altro singolo. Si forma una rete di
relazioni entro cui un evento può far scattare o meno la
soglia di reazione di chi si trova in prossimità dell'evento
stesso. Se questa scatta in un singolo, aumenta la
probabilità che scatti anche in un altro. Ma se la stessa
cosa succede in più singoli, la soglia generale di salita ad
un livello superiore si abbassa, perché ogni singolo non ne
vede più un solo altro, ma ne vede molti, e quindi di fronte
all'evento, che non è più quello iniziale ma lo stesso
più una reazione a catena iniziata, la sua stessa
reazione cambia. Il modello ci dà informazioni importanti
sulla catena sociale: non è detto che un evento faccia
scattare una soglia individuale, cioè un nuovo evento, ma
una volta iniziata la reazione a catena, non è possibile
stabilire dove essa si possa fermare; la catena sociale non
produce mai puro caos, produce sempre due campi, ed entro
essi un "ordine" che li distingue e li separa in un
crescendo conflittuale.
Potremmo continuare i nostri esempi con
eventi a scala molto più grande, più lontani nel tempo, come
le rivolte di Los Angeles nel 1965 (cfr. L'estate di
Watts), quelle di Cleveland e Chicago nel 1966, o quella
di nuovo a Los Angeles nel 1992, che si estese a una decina
di altre grandi città. Ogni processo sociale di questo
genere è riconducibile al modello generale tratteggiato, che
si può per esempio trasformare in un programma per computer
in grado di visualizzarcene anche graficamente la dinamica.
Così la rissa appena ricordata, lo scontro al derby
Roma-Lazio o i grandi eventi come quelli di Los Angeles si
possono riportare sotto un unico schema.
Ma allora sotto lo stesso schema si può
far rientrare anche il comportamento dei singoli che fanno
circolare denaro in una rete di relazioni di valore. Questo
perché il denaro si aggrega là dove la soglia è
rappresentata dalla nota relazione "denaro per più denaro",
come quando una banca presta capitali a chi dimostra di
essere solvibile, cioè già ne possiede, mentre li nega a chi
ne avrebbe bisogno in quanto è senza. Ma allora si possono
far rientrare anche le rivoluzioni, compresa quella
d'Ottobre.
Il funzionamento di questi modelli è
stocastico, cioè regolato da leggi probabilistiche, nel
senso che la loro dinamica dipende da variabili introdotte
da eventi casuali entro un quadro predefinito. Ciò non
significa affatto che siano modelli "indeterministici", cioè
che non possano darci delle informazioni sulla natura del
sistema che formalizzano. Al contrario, essi possono
funzionare soltanto perché si basano su una catena di eventi
perfettamente determinati. Essi ci dicono semplicemente che
ogni sistema in cui vi siano relazioni a rete, i nodi
della quale sono soggetti a scatti causati da un effetto
soglia, risponde a una legge matematica generale.
Tanto ci basta per affermare: non sempre la dinamica delle
reazioni a catena in un sistema evolve fino ad estreme
conseguenze, ma sempre un sistema che evolve fino
alle estreme conseguenze lo fa secondo la legge della catena
sociale.
È utile a questo punto precisare con una
definizione il significato di "catena sociale", fin qui dato
per intuitivo. Eccola, ricavata sintetizzando ciò che si può
trovare nei testi sulla teoria delle reti: catena di
eventi che, attivata dal superamento di una determinata
soglia, è in grado di coinvolgere a cascata un numero sempre
maggiore di individui fino a configurare una specie di
reazione atomica sociale. Adesso abbiamo sufficiente
materiale per affrontare insiemi di terzo ordine, per
studiare cioè il legame fra la vita senza senso e la
ricerca di una soluzione, vera o presunta, attraverso la
formazione, spontanea o intenzionale, di estesi fenomeni di
auto-organizzazione permanente. Si tratta di fenomeni
forse poco appariscenti, che compaiono di rado sui media e
solo se abbinati a eventi specifici, ma importanti per il
loro carattere diffuso e preordinato.
Incontri ravvicinati del terzo tipo: la
comunità-surrogato
Il terzo tipo di reazione che
consideriamo, collettivo, si scatena a causa delle stesse
determinazioni che muovono il suicida o l'omicida
individuale. Solo che esso si manifesta per così dire a
livello più alto, come un tipico fenomeno da "margine del
caos" (fase di transizione tra caos e ordine, se vogliamo
prendere a prestito la definizione dei ricercatori
nell'ambito dei fenomeni complessi). Si tratta di forzature
della normalità entro un sistema che non permette ancora il
loro sviluppo estremo, e quindi vengono facilmente
riassorbite. Tuttavia esistono, e si moltiplicano. Forme di
aggregazione umana che, nello studio di eventi come Watts
1965 o Los Angeles 1992 i sociologi hanno chiamato "rivolta
delle classi impossibili", sono molto più diffuse di quanto
si creda abitualmente. Nel film Strange Days la
storia si svolge sullo sfondo di una latente rivolta sociale
al cambio di millennio. Mentre cresce la violenza nelle vie
di una Los Angeles in preda al caos, selvaggi attacchi della
polizia vanno in crescendo fino alla repressione "militare",
con autoblindo e infine carri armati. La trama è solo un
pretesto da botteghino con un finale dolciastro in ridicola
contraddizione col resto del film (o forse è una voluta
provocazione), ma la storia vera è lo sfondo, preso da una
realtà da mostrare tale e quale, comprese le
comunità-surrogato dei neri, dei discotecari e persino degli
sbirri. E la sceneggiatura fa dire chiaramente ai
personaggi: qui si deve evitare una rivoluzione.
Siamo già un po' oltre la
comunità-contro. Con la stessa sceneggiatura si potrebbe
ambientare un film qui da noi. La si potrebbe adattare, ad
esempio, a uno studio del SISDE, i servizi segreti nostrani,
sugli aggregati di ultrà nel mondo calcistico. Questi
aggregati rivelano una struttura a prima vista insospettata,
con legami di appartenenza fortissimi in sostituzione della
mancata comunità umana. Una struttura molto simile a quelle
dei neri d'America, nonostante le grandi differenze
storiche. Dove il ghetto territoriale nero, situato
in un'area fissa, topograficamente definita, viene
sostituito da un ghetto occasionale calcistico,
rappresentato dagli stadi e dai percorsi blindati per
giungervi.
Secondo lo studio citato, le tifoserie
sorte nel dopoguerra avevano, un chiaro connotato di classe
e riportavano al loro interno i caratteri che si
riscontravano nei rapporti di lavoro e nella vita
quotidiana, quando esisteva una vita regolata da istituti
appositi:
"L'evolversi della società
postindustriale ha profondamente modificato alcuni di questi
'pilastri sociali'. Il progressivo incremento del numero di
persone escluse dal mondo del lavoro (soprattutto nel
comparto industriale e nel settore giovanile) ha, infatti,
ridimensionato la classe dei lavoratori e spinto
all'espansione un nuovo gruppo sociale identificabile negli
esclusi."
Oggi la famiglia, la parrocchia, la
fabbrica, i partiti, i sindacati, cioè i ghetti di ordine
superiore che contenevano razionalmente le spinte sociali,
secondo il SISDE hanno dunque esaurito la loro funzione. Il
lettore noterà che sono le stesse motivazioni che forniscono
l'OMS per l'incremento dei suicidi e l'EURES per quello
degli omicidi! La disoccupazione e l'isolamento degli
esclusi esistevano anche in passato, solo che riflettevano i
cicli economici boom-crisi. Adesso sono un fenomeno endemico
e quindi nasce un nuovo gruppo sociale, quello degli esclusi
per sempre, senza territorio, ma ugualmente in un
ghetto fattosi virtuale. Il riflesso di questa realtà nel
cervello sociale della piccola borghesia ha subito fatto
nascere teorie sugli "inclusi" ed "esclusi", in un'area che
definiremmo all'ingrosso, sulla base di loro
auto-definizioni, post-fordista e post-operaista: teorie
sulla "fine del lavoro", che non partono affatto dalle
considerazioni di Marx sulla sovrappopolazione relativa, ma
da constatazioni puramente empiriche sull'avvento dell’epoca
del lavoro immateriale, con tutto ciò che ne consegue: fine
della lotta di classe, moltitudini, imperi e fantasie varie.
Il SISDE, più marxista di costoro,
identifica subito un problema di fondo: siccome gli
emarginati sociali non hanno più accesso ai pilastri
fondamentali della conservazione, non possono che rivelare
una carenza di razionalità sociale abbracciando ideologie "fideistiche",
con relativo culto del capo, della forza e
dell'appartenenza, immedesimandosi con la squadra nel ruolo
di "dodicesimo giocatore" e soprattutto con il proprio
gruppo visto come comunità finalizzata a una "classifica"
non ufficiale, cioè non legata ai risultati della squadra
sul campo bensì al vittorioso confronto con gli altri gruppi
di ultrà. Le connotazioni politiche superstiti, ereditate
dagli anni successivi al '68, non sono altro che vessilli di
identificazione, senza più alcun rapporto con i vecchi
contenuti. In sostituzione di un programma più o meno
razionale si fa strada un fondamentalismo cieco,
accompagnato da atteggiamenti "jhadisti" indipendentemente
dal contesto.
Per queste ragioni, continua lo studio,
la struttura "criminogena" di tali comunità potrebbe portare
ad una saldatura più stretta sia con il mondo
dell'illegalità classica (droga, rapine, furti), sia con
l'altro aspetto della violenza giovanile che è "l'area
antagonista sia di destra che di sinistra" (doppia
militanza, nel campo ultrà e in quello politico). Come si
vede, il modello rimane intatto nonostante le trasformazioni
di "ambiente". Si mantengono persino le connotazioni tipiche
del suicidio, quando gli ultrà caricano in modo insensato, a
mani praticamente nude, la polizia in assetto antisommossa,
incuranti della propria incolumità; e dell'omicidio, quando
scattano le uccisioni degli avversari (16 morti in vent'anni
e una media di 1.200 feriti all'anno negli ultimi cinque).
Le selvagge scene di battaglia all'Olimpico in occasione del
ricordato derby Roma-Lazio non erano assolutamente diverse
da quelle che comparivano nel film della Bigelow. E non
erano neppure diverse le motivazioni sociali profonde che
ispiravano realtà e finzione. Anche qui siamo un po' oltre
la pura e semplice comunità-contro.
Non possiamo ora soffermarci su tutti gli
innumerevoli esempi possibili, bisognerebbe scrivere un
libro. Siamo costretti a selezionare tracce del rifiuto
sociale in campi diversissimi tra loro e a trattarle solo di
sfuggita. Quel che è importante è seguire il filo che le
unisce: dal negarsi alla comunità attraverso l'eliminazione
di sé stessi e dell'altro, fino al negarsi alla comunità
collettivamente. Come i ragazzi di Campo de' Fiori (e del
Testaccio, e di Trastevere, e di San Lorenzo, ecc.), che si
negano alla loro "controparte" rappresentata dal comitato
dei residenti, i quali, a loro volta, si negano agli
"estranei" chiedendo alla polizia e al Comune di vietare il
traffico notturno, di impedire la proliferazione delle
birrerie e di recintare in ghetti appositi i giovani dediti
agli incontri "da sballo". Come si vede, il discorso stesso
ci porta quasi naturalmente a un altro tipo di
comunità-surrogato, quella consapevole, organizzata e
permanente.
La comunità-surrogato alla scala
industriale
Per continuare gli esempi a scala sempre
più larga, non più di semplici comunità "contro", ma di vere
e proprie microsocietà operanti "per", passiamo negli Stati
Uniti, un paese dove la contraddizione fra l'isolamento e il
bisogno di comunità alternativa è rintracciabile in una
storia straordinaria. La risposta spontanea verso questo
obiettivo è rintracciabile a tutti i livelli, dalle
ottocentesche gang di New York descritte nel libro di
Herbert Asbury (da cui è stato tratto anche un film che ne
ha esaltato il concetto di comunità, per quanto deviata)
alle innumerevoli sette odierne; dalle ultracombattive
società operaie pre-sindacati alle intentional community
che raggruppano ormai almeno 60 milioni di americani; dalle
comunità ecologistiche tecnologiche a quelle decisamente
primitiviste; dalle sette più o meno religiose ai gruppi di
scoppiati che semplicemente ne hanno le tasche piene di
questa società, e vogliono vivere tranquilli coltivando
l’orticello e vivendo estatiche esperienze collettivistiche.
Una società che schiaccia l'individuo in
modo così brutale come quella americana non è mai esistita.
Perciò essa ha generato, insieme, sia l'individualismo più
spinto che la ricerca, spasmodica ma pratica, di una
comunità in cui confondersi. D'altro canto gli eredi di
coloro che sterminarono gli americani nativi e parte di sé
stessi con una violenza inaudita non potevano che far
nascere una società civile di altrettanto inaudita violenza.
Ma proprio per questo dovevano dar vita, per reazione e su
scala industriale, a importanti simulacri di società
alternative.
Il problema è sentito. Citiamo di nuovo
un film: The Village di Night Shyamalan, in cui la
storia è imperniata sul tentativo di fondare una nuova
comunità, che ovviamente non tarda a riprodurre, su scala
minore, la società che voleva sfuggire. E infatti, essendo
chiusa, la comunità si comporta come una famiglia
schizofrenica allargata, producendo conflitti insanabili,
una vita senza senso con relativa catena di omicidi. Le
comunità i cui membri ammiccano sorridenti e giulivi dai
siti internet sono un'evidente fuga dalla realtà che le
circonda. Rappresentano il trionfo della segregazione in
nome della libertà e tuttavia sono un fenomeno così vasto
che è necessario capire perché mai nascano e proliferino
così massicciamente.
Gli americani chiamano intentional
community qualsiasi aggregato umano si raccolga
volutamente intorno a un programma, un modo di vivere o un
credo religioso. Esse sono considerate intenzionali anche
quando nascono in base a necessità contingenti, come nel
caso delle co-housing, vita nelle case comuni,
liberamente scelta o forzatamente imboccata per avere
accesso agli alloggi nelle grandi metropoli, altrimenti
irraggiungibili a causa degli alti prezzi e dei bassi
redditi per un numero crescente di persone. Secondo il
Community Associations Institute la metà dei nuovi
contratti d'affitto nelle grandi città americane riguarda
comunità intenzionali.
Così, accanto a uno stuolo polverizzato
di comunità più o meno comunistiche, quantitativamente poco
importanti, ve ne sono di innumerevoli fondate su premesse
assolutamente a-ideologiche, dettate unicamente da una
ricerca spontanea di aggregazione per risolvere problemi
pratici e perciò, a nostro avviso, più importanti anche
qualitativamente. Perché la "fuga sanitaria
dall'oppressione dello Stato", come osserva un
immobiliarista dedito a soddisfare il bisogno di evasione,
coinvolge persone che non pensano affatto soluzioni
alternative a questa società, ma semplicemente fanno di
tutto per trovare una soluzione individuale, dando vita a un
fenomeno che finisce per essere ugualmente di massa.
Ci si potrebbe obiettare che siamo di
fronte a una pura e semplice proliferazione del "privato"
contro il "pubblico", una delle tante manifestazioni di
egoismo individuale. La risposta è sì e no allo stesso
tempo. Certamente siamo di fronte a un fenomeno di fuga, ma
quando la fuga diventa un bisogno vitale vuol
dire che c'è anche bisogno di un qualcosa di diverso da
questa società. Ovviamente nessuno lo trova all'interno di
essa, ma a noi non interessa ciò che frulla per la testa
degli individui che si aggregano, non andremmo più lontano
del lettino dello psicanalista o delle pagine di un libro di
sociologia. Ci preme invece osservare la proliferazione del
fenomeno, che ormai ha prodotto negli Stati Uniti 280.000
associazioni, fra i Common Interest Development, le
co-housing ufficiali, i villaggi spontanei, ecc. I
loro promotori costruiscono, comprano, raggruppano,
gestiscono o abitano un totale di 21 milioni di case,
nell'illusione di trovare un sollievo al mal di vivere
sperimentato altrove. Sono quasi tutte comunità isolate
dall'ambiente che le circonda (ne abbiamo visitate un paio
in Florida), spesso con barriere fisiche, veri campi di
concentramento imbellettati a giardino nel tentativo
disperato di tener fuori l'angoscia esistenziale, insieme
con i negri, i chicanos e gli schizoidi che negli
Stati Uniti sparano così di frequente.
Queste comunità raccolgono da qualche
decina a decine di migliaia di abitanti e sono tutte
coerenti con un modello assai generalizzabile: hanno un
nucleo di servizi e spazi in comune più o meno importante
(ristorante, biblioteca, cinema, piscina, ecc.) e una zona
privata; il tutto regolato da una legge interna derivata
dall'interesse comune che ha mosso l'esigenza di
aggregazione. Facciamo qualche esempio.
Arcosanti, Arizona. È una comunità sorta
sulla base delle teorie urbanistiche di un architetto
italiano (arcology, architettura ecologica); il
principio di fondo è pratico: l'eliminazione degli spazi
inutili, per esempio quelli per l'automobile, che negli
Stati Uniti portano via agli uomini fino al 60% delle aree
urbane; la coesione sociale è fondata su basi ecologiste;
l'area abitata si sviluppa anche in altezza, prima di tutto
per evitare l'isolamento reciproco delle città americane a
villette, ma anche per risparmiare ulteriore spazio; le
strutture sono infatti progettate per ottimizzare sia la
circolazione dell'aria che la comunicazione fra le persone,
che abitano a non più di 10 minuti a piedi dal luogo di
lavoro (vi è produzione interna di merci e servizi);
attualmente ha 500 abitanti, ma il progetto ne prevede
7.000.
Irvine, California. È la più grande,
comprende 25 moduli urbani con 75.000 case; ha 200.000
abitanti, tutti appartenenti alle classi medie; essi
condividono il progetto di un business park immerso
nel verde, con terreni che non verranno mai urbanizzati, e
con un tempo medio di 14 minuti per raggiungere il posto di
lavoro (vi è produzione interna ed esterna, quest'ultima
allocata nella comunità); il collante sociale è a-ideologico
limitandosi alla comodità dei servizi centralizzati e al
rispetto per il verde.
Sun City, Arizona. È una delle centinaia
di città per soli anziani; ha 46.000 abitanti ed è sorta dal
nulla su progetto unitario di un solo grande costruttore
edile; non ha alcun tipo di produzione interna; gli abitanti
si dedicano al tempo libero e a forme di volontariato per
l'assistenza reciproca, dato che negli USA chi si ammala
senza l'assicurazione privata o più gravemente di quanto
questa preveda, è spacciato.
Ave Maria City (avete letto bene),
Florida. Per adesso è un cantiere e sarà inaugurata fra
qualche anno; il progetto, dovuto a un unico capitalista ex
re delle pizze, si basa su di un solo presupposto
ideologico: una specie di fondamentalismo cattolico che
dovrebbe tener lontano ateismo, aborto, pornografia, droga,
materialismo e famiglia disastrata (evidentemente non basta
più neanche la comunità ufficiale cristiana); 3.500 famiglie
hanno già comprato la loro casa sulla carta (gli abitanti
previsti per l'inaugurazione sono 11.000, che dovrebbero
diventare 30.000 in dieci anni); sono previsti produzione e
servizi interni, più una grande università cattolica
privata, sorella di un'altra già fondata a Ypsilanti,
Michigan.
E così via. Queste città sono ormai
migliaia, grandi e piccole. Sono progettate secondo un piano
che in genere prevede un processo di smart growing,
cioè di sviluppo intelligente, con parchi, laghi ecc. Non
sono affatto enclave per ricchi: siccome sono
costruite in zone dove i terreni hanno poco valore, in esse
una casa media costa meno di un monolocale a
Bologna o a Padova. Si può dire che siano una risposta
diversa allo stesso problema che, nelle metropoli, hanno
coloro che decidono di associarsi in forme comunitarie di
co-housing, lo stesso che hanno, ovunque, coloro che si
raggruppano in comunità ideologiche o finalizzate. Non è
affatto secondario annotare, a parte le ovvie considerazioni
sulla loro essenza capitalistica, che esse sono per la
maggior parte la realizzazione spontanea, dovuta a rigetto
sociale, dei progetti che hanno costellato la storia del
comunismo. In parte ricalcano gli insediamenti proto-urbani
delle comunità comunistiche antiche, in parte le città
disegnate o realizzate da utopisti come Owen e Fourier, in
parte quelle previste a grandi linee da Engels o Bebel per
la società futura. Anche quando si tratta di pura e semplice
speculazione edilizia, anche quando il gusto americano le fa
somigliare più a Disneyland che alle città ideali degli
utopisti, esse sono la prova empirica che si possono
progettare, non lasciar crescere nel caos spontaneo
delle moderne metropoli, le cui propaggini sul territorio
sono state giustamente paragonate (ad es. da Levi Strauss) a
metastasi cancerogene. Ma, come tutti gli altri esperimenti
di comunità, sono anche la prova manifesta che questa
società spreca inesorabilmente persino i portati della sua
capacità di progetto. Sono isole private, cioè
uno specchio della sottrazione – del gruppo invece che
dell'individuo – alla comunità umana, che ne risulta negata.
Fatte di villette prefabbricate e di grandi edifici per le
attività collettive, assomigliano certo a campi di
concentramento dorati, come abbiamo detto; ma il fenomeno
delle intentional community è ormai diffuso a macchia
di leopardo su tutta la superficie degli Stati Uniti, nei
deserti come nelle metropoli, per cui è impossibile
stabilire quale degli americani sia "prigioniero", quale sia
"alieno". Del resto la condizione è assolutamente reciproca:
l'uno e l'altro negano la propria umanità al prossimo. E
così la negano a sé stessi proprio mentre cercano di
affermarla con società che non riescono mai ad essere
alternative, ad evitare la vita senza senso.
La comunità-surrogato comunistica
Le comunità intenzionali che più
colpiscono l'immaginario sono quelle comunistiche, anche se
nell'insieme nascono, come le altre, per risolvere problemi
più individuali che sociali. Tuttavia, pur rappresentando un
fenomeno quantitativamente secondario rispetto a quelle di
massa appena descritte, sono importanti perché dimostrano
come una diversa organizzazione del lavoro e delle risorse
comuni sia di un'efficienza straordinaria (cfr. Engels,
Descrizione delle colonie comunistiche). E questo
nonostante la presenza di comportamenti poco razionali
dovuti a impedimenti ideologici. Ad esempio, l'anarchismo
non aiuta certo la disciplina organica di comunità appena un
po' numerose. Ci basiamo su dati degli Stati Uniti, il paese
dove il fenomeno è più sviluppato, ma teniamo presente che
esso si espande anche nel resto del mondo occidentale. Anzi,
per quanto riguarda le comunità urbane, in Europa è un
fenomeno di ritorno, dato che quelle moderne, nate in
Danimarca verso la fine degli anni '60 e praticamente
scomparse, ora stanno formandosi di nuovo, anche in altri
paesi, specie in Germania (cfr. La Repubblica, "Tutte
le comuni di Berlino").
I dati sulle comunità comunistiche,
americane e no, sono vaghi e contraddittori. Estrapolando
però dal materiale documentario possiamo fare un confronto.
Le persone che vivono nei soli Common Interest
Development censiti dalle loro associazioni sono 47
milioni. Altre 10 milioni circa praticano la coabitazione,
programmata o di fatto, nelle grandi città o vivono in
comunità-villaggio, soprattutto in quelle di origine
religiosa. Da 1 a 3 milioni, infine, vivono in comunità
comunistiche esplicite, di cui il 40% circa sono urbane e il
70% laiche. Per la maggior parte sono indipendenti, solo una
minima parte forma reti omogenee attraverso organismi di
coordinamento. La Federation of Egalitarian Communities,
ad esempio collega un piccolo numero di comunità rurali e
urbane con un programma comunistico che impegna ognuna di
esse ad
"avere in comune lavoro, redditi, terra e
risorse; assumere la responsabilità per i bisogni dei propri
membri distribuendo il prodotto del loro lavoro e gli altri
beni in maniera equa a seconda dei bisogni; adottare forme
di decisione in cui ogni membro abbia uguale possibilità di
partecipare, attraverso il comune consenso o il voto diretto
ma sempre secondo il principio di revoca degli incarichi".
Queste nuove comunità americane non
assomigliano più a quelle tradizionali di un tempo, le cui
origini risalgono in certi casi ad eresie europee del
XVI-XVII secolo (Hutteriti, Amish) e che nella quasi
totalità furono di carattere religioso. Pochi rami ebbero
origine laica, gli Icariani di Cabet (i primi a chiamarsi
comunisti), i Fourieristi, gli Oweniani, gli Anarchici.
Nessuno di essi sopravvisse con realizzazioni importanti.
Oggi le comunità religiose, anche se sono ancora floride,
hanno perduto i caratteri originari integrandosi più o meno
radicalmente nella società capitalistica, producendo e
commerciando; perciò la diffusione delle nuove comunità
comunistiche assume un significato particolare, dato che
normalmente relegano alla sfera privata individuale sia le
credenze religiose che le ideologie di ogni tipo. Individui
con diverse origini ideologiche possono dunque trovarsi
accomunati senza rivelarle l'uno all'altro, realizzando
un'unione basata sulla vita pratica. In genere, infatti,
sono comunità del tutto pragmatiche, i loro programmi
sintetizzano in poche parole un intento comune e per il
resto l'azione quotidiana è tesa a dare risultati concreti.
Il più delle volte sono piccole, dieci o venti affiliati,
molto raramente più di 100.
Meglio conosciute, perché ritenute più
pittoresche dai mezzi d'informazione, sono le comunità
rurali, dove la terra viene coltivata più o meno estesamente
per l'auto-alimentazione, e il denaro per le necessità
comuni è ricavato praticando un po' di artigianato e di
micro-industria. Meno visibili ma più importanti dal nostro
punto di vista sono quelle metropolitane, dove la messa in
comune della casa o delle case (il termine housing
ricorda anche l'accoglienza, il rifugio) produce un ambiente
più refrattario al passatismo proudhoniano e all'ecologismo
di maniera. La maggior parte di esse è localizzata nelle
grandi città ed è radicalmente diversa dalle comunità
rurali. I loro membri spesso lavorano all'esterno, e quando
l'attività è interna quasi sempre è legata a settori, come
l'informatica, che permettono il telelavoro o comunque ad
attività silenziose che richiedono poco spazio.
Di fronte all'aumento della degradazione
sociale e ambientale, al malessere che aggredisce gli
uomini, le vecchie comuni hippie, isolate dalla
società, erano un surrogato del suicidio, e la beat
generation, con le sue pulsioni autodistruttive, ne fu
l'anticamera mortuaria. Anche le comuni del dopo
Sessantotto, specie quelle tedesche, erano allegre come
cimiteri. Le nuove comunità urbane, invece, si radicano
nella società "normale" come piante che crescono col
crescere degli intoppi individuali. Esse sono molto più
efficienti e dirompenti sia di quelle storiche che di quelle
nuove, isolate nei deserti e nei boschi. Suggeriscono
un'edilizia residenziale apposita, ben diversa dalle casette
ballon frame dei pionieri dell'800 (a struttura di
legno autoportante, realizzabile da qualsiasi carpentiere,
anche inesperto), modello delle comunità rurali. Un'edilizia
urbana sulla quale, è ovvio, si butta l'impresa costruttrice
che, annusato l'affare, esalta nei suoi dépliant la
compattezza e razionalità dei volumi, la condivisione delle
risorse in grado di far risparmiare terra e dollari,
sottolinea la ritrovata interazione umana, comprese le
facilitazioni per i membri svantaggiati della comunità.
Il fatto è che si tratta, per una volta,
della verità. Sulla scia della tradizione liberal
americana, la pratica della co-housing è una vera e
propria militanza provocatoria contro l'omologazione, che
non va seguita leggendo i suoi ingenui proclami ma sul
campo, guardando alla proliferazione degli esperimenti e al
coinvolgimento delle strutture capitalistiche, costrette ad
anticipare prove di socialità nuova. Non ha alcuna
importanza che si scivoli facilmente in un nuovo tipo di
omologazione, questo è scontato se non cambia la società:
l'importante è che si dimostri possibile il ridisegno
sociale sulla base di rotture clamorose dell'isolamento,
della famiglia atomizzata e del suo bozzolo-casa fatto per
il consumo.
Un'altra comunità-surrogato, comunistica,
sta prendendo piede nel mondo delle reti informatiche,
quella dei cosiddetti hacker, virtuale eppure reale,
insofferente verso la proprietà e il controllo sulle
persone, feroce contro i limiti imposti dalla società del
valore, consapevole, anche se un po' autoreferente, delle
immense possibilità dell'uomo sociale. Essa richiederebbe un
articolo a sé, ma siamo costretti a rimandare.
Insopprimibile necessità di comunismo
Abbiamo visto che, nella sua fase senile,
il capitalismo acuisce tutte le sue contraddizioni. Questo
modo di produzione ha stravolto le antiche relazioni umane
già minate dalla concorrenza tra simili, introdotta fin
dalle prime società di classe, estendendo la concorrenza
alle industrie, agli Stati e persino all'interno delle
classi. E adesso le ha portate a limiti insostenibili. Non
solo è stata dimenticata l'armonica cooperazione e il
riconoscimento dell’altro come elemento indispensabile alla
propria sopravvivenza individuale in quanto uomo, ma si
attribuiscono i caratteri capitalistici a tutto quel che
capita, come se non fosse mai esistito altro che il
capitalismo (esilaranti e grottesche sono certe
interpretazioni televisive delle società passate, non solo
nei serial popolari ma sempre più spesso anche nelle
trasmissioni con pretese scientifiche). Eppure tutta la
storia dell'umanità è punteggiata da esperienze
comunistiche, chiaro segno di un'aspirazione mai sconfitta
nel tempo a dispetto della potenza rinnovata delle società
di classe.
Come abbiamo visto, ciò vale anche per
l'oggi. Il "bisogno di comunismo" non si manifesta con
grandi lotte "eretiche" nei confronti della classe
dominante, ma è materialmente più esteso ed economicamente
importante. Comunque anche nel passato vi furono alti e
bassi. Le eresie dei due secoli dopo il Mille furono quasi
esclusivamente comunistiche. In seguito, con lo sviluppo
della divisione sociale del lavoro e delle classi, la
naturale quanto insopprimibile socialità dell’uomo dovette
per forza essere relegata in comparti stagni, che finirono
spesso per rappresentare conservazione (chiuse furono per
esempio le abbazie, con il loro comunismo del tutto
sterile). Tale processo storico non poteva che essere
contraddittorio: da una parte movimenti comunistici che si
richiamavano al passato, dall'altra una socializzazione
crescente della produzione sotto la spinta degli scambi.
Perciò nella dinamica dello sviluppo verso il capitalismo la
vittoria di quei movimenti avrebbe rappresentato un freno
all'avanzare sociale.
Lo stesso vale per i movimenti immaturi,
non ancora in grado di impadronirsi della potenza
anticipatrice del divenire storico. Non sappiamo quale
sarebbe stato lo sviluppo storico della Comune di Parigi nel
caso di una sua vittoria, ma essa non fu grande per ciò che
diceva di essere o avrebbe potuto costruire sulla base dei
suoi programmi non comunisti, bensì per ciò che era stata
sul campo, per aver minato le fondamenta della dittatura di
classe borghese. Per aver dimostrato che si può fare.
L'Ottobre Rosso fu grande per ciò che era e per ciò che
diceva, ma dovette soccombere a causa dell'immaturità della
situazione russa e dei partiti proletari occidentali. Poi
presero il sopravvento le forze della reazione, con la
patria "comunista", lo Stato "comunista", la famiglia
"comunista", ecc. Oggi i movimenti comunistici provenienti
dal passato non contano più nulla e quelli che si
manifestano non possono assolutamente essere definiti
immaturi. Qualsiasi manifestazione odierna di comunismo,
che sia intentional o no, è già manifestazione del
futuro che si impone sul presente, una sua anticipazione.
La consapevolezza di una vita senza senso
varia ovviamente da individuo a individuo, ma il maturare
della situazione produce nel sottosuolo di questa società
una moltiplicazione delle talpe invisibili che rodono le sue
strutture portanti. Negato per ora da una situazione
paludosa l'apporto della genuina lotta di classe, la
rivoluzione non si ferma certo per questo: essa avanza dando
luogo a fenomeni ibridi fra conservazione e superamento del
sistema. È per esempio avanzata con il keynesismo, che in
generale fu ed è ancora una medicina potente per il
capitalismo senile, ma è anche un indizio di piano sociale,
della possibile indifferenza verso la destinazione
"legittima" del plusvalore, sottratto con la tassazione
progressiva e ridistribuito. Agli antipodi della società,
persino il tifoso di calcio – certo un sottoprodotto
rispetto all'antico plebeo romano che riusciva ad avere
influenza sui demagoghi, ottenendo panem oltre che
circenses – fa un micro-passo avanti rispetto al rito di
tipo sindacale corporativo e conservatore. Tre milioni di
operai in piazza guidati dai sindacati tricolore aiutano
effettivamente il sistema, mentre l'ultrà non "rivendica"
nulla all'interno di questa società e vede nello Stato un
nemico più identificabile che non il suo episodico nemico
della curva opposta; o meglio, i gruppi ultrà chiedono cose
inerenti a questa società, come la soluzione di problemi
legati alle squadre e alle società calcistiche, ma
nei loro circoli chiusi, mentre rompono con lo Stato e si
coalizzano quando tensioni esterne fanno scattare la soglia
di sopportabilità per bisogno di sfogo (vedere l'indagine
del SISDE citata). Così, paradossalmente, l'irascibile ultrà
menefreghista si avvicina di fatto al proletario del
Manifesto, che ha da lavorare per la distruzione del
capitalismo piuttosto che rivendicare guarentigie al suo
interno.
I proletari scendono naturalmente ancora
in piazza, esprimendo un crescente malessere materiale, ma
impugnano bandiere conservatrici, e scandiscono slogan
fuorvianti suggeriti dai partiti che vogliono i loro voti e
dai sindacati che li adoperano per inserirsi sempre più nel
sistema. Così lottano, ma sempre meno per sé come classe e
sempre più per la difesa degli interessi nazionali e dei
valori borghesi (la democrazia, la Costituzione, ecc.) .
Fino ad accodarsi alle eterne campagne elettorali,
scagliandosi magari contro qualche risibile battilocchio al
governo, accecati dalla demagogia di chi addita il
personaggio come causa del mal di vivere e della rovina dei
proletari e di tutti i cittadini. Ma spesso, in queste
stesse manifestazioni, gli operai sono numerosi e
combattivi, per niente omologati, e marciano insieme
rivelandosi altra cosa rispetto agli organizzatori ufficiali
con i loro slogan, come se ritrovassero per un momento la
loro umanità, come quando, nel '92, espressero una rabbia
incontenibile contro i sindacati che li avevano traditi. Non
"classe per sé", dunque, ma classe per il Capitale,
tuttavia…
Le sedi di quegli stessi sindacati che
gli operai seguono secondo direttive conservatrici sono dei
luoghi alieni, disertate dagli iscritti ormai da decenni.
Esse assomigliano ad uffici pubblici qualsiasi. Le sedi dei
partiti idem, tanto che gli iscritti non bastano neppure a
pagarne l'affitto. Non c'è più relazione diretta fra il
proletariato, i suoi vecchi organismi decaduti e la politica
che coinvolge entrambi. Perciò la routine politica è
condotta da "cellule depotenziate" di un sistema che ha
fatto il suo tempo, assolutamente non in grado di
controllare eventuali, autentiche esplosioni sociali. Non
sta evidentemente rinascendo ancora nulla che possa
sostituire le sopite attività di classe, ma è certo che,
come abbiamo visto, aumenta la possibilità di individuare
"comportamenti devianti" rispetto alla conservazione pura e
semplice del sistema. Ciò avviene, deve avvenire, a tutti i
livelli, dalle confuse ribellioni individuali, spesso con
esiti tragici, fino a forme distruttive espresse da
collettività più o meno stabili. Comportamenti devianti,
cioè tendenti ad allontanarsi dall'omologazione
capitalistica, sono presenti in gran numero addirittura nel
mondo dell'industria, come abbiamo ripetutamente segnalato
su questa rivista (cfr. Immaginate una fabbrica e
altri articoli). Si tratta di casi sempre più frequenti di
organizzazione del lavoro lontana dagli schemi classici
legati al binomio Taylor-Ford. Segnali coperti da molto
rumore sociale, al limite della decifrabilità per l'occhio
che non li cerca, ma ben decodificabili da un detector
che sia regolato allo scopo.
Tre milioni di operai in piazza per uno
scopo inutile a sé stessi, valgono ai fini di classe come il
milione di persone qualunque per il funerale della
principessa inglese o i miliardi per l'avvento del millennio
o per la santificazione del papa meno santo della storia.
Date le premesse, a noi interessa fino a un certo punto che
una data manifestazione, operaia, popolare, di piazza o di
qualunque altro tipo, sia incanalata sui binari
dell'omologazione corrente, oggi lo sono tutte. Quello che
ci interessa è piuttosto cogliervi i caratteri di una
ritrovata umanità, anche solo per l'occasione. Chiunque
abbia partecipato a movimenti in massa di uomini sa bene che
vi sono alcune situazioni vivaci come funerali, alcune
pagliaccesche come carnevali e altre vibranti di tensione,
cariche di potenziale energia. Questa è insopprimibile,
come lo sono le contraddizioni del capitalismo, perciò
diciamo che è inevitabile la sua trasformazione da
potenziale a cinetica.
La formazione della comunità nuova
Siamo partiti da una ricerca di
invarianza tra fenomeni apparentemente scollegati uno
dall'altro, siamo passati a una carrellata sui fenomeni di
fuga distruttiva individuale, e siamo giunti agli eloquenti
fenomeni di massa che denunciano un'energia potenziale
crescente. Tutti fenomeni che segnalano una tendenza,
statisticamente registrata, all'intensificazione. A noi lo
ribadiamo, non interessano né la psicologia (del singolo o
collettiva) né la sociologia dei gruppi umani, che le
discipline apposite portano ad osservare come un turista
osserva gli animali allo zoo. A noi interessa il sistema
termodinamico che vede aumentare la propria temperatura
sociale e quindi la velocità di movimento delle proprie
molecole. Ci interessa la potenzialità fisica, non la
"spiegazione" ideologica. E non ci importa nulla se
scandalizziamo qualcuno quando nel sistema analizziamo alla
maniera invariante, come si fa con le molecole, il suicida e
l'ultrà da stadio, il proletario in cerca della sua umanità
e il guerrigliero che sacrifica intenzionalmente la propria
vita per uccidere quanti più "nemici" possibile, il "folle"
che spara a caso per la strada e il cittadino qualunque che
va con altri milioni al funerale di un papa o di una
principessa.
È ovvio che il sistema ribolle e produce
caos; meno ovvio, almeno per la maggior parte delle persone,
che solo dal caos può scaturire un livello di ordine
superiore. Per sua natura, ogni ordine consolidato conserva
le sue caratteristiche, da esso non scaturisce niente di
nuovo. Come esempio di ordine consolidato prendete una
scatola di caratteri componibili in cui qualcuno in
precedenza abbia già formato la parola "capitalismo"
fissandone i caratteri in qualche modo. Mescolate alla
rinfusa il contenuto della scatola e vedrete che si leggerà
sempre "capitalismo", mentre il resto dei caratteri avrà una
disposizione caotica. Per formare una nuova parola, poniamo
"rivoluzione" e negare la vecchia, "capitalismo", si dovrà
eliminare quest'ultima e, attingendo al miscuglio caotico di
caratteri, formare quella nuova.
La serie delle negazioni fin qui
tratteggiata ― suicidio, omicidio, catena sociale,
comunità-surrogato ― non può essere terminata senza
introdurre, almeno brevemente, quella più potente di tutte,
quella cioè operata dalla comunità umana futura
necessariamente anticipata in questa società. Dobbiamo
perciò chiederci quale possa essere la "politica" dell'uomo
giunto alla consapevolezza della vita senza senso, quale
possa essere la sua manifestazione organizzata di energia
tesa a rifiutare l'esistente conservatore con un lavoro
positivo per il nuovo, rivoluzionario. Si tratta di sapere,
allora, se le manifestazioni di negazione possono essere
rovesciate nel loro contrario, se l'individuo cui è negata
l'appartenenza alla specie può riconquistare la propria
umanità e per quale via.
Prima del Sessantotto, prima cioè che
l'esistente si impadronisse della rabbia giovanile,
l'impulso spontaneo delle giovani generazioni fu quello di
negare semplicemente questa società: "piuttosto di fare la
vita dei miei genitori mi ammazzo", come disse la citata
ragazzina del Parini. La soluzione, appunto, non era entro
questa società; e quella apparente, "estetica", hippy
e floreale, non poteva che essere fagocitata dalla tetra
politica gruppuscolare, anche se a Parigi qualche sprazzo di
futuro si manifestò in modo più evidente che altrove. Ma il
Sessantotto, come tutte le manifestazioni abortite della
rivoluzione in corso, fu importante per ciò che poteva
essere e non è stato, non per gli aspetti poi diventati
leggenda. Infatti, prima di essere un movimento
rivendicativo, fu semplicemente negazione, ricerca di una
nuova appartenenza, senza però che vi fosse l'oggetto a cui
fissarla, cioè la comunità politica, il partito.
Non siamo tra coloro che in questi casi
dicono: "la situazione era rivoluzionaria, mancava solo il
partito che dirigesse le masse". Quando il partito non c'è
vuol dire che la situazione è controrivoluzionaria a tutti
gli effetti, nonostante le premesse. Diciamo piuttosto che
la rivoluzione non è cieca e che nel Sessantotto ha giocato
d'anticipo: non ha permesso che nascesse un partito come
copia di quelli delle rivoluzioni passate, democratici,
elettoralisti, gerarchici e basati sulla personalità dei
capi. L'impossibilità di ritornare indietro non ha coinciso
con la possibilità di andare avanti, ma s'è verificata una
condizione perfettamente in linea col Marx del '48,
commentatore di una rivoluzione che criticava
necessariamente sé stessa. In conclusione, del
Sessantotto rimane il fatto importantissimo che milioni di
persone hanno cercato qualcosa di nuovo, anche se non
l'hanno trovato.
Vent'anni dopo, l'ondata del bisogno di
cambiamento coinvolse la Cina con la rivolta iniziata a
Tienanmen, durante la quale si ripresentarono modalità
"parigine", compresa un'estetica politica completamente
diversa da quella della cosiddetta rivoluzione culturale dei
tempi di Mao. Anche nel movimento cinese ciò che più colpiva
era la mancanza di finalità rivendicativa di una lotta che
fu più grande rispetto all'importanza attribuitale dalle
fonti d'informazione (patologicamente fissate sulle
generiche parole d'ordine di democrazia e libertà, che a
Tienanmen erano solo l'epifenomeno rispetto alle cause reali
del grandioso movimento). E colpiva, proprio per questo,
l'estrema brutalità della repressione, del tutto
ingiustificata rispetto a presunti pericoli per lo Stato. A
meno di non pensare che i governanti cinesi avessero
intuito, con più perspicacia dei gazzettieri e dei politici
nostrani, che era in gioco qualcosa che andava ben oltre le
parole d'ordine urlate e scritte (la violenta repressione
incominciò quando gli operai delle fabbriche requisirono
autocarri e treni per marciare su Pechino).
Ecco dunque un fatto nuovo: la "politica"
del futuro, di cui abbiamo avuto qualche saggio
significativo benché per ora non influente, non mette più al
centro la "rivendicazione", qualunque essa sia. Il movimento
rivendicativo è in via di estinzione, come dimostrano le
manifestazioni di massa, di qualunque tipo, che per i
partecipanti valgono più per sé stesse che per le
motivazioni accampate dagli organizzatori. Lo confermano i
raduni oceanici, come quello di Roma, ad esempio, sul
ridicolo articolo 18 che non comporta praticamente effetti
reali sulla vita degli operai (cfr. Una storia infinita
di Articoli 18); o quelli organizzati dalla Chiesa, ai
quali partecipano pseudocristiani che sentono più il bisogno
di trovarsi in quelle occasioni che non di fare vita da
cristiani; o ancora, quelli che si organizzano con gran
rumore intorno ai convegni dei "grandi" da Seattle in poi.
La politica del futuro non potrà che
passare, necessariamente, attraverso la formazione di
una nuova comunità-partito che anticiperà forme della
società comunista, in critica a quelle del passato.
Questa comunità non rifletterà più i caratteri dei vecchi
partiti, che erano un misto fra chiesa, famiglia, parlamento
e patria. La lotta per la distruzione dello Stato borghese e
per la società nuova assumerà caratteristiche diverse
rispetto ― per esempio ― alla Rivoluzione d'Ottobre: Lenin
sapeva che in Occidente, al contrario che in Russia, sarebbe
stato difficilissimo conquistare il potere, ma facile
mantenerlo una volta conquistato. La forma sociale presente
innalza una barriera controrivoluzionaria preventiva contro
l'anti-forma che emerge con prepotenza e che si imporrà in
quanto la sua forza è reale, non ideale.
Abbiamo già delle avvisaglie del percorso
appena tratteggiato e non sono che la conferma di quanto già
dissero i nostri classici a proposito dell'ingiustizia e dei
diritti: all'operaio non viene fatta un'ingiustizia
particolare e non gli sono negati particolari diritti; su di
lui ricade l'ingiustizia universale e in questa società non
ha garanzie; non può far altro che "spezzare le catene",
cioè liberare la forma nuova dai legami che non la lasciano
sorgere.
Lo Stato capitalistico può "riconoscere"
qualsiasi forza sociale, anche muovendole guerra per
ricondurla entro i confini del compromesso; ma non potrà mai
riconoscere l'anti-forma che emerge senza rivendicare nulla,
che semplicemente dà vita a una società nuova e per essa
combatte contro il vecchio ambiente. Questa sarà la forza
della futura comunità-partito irriducibile al compromesso.
L'individuo-molecola trova le connessioni adatte e passa
dall'alienazione al senso di appartenenza, si aggrega, si
polarizza, si fa organismo nuovo e completo. Il quale
diventa per ciò stesso il principale nemico della forma
attuale, anzi, l'unico vero nemico. Per questo ad ogni
accenno dell'emergere dell'anti-forma compaiono i carri
armati, come a Parigi, Tienanmen, Los Angeles, senza contare
i tanti altri luoghi sconosciuti che una cronaca distratta
cita appena.
LETTURE CONSIGLIATE
- Amadeo Bordiga, Sorda ad alti messaggi la civiltà
dei quiz, ora in Chiesa e fede, individuo e
ragione, classe e teoria, Quaderni di n+1.
- Karl Marx, Peuchet: del suicidio, Marx-Engels,
in Opere complete, Editori Riuniti, volume IV, 1972.
- Friedrich Engels, Descrizione delle colonie
comunistiche sorte negli ultimi tempi e ancora esistenti,
1845, Marx-Engels, in Opere complete, Editori Riuniti,
vol. IV, 1972.
- Jean-Paul Sartre, L'esistenzialismo è un umanismo,
Mursia 1964.
- Viktor Frankl, La sofferenza di una vita senza
senso, psicoterapia per l'uomo d'oggi., Lumann Elle Di
Ci 1992.
- Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River,
Einaudi 1993.
- Desmond Morris, La scimmia nuda, Bompiani 1968.
- André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola,
Einaudi 1977.
- "500 Attack Carcavelos Beach", The Resident,
Algarve edition, 16 giugno 2005.
- SISDE (a cura del), "Ultrà fra tifo e violenza",
Gnosis, ottobre 2004.
- R. Heinlein, "L'anno del diagramma", in Le
meraviglie del possibile, Einaudi 1961.
- John Barrow, Da zero a infinito, Mondadori,
2001.
- Mark Buchanan, Nexus, Mondadori 2003.
- Mark Granovetter, "Threshold Models of Behavior",
The american journal of sociology, n. 6 del 1978.
- Robert Conot, L'estate di Watts, Rizzoli, 1970.
- Herbert Ashbury, Le gang di New York, Garzanti
2001.
- The Economist, "America's new Utopias", 30 agosto
2001.
- Andrea Tarquini, "Tutte le comuni di Berlino",
supplemento Donne di La Repubblica del 21
maggio 2005.
- Articoli di n+1 richiamati direttamente o
indirettamente nei vari capitoli del testo: Il cervello
sociale, n. 0; Operaio parziale e piano di
produzione, n. 1; Immaginate una fabbrica, n.
2; Il castello del padrone umanista, n. 3;
Proletari schiavi o mutanti?, n. 4; Una storia
infinita di Articoli 18, n. 7; Fabbriche portatili,
n. 9.
- I film citati: Kathryn Bigelow, Strange Days,
USA 1995; Niels Mueller, The assassination, USA
2004; Night Shyamalan, The Village, USA 2004.
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